Mons. Guido Marini INTRODUZIONE ALLO SPIRITO DELLA LITURGIA (imperdibile)

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Caterina63
00giovedì 7 gennaio 2010 18:11
 Sorriso
Un grazie al SITO MARANATHA

INTRODUZIONE ALLO SPIRITO DELLA LITURGIA di Mons. Guido Marini

Conferenza per l’Anno sacerdotale
Città del Vaticano, 6 gennaio 2010 

(English)


Mi propongo, con questa riflessione, di soffermarmi con voi su alcuni temi che riguardano lo spirito della liturgia. Mi propongo molto, mi verrebbe da dire moltissimo. Non solo perché parlare dello spirito della liturgia è impegnativo e complesso, ma anche perché su questo tema hanno intitolato opere importantissime autori di indubbio e altissimo spessore liturgico e teologico. Penso solo a due esempi tra gli altri: Romano Guardini e Joseph Ratzinger.


D’altra parte è vero che parlare oggi dello spirito della liturgia è quanto mai necessario, soprattutto tra noi sacerdoti. Anche perché è urgente riaffermare l’«autentico» spirito della liturgia, così come è presente nella ininterrotta tradizione della Chiesa e testimoniato, in continuità con il passato, nel più recente Magistero: a partire dal Concilio Vaticano II fino a Benedetto XVI. Ho pronunciato la parola “continuità”. E’ una parola cara all’attuale Pontefice, che ne ha fatto autorevolmente il criterio per l’unica interpretazione corretta della vita della Chiesa e, in specie, dei documenti conciliari, come anche dei propositi di riforma ad ogni livello in essi contenuti. E come potrebbe essere diversamente? Si può forse immaginare una Chiesa di prima e una Chiesa di poi, quasi che si sia prodotta una cesura nella storia del corpo ecclesiale? O si può forse affermare che la Sposa di Cristo sia entrata, in passato, in un tempo storico nel quale lo Spirito non l’abbia assistita, così che questo tempo debba essere quasi dimenticato e cancellato?

Eppure, a volte, alcuni danno l’impressione di aderire a quella che è giusto definire una vera e propria ideologia, ovvero un’idea preconcetta applicata alla storia della Chiesa e che nulla ha a che fare con la fede autentica.

Frutto di quella fuorviante ideologia è, ad esempio, la ricorrente distinzione tra Chiesa pre conciliare e Chiesa post conciliare. Può anche essere legittimo un tale linguaggio, ma a condizione che non si intendano in questo modo due Chiese: una – quella pre conciliare – che non avrebbe più nulla da dire o da dare perché irrimediabilmente superata; e l’altra – quella post conciliare – che sarebbe una realtà nuova scaturita dal Concilio e da un suo presunto spirito, in rottura con il suo passato. Questo modo di parlare e ancor più di “sentire” non deve essere il nostro. Oltre a essere erroneo, è superato e datato, forse storicamente comprensibile, ma legato a una stagione ecclesiale ormai conclusa.

Quanto affermato fin qui a proposito della “continuità” ha a che fare con il tema che siamo chiamati ad affrontare? Assolutamente sì. Perché non vi può essere l’autentico spirito della liturgia se non ci si accosta ad essa con animo sereno, non polemico circa il passato, sia remoto che prossimo. La liturgia non può e non deve essere terreno di scontro tra chi trova il bene solo in ciò che è prima di noi e chi, al contrario, in ciò che è prima trova quasi sempre il male. Solo la disposizione a guardare il presente e il passato della liturgia della Chiesa come a un patrimonio unico e in sviluppo omogeneo può condurci ad attingere con gioia e con gusto spirituale l’autentico spirito della liturgia. Uno spirito, dunque, che dobbiamo accogliere dalla Chiesa e che non è frutto delle nostre invenzioni. Uno spirito, aggiungo, che ci porta all’essenziale della liturgia, ovvero alla preghiera ispirata e guidata dallo Spirito Santo, in cui Cristo continua divenire a noi contemporaneo, a fare irruzione nella nostra vita. Davvero lo spirito della liturgia è la liturgia dello Spirito.

Riguardo al tema proposto non pretendo di essere esauriente. Non pretendo, neppure, di trattare tutti i temi che sarebbe utile affrontare per una panoramica complessiva della questione. Mi limito a considerare alcuni aspetti dell’essenza della liturgia, con riferimento specifico alla Celebrazione Eucaristica, così come la Chiesa ce li presenta e così come ho imparato ad approfondirli in questi due anni di servizio accanto a Benedetto XVI: un vero maestro di spirito liturgico, sia attraverso il suo insegnamento, sia attraverso l’esempio del suo celebrare.

E se, nel considerare alcuni aspetti dell’essenza della liturgia, mi troverò ad annotare qualche comportamento che ritengo non del tutto in sintonia con l’autentico spirito liturgico, lo farò solo per offrire un piccolo contributo perché tale spirito possa risaltare ancor di più in tutta la sua bellezza e verità.

1. La sacra liturgia, un grande dono di Dio alla Chiesa
Come ben sappiamo, il Concilio Vaticano II ha dedicato un intero documento, il primo in ordine di pubblicazione, alla liturgia. Il suo nome è “Sacrosanctum concilium” ed è definito come la Costituzione sulla sacra liturgia.

E’ il termine sacro che intendo sottolineare, in quanto affiancato a “liturgia”. Al riguardo, non si tratta di un caso né di un dato di poca importanza. In tal modo, infatti, i Padri conciliari hanno inteso dare forza al carattere sacro della liturgia.

Ma che cosa si intende per carattere sacro? Gli orientali parlerebbero di dimensione divina della liturgia. Ovvero di quella dimensione che non è lasciata all’arbitrio dell’uomo perché è dono che viene dall’alto. Si tratta, in altre parole, del mistero della salvezza in Cristo, consegnato alla Chiesa, perché lo renda disponibile in ogni tempo e in ogni luogo attraverso l’oggettività del rito liturgico-sacramentale. Una realtà, dunque, che ci supera, da accogliere in dono e dalla quale lasciarsi trasformare. Infatti, afferma il Concilio Vaticano II, “…ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza…” (Sacrosanctum concilium, n. 7)

Ponendosi in questa prospettiva, non è difficile rendersi conto di quanto alcuni modi di fare siano distanti dall’autentico spirito della liturgia. A volte, in effetti, con il pretesto di una male intesa creatività si è arrivati e si arriva a stravolgere in vario modo la liturgia della Chiesa. In nome del principio di adattamento alle situazioni locali e ai bisogni della comunità ci si appropria del diritto di togliere, aggiungere e modificare il rito liturgico all’insegna della soggettività e dell’emotività. E in questo noi sacerdoti abbiamo una grande responsabilità.

Ecco, in proposito, quanto affermava il Card. Ratzinger già nel 2001: “C’è bisogno come minimo di una nuova consapevolezza liturgica che sottragga spazio alla tendenza a operare sulla liturgia come se fosse oggetto della nostra abilità manipolatoria. Siamo giunti al punto che dei gruppi liturgici imbastiscono da se stessi la liturgia domenicale. Il risultato è certamente il frutto dell’inventiva di un pugno di persone abili e capaci. Ma in questo modo viene meno il luogo in cui mi si fa incontro il totalmente Altro, in cui il sacro ci offre se stesso in dono; ciò in cui mi imbatto è solo l’abilità di un pugno di persone. E allora ci si accorge che non è quello che si sta cercando. E’ troppo poco e insieme qualcosa di diverso. La cosa più importante oggi è riacquistare il rispetto della liturgia e la consapevolezza della sua non manipolabilità. Reimparare a riconoscerla nel suo essere una creatura vivente che cresce e che ci è stata donata, per il cui tramite noi prendiamo parte alla liturgia celeste. Rinunciare a cercare in essa la propria autorealizzazione per vedervi invece un dono. Questa, credo è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell’uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro” (da “Dio e il mondo”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001).

Affermare, dunque, che la liturgia è sacra significa sottolineare il fatto che essa non vive delle invenzioni sporadiche e delle “trovate” sempre nuove di qualche singolo o di qualche gruppo. Essa non è un circolo chiuso in cui noi decidiamo di incontrarci, magari per farci coraggio a vicenda e sentirci protagonisti di una festa. La liturgia è convocazione da parte di Dio per stare alla sua presenza; è il venire di Dio a noi, il farsi trovare di Dio nel nostro mondo.

Una forma di adattamento alle situazioni particolari è prevista ed è bene che ci sia. E’ il messale stesso che la indica in alcune sue parti. Ma in queste e solo in queste, non arbitrariamente in altre. Il motivo è importante ed è bene riaffermarlo: la liturgia è dono che ci precede, tesoro prezioso che ci è stato consegnato dalla preghiera secolare della Chiesa, luogo in cui la fede della Chiesa ha trovato nel tempo forma ed espressione orante. Tutto questo non è nella nostra disponibilità soggettiva. E’ indisponibile a noi per essere integralmente a disposizione di tutti, ieri come oggi e ancora domani. “Anche nei nostri tempi – ha scritto Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia – l’obbedienza alle norme liturgiche dovrebbe essere riscoperta e valorizzata come riflesso e testimonianza della Chiesa una e universale, resa presente in ogni celebrazione dell’Eucaristia” (n. 52).

Nella stupenda Enciclica “Mediator Dei”, che spesso viene citata nella “Sacrosanctum Concilium”, Pio XII definiva la liturgia come: “…il culto pubblico… il culto integrale del corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del capo e delle sue membra”. Come a dire, tra l’altro, che nella liturgia la Chiesa riconosce “ufficialmente” se stessa, il suo mistero di unione sponsale con Cristo, e lì “ufficialmente” si manifesta. Con quale insana spensieratezza potremmo noi, dunque, arrogarci il diritto di alterare in modo soggettivo quei santi segni che il tempo ha vagliato e attraverso i quali la Chiesa parla di sé, della propria identità, della propria fede?

