Nova et Vetera Tradizione e progresso dopo il Concilio: la crisi nella Chiesa

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Caterina63
00lunedì 31 agosto 2009 21:59
Tenendo a mente questo Thread:

CONCILIO ED ANTI-CONCILIO: le false interpretazioni

Inseriremo qui a "piccole" dosi e dunque non integralmente, un libro davvero stupendo sul quale riflettere l'attuale NOSTRA posizione nella Chiesa, dalla quale deriva poi la situazione attuale della Chiesa....

Il Libro è scaricabile dal sito amico:
www.totustuus.net qui occorre registrarsi per accedere alla pagina: LIBRI DA SCARICARE, una volta dentro andate nella sezione Pastorale e troverete il testo integralmente e molti altri....

Buona meditazione....

LUIGI MARIA CARLI (1914-1986)
GIA' VESCOVO DI SEGNI E DI GAETA

NOVA ET VETERA. TRADIZIONE E PROGRESSO NELLA CHIESA DOPO IL VATICANO II

ISTITUTO EDITORIALE DEL MEDITERRANEO, 1969

(..)
Per dirla subito e in breve, è mio convincimento che nella Chiesa cattolica si stia attraversando una crisi gravissima, sul cui esito, ove non intervengano fatti nuovi, non oso azzardare alcuna previsione. D’altronde, in un campo come questo, dove giuocano in maniera del tutto eccezionale i liberi interventi di Dio e degli uomini, non si dimostrerebbero fallaci tutte le leggi della previsione umana? Nemmeno l’esperienza della storia bimillenaria della Chiesa potrebb’essere sicuramente indicativa, perché la Chiesa non è uscita alla stessa maniera né in uguale spazio di tempo dalla crisi gnostica, dalla crisi ariana, dalla crisi delle investiture, dalla crisi protestante, dalla crisi modernista.
L’attuale è una crisi ben più grave di quella modernista; assieme a molti altri, ne sono persuaso. Che sia più grave ancora di quella protestante, sono in molti, e molto dotti, a pensarlo.

Intendiamoci bene. Non mi difetta, grazie a Dio, il fondamentale ottimismo di chi crede nella divina origine e costituzione della Chiesa cattolica, nella permanente assistenza dello Spirito Santo, nella promessa di Gesù che chiama a fiducia il drappello dei suoi primi apostoli: “Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate fiducia, io ho vinto il mondo” (Giov. 16, 33), e assicura che “le potenze dell’inferno non prevarranno sulla sua Chiesa” (Mt. 16, 18).
Sono anch’io figlio della speranza cristiana. Tengo per indubitato che soltanto a Dio spetta l’ultima parola, la parola della vittoria. Ma, quando vorrà Egli dirla, dopo quante e quali prove, e forse battaglie perdute, io non so. “Il Padre ha riserbato al suo potere i tempi e i momenti decisivi” (Atti 1,7).

La mia fede e la mia speranza non mi autorizzano a scartare a priori l’ipotesi che la Chiesa, indefettibile per garanzia di Gesù, possa conoscere anche nell’epoca attuale giorni di grandi tribolazioni, apostasie vaste e clamorose, smarrimenti di pastori, lagrimevoli perdite di anime. Il cuore potrà suggerirmi il desiderio che Dio risparmi alla sua Chiesa una tale iattura; ma il freddo raziocinio non me ne dà, oggi come oggi, alcuna certezza.
Certo, la Chiesa possiede tante e tali risorse interiori che di qualsiasi epoca, anche la più triste, può fare una primavera pentecostale. Ma nei suoi membri umani essa ha, purtroppo, tanta fallibilità da poter vederle tutte neutralizzate, quelle risorse, e la grazia stessa di un Concilio risolversi praticamente in un fallimento, per non dire occasione di rovina per moltissimi.

Preferisco dire crisi nella Chiesa, anziché crisi della Chiesa. Già S. Ambrogio precisava che “non in se stessa, ma in noi, è ferita la Chiesa; badiamo, dunque, che il nostro fallo non diventi lacerazione della Chiesa” (2). La Chiesa, dunque, santa Sposa di Cristo, rimane danneggiata dalle colpe dei suoi stessi figli. È una eventualità verificabile in ogni tempo, anche in quello post-conciliare. Sarebbe, pertanto, una sottile forma di trionfalismo volere, a tutti i costi, attribuire alla situazione particolare della Chiesa uscita dal Vaticano II ciò che le è stato divinamente garantito solo in prospettiva globale ed escatologica.
Crisi gravi, anzi gravissime, la Chiesa ha conosciuto anche in altre epoche della sua storia, anche dopo altri Concili. Ha superato quelle; supererà anche questa, non v’è alcun dubbio. Ma è sul prezzo che essa dovrà pagare per tale superamento che qui ci si interroga con trepidazione. In altre parole: io non mi domando, come ha fatto qualcuno che non aveva più la fede, se la Chiesa avrà un domani, ma quale sarà il domani della Chiesa dopo il passaggio dell’attuale ciclone.

Dico francamente che mi stupisce assai la sicurezza, quasi aprioristica, con cui da molti si qualifica l’attuale soltanto come “crisi di crescenza”, “esuberanza di vitalità” della Chiesa, preventivata dopo ogni Concilio, anzi necessaria e provvidenziale, comunque di breve durata. Tale sicurezza, a mio avviso, è pericolosa anche perché, se di null’altro si tratta che di crescenza, viene spontaneo il concluderne: fenomeno normale, s’aggiusta da sé, non preoccupiamocene troppo!

Temo che si dia corpo ai propri lodevoli desideri. Sinceramente, bramerei anch’io che l’attuale crisi fosse per tutta la cattolicità il crogiuolo temporaneo attraverso cui la vita di fede e di grazia si faccia più pura, più ricca, più personale. Ma chi o che cosa mi autorizza a scartare il dubbio che quell’opinione, pur largamente condivisa, possa risultare un tragico tranquillante? Che non già la fede e la grazia siano in crescita, non già l’impegno morale della sequela di Cristo si vada estendendo ed affinando, ma, piuttosto, siano in fase di crescita galoppante il razionalismo e il naturalismo, che svuotano di contenuto religioso e fede e morale, e la contestazione teorica e pratica dell’autorità sacra, che mina dalle fondamenta l’edificio della Chiesa?

Si ripete spesso, con l’aria. quasi di chi alza la voce per farsi coraggio: “Non sono più i tempi degli scismi! Roba del passato!”. Fosse vero. Ma perché mai gli scismi non sarebbero oggi più possibili? Dove sta scritto? Chi l’ha decretato? E non dimentichiamo che, ancorché non più dichiarati formalmente, come un tempo, mediante la pubblica affissione di tesi ereticali da una parte e bolle di scomunica dall’altra, gli scismi più insidiosi e deleteri rimangono quelli negati a parole ma esistenti nei fatti. La conclamata volontà di certi novatori di “andare avanti restando nella Chiesa” potrebbe anche significare il deliberato proposito di giuocare allo svuotamento del cristianesimo dal di dentro, di “portare l’infedeltà nel cuore stesso della Chiesa”. Costoro potrebbero rimanere dentro le strutture, perché gli riesca più facile “non solamente interpretare la realtà della Chiesa, ma cambiarla, alla luce del vangelo di Gesù Cristo”. Questo fenomeno — riconosciamolo pure, con sincerità — non avveniva dopo i Concili del passato, quando i contestatori del magistero ecclesiastico se ne separavano apertamente. Così, almeno, la nettezza delle posizioni assicurava la purezza della fede dei cattolici!

Trovo scritto che lo sbalordimento prodotto dai fenomeni che avvengono oggi nella Chiesa “non arriverà certo al vertice parossistico quale lo vide S. Girolamo, quando nel 350, dopo furiosi dibattiti politico-conciliari, rivelò che il mondo intero, addolorato, era stupito di ritrovarsi ariano”. Non arriverà certo... Ma donde tanta certezza? Perché non potrebbe accadere, poniamo tra qualche decennio, che un secondo S. Girolamo fosse costretto a riconoscere, gemendo, che l’intera cristianità non si ritrova più cristiana?
L’espressione “crisi di crescenza” merita di essere considerata più da vicino. Essa deriva dal linguaggio della fisiologia degli organismi materiali, soggetti a leggi necessarie. Una pianta, un animale, un corpo urbano, per il fatto stesso che vivono, bene o male sono in crescita (una crescita, ovviamente, necessaria), fino al termine del periodo del loro naturale accrescimento, diverso da specie a specie. Questa crescita può essere accompagnata da fenomeni morbosi collaterali, prodotti dallo stesso sviluppo ma tali da non bloccarlo. In altre parole: gli organismi materiali si sviluppano nonostante le loro “crisi di crescenza”.

Ma una simile espressione non potrebbe applicarsi senza molte riserve ad un organismo soprannaturale come la Chiesa. Corpo mistico di Cristo, essa è, per vocazione essenziale, sempre chiamata a crescere “nella grazia e nella conoscenza del Signore nostro e Salvatore Gesù Cristo” (2 Pt., 3, 18). Ma trattandosi di una crescita libera e volontaria, possono darsi periodi di stasi o anche di regresso. Se fosse vero che la crisi attuale nella Chiesa è una crisi di crescenza, bisognerebbe concludere che lo stato di crisi è il suo stato normale, chiamata com’essa è a crescere sempre, senza alcun limite e senza soluzione di continuità! Viceversa, per la Chiesa le crisi consistono proprio nella mancata sua crescita. Or dunque, i fenomeni aberranti che oggi si lamentano, lungi dall’essere il segno o l’effetto della sua crescita, costituiscono piuttosto il bloccaggio del suo sviluppo, perché la crescita soprannaturale non può produrre morbilità.