C’è un diritto del popolo di Dio che non può mai essere disatteso. In virtù di tale diritto tutti devono poter accedere a ciò che non è semplicemente e poveramente frutto dell’opera umana, ma a ciò che è opera di Dio e, proprio per questo, sorgente di salvezza e di vita nuova.

Mi dilungo ancor un momento su questo tema che, posso testimoniare, sta tanto a cuore al Papa, riascoltando con voi un brano di “Sacramentum caritatis”, l’Esortazione apostolica di Benedetto XVI, successiva al Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia: “Sottolineando l’importanza dell’ars celebrandi – afferma il Papa – si pone in luce, di conseguenza, il valore delle norme liturgiche… La celebrazione eucaristica trova giovamento là dove i sacerdoti e i responsabili della pastorale liturgica si impegnano a fare conoscere i vigenti libri liturgici e le relative norme… Nelle comunità ecclesiali si dà forse per scontata la loro conoscenza e il loro giusto apprezzamento, ma spesso così non è. In realtà, sono testi in cui sono contenute ricchezze che custodiscono ed esprimono la fede e il cammino del Popolo di Dio lungo i due millenni della sua storia” (40).

2. L’orientamento della preghiera liturgica
Al di là dei cambiamenti che storicamente hanno caratterizzato la disposizione architettonica delle chiese e degli spazi liturgici, una convinzione è rimasta sempre chiara all’interno della comunità cristiana, quasi fino ai giorni nostri. Mi riferisco alla preghiera rivolta a oriente, tradizione che risale alle origini del cristianesimo.

Che cosa si intende con “preghiera rivolta a oriente”? Si intende l’orientamento del cuore orante a Cristo, Colui dal quale proviene la salvezza e al quale si tende come al Principio e al Fine della storia. A est sorge il sole e il sole è simbolo di Cristo, la Luce che sorge dall’oriente. Si ricordi, in proposito, il passo del cantico messianico del “Benedictus”: “…per cui verrà a visitarci dall’alto come sole che sorge”.

Studi molto seri e anche recentissimi hanno ormai dimostrato che, in ogni tempo della sua storia, la comunità cristiana ha trovato il modo di esprimere anche nel segno liturgico, esterno e visibile, questo orientamento fondamentale per la vita della fede. Così troviamo le chiese costruite in modo tale che l’abside fosse rivolta verso oriente. Quando non fu più possibile un tale orientamento nella edificazione del luogo sacro, si fece ricorso al grande crocifisso posto sopra l’altare e a cui tutti potessero rivolgere lo sguardo. Si pensi, ancora, alle absidi decorate con splendide raffigurazioni del Signore, verso le quali tutti erano invitati ad alzare gli occhi al momento della Liturgia Eucaristica.

Senza entrare nel dettaglio di un percorso storico che ci porrebbe all’interno di una riflessione riguardante lo sviluppo dell’arte cristiana, in questo contesto ci interessa affermare che la preghiera orientata, ovvero rivolta al Signore, è espressione tipica dell’autentico spirito liturgico. In questo senso, come ben ci ricorda il dialogo introduttivo del Prefazio, al momento della Liturgia Eucaristica siamo invitati a rivolgere il cuore al Signore: “In alto i nostri cuori”, esorta il sacerdote, e tutti rispondono: “Sono rivolti al Signore”. Ora, se tale orientamento deve essere sempre interiormente adottato dall’intera comunità cristiana raccolta in preghiera, esso deve poter trovare espressione anche nel segno esteriore. Il segno esteriore, infatti, non può che essere vero, così che in esso si renda manifesto il corretto atteggiamento spirituale.


 Ecco, allora, il motivo della proposta fatta a suo tempo dal card. Ratzinger e ora riaffermata nel corso del suo pontificato, di collocare il crocifisso al centro dell’altare, in modo tale che tutti, al momento della Liturgia Eucaristica, possano effettivamente guardare al Signore, orientando così la loro preghiera e il loro cuore. Ascoltiamo direttamente Benedetto XVI, che così scrive nella prefazione al I volume della Sua Opera Omnia, dedicato alla liturgia: “L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo”.

E non si dica che l’immagine del crocifisso viene a oscurare la vista dei fedeli in rapporto al celebrante. I fedeli non devono guardare al celebrante, in quel momento liturgico! Devono guardare al Signore! Come al Signore deve poter guardare anche colui che presiede la celebrazione. La croce non impedisce la vista; anzi, le apre l’orizzonte sul mondo di Dio, la porta a contemplare il mistero, la introduce in quel Cielo da cui proviene l’unica luce capace di dare senso alla vita di questa terra. La vista, in verità, rimarrebbe oscurata, impedita se gli occhi rimanessero fissi su ciò che è solo presenza dell’uomo e opera sua.

Così si comprende perché è ancora oggi possibile celebrare la Messa agli altari antichi, quando le particolari caratteristiche architettoniche e artistiche delle nostre chiese lo dovessero consigliare. Il Santo Padre ci dona anche in questo l’esempio quando celebra l’Eucaristia all’altare antico nella Cappella Sistina, per la festa del Battesimo del Signore.

Nel nostro tempo è entrata nel linguaggio abituale l’espressione “celebrazione verso il popolo”. Se con tale espressione si intende descrivere l’aspetto topografico, dovuto al fatto che oggi, il sacerdote, a motivo della collocazione dell’altare, si trova spesso in posizione frontale rispetto all’assemblea, la si può accettare. Ma non la si potrebbe assolutamente accettare nel momento in cui venisse ad avere un contenuto teologico. Infatti, la Messa, teologicamente parlando, è sempre rivolta a Dio attraverso Cristo Signore e sarebbe un grave errore immaginare che l’orientamento principale dell’azione sacrificale fosse la comunità. Tale orientamento, dunque - quello al Signore –, deve animare l’interiore partecipazione liturgica di ciascuno. Ed è altrettanto importante che possa essere ben visibile anche nel segno liturgico.

3. L’adorazione e l’unione con Dio
L’adorazione è il riconoscimento pieno di stupore, potremmo anche dire estatico – perché ci fa uscire da noi stessi e dal nostro piccolo mondo -, della grandezza infinita di Dio, della sua maestà inafferrabile, del suo amore senza fine che si dona a noi in assoluta gratuità, della sua signoria onnipotente e provvidente. L’adorazione conduce, di conseguenza, alla riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo stato di separazione, di apparante autonomia, alla perdita di se stessi che è, poi, l’unico modo di ritrovarsi.

Di fronte alla bellezza indicibile della carità di Dio, che prende forma nel mistero del Verbo Incarnato, morto e risorto per noi, e che trova nella liturgia la sua manifestazione sacramentale, altro non resta per noi che rimanere in adorazione. “C’è, nell’evento pasquale e nell’Eucaristia che lo attualizza nei secoli, - afferma Giovanni Paolo II nella Ecclesia de Eucharistia - una capienza davvero enorme, nella quale l’intera storia è contenuta, come destinataria della grande redenzione. Questo stupore deve invadere sempre la Chiesa raccolta nella celebrazione eucaristica” (n. 5).

“Mio Signore e mio Dio”, ci hanno insegnato, da bambini, a dire al momento della consacrazione. In tal modo, prendendo a prestito l’esclamazione dell’apostolo Tommaso, siamo condotti ad adorare il Signore presente e vivo nelle specie eucaristiche, unendoci a Lui e riconoscendolo come il nostro Tutto. E da lì si può riprendere il cammino quotidiano, avendo ritrovato l’ordine esatto dell’esistenza, il criterio fondamentale alla luce del quale vivere e morire.

Ecco perché tutto, nell’azione liturgica, nel segno della nobiltà, della bellezza, dell’armonia deve condurre all’adorazione, all’unione con Dio: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la Parola del Signore e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. Proprio in questa prospettiva è da considerare la decisione di Benedetto XVI che, a partire dal “Corpus Domini” del 2008, ha iniziato a distribuire la Santa Comunione ai fedeli, direttamente sulla lingua e in ginocchio. Con l’esempio di questo gesto, il Papa ci invita a rendere manifesto l’atteggiamento dell’adorazione davanti alla grandezza del mistero della presenza eucaristica del Signore. Atteggiamento di adorazione che dovrà ancor più essere custodito accostandosi alla SS. Eucaristia nelle altre forme oggi concesse.

Mi piace al riguardo citare ancora un brano dell’Esortazione Apostolica Postsinodale “Sacramentum caritatis”: “Mentre la riforma muoveva i primi passi, a volte l’intrinseco rapporto tra Santa Messa e l’adorazione del SS.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe dato per essere contemplato, ma per essere mangiato. In realtà, alla luce dell’esperienza di preghiera della Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n.66).

Penso che, tra gli altri, non sia passato inosservato il seguente passaggio del testo appena letto: “(La Celebrazione eucaristica) è in se stessa il più grande atto di adorazione della Chiesa”. Grazie all’Eucaristia, afferma ancora Benedetto XVI, “ciò che era lo stare di fronte a Dio diventa ora, attraverso la partecipazione alla donazione di Gesù, partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione” (Deus caritas est, n. 13). Per questo motivo tutto, nella liturgia, e in specie nella Liturgia Eucaristica, deve tendere all’adorazione, tutto nello svolgimento del rito deve aiutare a entrare dentro l’adorazione che la Chiesa fa del Suo Signore.