“Dal frutto si conosce l’albero” (Mt. 12, 33), ha detto Gesù. Diagnostichiamo, dunque, la natura della crisi dai frutti che essa produce. Illudersi ancora sulla sua natura è, a mio avviso, uno dei sintomi più allarmanti della sua gravità.
Siamo avvertiti, pertanto, che crescita o regresso, progresso o involuzione si stabiliscono per la Chiesa in base a criteri completamente diversi da quelli delle società umane. Il parametro della sua crescita o della sua crisi è unicamente quello soprannaturale: cioè, la crescita o la crisi della fede, della speranza e della carità.
Se oggi esiste crescita nella Chiesa — ed esiste, grazie al Cielo — si trova proprio in quella porzione della Chiesa che non provoca la crisi, non partecipa alla crisi, supera la crisi altrui. L’altra porzione, quella in crisi, non produce crescita ma regresso! Altro che dire, dunque, con tanta stampa cattolica timorosa di apparire retrograda e integrista: “la crisi è segno di vitalità”; “è meglio la contestazione che l’immobilismo”; “se ci si interessa tanto delle cose di Chiesa, è segno che la Chiesa è in crescita”; “vive sono le comunità ecclesiali dove ci si ribella anche al proprio vescovo, morte le altre dove non succede niente”! Simili ragionamenti sono di pretta marca naturalistica.

Comunque una cosa è certa, e degna della massima riflessione. In termini ben diversi da quelli degli ottimisti ad oltranza, sulla crisi che travaglia il mondo cattolico, si esprime ormai da anni, quasi ogni settimana, il santo Padre Paolo VI. Egli si dimostra pienamente fiducioso in Dio ma, al tempo stesso, angosciato per i non pochi e non piccoli sintomi di un turbine di idee e di fatti, quale nessuno avrebbe immaginato potesse scatenarsi dopo il Concilio: sintomi che egli nettamente individua e descrive, sia pure con la carità che si astiene dall’indicare per nome le persone dei responsabili.

Leggerlo in quel suo ragionare sempre calibrato e suggestivo, coglierne anche solo l’inflessione della voce che fonde insieme il calore della cordiale partecipazione e la precisione di un intelletto educato alla lucidità dei concetti, e poi sapere l’accoglienza che riceve in molte parti il suo grido di allarme, viene spontaneo il ricorso ad una situazione analoga, verificatasi nella primitiva chiesa di Gerusalemme. Tra il 60 e il 70 d.C. — dicono gli esegeti — quella comunità cristiana, provata da molestie da parte dei vecchi correligionari, quasi vergognosa della propria umile condizione a confronto dello splendore del culto giudaico tuttora imperante, dovette provare la stanchezza del sentirsi cristiana in un mondo aperto a tutt’altri valori che i suoi, refrattario al messaggio di Cristo. Fu allora che l’autore ispirato della Lettera agli Ebrei rincuorò quei cristiani tentati, descrivendo la superiorità del sacerdozio di Cristo, e li esortò a non vergognarsi dell’obbrobrio della Croce del Signore. E chiuse con un monito che non è irriverente ripetere ai cattolici di oggi, non meno tentati di stanchezza di quelli gerosolimitani, a proposito della rispettosa sottomissione dovuta al loro supremo Pastore: “Ubbidite alle vostre guide e siate sottomessi; giacché esse vegliano per le anime vostre come coloro che hanno da renderne conto; affinché questo compiano con gioia, e non gemendo: ché ciò non sarebbe espediente per voi” (Ebr. 13, 17).

Ma tra i “segni dei tempi” registriamo ancor questo, con stupore e dolore: il nessun conto che fanno molti cattolici, chierici e laici, della parola del Papa, quando non la coprono d’irriverente sarcasmo o non ne fanno segno di contraddizione!
E non è privo di interesse notare come, in questi ultimi tempi, abbiano cambiato di tono anche taluni ottimisti di fama mondiale, unendosi a Paolo VI nel dare l’allarme su quella che non hanno temuto di chiamare “apostasia immanente”. Peccato che quelle brave persone non si siano domandato, con pari lealtà, quanta parte abbiano avuto i loro scritti di prima nella semina del vento, da cui stiamo raccogliendo questo po’ po’ di tempesta!

Lo so bene che, oggi, tanto è di moda adottare l’ottimismo ad oltranza, quanto impopolare accettare il rischio di passare per disfattisti atrabiliari. Non si fa in tempo ad aprire bocca per esprimere timore e dolore che ve la chiudono subito con un rimando alla santa memoria di Papa Giovanni. “A noi sembra — disse egli un giorno — di dover dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi che incombesse la fine del mondo”. Ma il Servo di Dio parlava così l’11 ottobre 1962, in apertura del Concilio Ecumenico, non già nel 1969! E, quel che più conta benché non lo si voglia affatto precisare, egli si riferiva alla situazione esterna alla Chiesa, mai e poi mai immaginando quale turbine si sarebbe scatenato, all’indomani stesso della chiusura del Concilio, proprio nell’interno della Chiesa.

Un turbine di dottrine ereticali e di fatti aberranti!
Il patrimonio della bimillenaria tradizione ecclesiastica ripudiato quasi tutto; contestato da molti il magistero del Romano Pontefice e dei vescovi; violata sfacciatamente la legge del celibato sacerdotale, e chiesta a gran voce la sua abolizione, ma senza la cessazione dei soggetti dal ministero; legittimate, applaudite e favorite le fughe più clamorose (monsignori, superiori religiosi, teologi, ex-periti conciliari, ecc.) dagli impegni giurati del sacerdozio e della vita religiosa, e perfino dal cattolicesimo stesso; le sacre vocazioni in disistima e quindi in notevole calo; i seminari e gli studentati religiosi ridotti di numero e di frequenza; reclamata una teologia con meno dogmi e una morale senza troppi obblighi! Tutto questo, ed altro ancora, esulava certo finanche dall’immaginazione di quell’Anima grande e santa.

Non era questo il “balzo in avanti” che Giovanni XXIII sognava di far compiere alla Chiesa. Non una crisi quale quella che stiamo soffrendo oggi era la ripulitura che egli intendeva apportare al volto, forse un po’ sfiorito ma sempre sostanzialmente fedele, della Sposa di Cristo. Per lui, come per Paolo VI e per quant’altri intendono rimanere fedeli alla Chiesa, la vera riforma non può significare se non crescita della fede, della speranza, della carità; culto dell’umiltà, dell’ubbidienza, della preghiera; più amore alla Ss. Eucaristia, alla Madonna, al Papa; maggiore slancio missionario ed apostolico; pratica della disciplina ascetica. In una parola, il progresso legittimo e vero consiste in una più seria e costante imitazione di Gesù Crocifisso. Se non si cresce qui, è vano cianciare di vitalità o crescenza della Chiesa!

La crisi attuale è gravissima proprio perché all’inizio e al fondo di essa esiste una crisi di fede. Ecco perché tutte quelle verità, tutte quelle scelte, tutti quei valori che poggiano sulla fede vengono contestati. È scossa alle radici la fede negli “invisibilia Dei” perché gli animi si sono lasciati sedurre dai comodi e tangibili “visibilia mundi”, dai portenti della scienza e della tecnica. Anche la crisi protestante fu crisi di fede e rifiuto dell’autorità di Roma. Ma mentre quella respingeva la fede “cattolica” per ritrovare una sua fede “evangelica”, mentre coonestava la propria disubbidienza con la vita poco edificante della gerarchia ecclesiastica, la crisi d’oggi respinge la fede in se stessa, e contesta il fondamento di principio di ogni autorità, anche se esercitata dalle persone più sante.

Oggi non può dirsi in crescita la fede oggettiva, quando non esiste articolo del Credo che non si tenti di “reinterpretare”, “ridimensionare”, “ridurre a misura d’uomo”: in parole povere, svuotare di ogni contenuto e così espungere dall’oggetto della fede cattolica. Non può dirsi in crescita la fede soggettiva, quando questa totale adesione al Dio che si è rivelato, e la certezza intellettuale che ne consegue, vengono scosse nella loro fondamentale motivazione, sottoposte al logorio del dubbio sistematico, turbate o, quanto meno, rese più difficili proprio da coloro che quella adesione e quella certezza avrebbero la missione di difendere, giustificare, rafforzare.


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continueranno altri passi significativi.....






Caterina63
00lunedì 31 agosto 2009 22:12
È diventato uno slogan fin troppo frusto il richiamo al biblico saper leggere “i segni dei tempi”, nel senso di saper scoprire negli eventi della storia dell’uomo il valore di una realtà recondita. Tutti oggi pretendono di saperlo fare, e moltissimi lo fanno a senso unico. Ma per nessuna persona seria è questa un’operazione facile e sicura, perché “i segni dei tempi” sono assai spesso oscuri e polivalenti.

Gesù ammoniva che non tutti i segni metereologici annunziano bel tempo. Esistono anche quelli che annunziano tempesta: “Quando si fa sera voi dite: Vi è bel tempo, perché il cielo è rosso; e di mattina: Oggi tempesta, perché il cielo è rosso e sconvolto” (Mt. 16, 2). E, dunque, una teologia dei “segni dei tempi” che non tenesse conto anche di questi ultimi sarebbe viziata in partenza, perché unilaterale. La decisività “del tempo presente” (Lc. 12, 56), cioè dell’offerta del Regno di Dio fatta da Cristo, non consiste solo nel fatto consolante che l’uomo può accettarla, ma anche nel fatto desolante che l’uomo può rifiutarla. È una decisività che si ripropone ogni momento, durante tutto l’arco dell’éschaton messianico. Si ripropone oggi, così come quando S. Paolo preavvertiva il discepolo Timoteo: “Proclama la parola, insisti in ogni occasione, opportuna e importuna; convinci, riprendi, esorta con ogni longanimità e dottrina. Vi sarà infatti un tempo in cui non sopporteranno la sana dottrina, ma, secondo le loro proprie voglie, si sovraccaricheranno di maestri, per prurito d’udire, e storneranno l’udito dalla verità, e lo rivolgeranno ai miti” (2 Tim. 4, 2-4).

Leggere insieme e gli uni e gli altri “segni dei tempi” è saggezza, è sano realismo. Meglio ancora, è un dovere impreteribile della Chiesa perché sia gli uni sia gli altri portano significazione certissima di un qualche volere divino, ed esigono consentanei atteggiamenti.Nei “segni” positivi si deve scoprire una positiva volontà di Dio che chiama la sua Chiesa ad assecondarli docilmente, ad attuarli generosamente, perché essi portano al bene. Nei “segni” negativi, invece, si deve scoprire una volontà divina soltanto permissiva. Si tratta, infatti, di mali che Dio permette, dai quali anzi Egli è capace di ricavare perfino un gran bene, ma, ciononostante, rimangono sempre degli autentici mali. La Chiesa, che è chiamata alla santità, per quanto sta in lei deve evitarli, contrastarli coraggiosamente e ridurne almeno le dannose conseguenze, perché è questa la positiva volontà di Dio: non è lecito fare il male perché ne venga il bene (cfr. Rom. 3, 8). Nonostante la denominazione di “segno dei tempi”, un male rimane male; un pericolo rimane pericolo; una tempesta, tempesta: cioè, occasione di possibili rovine.

Non ripugna né alla bontà né alla giustizia di Dio permettere per la sua Chiesa, che pur ama, epoche difficili, insuccessi, perdite anche gravi. Negli imperscrutabili disegni della sua Provvidenza, potrebbe permettere tutto ciò come stimolo esteriore alla purificazione e all’approfondimento della fede, come occasione di ricerca di soluzioni a reali difficoltà, come strumento per risvegliare nel suo popolo l’umiltà, per fargli toccare con mano la verità del “senza di me non potete fare nulla” (Giov. 15, 5), per abbattere quel fondamentale trionfalismo che si chiama orgoglio; strappargli più sincero il grido di implorazione: “Signore, salvaci, andiamo a fondo!” (Mt. 8, 25); buttare all’aria la presuntuosità dei nostri metodi, delle nostre organizzazioni, dei nostri aggiornamenti; infine, per richiamarci drasticamente al porro unum, cioè alla coscienza viva della sua infinita trascendenza e assolutezza, e della nostra assoluta dipendenza da Lui. Ma resta il fatto che una simile volontà permissiva di Dio è sempre, in se stessa, una grande tentazione per la nostra fragilità di uomini, ancorché Egli si sia impegnato a non lasciarci mancare il suo aiuto per superarla.

Senza dubbio, oggi esistono “segni” positivi per ritenere che, nonostante tutto, viviamo in un tempo di Spirito Santo. Il Concilio celebrato e in fase di attuazione ne è uno dei più rilevanti. Mediante il Concilio Dio chiama i cristiani anzitutto alla riforma interiore, a quella “metànoia” che è condizione impreteribile dell’avvento del suo Regno. È quanto mai attuale il programma tracciato da S. Paolo: “rinnovellatevi nello spirito della vostra mente e rivestitevi dell’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità” (Ef. 4, 23-24).Più intensa vita di grazia, purificazione e approfondimento della fede, maggiore interiorizzazione del culto, carità verso il prossimo vicino e lontano, amore alla Croce, spirito di sacrificio, ubbidienza non solo al Dio invisibile ma anche ai suoi rappresentanti visibili, santità dei costumi morali: ecco le linee essenziali del genuino aggiornamento promesso e promosso dal Concilio, ecco i segni inequivocabili della vera crescita della Chiesa. Su queste linee l’impegno, l’entusiasmo, l’attesa dei cristiani non saranno mai troppi.

Provvidenzialmente il Concilio ha aperto nuove condizioni favorevoli alla diffusione del Regno di Dio. Infatti, mai come oggi le possibilità ecumeniche sono state serie e promettenti. Anche se il traguardo dell’unione dei cristiani non si è ancora dottrinalmente avvicinato di molto, però tanti e tanto inveterati ostacoli psicologici stanno rimuovendosi da entrambe le parti. Il diffuso sincero desiderio dell’unione non può che venire da Dio, se porta a cercarla nell’unica vera Chiesa del suo Figlio.

Anche i rapporti con le religioni non cristiane sono psicologicamente migliorati ad opera del Concilio.Perfino il mondo profano, benché dominato per tanta parte dal laicismo e dal materialismo ateo, guarda tuttavia con attenzione insolita, talvolta con rispetto, al cattolicesimo. La voce della Chiesa sui maggiori problemi di attualità è ascoltata con interesse, anche se non sempre accettata. Anche il mondo della tecnica, a detta degli spiriti più aperti, con quel suo inconfessato bisogno di ricevere un’anima, proprio per sfuggire al timore dell’autodistruzione, offre al cattolicesimo una magnifica occasione di presenza operante. Oggi, assai più di ieri, si discutono a largo raggio — e non solo tra gli “addetti ai lavori” — i problemi della religione in genere e della Chiesa in particolare, sebbene certi modi di discussione non possano non destare preoccupazioni. Resta, comunque, che l’evento conciliare ha smussato pregiudizi, ha aperto nuove possibilità di colloqui che la grazia di Dio è capace di rendere, quando lo voglia, salvifici.
Nel mondo attuale meritano di essere ricordati anche altri elementi positivi che potremmo chiamare, in certo qual modo, i remoti battistrada del Regno di Dio. Per esempio: una più acuta consapevolezza della dignità e libertà della persona umana, un maggior rispetto della coscienza individuale, un più vivido senso della dimensione comunitaria a tutti i livelli. Specialmente nelle giovani generazioni, al di là di forme di contestazione incomposte e pertanto inaccettabili, è pur doveroso avvertire come “segni “positivi dei tempi nuovi una sofferta esigenza di autenticità, di sincerità, di giustizia, di ideali per cui valga la pena di vivere e di operare; un’ansia di essenzialità, con rifiuto di ogni artificio e orpello; il prevalere della ragione sul sentimento, della funzionalità sul mero estetismo. Ugualmente positiva è da dirsi la nuova sottolineatura secondo cui, nelle società di vario tipo, si concepisce e si esercita da una parte l’autorità come servizio, e dall’altra l’ubbidienza come assunzione di responsabilità.

Eppure, se non ci si lascia far velo dall’ottimismo ad oltranza, è giocoforza ammettere per chiari segni che questo tempo di postconcilio è, per la Chiesa cattolica, anche il tempo del “simius Dei”, come Tertulliano chiamava Satana. Almeno per chi ci crede ancora all’esistenza e all’attività di questo avversario numero uno di Dio e dell’uomo! Come Dio è verità (cfr. Giov. 14, 6), così Satana è il padre della menzogna (cfr. Giov. 8, 45). Il suo mestiere è quello di far apparire bene il male e male il bene, luce le tenebre e tenebre la luce; e tanto più efficacemente egli lavorerà, quanto più facilmente persuaderà gli uomini della sua stessa... inesistenza (Beaudelaire)! Fate del diavolo un mito (e tanti chierici moderni stanno facendolo!) e vi rimarrà enigma insolubile l’attuale trovarsi della Chiesa “in un’ora di inquietudine, di autocritica, si direbbe perfino di autodemolizione... che nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio” (Paolo VI).

Un tale cataclisma non può essere, evidentemente, da Dio. Un Concilio non può essere, di per sé, che seminagione di bene. E allora, alla domanda trepidante: “Signore, non hai seminato buon seme nel tuo campo? Da che cosa proviene dunque la zizzania?” non si trova altra risposta plausibile che quella data nella parabola del Regno: “Un nemico ha fatto ciò [...] il nemico che l’ha seminata è il diavolo” (Mt. 13, 27.39).

Satana tentò Gesù nel deserto non tanto circa le tre concupiscenze classiche della natura umana, quanto piuttosto circa il contenuto del suo messianismo. Anche la Chiesa, corpo mistico di Cristo, è oggi alla sua tentazione decisiva: conservare o stravolgere il contenuto della sua natura e della sua missione nel mondo? Gesù, tentato, vinse per sé e vinse anche per la sua Chiesa: nel senso, non già di risparmiarle la grande prova, ma di indicarle e meritarle i mezzi per superarla! Ci si consola, talvolta, osservando che non è soltanto la Chiesa cattolica ad attraversare una crisi. Anche le altre Chiese cristiane separate da Roma non sono da meno. Anzi, è tutta l’umanità che versa nel travaglio, trascinata nel vortice di profonde e repentine trasformazioni.
Innegabilmente, anche per “la città dell’uomo” i “segni dei tempi” oggi si presentano ambivalenti: indicano insieme sereno e tempesta. Basti qui ricordare qualcuna di quelle coesistenti antinomie, tensioni e squilibri di cui ha parlato magistralmente la Costituzione conciliare Gaudium et spes, nn. 4-10: progresso scientifico e tecnico spettacolare, accanto ad un regresso non meno spettacolare del senso religioso e morale; elevazione vertiginosa del tenore di vita di taluni paesi o di talune classi sociali, accanto alla miseria economica e all’arretratezza culturale di altri paesi o di altre classi sociali; acuita coscienza della dignità e libertà della persona umana, accanto a forme vecchie e nuove di schiavitù e degradazione; proclamazioni solennissime e universali sulla forza del diritto, accanto all’esercizio incontrastato, sotto etichette di vecchio e di nuovo stampo, del diritto della forza.

Certi aspetti della sua crisi “la città di Dio” li subisce, per contraccolpo, dalla crisi della “città dell’uomo”. È inevitabile. Formata di uomini e non di angeli, la Chiesa che vive e si edifica sulla terra benché abbia origine e destinazione celeste, sarebbe un inutile miracolo se non risentisse l’influsso dell’ambiente terrestre. Può darsi, invece, che certi altri aspetti della crisi della “città dell’uomo” risentano della crisi della “città di Dio” : sarà compito della storiografia accertarlo.

Comunque, tutto ciò non è sufficiente per dare la spiegazione fondamentale della natura e dell’ampiezza della crisi nella Chiesa. La sua caratteristica non sta tanto nel fatto che essa sia esplosa dall’interno della Chiesa (è quasi sempre avvenuto così, come documenta la storia delle eresie), sia pur facilitata dall’ambiente esterno di una società in fase di galoppante desacralizzazione. Sta, a mio avviso, nel fatto che la crisi è esplosa dopo un Concilio, anzi in nome di un Concilio e strumentalizzando un Concilio!

Ed il tragico è che tale crisi è intervenuta proprio nel periodo in cui le provvidenziali situazioni del dialogo coi fratelli separati, con le religioni non cristiane e col mondo profano avrebbero postulato — com’era, del resto, negli intendimenti di Papa Giovanni — una Chiesa cattolica fervente, sì, di santo attivismo riformatore, ma non squassata da convulsioni febbrili; una Chiesa tutta unita da cima a fondo nella volontà di avanzare sulla via del rinnovamento interiore ed esteriore, risoluta a purificare il proprio volto nella serena e ordinata revisione delle proprie strutture, e non già ribollente di torbidi fermenti, disunita, contestata perfino nelle sue stesse fondamentali ragioni di esistere! I nostri fratelli separati e certi ambienti del mondo profano ne sono, anch’essi, stupiti e addolorati; ma sono legione coloro che ne godono, ne cachinnano di gran gusto!