Considerare la liturgia come luogo dell’adorazione, dell’unione con Dio, non significa perdere di vista la dimensione comunitaria della celebrazione liturgica, né tanto meno dimenticare l’orizzonte della carità. Al contrario, soltanto da una rinnovata adorazione del mistero di Dio in Cristo, che prende forma nell’atto liturgico, potrà scaturire un’autentica comunione fraterna e una nuova storia di carità, secondo quella fantasia e quell’eroicità che solo la grazia di Dio può donare ai nostri poveri cuori. La vita dei santi ce lo ricorda e ce lo insegna. “L'unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l'unità con tutti i cristiani” (Deus caritas est, n. 14)

4. La partecipazione attiva
Proprio loro, i santi, hanno celebrato e vissuto l’atto liturgico partecipandovi attivamente. La santità, come esito della loro vita, è la testimonianza più bella di una partecipazione davvero viva alla liturgia della Chiesa.

Giustamente, dunque, e anche provvidenzialmente il Concilio Vaticano II ha insistito tanto sulla necessità di favorire un’autentica partecipazione dei fedeli alla celebrazione dei santi misteri, nel momento in cui ha ricordato la chiamata universale alla santità. E tale autorevole indicazione ha trovato puntuale conferma e rilancio nei tanti documenti successivi del magistero fino ai nostri giorni.

Tuttavia, non sempre vi è stata una comprensione corretta della “partecipazione attiva”, così come la Chiesa insegna ed esorta a viverla. Certo, si partecipa attivamente anche quando si compie, all’interno della celebrazione liturgica, il servizio che è proprio a ciascuno; si partecipa attivamente anche quando si ha una migliore comprensione della Parola di Dio ascoltata e della preghiera recitata; si partecipa attivamente anche quando si unisce la propria voce a quella degli altri nel canto corale… Tutto questo, però, non significherebbe partecipazione veramente attiva se non conducesse all’adorazione del mistero della salvezza in Cristo Gesù morto e risorto per noi: perché solo chi adora il mistero, accogliendolo nella propria vita, dimostra di aver compreso ciò che si sta celebrando e, dunque, di essere veramente partecipe della grazia dell’atto liturgico.

A riprova e sostegno di quanto si va affermando, ascoltiamo ancora il Card. Ratzinger in un brano del suo fondamentale volume “Introduzione allo spirito della liturgia”: “In che cosa consiste… questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più presto possibile. La parola partecipazione rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa ‘actio’ centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità. Con il termine actio riferito alla liturgia, si intende il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è l’oratio. Questa oratio - la solenne preghiera eucaristica, il canone- è più che un discorso, è actio nel senso più alto del termine. In essa si fa presente Cristo stesso e tutta la sua opera di salvezza e per questo motivo, l’actio umana passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio”.

Così, la vera azione che si realizza nella liturgia è l’azione di Dio stesso, la sua opera salvifica in Cristo a noi partecipata. Questa è, tra l’altro, la vera novità della liturgia cristiana rispetto a ogni altra azione cultuale: Dio stesso agisce e compie ciò che è essenziale, mentre l’uomo è chiamato ad aprirsi all’azione di Dio, al fine di rimanerne trasformato. Il punto essenziale della partecipazione attiva, di conseguenza, è che venga superata la differenza tra l’agire di Dio e il nostro agire, che possiamo diventare una cosa sola con Cristo. Ecco perché, per riaffermare quanto detto in precedenza, non è possibile partecipare senza adorare. Ascoltiamo ancora un brano della Sacrosanctum concilium: “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (n. 48).

Rispetto a questo tutto il resto è secondario. E mi riferisco, in particolare, alle azioni esteriori, pur importanti e necessarie, previste soprattutto durante la Liturgia della Parola. Mi riferisco ad esse, perché se diventano l’essenziale della liturgia e questa viene ridotta a un generico agire, allora si è frainteso l’autentico spirito della liturgia. Di conseguenza, la vera educazione liturgica non può consistere semplicemente nell’apprendimento e nell’esercizio di attività esteriori, ma nell’introduzione all’azione essenziale, all’opera di Dio, al mistero pasquale di Cristo dal quale lasciarsi raggiungere, coinvolgere e trasformare. E non si confonda il compimento di gesti esterni con il giusto coinvolgimento della corporeità nell’atto liturgico. Senza nulla togliere al significato e all’importanza del gesto esterno che accompagna l’atto interiore, la Liturgia chiede molto di più al corpo umano. Chiede, infatti, il suo totale e rinnovato impegno nella quotidianità della vita. Ciò che il Santo Padre Benedetto XVI chiama “coerenza eucaristica”. E’ proprio l’esercizio puntuale e fedele di tale coerenza l’espressione più autentica della partecipazione anche corporea all’atto liturgico, all’azione salvifica di Cristo.

Aggiungo ancora. Siamo proprio sicuri che la promozione della partecipazione attiva consista nel rendere tutto il più possibile e subito comprensibile? Non sarà che l’ingresso nel mistero di Dio possa essere anche e, a volte, meglio accompagnato da ciò che tocca le ragioni del cuore? Non succede, in taluni casi, di dare uno spazio sproporzionato alla parola, piatta e banalizzata, dimenticando che alla liturgia appartengono parola e silenzio, canto e musica, immagini, simboli e gesti? E non appartengono, forse, a questo molteplice linguaggio che introduce al centro del mistero e, dunque alla vera partecipazione, anche la lingua latina, il canto gregoriano, la polifonia sacra?

5. La musica sacra o liturgica
In effetti, per introdursi in modo autentico nella spirito della liturgia non si può prescindere dal discorso sulla musica sacra o liturgica.

Mi permetto, al riguardo, solo una breve riflessione orientativa. Ci si potrebbe domandare il motivo per cui la Chiesa nei suoi documenti, più o meno recenti, insista nell’indicare un certo tipo di musica e di canto come particolarmente consoni alla celebrazione liturgica. Già il Concilio di Trento era intervenuto nel conflitto culturale allora in atto, ristabilendo la norma per cui nella musica l’aderenza alla parola è prioritaria, limitando l’uso degli strumenti e indicando una chiara differenza tra musica profana e musica sacra. La musica sacra, infatti, non può mai essere intesa come espressione di pura soggettività. Essa è ancorata ai testi biblici o della tradizione, da celebrare nella forma del canto. In epoca più recente, il Papa San Pio X fece un intervento analogo, cercando di allontanare la musica operistica dalla liturgia e indicando il canto gregoriano e la polifonia dell’epoca del rinnovamento cattolico come criterio della musica liturgica, da distinguere dalla musica religiosa in generale. Il Concilio Vaticano II non ha fatto che ribadire le stesse indicazioni, così come anche i più recenti interventi magisteriali.

Perché, dunque, l’insistenza della Chiesa nel presentare le caratteristiche tipiche della musica e del canto liturgico in modo tale che rimangano distinti da ogni altra forma musicale? E perché il canto gregoriano come la polifonia sacra classica risultano essere le forme musicali esemplari, alla luce delle quali continuare oggi a produrre musica liturgica, anche popolare?

La risposta a questa domanda sta esattamente in quanto abbiamo cercato di affermare in merito allo spirito della liturgia. Sono proprio quelle forme musicali - nella loro santità, bontà e universalità - a tradurre in note, in melodia e in canto l’autentico spirito liturgico: indirizzando all’adorazione del mistero celebrato, diventando esegesi musicata della Parola di Dio, favorendo un’autentica e integrale partecipazione, aiutando a cogliere il sacro e, quindi, il primato essenziale dell’agire di Dio in Cristo, consentendo uno sviluppo musicale non disancorato dalla vita della Chiesa e dalla contemplazione del suo mistero.

Mi sia permessa un’ultima citazione di J. Ratzinger: “Gandhi evidenzia tre spazi di vita del cosmo e mostra come ognuno di questi tre spazi vitali comunichi anche un proprio modo di essere. Nel mare vivono i pesci e tacciono. Gli animali sulla terra gridano, ma gli uccelli, il cui spazio vitale è il cielo, cantano. Del mare è proprio il tacere, della terra il gridare e del cielo il cantare. L'uomo però partecipa di tutti e tre: egli porta in sé la profondità del mare, il peso della terra e l'altezza del cielo; perciò sono sue anche tutte e tre le proprietà: il tacere, il gridare il cantare. Oggi… vediamo che all'uomo privo di trascendenza rimane solo il gridare, perché vuole essere soltanto terra e cerca di far diventare sua terra anche il cielo e la profondità del mare. La vera liturgia, la liturgia della comunione dei santi, gli restituisce la sua totalità. Gli insegna di nuovo il tacere e il cantare, aprendogli la profondità del mare e insegnandogli a volare, l'essere dell'angelo; elevando il suo cuore fa risuonare di nuovo in lui quel canto che si era come assopito. Anzi, possiamo dire persino che la vera liturgia si riconosce proprio dal fatto che essa ci libera dall'agire comune e ci restituisce la profondità e l'altezza, il silenzio e il canto. La vera liturgia si riconosce dal fatto che è cosmica, non su misura di un gruppo. Essa canta con gli angeli. Essa tace con la profondità dell'universo in attesa. E così essa redime la terra” (Cantate al Signore un canto nuovo, p. 153-154)

Concludo. E’ ormai da alcuni anni che nella Chiesa, a più voci, si parla della necessità di un nuovo rinnovamento liturgico. Di un movimento, in qualche modo analogo a quello che pose le basi per la riforma promossa dal Concilio Vaticano II, che sia capace di operare una riforma della riforma, ovvero ancora un passo avanti nella comprensione dell’autentico spirito liturgico e della sua celebrazione: portando così a compimento quella riforma provvidenziale della liturgia che i Padri conciliari avevano avviato, ma che non sempre, nell’attuazione pratica, ha trovato puntuale e felice realizzazione.