Una cosa è, purtroppo, certa: a quegli appuntamenti, difficili e non scevri di pericoli da un lato ma promettenti dall’altro, la Chiesa si presenta presa internamente da spirito di vertigine nel ceto sacerdotale e, per riflesso, nel laicato; si presenta in crisi di fede, quando più che mai le sarebbe necessaria la fede per proclamare al mondo che “il Vangelo è potenza di Dio per la salvezza di ogni credente, del Giudeo in primo luogo e del Greco” (Rom. l, 16).

Quella unità che essa domanda ai fratelli separati sul piano della dottrina, e cerca già di realizzare sul piano della reciproca carità, le è venuta meno da parte di tanti suoi figli sul piano della reciproca carità e le è tenacemente insidiata sul piano della dottrina. Quel dialogo di stima e di comprensione che la Chiesa cattolica cerca faticosamente di intavolare con le religioni non cristiane, col mondo profano e perfino coi non credenti, proprio nel suo seno certi suoi figli non riescono ad intavolare tra loro!

Tesa com’è nello sforzo di docilità allo Spirito Santo che la chiama a far meglio risplendere sul proprio volto la luce di Cristo, la Chiesa avrebbe bisogno dell’opera concorde di tutti i suoi figli; avrebbe bisogno di un clima di serenità e ponderazione, perché non è possibile realizzare riforme veramente sagge e utili nell’astiosa divisione degli animi o, peggio, nel tumulto rivoluzionario. Ed invece, come direbbe S. Paolo, “sento che vi sono tra voi scissioni, e in parte ci credo; perché bisogna pure che vi siano tra voi delle divisioni, affinché i genuini cristiani siano tra voi manifesti” (1 Cor. 11, 18)! Nei “membri della stessa famiglia di fede” (Gal. 6, 10) manca troppo spesso la doverosa testimonianza della carità reciproca, anche quando l’unità di fede non venga messa a repentaglio.

E così, a farne le spese è la vitalità interiore della Chiesa e la sua credibilità di fronte all’ambiente esterno.


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continua.....

Caterina63
00lunedì 31 agosto 2009 22:43
Faccio una breve parentesi NON per interrompere questa lettura, ma per valorizzarla annotando, come potrete vedere, che quanto avete letto fino a qui non è il pensiero di una sola persona, nè di un solo Vescovo...parlando di crisi ci fu profeta Chesterton nel suo :
Perchè sono Cattolico, di Chesterton


così come ci aiuta a comprendere la profondità di questa crisi padre Moliniè, Domenicano, in questa sua omelia che vi ripropongo:

Quanto segue è di un Padre Domenicano il quale, durante un incontro con dei giovani sull'obbedienza all'Enciclica di Paolo VI "Humanae Vitae", pone un interrogativo che ha dato origine così anche a questo spazio per noi:


Ho detto all’inizio che non avrei affrontato tutti i problemi. Uno di voi mi ha posto venti domande che, da sole, quasi esauriscono l’argomento: con tali domande potrei abbozzare una vera e propria "quaestio disputata" alla maniera di S. Tommaso, ma esito a farlo nell’ambito di queste lettere. Qualunque sia la vostra legittima curiosità intorno a tutti questi problemi, non dobbiamo perderci nel loro intrico né abbandonare le profondità evangeliche. Infatti la cosa grave che rende i problemi insolubili e li trasforma in impasse, non sono i problemi stessi, che paragonerei alle spine, ma il veleno che queste spine potrebbero contenere.

Cerco di darvi l’antidoto di questo veleno; l’antidoto si trova nelle profondità del Cuore di Cristo.
Chi è liberato dal veleno, diventa capace di sentire e anche di accogliere con gioia le risposte dettagliate, che in queste lettere non fornisco. Anche se restano in lui dei dubbi e dei turbamenti, questo non gli impedisce di andare avanti. Chi, invece, si lascia paralizzare dal veleno dell’arroganza intellettuale, non può più udire né accogliere le vere risposte, anche se gli fossero offerte con la più grande accuratezza.

Bisognerebbe parlare, beninteso, dell’autorità del Papa e della Chiesa in queste materie e forse lo farò, se sento che anche il vostro turbamento è eccessivo in proposito. Ma è proprio in questo campo che il veleno è più subdolo e più inafferrabile. I giansenisti hanno trovato fino alla fine eccellenti ragioni per non accettare l’insegnamento di Roma... e oggi le stesse menti che ripudiano il giuridismo, menzionano un argomento giuridico per ripudiare l’enciclica (riferimento all'Humanae Vitae di Paolo VI).

Confesso di non avere nessuna voglia di rispondere loro. Se qualcuno ha deciso di non accettare un insegnamento ecclesiastico diverso dalle definizioni solenni del Magistero straordinario, perché mai dovrebbe ascoltare me? Ad ogni modo, le mie parole hanno molto meno autorità dell’enciclica (è il minimo che uno possa dire): non potrei accettare che fossero accolte con più fiducia di quelle del Papa. Quanto a coloro che si fidano solo del loro giudizio proprio (anche se ha il sostegno della legione dei teologi e de chierici che non han fiducia anche loro che nel proprio giudizio, con tanta più arroganza quanto più sanno - o credono - di essere la maggioranza), vorrei in primo luogo guarirli da questo veleno e spiegare loro cos’è la fede, prima di dir loro qualcos’altro.

Prima di tutto, è importante sapere se il nostro atteggiamento intimo è cattolico o protestante, perché, se può esserci ecumenismo (ed è molto auspicabile) tra protestanti e cattolici, non può esserci ecumenismo tra l’atteggiamento protestante e l’atteggiamento cattolico.

Il primo consiste essenzialmente nel non accettare altra autorità al di fuori dello Spirito Santo, del giudizio proprio e, sul piano esteriore, della Bibbia; il secondo ammette, invece, l’autorità esteriore della Chiesa allo stesso piano della Rivelazione: quella stessa autorità, ed essa sola, ci assicura che la Bibbia è ispirata.

Bisogna scegliere tra questi due atteggiamenti. Chi, fosse anche un cardinale, discute un’enciclica proprio al momento della sua pubblicazione con il pretesto che non è infallibile..., costui, credo che, in verità, sia lacerato tra l’atteggiamento protestante e l’atteggiamento cattolico: egli cerca di mettere nella sua vita interiore il minimo di cattolicesimo e il massimo di protestantesimo.

Non credo di essere ingiusto dicendo così, perché capisco benissimo questa sua lacerazione: mi sento capacissimo di condividerla, di esitare e di oscillare anch’io tra questi due atteggiamenti, ma ho l’evidenza che essi sono incompatibili l’uno con l’altro; temo, invece, che costui non abbia quest’evidenza... e vorrei proprio dargliela. Finché sentirò che questo punto non è stato delucidato, chiarito, sanato, temerò sempre che le nostre discussioni siano una perdita di tempo...

Che Cristo ci illumini su tutti questi punti, perché è veramente dal di dentro e sotto la mozione dello Spirito Santo che dobbiamo aderire all’autorità esteriore della Chiesa. Al di fuori di questo movimento perfettamente libero, personale e segreto, in realtà non c’è nulla...

festa di S. Teresa di Gesù Bambino,

Fr. M.D. Molinié, o.p.


Padre Moliniè O.P. "Il Coraggio di osare"

E' NECESSARIO RITROVARE LA NOSTRA IDENTITA' CATTOLICA.....

130 anni fa Papa Leone XIII nominava cardinale J.H. Newman che da anglicano, come sappiamo, divenne un fervente cattolico e non senza sofferto cammino...

ascoltiamo cosa ebbe a dire, quanto segue è tratto da un articolo che uscirà domani sull'O.R.
e che troverete integralmente qui:
Cardinale John Henry Newman; da anglicano a fervente ed innamorato Cattolico


"In un lungo corso di anni ho fatto molti sbagli. Sono lontano da quell'alta perfezione che è propria degli scritti dei santi (...) ma ciò che confido di potermi attribuire in quanto ho scritto è questo: la retta intenzione, l'immunità da interessi privati, la disposizione all'obbedienza, la prontezza a essere corretto, il grande timore di sbagliare, la brama di servire la Santa Chiesa, e, per divina misericordia, sufficiente buon successo".

E proseguiva:
"Godo nel dire che a un gran male mi sono opposto fin dal principio. Per trenta, quaranta, cinquant'anni anni ho resistito, con tutte le mie forze, allo spirito del liberalismo religioso, e mai la Chiesa ebbe come oggi più urgentemente bisogno di oppositori contro di esso, mentre, ahimé, questo errore si stende come una rete su tutta la terra".

"Il liberalismo religioso è la dottrina secondo la quale non esiste nessuna verità positiva in campo religioso, ma che qualsiasi credo è buono come qualunque altro; e questa è la dottrina che, di giorno in giorno, acquista consistenza e vigore. Questa posizione è incompatibile con ogni riconoscimento di una religione come vera. Esso insegna che tutte sono da tollerare, in quanto sono tutte materia di opinione. La religione rivelata non è verità, ma sentimento e gusto, non fatto obiettivo (...) Ogni individuo ha diritto a interpretarla a modo suo (...) Si può andare nelle chiese protestanti e in quelle cattoliche; si può ristorare lo spirito in ambedue e non appartenere a nessuna. Si può fraternizzare insieme in pensieri e affari spirituali, senza avere dottrina comune o vederne la necessità. Poiché la religione è un fatto personale e un bene esclusivamente privato, la dobbiamo ignorare nei rapporti reciproci"
.

Newman aggiungeva:  "La bella struttura della società che è l'opera del cristianesimo, sta ripudiando il cristianesimo"; "Filosofi e politici vorrebbero surrogare anzitutto un'educazione universale, affatto secolare (... che) provvede le ampie verità etiche fondamentali di giustizia, benevolenza, veracità e simili"; sennonché - osserva Newman - un tale progetto è diretto "a rimuovere e ad escludere la religione".

È difficile non riconoscere la rovinosa attualità di questo liberalismo religioso, che preoccupava Newman nel 1879:  oggi si sta esattamente e largamente avverando e diffondendo la persuasione che le religioni siano equivalenti, che sia indifferente e non pertinente la questione della loro verità, che una confessione o una Chiesa si equivalgono.



davvero profetico!!!


 

Caterina63
00mercoledì 9 settembre 2009 17:02
A tal riguardo dell'argomento sono da segnalare due libri importanti di recente uscita....

il primo è questo che trovate qui con tanto di spiegazione:


Mons. B. Gherardini: Conc.Ecum Vat. II Un discorso da fare (pref. del vescovo Oliveri)


il secondo lo postiamo qui a seguire....

PROCURATEVELI SE VOLETE DAVVERO SAPERE LA VERITA'....

Vaticano II, che cosa è andato storto?


ROMA, sabato, 11 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la prefazione di Massimo Introvigne, fondatore e direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR), all'edizione italiana di “Vaticano II – Che cosa è andato storto?”.




* * *

La pubblicazione dell’edizione italiana di Vaticano II – Che cosa è andato storto? (Fede & Cultura, Verona 2009) colma una duplice lacuna.

Da una parte, mette a disposizione anche dei lettori di lingua italiana uno dei testi fondamentali del dibattito statunitense sul Concilio Ecumenico Vaticano II: un dibattito cui ha partecipato lo stesso cardinale Joseph Ratzinger, e di cui si ritrova l’eco nel magistero di Benedetto XVI.
 
Dall’altra, permette al pubblico italiano di conoscere meglio la figura e l’opera di Ralph McInerny, da molti considerato il maggiore filosofo cattolico vivente, stimato da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI ma ancora poco conosciuto nel nostro Paese nonostante gli sforzi del suo amico e collaboratore Fulvio Di Blasi e dell’associazione Thomas International, che ha fatto pubblicare L’analogia in Tommaso d’Aquino (Armando, Roma 1999) e Conoscenza morale implicita (Rubbettino, Soveria Mannelli [Catanzaro] 2006). Il fatto che un autore così conosciuto negli Stati Uniti sia poco tradotto in Italia fa venire qualche cattivo pensiero: che si sia voluta censurare una voce cruciale ma scomoda?

McInerny, in effetti, è uno dei pochi intellettuali cattolici degli Stati Uniti la cui notorietà supera la cerchia degli accademici e si estende, ormai da anni, al grande pubblico. Nato a Minneapolis il 24 febbraio 1929, dopo studi al St. Paul Seminary, McInerny consegue la laurea in filosofia all’Università del Minnesota e il dottorato presso la Pontificia Facoltà di Filosofia dell’Università Laval, a Québec. Dal 1955 ha insegnato filosofia per oltre cinquant’anni all’Università Notre Dame presso South Bend, nell’Indiana, dove tuttora dirige il Centro Jacques Maritain.

Il rapporto con quella che rimane la più grande università cattolica del mondo per numero d’iscritti è cruciale per intendere l’attività e la carriera di McInerny, che a Notre Dame – senza nascondere i problemi che la crisi teologica ha portato anche in questo prestigioso ateneo – ha dedicato parecchi dei suoi scritti. Membro della Pontificia Accademia di San Tommaso d’Aquino e della Commissione del Presidente degli Stati Uniti per le Arti e le Lettere, McInerny è legato all’Italia e a Roma – dove ha soggiornato ripetutamente – da un rapporto che è insieme culturale e affettivo. Da molti anni è considerato il maggiore specialista vivente di San Tommaso.

Le sue opere filosofiche sono in parte destinate agli specialisti, in parte agli studenti e al mondo cattolico per cui ha scritto alcune delle più brillanti e vivaci introduzioni alla filosofia in genere e al tomismo in particolare. Il suo itinerario di filosofo culmina, in un certo senso, con l’opera del 2006 Preambula Fidei. Thomism and the God of the Philosophers (Catholic University of America Press, Washington), da un lato un testo molto tecnico, dall’altro – come ha notato in un articolo sull’Osservatore Romano l’attuale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale William Levada (“La società secolarizzata ha bisogno di un’apologetica rinnovata”, 22 giugno 2008) – uno strumento in grado di fondare una “nuova apologetica” in grado di resistere alle rinnovate sfide del secolarismo e del relativismo.

McInerny preferisce certamente essere noto come filosofo. Ma gli è toccato in sorte di diventare uno dei nomi più conosciuti dagli appassionati di gialli e dal pubblico che segue i telefilm polizieschi alla televisione. Il filosofo, in effetti, è anche romanziere e autore di diverse serie di grande successo, tra cui emerge quella – che conta a oggi ventinove volumi – dedicata al sacerdote detective padre Dowling, da cui è stata tratta una fortunata serie televisiva trasmessa anche in Italia. Mentre i telefilm riducono le storie al mero elemento poliziesco, i romanzi della serie di padre Dowling offrono l’occasione a McInerny per riflettere – al di là della trama – sulla crisi della Chiesa Cattolica negli Stati Uniti dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II. Anche l’ultima fatica letteraria del filosofo di Notre Dame, The Wisdom of Father Dowling (Gale Five Star, Waterville [Maine] 2009) – una raccolta di racconti brevi –, mostra come l’intrigo poliziesco sia spesso un pretesto per affrontare temi che vanno dall’eutanasia alla crisi della liturgia.

McInerny non si è mai concepito come un filosofo chiuso nella sua torre d’avorio, che interagisce unicamente con i suoi pari e con qualche fortunato studente. Da molti anni si è posto il problema dell’apologetica, collaborando a riviste come First Things del compianto don Richard John Neuhaus (1936-2009) e lanciando anche una serie di pubblicazioni che ha egli stesso animato, come Catholic Dossier Crisis. Un vasto pubblico, che magari lo conosce anzitutto per i suoi romanzi, ha così trovato in McInerny un solido punto di riferimento apologetico e un difensore della Chiesa e del Magistero.

La crisi della Chiesa Cattolica statunitense e la ribellione di molti teologi contro il Magistero è emersa come la preoccupazione cruciale dell’attività apologetica di McInerny. Questi teologi si sono fatti scudo e bandiera del Concilio Ecumenico Vaticano II, dopo il quale nella Chiesa degli Stati Uniti si è verificata la crisi più grave della sua storia. Ma questa crisi, si chiede McInerny, è post Concilium o propter Concilium? Che cosa è andato storto?

La riflessione di McInerny, come sarà chiaro al lettore, parte dalla Chiesa americana, epicentro di quel “Sessantotto nella Chiesa” che è la contestazione pubblica dell’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI nel 1968. Il filosofo statunitense mostra che questa contestazione – non il Concilio – è la vera data di partenza della crisi post-conciliare, non solo negli Stati Uniti. La questione non riguarda solo, e neppure soprattutto, gli anticoncezionali ma i problemi dell’autorità nella Chiesa e dell’interpretazione del Vaticano II.

La tesi di McInerny, secondo cui idocumenti del Concilio sono di per sé suscettibili di un’interpretazione secondo e non contro la Tradizione della Chiesa, mentre sono stati la presentazione del Vaticano II da parte dei “teologi dissidenti” e il loro capzioso appello allo “spirito del Concilio” contro la sua lettera a causare la crisi è presentata in questo testo in un modo semplice e autorevole. Si tratta di una tesi che ha avuto vasta eco nella discussione che si è svolta negli Stati Uniti negli anni 1990 sul Vaticano II e di cui non hanno mancato di tenere conto anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, due Papi che hanno interagito in modo continuo con l’ambiente teologico americano fedele al Magistero (l’ala cattolica dei cosiddetti teocon) e ne hanno seguito con partecipe interesse i dibattiti.

McInerny mostra come a partire dal 1985, con l’intervista Rapporto sulla fede rilasciata dall’allora cardinale Ratzinger al giornalista Vittorio Messori e con il Sinodo Straordinario a vent’anni dal Concilio, il Magistero inizia a prendere in mano la questione dell’interpretazione del Vaticano II e, con voce sempre più ferma, prende posizione contro il “magistero parallelo” dei teologi del dissenso. I primi risultati di quest’azione, negli Stati Uniti (e forse anche altrove), non sono soddisfacenti: i vescovi non possono o non vogliono imporre la loro autorità ai teologi. Ma la battaglia continuava nel 1998, quando McInerny pubblicò la prima edizione americana di questo testo, e continua ancora oggi.

Capire che cosa è successo durante i pontificati di Paolo VI e Giovanni Paolo II è essenziale per tentare di capire che cosa sta avvenendo e potrà avvenire nell’epoca di Benedetto XVI.




Caterina63
00giovedì 17 settembre 2009 13:14
Nova et Vetera....Nuovo e vecchio....vecchio e nuovo...e la Tradizione nel mezzo: contestata ed amata proprio come accadde a Gesù, TRADIZIONE VIVENTE, amato e contestato, vecchio e nuovo... passato, presente e futuro...

Come aiutare i giovani di oggi, ma anche i meno giovani, a comprendere cosa è accaduto e cosa sta accadendo nella Chiesa?

Dopo tanto leggere e vivere di persona questi tempi, concedetemi l'elaborazione di un quadro che mi si apre davanti....
la scena è questa:

un museo, si, un grande ed immenso museo che raccoglie tesori del passato, del presente ed anche del futuro... e naturalmente il solito immancabile sgabuzzino, scantinato, ove sono raccolti altri immensi tesori da pulire, sistemare, catalogare...

Nel nostro specifico caso il Direttore del Museo è la Chiesa nella sua veste gerarchica: il Papa in comunione con lo Spirito Santo gestisce la direzione, i vescovi ne dirigono le operazioni in comunione con Pietro affinchè ogni piano, ogni reparto sia ordinato secondo uno schema specifico....poi ci sono i fedeli, i visitatori che sono anche i curiosi, gli studiosi, gli amanti dell'arte e della storia....

Solo un piccolo avvertimento: non guardare mai la Chiesa come ad un MUSEO in senso statico...l'esempio che sto riportando intende DARE VITA a ciò che vediamo, spesso, come un museo...la Chiesa è Corpo animato dallo Spirito che sollecita le Membra(=Battezzati), ma attenzione è anche la Custode di un ricco patrimonio di fede e cultura che san Paolo chiama: DEPOSITO DELLA FEDE....tale Deposito dunque possiamo immaginarlo come ad una sorta di Museo che deve prendere vita nelle Membra che lo fanno proprio con la propria testimonianza di vita e lo divulgano al Prossimo di generazione in generazione...