Non c’è dubbio che in questo nuovo rinnovamento liturgico siamo proprio noi sacerdoti a ricoprire un ruolo determinante. Possa, con l’aiuto del Signore e di Maria Madre dei sacerdoti, l’ulteriore sviluppo della riforma essere anche il frutto del nostro amore sincero per la liturgia, nella fedeltà alla Chiesa e al Papa.


Mons. Guido Marini
Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie


Pubblicato da Maranatha.it

Caterina63
00giovedì 7 gennaio 2010 23:26
Specifica mons. Guido Marini:
  
 ascoltiamo ancora il Card. Ratzinger in un brano del suo fondamentale volume “Introduzione allo spirito della liturgia”: “In che cosa consiste… questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore  
 
Io credo che gran parte del nocciolo del problema stia in questa confusa applicazione della "partecipazione attiva" alla Messa con tutto ciò che ne consegue....per esempio, mons. N. Bux a Radio Maria (il 22 dicembre) ha sollevato un altro problema gravissimo, riporto il punto così come l'ho scritto quel martedì dalla diretta:  
LA MESSA NON E' LA COMMEMORAZIONE DELL'ULTIMA CENA, MA E' IL SACRIFICIO DEL CALVARIO, ecco come si spiega la nascita degli errori di oggi a quanti credono che la Messa sia QUELLA CENA...la Messa è IL MEMORIALE DELLA CROCE non dell'Ultima Cena, questa commemorazione dell'ultima cena invece si fa IL GIOVEDI' SANTO, ecco perchè bisogna far ritornare la croce sull'altare come sta facendo il Papa (spiega mons. Bux)....il diffondersi di queste errate definizioni, ha snaturalizzato la Messa con i tanti problemi che poi ne sono derivati  

Se da una parte sono contraria a parlare di "riforma della riforma" poichè questo potrebbe includere che ad ogni Pontefice che si succederà potrebbe accadere sempre "nuovi cambiamenti" ambiguamente espressi come "riforme" facendo confondere i fedeli già abbondantemente confusi da 40 anni...dall'altra parte è chiaro che la riforma voluta dal Concilio ha subito, suo malgrado, un itinerario per nulla ortodosso, anzi, oserei dire come si esprime il Papa nel MP "di creatività nei limiti del sopportabile", è dunque necessario che la riforma si riappropri della sana ortodossia e si diffonda al più presto...  
... di buoni esempi ne abbiamo tanti, occorre ora vedere L'AUTORITA' ESSERE AUTOREVOLE....non imporsi, ma osare con provvedimenti CORAGGIOSI che con carità ci si preoccupi della confusione in cui vivono migliaia di fedeli che NON sanno nulla e che leggendo un testo come questo di mons. Guido Marini, non sanno davvero di che cosa egli stia parlando....

In queste feste ho parlato con amici cattolici, praticanti, i quali mi hanno confessato tutta la loro confusione di fronte a quanto sta facendo Benedetto XVI: NON COMPRENDONO COSA STA AVVENENDO, mi hanno chiesto: "ma perchè questi cambiamenti? La Messa non è una festa? Non era una festa andare alle messe di Giovanni Paolo II? Noi siamo sempre stati sempre praticanti, abbiamo sbagliato, e in che cosa?"  
Domande legittime perchè conosco queste persone e sono davvero buoni cattolici, ma sappiamo che essere buoni NON basta, ciò che abbiamo perduto è la CATTOLICITA'....le argomentazioni da me portate sono state gradite e attentamente ascoltate, mi hanno promesso di approfondire, ma questo ci fa comprendere la gravità della situazione...  
 
Chiediamo ai Vescovi che autorizzano la Messa della domenica alla Rai di cominciare ad IMITARE IL PAPA, di far mettere durante la comunione l'inginocchiatoio, di riportare il Crocefisso sull'Altare, di evitare le chierichette almeno in queste funzioni pubbliche... di indossare gli abiti liturgici più decorosi, meno carnevaleschi... di rimettere il cingolo da tempo abbandonato... 
 
Se è vero che l'abito non fa il monaco è anche vero che l'occhio vuole la sua parte... Wink  
Se il sacerdote stesso consiglia come è giusto che sia che la moglie non si trascuri proprio per RISPETTO verso il marito, lo stesso faccia il Sacerdote nei confronti della sua Sposa, la Chiesa....perchè le crisi coniugali sono legate alle crisi vocazionali e viceversa: dalle Famiglie provengono i sacerdoti, ma dai sacerdoti si formano sante famiglie....e come lo svolgimento, il menage familiare è fondamentale per i coniugi, così è la Liturgia per il Sacerdote....  
 
Buon Anno, soprattutto ai Sacerdoti.......  
con fraternità CaterinaLD

Caterina63
00mercoledì 27 gennaio 2010 21:17

I cambiamenti nella liturgia pontificia introdotti da Benedetto XVI


Intervista a don Mauro Gagliardi, Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche


CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 21 dicembre 2009 (ZENIT.org).- I fedeli di tutto il mondo hanno potuto constatare in diretta televisiva i cambiamenti avvenuti nella liturgia pontificia sotto Benedetto XVI.

Ne abbiamo parlato con don Mauro Gagliardi, Ordinario della Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, nonché curatore della rubrica di teologia liturgica “Spirito della liturgia”, pubblicata su ZENIT a cadenza quindicinale. 
 
Leggendo l’articolo di Luigi Accattoli, Il rito del silenzio secondo papa Ratzinger (Liberal, 1° dicembre 2009, p. 10) emerge l’idea di un certo lavorio, sollecitato dallo stesso Santo Padre, per rendere la liturgia papale più in linea con la tradizione.
Siccome ci avviciniamo alle solenni celebrazioni delle feste natalizie, che saranno presiedute in San Pietro da Benedetto XVI, vorremmo cogliere l’occasione per parlare con lei di questi cambiamenti.
 

Gagliardi: L’articolo di Accattoli presenta un’efficace panoramica di alcune delle più visibili tra le recenti decisioni in materia di liturgia pontificia, anche se ve ne sono altre, probabilmente non menzionate per brevità o perché di più difficile comprensione da parte del grande pubblico. Il noto e stimato vaticanista sottolinea a più riprese che questi cambiamenti sono quasi ispirati dallo stesso Santo Padre il quale, come tutti sanno, è esperto di liturgia. 

Accattoli comincia la sua ricostruzione menzionando le vesti papali che erano state dismesse negli ultimi decenni: il camauro, il saturno rosso, la mozzetta con pelliccia di ermellino. Inoltre menziona i cambiamenti avvenuti per quanto riguarda il pallio. 

Gagliardi: Si tratta di elementi delle vesti proprie del Pontefice, come pure il colore rosso delle calzature, non ricordato esplicitamente dall’articolista. Se è vero che negli ultimi decenni i Sommi Pontefici hanno scelto di non utilizzare queste vesti, o di modificarne la foggia, è anche vero che esse non sono mai state abolite e quindi ogni Papa può utilizzarle. Non va dimenticato che, al pari della maggioranza degli elementi visibili della liturgia, anche le vesti di uso extraliturgico rispondono sia a necessità pratiche che simboliche. Ricordo che quando Papa Benedetto utilizzò per la prima volta il camauro – un copricapo invernale che protegge bene dal freddo – un noto settimanale italiano pubblicò il volto sorridente del Santo Padre, che indossava appunto il camauro, e sotto la foto aggiunse una didascalia che diceva: «Ha fatto bene!», riferendosi al fatto che anche il Papa ha ben diritto di ripararsi dal freddo. Ma non ci sono solo ragioni pratiche. Non dobbiamo dimenticare chi è e che ruolo svolge la persona che usa queste vesti: perciò esse hanno anche un valore simbolico, che si esprime con la loro bellezza ed il loro particolare decoro.

Diverso è il caso del pallio, che è invece un indumento liturgico. Giovanni Paolo II ne utilizzava uno uguale a quello che indossano i metropoliti. All’inizio del pontificato di Benedetto XVI, ne era stato preparato uno di foggia diversa, che riprendeva usi antichi e che il Santo Padre ha usato per qualche tempo. In seguito a studi attenti, ci si è resi conto che era preferibile tornare alla forma usata da Giovanni Paolo II, anche se sono state apportate piccole modifiche in modo che risalti chiaramente la differenza tra il pallio dei metropoliti – imposto ad essi dal Papa – e il pallio del Sommo Pontefice. Maggiori informazioni su questo si possono trovare nell’intervista a mons. Guido Marini, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, pubblicata sull’Osservatore Romano del 26 giugno 2008. 
 
Che cosa può dirci della ferula scelta da Benedetto XVI al posto del crocifisso dello scultore Scorzelli, utilizzato da Paolo VI e dai due Giovanni Paolo, fino alla prima parte di pontificato dello stesso Papa Benedetto? 

Gagliardi: Si potrebbe dire che anche qui vale lo stesso principio. Si può menzionare una ragione pratica: l’attuale pastorale di Benedetto XVI, che egli utilizza dall’inizio del presente anno liturgico, pesa ben 590 grammi in meno rispetto al crocifisso di Scorzelli, quindi più di mezzo chilo di differenza, che non è poco. A livello storico, poi, il pastorale a forma di croce risponde in modo più fedele alla forma del pastorale tipico della tradizione romana, ossia utilizzato dai sommi pontefici, che è sempre stato a forma di croce e senza crocifisso. D’altro canto, anche qui si potrebbero aggiungere altre riflessioni dal punto di vista simbolico ed estetico. 
 
Accattoli cita anche altri cambiamenti, che potremmo definire più di sostanza: la cura per i momenti di silenzio, la celebrazione verso il crocifisso e con le spalle all’assemblea e la comunione distribuita ai fedeli in ginocchio e sulla lingua. 

Gagliardi: Si tratta di elementi di grande significato, che ovviamente non posso qui analizzare in modo dettagliato, ma solo per brevi cenni. L’Institutio Generalis del Messale Romano pubblicato da Paolo VI prescrive in diversi luoghi di osservare il sacro silenzio. L’attenzione nella liturgia papale a questo aspetto non fa altro, quindi, che mettere in pratica le norme stabilite.

Per quanto riguarda la celebrazione verso il crocifisso, vediamo che di norma il Santo Padre sta mantenendo la posizione all’altare cosiddetta «verso il popolo», sia in San Pietro che altrove. Ha celebrato solo poche volte verso il crocifisso: in particolare, nella Cappella Sistina e nella Cappella Paolina, di recente restaurata. Siccome ogni celebrazione della Messa, qualunque sia la posizione fisica del celebrante, è celebrazione rivolta al Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo e mai rivolta «al popolo» o all’assemblea, se non nei pochi momenti dialogati, non è affatto strano che chi celebra l’Eucaristia possa disporsi anche fisicamente «verso il Signore». Particolarmente in luoghi come la Cappella Sistina, dove l’altare è addossato alla parete, è cosa naturale e fedele alle norme celebrare sull’altare fisso e dedicato, rivolti quindi verso il crocifisso, piuttosto che aggiungere un altare mobile per l’occasione.

Per quanto riguarda, infine, il modo di distribuire la Santa Comunione ai fedeli, bisogna distinguere l’aspetto del riceverla in ginocchio da quello del riceverla sulla lingua. Nell’attuale forma ordinaria del rito romano (o Messa di Paolo VI), i fedeli hanno il diritto di ricevere la Comunione stando in piedi o in ginocchio. Se il Santo Padre ha stabilito di comunicarli in ginocchio, penso – ovviamente questa è solo una mia opinione personale – che egli ritenga questo atteggiamento più adatto ad esprimere il senso di adorazione che dobbiamo sempre coltivare davanti al dono dell’Eucaristia. È un aiuto che il Papa dà a coloro che ricevono la Comunione da lui, aiuto a considerare con attenzione chi è Colui che si va a ricevere nella santissima Eucaristia. D’altro canto, nella Sacramentum Caritatis, citando sant’Agostino il Santo Padre aveva ricordato che nel ricevere il Pane eucaristico dobbiamo adorarlo, perché peccheremmo ricevendolo senza adorazione. Prima di comunicarsi, lo stesso sacerdote genuflette davanti all’Ostia: perché non aiutare i fedeli a coltivare il senso di adorazione proprio attraverso simile gesto?

 Per quanto riguarda, invece, il ricevere la Comunione sulla mano, va ricordato che questo è oggi possibile in molti luoghi (possibile, non obbligatorio), ma che ciò è e resta una concessione, una deroga alla norma ordinaria che afferma che la Comunione si riceve solo sulla lingua. Questa concessione è stata fatta alle singole Conferenze Episcopali che l’hanno chiesta e non è la Santa Sede a suggerirla o a promuoverla. E, comunque, nessun vescovo membro della Conferenza Episcopale che ha chiesto e ottenuto l’indulto è obbligato ad applicarlo nella sua diocesi: ogni vescovo può sempre decidere che nella sua diocesi si applichi la norma universale, che vige nonostante tutti gli indulti concessi, norma che stabilisce che i fedeli devono ricevere la Santa Comunione sulla lingua. Se nessun vescovo del mondo è obbligato a fruire dell’indulto, come potrebbe esserlo il Papa? È anzi importante che proprio il Santo Padre mantenga la regola tradizionale, confermata ancora una volta da Paolo VI, che vieta ai fedeli di ricevere la comunione sulla mano (per maggiori dettagli, cf. M. Gagliardi, La liturgia fonte di vita, Fede & Cultura, Verona 2009, pp. 170-181). 
 

In conclusione, lei, che fa parte dello staff di Consultori di mons. Guido Marini, che senso vede nelle novità introdotte nella liturgia papale sotto Benedetto XVI?
 

Gagliardi: Naturalmente posso parlare qui solo a titolo personale, non avendo le mie opinioni alcun carattere di posizione ufficiale dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice. A me sembra che ciò che si sta tentando di fare è di coniugare sapientemente cose antiche e cose nuove, di attuare nello spirito e nella lettera, per quanto possibile, le indicazioni del Vaticano II e di fare in modo che le celebrazioni pontificie siano esemplari sotto tutti gli aspetti. Chi assiste alla liturgia papale deve poter dire: «Ecco, così si fa! Così dobbiamo fare anche noi nella nostra diocesi, nella nostra parrocchia!». Vorrei, da ultimo, rilevare che queste “novità”, come lei le definisce, non vengono introdotte semplicemente in modo autoritario. Avrà notato che spesso esse sono spiegate, ad esempio attraverso le interviste che il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie rilascia a L’Osservatore Romano o ad altre testate giornalistiche. Anche noi Consultori di tanto in tanto pubblichiamo degli articoli sul quotidiano della Santa Sede per spiegare il senso storico e teologico delle decisioni che si prendono. Per usare una parola alla moda, direi che c’è un modo “democratico” di procedere, intendendo con questo non che le decisioni siano prese a maggioranza, ma che si cerca di far capire qual è il motivo profondo di questi cambiamenti, che è sempre un motivo storico, teologico e liturgico e mai puramente estetico, tanto meno ideologico. Potremmo dire che ci si sforza di rendere nota la ratio legis e mi pare che anche questo fatto rappresenti una “novità” di una certa importanza. 






Attenzione, si legga anche:

Mons. Guido Marini presenta il libro di don Mauro Gagliardi sulla Liturgia

Il Pastorale (Ferula) del Pontefice

Cosa veste il Papa per la Liturgia?

La centralità del Crocifisso nella celebrazione liturgica

Che cosa è il FALDISTORIO? A che cosa serve?




Caterina63
00venerdì 23 dicembre 2011 10:12

I riti natalizi 2011/2012 del Papa tra novità e tradizione. Illustrati da monsignor Marini (O.R.)

Illustrati da monsignor Marini

I riti natalizi del Papa tra novità e tradizione

Tradizioni e novità dei riti del tempo di Natale presieduti quest'anno da Benedetto XVI sono illustrati in una nota da monsignor Guido Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice.

Innanzitutto, quest'anno sarà collocata accanto all'altare della Confessione della basilica Vaticana una statua lignea della Vergine con il Bambino Gesù, conservata presso i Musei Vaticani, che fu donata dal presidente del Brasile João Goulart a Paolo VI in occasione della sua elezione al soglio pontificio nel 1963. L'opera di scuola brasiliana, risalente al secolo XVIII, rappresenta Nostra Signora di Montserrat ed è dipinta in oro con policromia originale e meccatura in argento.

Inoltre, «per quanto riguarda l'ambito musicale -- riferisce monsignor Marini -- la Cappella Sistina eseguirà, come di consueto, brani in gregoriano e in polifonia. Da sottolineare che, per l'ordinario, sarà eseguita la messa cum iubilo, propria del tempo di Natale.
All'offertorio saranno eseguiti i mottetti storici composti da Pier Luigi da Palestrina per la Cappella Sistina. La notte di Natale, al posto del salmo responsoriale, come prevedono le norme liturgiche, sarà eseguito l'antico graduale nel 2° modo, caratteristico di questa solennità liturgica. Il tradizionale canto natalizio dell'Adeste fideles sarà eseguito nella forma elaborata da David Willcocks».

In particolare, poi, la messa della notte di Natale sarà preceduta, quest'anno, dalla preghiera dell'ufficio delle letture, così come prevede il messale romano, con inizio alle ore 21. Conclusa la preghiera dell'ufficio, è previsto il canto della kalenda. I testi della preghiera universale sono stati preparati dai monaci certosini di Farneta.

Riguardo alla solennità del 1° gennaio, monsignor Marini sottolinea che in preparazione alla messa sarà recitata la preghiera del Rosario.
I testi della preghiera universale sono a cura delle monache della Visitazione del monastero Mater Ecclesiae in Vaticano.
Durante la celebrazione dell'Epifania, poi, il Papa ordinerà due nuovi vescovi: monsignor Charles Brown, nominato nunzio apostolico in Irlanda, e monsignor Marek Solczynski, nominato nunzio apostolico in Georgia e Armenia.
Infine sedici bambini riceveranno domenica 8 gennaio il battesimo dalle mani di Benedetto XVI nella Cappella Sistina.

(©L'Osservatore Romano 23 dicembre 2011)


Papa e mons Marini



Caterina63
00giovedì 4 ottobre 2012 11:00

 

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Insegnamenti sulla liturgia del Santo Padre Benedetto XVI

 





A seguito della riforma del Concilio Vaticano II, l'Ufficio per le Cerimonie Pontificie ha assunto una importanza sempre maggiore nel settore della pastorale liturgica. Le celebrazioni presiedute dal Santo Padre, infatti, sono chiamate a essere, anche per l’incidenza dei mass-media, un punto di riferimento esemplare per l’attuazione della riforma liturgica secondo gli insegnamenti conciliari, in continuità con l’intera tradizione ecclesiale e in conformità al più recente magistero dei Sommi Pontefici.


Insegnamenti sulla liturgia del Santo Padre Benedetto XVI

 

         





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Caterina63
00giovedì 4 ottobre 2012 11:15

 

Studi dei Consultori

 



Caterina63
00mercoledì 6 maggio 2015 09:21
  Chi impara a credere impara ad inginocchiarsi
tratto da Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, parte IV - Forma liturgica, cap. II – Il corpo e la liturgia, n. 3 - Atteggiamenti, pp. 181-190.