Accade dunque che tale Museo necessita di periodiche manutenzioni, ha bisogno di rivedere i tesori custoditi, deve trovare anche il posto a quei tesori ancora sommersi, ancora dentro gli scantinati...deve prendersi cura di quelli già offerti al pubblico....Anche le stanze necessitano di periodiche pulizie, magari anche trasformazioni, aggiustamenti, allargamenti....Deve inoltre trovare sempre nuovi modi per attirare l'attenzione della gente affinchè venga e veda...

Inutile dire che tale movimento possiamo vederlo in un Concilio, nei Sinodi, quando appunto, questa Direzione deve prendere delle decisioni affinchè tale Deposito della Fede, possa trovare nuovo vigore per essere visto, ammirato, ma soprattutto affinchè i visitatori lo facciano proprio...

Così doveva e sarebbe dovuto accadere con il Concilio Vaticano II, ma ahimè qualcosa non è andata per il verso giusto...lo disse candidamente Paolo VI che nell'aspettarci tutti una nuova primavera dopo il Concilio, giunsero le tenebre...
perchè? cosa è accaduto?

Ce lo spiega Tito Casini nella sua stupenda raccolta di LA TUNICA STRACCIATA...
ce mons. Gherardini nel suo Concilio Vaticano II un discorso da rifare.....
ce lo spiega addirittura Ratzinger divenuto poi Pontefice nel suo: alle radici della Liturgia....
o qui:
J.Ratzinger, Benedetto XVI, spiega il Concilio Vaticano II
o come ce lo spiega Romano Amerio nel suo magnifico IOTA UNUM, riedito per il grande successo ottenuto...e come testimonia questo thread stesso...

Insomma ciò che è accaduto è sotto gli occhi di tutti ma molti non vogliono vedere o fingono...
Tornando al nostro immaginario possiamo dire questo:

All'interno del Museo si sono create diverse fazioni le quali, alle richieste della Direzione di riaggiornare il Museo senza toccare i tesori ivi custoditi, facendo di testa loro, hanno di fatto compiuto uno scempio....
 
Invece di allargare semplicemente le finestre per illuminare di più tali tesori, hanno pensato bene di MODIFICARE I TESORI togliendoli...spostandoli, alcuni di questi, come la Liturgia, hanno pensato bene di buttarla nei magazzini e di recuperare "nuovi" e presunti tesori raccolti qua e la dalla fantasia del momento pensando che sarebbe stata la stessa cosa...alcuni lo hanno fatto in buona fede, con molto fervore... altri un pò meno hanno studiato a tavolino come approfittare del momento(=Concilio) per inserire proprio un NUOVO DEPOSITO...

Così ricorda quei Momenti l'allora card. Ratzinger, oggi Sommo Pontefice:

 "Sempre più cresceva l’ impressione  che nella Chiesa non ci fosse nulla di stabile, che tutto può essere oggetto di revisione. Sempre più il Concilio pareva assomigliare a un grosso parlamento ecclesiastico, che poteva cambiare tutto e rivoluzionare ogni cosa a modo proprio.
Evidentissima era la crescita del risentimento nei confronti di Roma e della Curia, che apparivano come il vero nemico di ogni novità e progresso.
Le discussioni conciliari venivano sempre più presentate secondo lo schema partitico tipico del parlamentarismo moderno [...].
Per i credenti si trattava di un fenomeno strano: a Roma i loro vescovi parevano mostrare un volto diverso da quello di casa loro. Dei pastori che fino a quel momento erano ritenuti rigidamente conservatori apparvero improvvisamente come i portavoce del progressismo – ma era farina del loro sacco?

( Card. J. Ratzinger, La mia vita. Ricordi/1927-1977, ed. San Paolo, 1997, pp. 97-99. )

Quel Momento tuttavia non era nuovo alla Chiesa...già san Pio X (non per nulla Santo!) ebbe a dire:

«Negli scritti e nei discorsi essi [i modernisti] sembrano non rare volte sostenere ora una dottrina ora un'altra, così che si è facilmente indotti a giudicarli vaghi ed incerti. Ma tutto ciò è fatto di proposito […]. Quindi avviene che nei loro libri s'incontrano cose che ben direbbe un cattolico; ma, al voltare della pagina, se ne trovano altre che si stimerebbero dette da un razionalista»
san Pio X Pascendi Dominici Grecis

I Media degli anni Settanta coniarono così i due termini più odiosi: PROGRESSISTI (che sarebbero poi i modernisti citati già da san Pio X) E TRADIZIONALISTI come se la Chiesa fino a quel momento non fosse mai stata legata alla Tradizione, dando origine ad una profonda ed insanabile frattura per la quale la vittima unica e vera è la TRADIZIONE stessa della Chiesa...

Infatti ai danni apportati nell'immediato di quel Momento dai progressisti, i "tradizionalisti" agirono con una chiusura totale ad ogni concetto di Progresso interpretandolo come il passaggio, l'ingresso di ogni eresia... i due estremismi di fatto, danneggiarono la Chiesa...crearono scompiglio nel Museo al quale necessita invece un buon grado di Progresso proprio per non far ammuffire i tesori custoditi in quel Deposito e proprio per trovare NUOVI MODI, proporzionati al tempo che si vive, per renderli invece più visibili ai visitatori...


La regola dello sviluppo nella Chiesa tra il concetto di PROGRESSO E TRADIZIONE, la troviamo formulata fin dall’anno 434 in un’opera di S. Vincenzo Lirinense, scrive:

“Dirà forse qualcuno: Non si dà, dunque, progresso alcuno della religione nella Chiesa di Cristo? Altroché se si dà, e grandissimo! Chi vorrà essere tanto ostile agli uomini e tanto odioso a Dio da tentare di impedire un simile progresso? Però avvenga in modo tale da esser veramente un progresso della fede e non un’alterazione.
Progredire, infatti, significa che una cosa si amplifica rimanendo se stessa; mutamento, invece, significa che una cosa passa a diventare un’altra cosa.
È necessario, dunque, che crescano — e crescano molto gagliardamente — col passare delle generazioni e dei tempi l’intelligenza e la scienza e la sapienza della fede sia nel singolo sia presso la comunità, sia in ciascun cristiano sia in tutta la Chiesa: però la crescita della fede avvenga soltanto ferma restando la sua propria natura, cioè entro l’ambito dello stesso dogma, nel medesimo significato e nella medesima sentenza — in suo dumtaxat genere, in eodem scilicet dogmate, eodem sensu eademque sententia” (Commonitorium,23 -PL50,667)


Mi colpiscono due aspetti di questo quadro che riporto dal libro "Nova et Vetera di mons. Luigi Maria Carli del 1969, che tratta appunto di questo TRADIMENTO alla Tradizione ed al vero Progresso da dopo il Concilio Vaticano II....ed è riportato ad apertura di questo thread:

1) il primo aspetto è la serenità attraverso la quale tale san Vincenzo espone, meravigliosamente, una verità talmente logica, talmente razionale da farla diventare davvero divina (come il Verbo era Dio ma anche veramente Uomo!) di cui, per altro, era già frutto maturo della conoscenza della Chiesa, altrimenti tale santo non avrebbe potuto esprimersi così chiaramente, ossia, ciò che scrive è leggibile chiaramente già come pensiero assunto e maturato dalla Chiesa....
Mi appare pertanto una gravissima REGRESSIONE ciò che stiamo vivendo da 40 anni a questa parte...un tradimento al vero senso del Progresso...

2) il secondo aspetto è quello della FEDE, la sua progressione associata indissolubilmente alla Tradizione....anche questo aspetto, così magnificamente espresso nell'Anno Domini 434 è stato grandemente tradito ed assistiamo ad una regressione della fede come non si era mai visto neppure al tempo dell'arianesimo, perchè Ario almeno in qualcosa credeva!

In entrambi gli aspetti da me analizzati, e senza pretesa alcuna, la Fede non è più associata alla Tradizione ma al "GESU' SOLO", slogan di protestante memoria...non importa a quale Cristo si faccia poi riferimento, non importa se Egli ha il viso di Kiko o di Simba, o di Gandhi....l'importante è che NON abbia il volto PURAMENTE CATTOLICO...

E' QUESTO IL VERO PROGRESSO DELLA FEDE NELLA TRADIZIONE creduta sempre dalla Chiesa come ci dimostrano le parole di san Vincenzo?


Si dice che oggi l'analfabetismo, in Italia....sarebbe praticamente scomparso....ma quando mai esso, DENTRO LA CHIESA  E NEL SUO MAGISTERO,  era termometro anche di intelligenza, di ragione, di sapienza?
Abbiamo dimenticato quanti analfabeti sono diventati SANTI?
Con questo non voglio dire che la scuola sia un male....o che non si deve imparare a leggere e a scrivere...questo sarebbe rifiutare il progresso, sarebbe rifiutare l'elettricità, la macchina...la stampa....ciò che intendo sottolineare è che tutto questo che chiamiamo PASTORALE, nato all'insegna di FAR CONOSCERE AI FEDELI I MISTERI DELLA FEDE ha portato alla regressione...naturalmente non è la pastorale il problema ma i suoi CONTENUTI...
Faccio un esempio concreto:

La Messa....
tutto il casino liturgico nasce da che cosa? dalla "buona" (perversa per altri) OSTINAZIONE di ritenere i fedeli, le pecore pre-conciliari, IGNORANTI E ANALFABETI in materia di fede....occorreva dunque fare in modo che la Messa FOSSE PIU' COMPRENSIBILE...così è arrivato un Kiko che dopo una apparizione della sua madonna...prepara a tavolino delle catechesi atte a spiegare che cosa è niente meno ciò che avviene durante la Consacrazione....incredibile, Paolo VI non si rese conto, dopo aver scritto la Misteryum Fidei.... di non sapere nulla e che con Kiko, da lui approvato, arrivava finalmente qualcuno che poteva ISTRUIRE IL POVERO GREGGE ANALFABETA....
In sostanza IL PROGRESSO DELLA FEDE non è più associato alla TRADIZIONE ma AI CARISMATICI, ai gruppi, ai movimenti...attenzione non a coloro che come i Santi sono ispirati, ma carismatici nel senso berlusconiano, o staliniano, o pentecostale...ossia quanta più gente ti posso catturare, tanto più sono carismatico...

Lo stile di vita che si dovrà assumere è quello DEL GRUPPO non a caso la stessa crisi l'hanno subita tutti gli ORDINI RELIGIOSI...anch'essi ingannati da questo vento conciliare (Benedetto XVI ha avuto il coraggio di dire, che il concetto di "spirito del concilio" è un inganno) basti vedere cosa hanno fatto i francescani portando una statua di budda sull'altare o peggio, facendo sacrificare un pollo in una ospitalità interreligiosa ad Assisi....basti pensare dove sono arrivati i domenicani in Olanda che concelebrano Messa con I LAICI e laici donne... senza che il vescovo abbia avuto il coraggio di apportare un freno o una qualche scomunica...dove l'Aventino tace e tace anche Roma....
Per non parlare dei gesuiti e così via....

Una mia carissima Suora Domenicana, morta prematuramente, di santa memoria....nel presentare un libretto di poesie ispirate al Vangelo, spiegandone il motivo della pubblicazione, dice ad un punto:

Oggi ci sono nella Chiesa tanti movimenti di consacrati laici. Nulla da eccepire. Hanno molta libertà di movimento: viaggi, gran feste, raduni, e tutto a suon di chitarre, dischi, cassette, registrazioni, filamati. Cose che in un convento sono molto limitate magari al momento della ricreazione o per qualche festicciola.
E come si possono pensare certe cose quando si hanno pieni i collegi, gli ospedali, i pensionati per anziani, gli Istituti per handicappati, le parrocchie, dove si lavora da mattina a sera e a volte giorno e notte?
E da qui sorgono dei problemi:
le giovani si sentono di più attirate da quella vita che unisce il Vangelo alle chitarre ma finendo per ignorare i Conventi dove il sacrificio e il nascondimento sono di casa, ma che in realtà sono la vera e piena realizzazione della vocazione di una consacrata che "lascia davvero tutto" per darsi anonimamente all'altro in una identità comunitaria.
Dall'altra parte le Suore, che vivono in terra e non in cielo, vedono tutto questo e a volte si sentono escluse.
A volte sembra proprio di lavorare per il vento quando si vedono tutte queste ragazze che si radunano e cantano, suonano... e sono applaudite da tutti, e sembra che non sappiano fare altro o peggio, sembra che questo sia diventato l'unico modo efficace (e non è così) per vivere il Vangelo che siamo chiamati ad annunciare.

Era questo il Progresso nel solco della Tradizione per la crescita della fede tanto auspicato dai Padri della Chiesa?
E' questo davvero che Dio vuole?
No, perchè la progressione della fede è ben altra cosa
:

" E la donna disse: se io riesco anche solo a toccare il suo mantello..."
(Lc.5,28 )

Ho troppo male Signore,
e a volte sono stanca.
Tanto!

La folla scorre intorno a me
come un fiume rumoroso.
S'accavalca,
mi stringe,
mi trascina,
mi travolge con le sue onde
e nessuno si ferma
a curare il mio male.

Ma se riesco anche solo
a toccare il Tuo mantello,
Signore,
tutto il mio male si dissolverà
come nebbia al Tuo sole.
E dalla prigionia
del mio dolore,
io,
finalmente libera,
potrò cantare il Tuo Amore.

(Sr. M. Rosalia Zoccolini O.P.)

E così....i Progressisti(=regressisti) non hanno fatto che altro prendere i Tesori custoditi in questo Deposito e gettarli....mettere al loro posto ciò che loro ritenevano più idoneo al momento, ossia, HANNO SEGUITO LA MODA DEL TEMPO...
I Tradizionalisti dal canto loro, non hanno fatto altro che CHIUDERE quelle stanze che si erano salvate dallo scempio e gestirle ai margini del Museo per tentare di salvarle....
Bastava di fatto SPOLVERARE questi Tesori....magari prenderne alcuni custoditi negli scantinati ed unirli al NUOVO...non sovrapporli...

Ma c'è l'azione del Pontefice che non va sminuita....
Egli sa che il vero Progresso è necessario al Museo e sa anche che un certo tradizionalismo, inteso come autentica Tradizione, ha ragione di preservare tali tesori e non a caso abbiamo avuto diversi Documenti ufficiali atti a correggere questa devastazione:

La Dominus Jesus: Documento fondamentale sulla Dottrina della Chiesa
Regolamento per l'esame della VERA DOTTRINA (Documento Ufficiale)

Communionis Notio: Lettera ai Vescovi sulla Chiesa intesa come Comunione
RISPOSTE RIGUARDANTI ALCUNI ASPETTI CIRCA LA DOTTRINA SULLA CHIESA
Il Card. Canizares (del Culto Divino) spinge verso il ritorno della Comunione in ginocchio
Sacramentum Caritatis: Enciclica sulla Liturgia di Bendetto XVI

e senza dimenticare l'indizione dell'Anno Sacerdotale

Lettera di Benedetto XVI ai Sacerdoti per l'Anno Sacerdotale


Questo Museo deve ritornare nella piena gestione del suo legittimo direttore sulla terra, il Vicario di Cristo e TUTTI devono attenersi alle sue disposizioni affinchè il Progresso autentico dia vita alla Tradizione in ogni suo tempo...non c'è altra via d'uscita da questa crisi devastante...

Caterina63
00martedì 20 aprile 2010 15:48

"QUOD ET TRADIDI VOBIS" La Tradizione Vita e Giovinezza della Chiesa di Brunero Gherardini


"QUOD ET TRADIDI VOBIS"
LA TRADIZIONE VITA E GIOVINEZZA DELLA CHIESA
di
BRUNERO GHERARDINI


CON IL PERMESSO ESPLICITO DELL'AUTORE MONS. BRUNERO GHERARDINI PUBBLICHIAMO IL VII CAPITOLO DELLA RIVISTA DIVINITAS. RIMANDANDO ALL'ACQUISTO DI TUTTA L'OPERA CHE SARÀ PRESTO IN LIBRERIA.

RINGRAZIAMO DI TUTTO CUORE MONS. GHERARDINI PER LA DISPONIBILITÀ E LA BENEVOLENZA CHE HA ACCORDATO AL NOSTRO SITO.

SI RICORDA CHE IL MATERIALE PROPOSTO È VINCOLATO DA COPYRIGHT È CHE COLORO CHE INTENDONO UTILIZZARLO DEVONO INDICARNE LA FONTE: L'AUTORE E IL TITOLO DELL'OPERA. CON L'AUGURIO DI UNA ILLUMINANTE LETTURA!
Caterina63
00sabato 24 aprile 2010 18:32
Un grazie a Daniele di Famiglia Cattolica per questa segnalazione:



Che cosa abbiamo perso?

What we have lost?


(documentario in lingua originale con sottotitoli in italiano)



video-cronaca dei vastissimi cambiamenti e delle terribili distruzioni che hanno avuto luogo nella bimillenaria Chiesa cattolica

dalla fine del Concilio Vaticano II, nel 1965, sino ad oggi



David Allen White, cattolico fedele alla tradizione, professore di inglese presso l'Accademia Navale degli Stati Uniti d'America, ci accompagna nella rivisitazione di documenti che mostrano tale sfacelo,

compiuto in pochi anni all'interno della cattolicità.




www.doncurzionitoglia.com/cosa_abbiamo_perso.htm

Caterina63
00sabato 22 maggio 2010 12:10
Senza riportare il tutto che potrete leggere comodamente da qui, dal forum di FAMIGLIA CATTOLICA Ccliccando qui a seguire:
Dopo lo schiaffo di Vienna, qual è l’agenda Schönborn?

Paolo Rodari ha postato alcuni interventi interessanti su una grave posizione di una parte della Chiesa nelle vesti di alcuni suoi rappresentanti illustri che naturalmente ci fanno soffrire e ci danno da pensare...

Si insiste su richieste inaccettabili per la Chiesa come la comunione ai divorziati (ricordando che ai divorziati che NON convivono e non si risposano la comunione viene lecitamente data!!); le donne prete... e contro il celibato dei preti...nonchè anche sulle questioni etiche e morali che dall'interno della Chiesa qualcuno vorrebbe modificare...

è lampante che da anni si sia formata una schiera di MODERNISTI, un modernismo di cui san Pio X aveva già predetto, annunciato e condannato....

Oggi viene allo scoperto, diremo: i nodi vengono al pettine, e di questo DOBBIAMO RINGRAZIARE LA PROVVIDENZA perchè se da un lato questo ci fa male, dall'altra però è un BENE perchè finalmente si conoscono nomi e cognomi ed il fedele cattolico, se non è completamente cieco (nell'anima) comprenderà dove sta la verità e dove regna la menzogna...

Già nel 1300 san Tommaso d'Aquino aveva predetto anch'egli insieme ad altri profeti e Dottori della Chiesa, che il SISTEMA CULTURALE, ETICO E MORALE sarebbe decaduto spianando la strada all'Anticristo...
Ci sono e ci saranno eventi che NON ci sarà possibile eliminare, attenzione alle parole di Benedetto XVI a Fatima sul Terzo Segreto... egli ha rammentato LA GRAVITA' della situazione in cui vive la Chiesa e che i NEMICI SONO DAL SUO INTERNO....lo ha detto il Papa eh!
E' dunque fondamentale comprendere che ora l'importante è PERSEVERARE NELLA FEDE aprendo gli occhi del cuore sulla verità...

Quanto e quando leggiamo di questi associazionismi etici e morali votati all'INGANNO della sana dottrina biblica, compito nostro è NON DISPERARE!!! Il peggio dovrà ancora venire...
Gesù non ci chiede di salvare il mondo, ma di PERSEVERARE NELLA FEDE AUTENTICA che non è fatta solo di incontri della GMG di canti, di balli e di raduni...ma è fatta di CONCRETEZZA NEL SOSTEGNO ED AL SOSTEGNO DELLA VERITA'...