Atteggiamenti
Inginocchiarsi (Prostratio)

Vi sono ambienti, che esercitano notevole influenza, che cercano di convincerci che non bisogna inginocchiarsi. Dicono che questo gesto non si adatta alla nostra cultura (ma a quale, allora?); non è conveniente per l’uomo maturo, che va incontro a Dio stando diritto, o, quanto meno, non si addice all’uomo redento, che mediante Cristo è divenuto una persona libera e che, proprio per questo, non ha più bisogno di inginocchiarsi.

Se guardiamo alla storia possiamo osservare che Greci e Romani rifiutavano il gesto di inginocchiarsi. Di fronte agli dei faziosi e divisi che venivano presentati dal mito, questo atteggiamento era senz’altro giustificato: era troppo chiaro che questi dei non erano Dio, anche se si dipendeva dalla loro lunatica potenza e per quanto possibile ci si doveva comunque procacciare il loro favore. Si diceva che inginocchiarsi era cosa indegna di un uomo libero, non in linea con la cultura della Grecia; era una posizione che si confaceva piuttosto ai barbari. Plutarco e Teofrasto definiscono l’atto di inginocchiarsi come un’espressione di superstizione; Aristotele ne parla come di un atteggiamento barbarico (Retorica, 1361 a 36). Agostino gli dà per un certo verso ragione: i falsi dei non sarebbero infatti altro che maschere di demoni, che sottomettono l’uomo all’adorazione del denaro e del proprio egoismo, che in questo modo li avrebbero resi «servili» e superstiziosi. L’umiltà di Cristo e il suo amore che è giunto sino alla croce, ci hanno liberato – continua Agostino – da queste potenze ed è davanti a questa umiltà che noi ci inginocchiamo.

In effetti, l’atto di inginocchiarsi proprio dei cristiani non si pone come una forma di inculturazione in costumi preesistenti, ma, al contrario, è espressione della cultura cristiana che trasforma la cultura esistente a partire da una nuova e più profonda conoscenza ed esperienza di Dio.

L’atto di inginocchiarsi non proviene da una cultura qualunque, ma dalla Bibbia e dalla sua esperienza di Dio. L’importanza centrale che l’inginocchiarsi ha nella Bibbia la si può desumere dal fatto che solo nel Nuovo Testamento la parola proskynein compare 59 volte, di cui 24 nell’Apocalisse, il libro della liturgia celeste, che viene presentato alla Chiesa come modello e criterio per la sua liturgia.

***

Osservando più attentamente possiamo distinguere tre atteggiamenti strettamente imparentati tra di loro. Il primo di essi è la prostratio: il distendersi fino a terra davanti alla predominante potenza di Dio; soprattutto nel Nuovo Testamento c’è, poi, il cadere ai piedi e, infine, il mettersi in ginocchio. I tre atteggiamenti non sono sempre facili da distinguere, anche sul piano linguistico. Essi possono legarsi tra di loro, sovrapporsi l’uno all’altro.

Per ragioni di brevità vorrei citare, a proposito della prostratio, due testi, uno tratto dall’Antico Testamento, l’altro dal Nuovo.

Quello tratto dall’Antico Testamento è la teofania a Giosuè prima della conquista di Gerico, che dallo scrittore biblico è posta in stretto parallelo con la teofania a Mosè presso il roveto ardente. Giosuè vede «il capo dell’esercito del Signore» e, dopo aver riconosciuto la sua identità, si getta a terra davanti a lui. In quel momento ode le parole che, in precedenza, erano già state rivolte a Mosè: «Togli i calzari dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è santo» (Gs 5,14s). Nella figura misteriosa del «capo dell’esercito del Signore» il Dio nascosto parla a Giosuè e davanti a Lui questi si getta a terra. È bella l’interpretazione di questo testo data da Origene: «C’è un altro capo delle potenze del Signore oltre al nostro Signore Gesù Cristo?». Giosuè adora dunque Colui che doveva venire, il Cristo veniente.

Per quanto riguarda, invece il Nuovo Testamento, a cominciare dai Padri è divenuta particolarmente importante la preghiera di Gesù al monte degli Ulivi. Secondo Matteo (26,39) e Marco (14,35) Gesù si prostra a terra, anzi, cade a terra (Mt); Luca, invece, che in tutta la sua opera - Vangelo e Atti degli Apostoli - è in maniera particolare il teologo del pregare in ginocchio, ci racconta che Gesù pregava in ginocchio.

Questa preghiera, come preghiera introduttiva alla Passione, è esemplare, sia per quanto riguarda il gesto che per i suoi contenuti. I gesti: Gesù fa sua la caduta dell’uomo, si lascia cadere nella sua caducità, prega il Padre dal più profondo abisso della solitudine e del bisogno umani. Ripone la sua volontà nella volontà del Padre: Non la mia volontà sia fatta, ma la Tua. Ripone la volontà umana nella volontà divina. Fa sua ogni negazione della volontà dell’uomo e la soffre con il suo dolore; proprio l’uniformare la volontà umana alla volontà divina è il cuore stesso della redenzione.

Difatti la caduta dell’uomo si poggia sulla contraddizione delle volontà, sulla contrapposizione della volontà umana alla volontà divina, che il tentatore dell’uomo fa ingannevolmente passare come condizione della sua libertà. Solo la volontà autonoma, che non si sottomette ad alcuna altra volontà, sarebbe, secondo lui, libertà. Non la mia volontà, ma la tua – è questa la parola della verità, poiché la volontà di Dio non è il contrario della nostra libertà, ma il suo fondamento e la sua condizione di possibilità. Solo rimanendo nella volontà di Dio la nostra volontà diventa vera volontà ed è realmente libera. La sofferenza e la lotta del monte degli Ulivi è la lotta per questa verità liberante, per l’unità di ciò che  è diviso, per una unione che è la comunione di Dio.

Comprendiamo così che in questo passo si trova anche l’invocazione d’amore del Figlio Padre: Abbà (Mc 14,36). Paolo vede in questo grido la preghiera che lo Spirito Santo pone sulle nostre labbra (Rm 8,15; Gal 4,6) e àncora così la nostra preghiera spirituale alla preghiera del Signore sul monte degli Ulivi.

Nella liturgia della Chiesa la prostratio appare oggi in due occasioni: il venerdì santo e nelle consacrazioni.

Il venerdì santo, giorno della crocifissione, essa è espressione adeguata del nostro sconvolgimento per il fatto di essere, con i nostri peccati, corresponsabili della morte in croce di Cristo. Ci gettiamo a terra e prendiamo parte alla sua angoscia, alla sua discesa nell’abisso del bisogno. Ci gettiamo a terra e riconosciamo così dove siamo e chi siamo: caduti, che solo Lui può sollevare. Ci gettiamo a terra come Gesù davanti al mistero della presenza potente di Dio, sapendo che la croce è il vero roveto ardente, il luogo della fiamma dell’amore di Dio, che brucia, ma non distrugge.

In occasione delle consacrazioni questo gesto esprime la consapevolezza della nostra assoluta incapacità di accogliere con le sole nostre forze il compito sacerdotale di Gesù Cristo, di parlare con il suo Io. Mentre i candidati all’ordinazione giacciono a terra, l’intera comunità radunata canta le litanie dei santi. Resta per me indimenticabile questo gesto compiuto in occasione della mia ordinazione sacerdotale ed episcopale. Quando venni consacrato vescovo la percezione bruciante della mia insufficienza, dell’inadeguatezza davanti alla grandezza del compito fu forse ancora più grande che in occasione della mia ordinazione sacerdotale. Fu per me meravigliosamente consolante sentire la Chiesa orante invocare tutti i santi, sentire che la preghiera della Chiesa mi avvol[184]geva e mi abbracciava fisicamente. Nella propria incapacità, che doveva esprimersi corporeamente in questo stare prostrati, questa preghiera, questa presenza di tutti i santi, dei vivi e dei morti, era una forza meravigliosa, e solo essa poteva sollevarmi, solo lo stare in essa poteva rendere possibile la strada che mi stava davanti.

***




In secondo luogo bisogna ricordare il gesto del cadere ai piedi, che nei Vangeli è indicato quattro volte (Mc 1,40; 10,17; Mt 17,14; 27,29) con il termine gonypetein. Partiamo da Mc 1,40. Un lebbroso va da Gesù e gli chiede aiuto; si getta ai suoi piedi e gli dice: «Se tu vuoi, puoi guarirmi». Qui è difficile valutare la portata di questo gesto. Non si tratta sicuramente di un vero atto di adorazione, ma di una preghiera espressa con fervore, anche con il corpo, in cui le parole manifestano una fiducia nella potenza di Gesù che va al di là della dimensione puramente umana. È diverso il caso dell’espressione classica dell’adorazione in ginocchio – proskynein.

Scelgo ancora una volta due esempi per chiarire la questione che si pone al traduttore. Anzitutto la storia di Gesù che, dopo la moltiplicazione dei pani, sosta sulla montagna, in colloquio con il Padre, mentre i discepoli lottano invano sul mare con il vento e le onde. Gesù va verso di loro sulle acque; Pietro gli si affretta incontro, ma impaurito, sprofonda nelle acque e viene salvato dal Signore. Gesù, allora, sale sulla barca e il vento si placa. Il testo, poi, prosegue: ma i discepoli sulla barca «gli si prostrarono davanti» e dissero: «veramente tu sei il Figlio di Dio!» (Mt 14,33). Precedenti traduzioni scrivevano: i discepoli adorarono Gesù sulla barca e dissero... Ambedue le traduzioni sono giuste, ambedue mettono in rilievo un aspetto di ciò che accade: quelle recenti l’espressione corporale, quelle più antiche l’avvenimento interiore. Difatti, dalla struttura del racconto si desume con estrema chiarezza che il gesto di riconoscimento di Gesù come Figlio di Dio è adorazione.

Anche nel Vangelo di Giovanni incontriamo una simile problematica, nel racconto della guarigione del cieco nato. Questa storia, costruita teo-drammaticamente, si conclude in un dialogo tra Gesù e la persona sanata, che può essere considerato il prototipo del dialogo di conversione; inoltre, l’intera storia deve essere intesa come una spiegazione interiore dell’importanza esistenziale e teologica del battesimo. In questo dialogo Gesù aveva chiesto all’uomo se credeva nel figlio dell’Uomo. Alla domanda del cieco nato: «Chi è, Signore?» e alla risposta di Gesù: «Colui che ti parla», segue la professione di fede: «Io credo, Signore! Ed egli si prostrò davanti a lui» (Gv 9,35-38). Traduzioni precedenti avevano scritto: «ed egli lo adorò». Di fatto, tutta la scena mira all’atto di fede e di adorazione di Gesù, che ne segue: ora non sono aperti solo gli occhi dell’amore, ma anche quelli del cuore. L’uomo è diventato davvero vedente. Per l’interpretazione del testo è importante osservare che nel Vangelo di Giovanni la parola proskynein ricorre undici volte, di cui nove nel dialogo di Gesù con la Samaritana, presso il pozzo di Giacobbe (Gv 4,19-24). Questa conversazione è tutta dedicata al tema dell’adorazione ed è fuori discussione che qui, come del resto in tutto il Vangelo di Giovanni, la parola ha sempre il significato di «adorare». Anche questo dialogo si conclude comunque – come quello con il cieco sanato – con l'autorivelazione di Gesù: «Sono io, che ti parlo».

Mi sono trattenuto a lungo su questo testo perché in esso compare qualcosa di importante. Nei due passi qui approfonditi il significato spirituale e quello corporeo della parola proskynein non sono affatto separabili.

II gesto corporale è, come tale, portatore di un senso spirituale – quello, appunto, dell’adorazione, senza del quale esso resterebbe privo di significato – mentre, a sua volta, il gesto spirituale, per sua stessa natura, in forza dell’unità fisico-spirituale della persona umana, deve esprimersi necessariamente nel gesto corporale. Ambedue gli aspetti sono integrati in una sola parola perché si richiamano intimamente l’un l’altro.

Quando l’inginocchiarsi diventa pura esteriorità, semplice atto corporeo, diventa privo di senso; ma anche quando si riduce l’adorazione alla sola dimensione spirituale senza incarnazione, l’atto dell’adorazione svanisce, perché la pura spiritualità non esprime l’essenza dell’uomo. L’adorazione è uno di quegli atti fondamentali che riguardano l’uomo tutto intero. Per questo il piegare le ginocchia alla presenza del Dio vivo è irrinunciabile.

***

Con ciò siamo già arrivati al tipico atteggiamento dell’inginocchiarsi su uno o su ambedue i ginocchi. Nell’Antico Testamento ebraico alla parola berek (ginocchio) corrisponde il verbo barak, inginocchiarsi.

Le ginocchia erano per gli ebrei un simbolo di forza; il piegarsi delle ginocchia è quindi il piegarsi della nostra forza davanti al Dio vivente, riconoscimento che tutto ciò che noi siamo, lo abbiamo da Lui. Questo gesto appare in importanti passi dell’Antico Testamento come espressione di adorazione. In occasione della consacrazione del tempio, Salomone «si inginocchiò davanti a tutta l’assemblea di Israele» (2Cr 6,3). Dopo l'esilio, nella situazione di bisogno in cui venne a trovarsi Israele dopo il ritorno in patria, Esdra ripete lo stesso gesto all’ora del sacrificio della sera: «Poi caddi in ginocchio e stesi le mani al mio Signore e pregai il Signore, mio Dio» (Esdra 9,5). Il grande salmo della Passione («Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato») si conclude con la promessa: «Davanti a Lui si piegheranno tutti i potenti della terra, davanti a Lui si prostreranno quanti dormono sotto terra» (Sal 22,30). Rifletteremo sul passo affine di Is 45,23 in contesto neotestamentario. Gli Atti degli Apostoli ci raccontano della preghiera in ginocchio di san Pietro (9,40), di san Paolo (20,36) e di tutta la comunità cristiana (21,5).

Particolarmente importante per la nostra questione è il racconto del martirio di santo Stefano. Il primo martire cristiano viene presentato nella sua sofferenza come perfetta imitazione di Cristo, la cui passione si ripete nel martirio del testimone fin nei particolari. Stefano, in ginocchio, fa così sua la preghiera del Cristo crocifisso: «Signore non imputare loro questo peccato» (At 7,60). Ricordiamo in proposito che Luca, a differenza di Matteo e di Marco, aveva parlato della preghiera in ginocchio del Signore sul monte degli Ulivi e osserviamo, quindi, che Luca vuole che l’inginocchiarsi del protomartire sia inteso come un entrare nella preghiera di Gesù.

L’inginocchiarsi non è solo un gesto cristiano, è un gesto cristologico. Il passo più importante sulla teologia dell’inginocchiarsi è e resta per me il grande inno cristologico di Fil 2,6-11. In questo inno prepaolino ascoltiamo e vediamo la preghiera della Chiesa apostolica e riconosciamo la sua professione di fede; ma sentiamo anche la voce dell’Apostolo, che è entrato in questa preghiera e ce l’ha tramandata; torniamo ancora una volta a percepire la profonda unità interiore di Antico e Nuovo Testamento, così come l’ampiezza cosmica della fede cristiana.
L’inno ci presenta Cristo in contrapposizione al primo Adamo: mentre questi cerca di arrivare alla divinità con le sole sue forze, Cristo non considera come un «tesoro geloso» la divinità, che pure gli è propria, ma si abbassa fino alla morte di croce. Proprio questa umiltà, che viene dall’amore, è il propriamente  divino e gli procura il «nome che è al di sopra di tutti i nomi», «perché tutti, in cielo e sulla terra e sotto terra, pieghino le loro ginocchia davanti al nome di Gesù...». L’inno della Chiesa apostolica riprende qui la parola profetica di Isaia 45,23: «Lo giuro su me stesso dalla mia bocca esce la verità, una parola irrevocabile: davanti a me si piegherà ogni ginocchio...».

Nella compenetrazione di Antico e Nuovo Testamento è chiaro che Gesù, proprio in quanto è il Crocifisso, porta il «nome che è al di sopra di tutti i nomi» – il nome dell’Altissimo – ed è Egli stesso di natura divina. Per mezzo di Lui, il Crocifisso, si compie la profezia dell’Antico Testamento: tutti si pongono in ginocchio davanti a Gesù, Colui che è asceso, e si piegano così davanti all’unico vero Dio, al di sopra di tutti gli dei.

La croce è divenuta il segno universale della presenza di Dio, e tutto ciò che noi abbiamo finora udito sulla croce storica e cosmica, deve trovare qui il suo vero senso. La liturgia cristiana è proprio per questo liturgia cosmica, per il fatto che essa piega le ginocchia davanti al Signore crocifisso e innalzato. È questo il centro della vera «cultura» – la cultura della verità. Il gesto umile con cui noi cadiamo ai piedi del Signore, ci colloca sulla vera via della vita, in armonia con tutto il cosmo.

***

Si potrebbe aggiungere ancora molto, come, per esempio, la commovente storia che ci racconta Eusebio di Cesarea nella sua storia ecclesiastica, riprendendo una tradizione che risale a Egesippo (II secolo), secondo cui Giacomo, il «fratello del Signore», primo vescovo di Gerusalemme e «capo» della Chiesa giudeo-cristiana, aveva sulle ginocchia una sorta di pelle di cammello per il fatto che stava sempre in ginocchio, adorava Dio e implorava perdono per il suo popolo (II, 23, 6). Oppure il racconto tratto dalle sentenze dei Padri del deserto, secondo cui il diavolo fu costretto da Dio a mostrarsi a un certo abate Apollo, e il suo aspetto era nero, orribile a vedersi, con delle membra spaventosamente magre e, soprattutto, non aveva le ginocchia. L’incapacità a inginocchiarsi appare addirittura come l’essenza stessa del diabolico.

Ma non voglio andare troppo in là. Vorrei aggiungere solo un’osservazione: l’espressione con cui Luca descrive l’atto di inginocchiarsi dei cristiani (theis ta gonata) è sconosciuta al greco classico. Si tratta di una parola specificamente cristiana. Con questa osservazione il cerchio si chiude là dove avevamo cominciato le nostre riflessioni. Può forse essere vero che l’inginocchiarsi è estraneo alla cultura moderna – appunto nella misura in cui si tratta di una cultura che si è allontanata dalla fede e che non conosce più colui di fronte al quale inginocchiarsi è il gesto giusto, anzi quello interiormente necessario.

Chi impara a credere, impara a inginocchiarsi; una fede o una liturgia che non conoscano più l’atto di inginocchiarsi, sono ammalate in un punto centrale. Dove questo gesto è andato perduto, dobbiamo nuovamente apprenderlo, così da rimanere con la nostra preghiera nella comunione degli apostoli e dei martiri, nella comunione di tutto il cosmo, nell’unità con Gesù Cristo stesso.




Caterina63
00domenica 10 gennaio 2016 20:42

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE 
DEL SOMMO PONTEFICE

INTERVISTA CONCESSA DA MONS. GUIDO MARINI 
A GIUSEPPE DE CARLI - 28.12.2008


 

Il Papa dalla loggia centrale della Basilica Vaticana, il giorno di Natale, con la mozzetta e la stola. Niente piviale, mitria o pastorale. Con questo “look” l’hanno seguito in centinaia di milioni di persone in ogni parte del mondo. Una scelta di sobrietà e di essenzialità? No, semplicemente una ricerca di ordine, di pulizia anche nei paramenti nell’era della globalizzazione mediatica. Benedetto XVI guarda anche a questi particolari, attento a non ingenerare confusioni, a non annacquare soprattutto il mistero o la celebrazione dei sacramenti nel tritatutto delle immagini. Ma è sulla liturgia che l’attenzione papale è del tutto particolare. Bastava seguire, appena poche ore prima, il solenne rito della messa della notte di Natale per rendersene conto. La “Kalenda” al termine della veglia e prima della liturgia; i lunghi silenzi; l’inginocchiatoio per i fedeli che facevano la comunione; il crocifisso al centro dell’altare e dei candelieri, belli ma forse ingombranti per la ripresa televisiva. E le modifiche non si fermeranno qui. In questa partita sottile ha al suo fianco un monsignore giovane (43 anni) e “sottile” come Guido Marini, laureato in diritto canonico. Da quattordici mesi è il maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie. Ha sostituito il vescovo Piero Marini, per anni al fianco di Giovanni Paolo II. Sacerdote genovese schivo, un po’ timido, ma con le idee chiare e distinte. Un uomo pio, dolce e con un sorriso disarmante che te lo rendono immediatamente simpatico. Questa e una delle sue prime, rare interviste.

- Monsignor Guido Marini, chi sono stati i suoi maestri?

- «Quando sono entrato in seminario era arcivescovo il cardinale Giuseppe Siri. Sono stato ordinato sacerdote dal cardinale Canestri. Sette anni come segretario di Canestri e sette col Cardinale Dionigi Tettamanzi. Il cardinale Tarcisio Bertone mi ha nominato responsabile dell’ufficio scuola dell’arcidiocesi, direttore spirituale in seminario dove insegnavo diritto canonico. Poi cancelliere della curia e prefetto responsabile della cattedrale. Col cardinale Tettamanzi ho iniziato i primi passi come cerimoniere».

- “Liturgia culmine della vita della Chiesa, tempo e luogo di rapporto profondo con Dio” come dice Benedetto XVI. Da dove le è venuto questo amore per la liturgia?

- «È stato un amore giovanile nel senso che la mia vocazione ha le sue radici nella liturgia; l’amore per il Signore è stato anche l’amore per la liturgia come luogo d’incontro col Signore. A Genova poi c’è sempre stato un importante movimento liturgico».

- Suppongo che sia stato il cardinale Tarcisio Bertone, divenuto Segretario di Stato della Santa Sede a proporre il suo nome al Papa.

- «Si’, la proposta mi è arrivata tramite il cardinale Bertone. “Il Papa - mi ha spiegato – sta pensando al tuo nome”».

- Col Papa bavarese, stiamo assistendo ad una operazione di restyling liturgico o a qualcosa di più profondo ?

- «È qualcosa di più profondo nella linea della continuità, non della rottura. C’è uno sviluppo nel rispetto della tradizione».

- Da quando è arrivato lei i cambiamenti o le correzioni ci sono stati. Alcuni impercettibili, altri più vistosi.

- «Il cambiamento è diversificato. Uno è stata la collocazione del crocifisso al centro dell’altare per indicare che il celebrante e l’assemblea dei fedeli non si guardano, ma insieme guardano verso il Signore che è il centro della loro preghiera. L’altro aspetto è la comunione data in ginocchio dal Santo Padre e distribuita in bocca. Ciò per mettere in evidenza la dimensione del mistero, la presenza viva di Gesù nella Santissima Eucarestia. Anche l’atteggiamento, la postura sono importanti perché aiutano l’adorazione e la devozione dei fedeli».

- Papa Benedetto e’ il primo Papa che non nel suo stemma la tiara. Ha cambiato il pallio del suo inizio di mistero apostolico ed ha abbandonato il caratteristico pastorale, dell’artista Scorzelli, donato dai milanesi a Paolo VI. Quel pastorale a forma di croce fu usato anche da Papa Luciani e da Giovanni Paolo II. Papa Ratzinger ha scelto una ferula. Una semplice croce.

- «Come dice lei, il pastorale papale è la ferula, la croce senza il crocifisso, dando a questa un uso più consueto e abituale e non soltanto straordinario. Accanto a tale considerazione si è imposta una questione pratica: un pastorale più leggero e lo abbiamo trovato nella sacrestia papale».

- Abbiamo già accennato all’introduzione del silenzio nella messa. A Roma, al centro della cristianità le liturgie appaiono nella loro splendida solennità. E la lingua di Cicerone, il latino, svetta su tutte. Poi si pensa ad anticipare il segno della pace e ad un saluto finale diverso da parte del celebrante. La direzione è quella di recuperare in pieno il carattere non arbitrario del culto. La creatività e spontaneità come una minaccia.

- «Non sarei così drastico e non mi piace neppure l’espressione, usata da qualcuno, di “bonifica liturgica”. È uno sviluppo che valorizza ulteriormente ciò che ha fatto egregiamente e per tanti anni, come maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, il miocaro predecessore, il vescovo Piero Marini. Le questioni da lei sollevate circa lo spostamento del segno della pace o altro non competono al mio ufficio bensì alla Congregazione per il Culto Divino e al nuovo prefetto, il cardinale Antonio Canizares. Io ho il compito diimpegnarmi a realizzare in modo esemplare l’unità e la cattolicità di tutti coloro che partecipano alla celebrazione della Santa Messa papale».

- Quando vedremo Papa Benedetto celebrare la messa in latino secondo il rito romano straordinario? Il “motu proprio “ io, personalmente, l’ho interpretato come un atto di liberalità, di apertura, non di chiusura.

- «Non lo so. Molti fedeli si sono avvalsi di questa possibilità. Deciderà il Papa, se lo crederà opportuno».

- Nella “Esortazione Apostolica” post-sinodale sulla liturgia, Joseph Ratzinger si è soffermato su tanti aspetti. Ha persino proposto che le chiese siano rivolte verso oriente, verso la città Santa di Gerusalemme. Lui, un anno fa, ha celebrato messa nella Cappella Sistina con le spalle rivolte al popolo. Chi glielo ha proposto?

- «Gliel’ho proposto io. La Cappella Sistina è uno scrigno di tesori. Sembrava inopportuno alterarne la bellezza costruendo un palco artificiale, posticcio. Nel rito ordinario, questo celebrare “con le spalle rivolte al popolo”, è una modalità prevista. Però sottolineo: non si voltano le spalle ai fedeli, bensì celebrante e fedeli sono rivolti verso l’unico punto che conta che è il crocifisso».

- “Il Papa veste Cristo non Prada” si è letto addirittura su “L’Osservatore Romano”. Il look di Benedetto XVI colpisce e intriga. Paramenti, mitre, croci pettorali, cattedre su cui siede, mozzette e stole. Siamo di fronte ad un Papa elegante. È una invenzione giornalistica?

- «Già dire “elegante”, nel linguaggio di oggi, sembrerebbe significare un Papa che ama aspetti esteriori, mondani. Un occhio attento avverte che c’è una ricerca che sposa tradizione e modernità. Non è la logica di un improponibile ritorno al passato ma è un riequilibrio fra passato e presente. È la ricerca, se vuole, della bellezza e dell’armonia, che sono rivelazione del mistero di Dio».

- Cosa vedremo in Camerun e in Angola? Le liturgie africane sono pittoresche, popolari, dove c’è una totalità che si esprime anche con la danza, i tamburi. Lei sarà messo alla prova…

- (Ride). «Solo adesso stiamo preparando il viaggio. Cercheremo di mettere insieme ciò che vale per tutti con le tradizioni locali. Con la sua sola presenza il Papa richiama la Chiesa, una, santa, cattolica. Troveremo la sintesi fra ciò che unisce la Chiesa sul rito romano e aspetti tipici, sensibilità culturali. Inculturazione della fede e della liturgia e dimensione universale».

- La liturgia è un sedimentato, un patrimonio millenario. Il messale è intessuto di citazioni dalla Bibbia ai Padri della Chiesa dell’Oriente e dell’Occidente. Salmi responsoriali, orazioni o collette, il sacramentario che è la parte centrale della messa. È un patrimonio intoccabile. Ogni volta che c’è una celebrazione lei si consulta col Papa? Che tipo di comunicazione c’è?

- «Molto semplice. Il Papa viene interpellato nelle cose rilevanti e prima di una celebrazione ha tutti i testi. Di solito, gli inviamo delle note scritte e lui risponde per iscritto, di suo pugno».

- Lei sta facendo un’esperienza forte e straordinaria. Episodi che l’hanno toccata?

- «Sì, è una esperienza forte. Mi ha colpito il viaggio del Papa negli Stati Uniti. Essendo il mio primo viaggio internazionale col Santo Padre c’era il sapore della novità. Un viaggio emozionante per l’affetto e il calore, per il clima spirituale. E mi ha colpito la consegna del pallio, in giugno, ai metropoliti. Un metropolita si è rivolto così al Papa in ginocchio: “Padre Santo, vengo da una diocesi in cui il mio predecessore ha patito il martirio per la fede. Preghi per me perché anch’io possa essere un martire”. Ho capito ancora di più cosa significa essere Chiesa».

- C’è grande sintonia, feeling fra lei e il Papa?

- «Da parte mia è assoluta».

- Come definirebbe Papa Benedetto XVI, lei che ha fortuna di stargli accanto?

- «Unisce ad una eccezionale levatura intellettuale una grandissima semplicità e dolcezza. È un tratto caratteristico della sua figura spirituale e umana. È una realtà che verifico e tocco con mano. Il fatto di essere vicino al Papa, a questo Papa, è una grande grazia per il mio sacerdozio».






 

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