Chiunque ballando e cantando o andando ai raduni mega....coltivasse però una etica ed una morale contraria alla dottrina della Chiesa, HA PERDUTO DI FATTO LA VERA FEDE...non ha perseverato e non spetta a noi giudicarlo o condannarlo, ma ricordargli la VIA MAESTRA CHE E' QUELLA DELLA SANTA CHIESA...

Questo discorso si associa a quest'altro




Caterina63
00martedì 10 agosto 2010 22:15

Documenti Motu Proprio Ecclesia Dei di S.S. il Papa Giovanni Paolo II, 2 de luglio 1988

Ritorno alla lista dei documenti

Testo della conferenza di Mons. Guido Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione "Ecclesia Dei", fatta ai sacerdoti europei della Fraternità San Pietro il 2 luglio 2010 a Wigratzbad. Lo stesso giorno, Mons. Pozzo aveva celebrato una santa Messa solenne nella chiesa di Maria Thann, essendovi presenti più di cento sacerdoti e seminaristi della medesima Fraternità (fotografie del giorno). L'altro giorno hanno avuto luogo le ordinazioni sacerdotali, conferite a cinque diaconi da Sua Eminenza, il Cardinale Cañizares Llovera (fotografie delle ordinazioni).

Aspetti della ecclesiologia cattolica
nella recezione del Concilio Vaticano II

Premessa

Se si considera la Costituzione Dogmatica sulla Chiesa del Concilio Vaticano II, si rendono subito visibili la grandezza e l’ampiezza dell’approfondimento del mistero della Chiesa e del suo rinnovamento interiore, ad opera dei Padri conciliari.

Se però si legge o si ascolta molto di ciò che è stato detto da certi teologi, alcuni famosi, altri che inseguono una teologia dilettantistica, o da una diffusa pubblicistica cattolica post conciliare, non si può non essere assaliti da una profonda tristezza e non si possono non nutrire serie preoccupazioni. E’ davvero difficile concepire un contrasto maggiore di quello esistente tra i documenti ufficiali del Concilio Vaticano II, del Magistero pontificio posteriore, degli interventi della Congregazione per la Dottrina della Fede da un parte, e, dall’altra parte, le tante idee o le affermazioni ambigue, discutibili e spesso contrarie alla retta dottrina cattolica, che si sono moltiplicate negli ambienti cattolici e in genere nell’opinione pubblica.

Quando si parla del Concilio Vaticano II e della sua recezione, il punto chiave di riferimento ormai deve essere uno solo, quello che lo stesso Magistero pontificio ha formulato in modo chiarissimo e inequivocabile. Nel Discorso del 22 dicembre alla Curia Romana Papa Benedetto XVI si è così espresso: “Emerge la domanda: perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile ? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente, ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare – aggiunge il Santo Padre –ermeneutica della discontinuità e della rottura’; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’ ‘ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del popolo di Dio in cammino” (cf. Benedetto XVI, Insegnamenti, vol. I, 2005, Ed. Vaticana, Città del Vaticano 2006, pp. 1023 sg.).

Evidentemente, se il Santo Padre parla di due interpretazioni o chiavi di lettura divergenti, una della discontinuità o rottura con la Tradizione cattolica, e una del rinnovamento nella continuità, ciò significa che la questione cruciale o il punto veramente determinante all’origine del travaglio, del disorientamento e della confusione che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano in parte i nostri tempi non è il Concilio Vaticano II come tale, non è l’insegnamento oggettivo contenuto nei suoi Documenti, ma è l’interpretazione di tale insegnamento.

In questa esposizione mi propongo di sviluppare brevemente due aspetti particolari, allo scopo di mettere in luce i punti fermi per una interpretazione corretta della dottrina conciliare, a confronto con le deviazioni e gli equivoci provocati dall’ermeneutica della discontinuità:
I. L’unità e l’unicità della Chiesa cattolica.
II. La Chiesa cattolica e le religioni in rapporto alla salvezza.

Nella conclusione infine vorrei fare alcune considerazioni sulle cause dell’ermeneutica della discontinuità con la Tradizione, mettendo in risalto soprattutto la forma mentis che ne sta alla base.

I. L’unità e l’unicità della Chiesa cattolica.

1. Contro l’opinione, sostenuta da numerosi teologi, che il Vaticano II abbia introdotto cambiamenti radicali riguardo la comprensione della Chiesa, si deve constatare anzitutto che il Concilio rimane sul terreno della Tradizione per ciò che concerne la dottrina sulla Chiesa. Ciò tuttavia non esclude che il Concilio abbia prodotto nuovi orientamenti ed esplicitato alcuni determinati aspetti. La novità rispetto alle dichiarazioni precedenti il Concilio è già nel fatto che il rapporto della Chiesa cattolica verso le chiese ortodosse e le comunità evangeliche nate dalla Riforma luterana è trattato come tema a se stante e in modo formalmente positivo, mentre nell’Enciclica Mortalium animos di Pio XI (1928), ad esempio, lo scopo era quello di delimitare e distinguere nettamente la Chiesa cattolica dalle confessioni cristiane non cattoliche.

2. E tuttavia, in primo luogo, il Vaticano II insiste sulla posizione di unità e unicità della vera Chiesa, riferendosi alla Chiesa cattolica esistente: “E’ questa l’unica Chiesa di Cristo che nel simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica” (LG, 8). In secondo luogo, il Concilio risponde alla domanda su dove sia possibile trovare la vera Chiesa: “Questa Chiesa, costituita ed organizzata in questo mondo come società, sussiste nella Chiesa cattolica” (LG, 8). E per evitare ogni equivoco riguardo all’identificazione tra la vera Chiesa di Cristo e la Chiesa cattolica, si aggiunge che si tratta della Chiesa “governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui” (LG, 8). L’unica Chiesa di Cristo ha dunque nella Chiesa cattolica la sua realizzazione, la sua esistenza, la sua stabilità. Non c’è nessuna altra Chiesa di Cristo accanto alla Chiesa cattolica. Con ciò si afferma – almeno implicitamente - che la Chiesa di Gesù Cristo non è divisa in se stessa, neanche nella sua sostanza e che la sua unità indivisa non viene annullata dalle tante separazioni dei cristiani.

Tale dottrina sull’indivisibilità della Chiesa di Cristo, della sua identificazione sostanziale con la Chiesa cattolica, è ribadita nei Documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede, Mysterium Ecclesiae (1973), Dominus Iesus, 16 e 17 (2000) e nei Responsa ad dubia su alcune questioni ecclesiologiche (2007).

L'espressione subsistit in di Lumen gentium 8 significa che la Chiesa di Cristo non si è smarrita nelle vicende della storia, ma continua ad esistere come un unico e indiviso soggetto nella Chiesa cattolica. La Chiesa di Cristo sussiste, si ritrova e si riconosce nella Chiesa cattolica. In questo senso, vi è piena continuità con la dottrina insegnata precedentemente dal Magistero (Leone XIII, Pio XI e Pio XII).

3. Con la formula “subsistit in” la dottrina del Concilio – conformemente alla Tradizione cattolica – voleva esattamente escludere qualsiasi forma di relativismo ecclesiologico. Nello stesso tempo la sostituzione del “subsistit in” con l’ “est” adoperato dall’Enciclica Mystici Corporis di Pio XII, intende affrontare il problema ecumenico in modo più diretto ed esplicito di quanto si era fatto in passato. Sebbene la Chiesa sia soltanto una e si trovi in un unico soggetto, esistono però al di fuori di questo soggetto elementi ecclesiali veri e reali, che, tuttavia, essendo propri della Chiesa cattolica, spingono all’unità cattolica.

Il merito del Concilio è d’una parte di aver espresso l’unicità, l’indivisibilità e la non moltiplicabilità della Chiesa cattolica, e d’altra parte aver riconosciuto che anche nelle confessioni cristiane non cattoliche esistono doni ed elementi che hanno carattere ecclesiale, che giustificano e spingono ad operare per la restaurazione dell’unità di tutti i discepoli di Cristo. La pretesa di essere l’unica Chiesa di Cristo non può essere infatti interpretata al punto da non riconoscere la differenza essenziale tra i fedeli cristiani non cattolici e i non battezzati. Non è possibile infatti mettere sullo stesso piano quanto all’appartenenza alla Chiesa i cristiani non cattolici e coloro che non hanno ricevuto il battesimo. Il rapporto con la Chiesa cattolica da parte delle Chiese e Comunità ecclesiali cristiane non cattoliche non è tra il nulla e il tutto, ma è tra la parzialità della comunione e la pienezza della comunione.

4. Nel paradosso, per così dire, della differenza tra unicità della Chiesa cattolica ed esistenza di elementi realmente ecclesiali al di fuori di questo unico soggetto, si riflette la contradditorietà della divisione e del peccato. Ma tale divisione è qualcosa di totalmente diverso da quella visione relativistica che considera la divisione fra i cristiani non come una frattura dolorosa, ma come la manifestazione delle molteplici variazioni dottrinali di uno stesso tema, nel quale tutte le variazioni o divergenze sarebbero in qualche modo giustificate e dovrebbero fra loro riconoscersi e accettarsi come differenze o divergenze. L’idea che ne deriva è che l’ecumenismo dovrebbe consistere nel reciproco e rispettoso riconoscimento delle diversità, e il cristianesimo sarebbe alla fine l’insieme dei frammenti della realtà cristiana. Tale interpretazione del pensiero conciliare è espressione per l’appunto di quella discontinuità o rottura con la Tradizione cattolica e rappresenta una profonda falsificazione del Concilio.    

5. Per recuperare una autentica interpretazione del Concilio nella linea di un’evoluzione nella continuità sostanziale con la dottrina tradizionale della Chiesa, occorre sottolineare che gli elementi di «santificazione e di verità» che le altre Chiese e Comunità cristiane hanno in comune con la Chiesa cattolica, costituiscono insieme la base per la reciproca comunione ecclesiale e il fondamento che le caratterizza in modo vero, autentico e reale. Sarebbe perònecessario aggiungere, per completezza, che quanto esse hanno di proprio, non condiviso dalla Chiesa cattolica e che separa da essa queste comunità, le connota come non-Chiesa. Esse quindi sono «strumento di salvezza» (UR 3) per quella parte che hanno in comune con la Chiesa cattolica e i loro fedeli seguendo questa parte comune possono raggiungere la salvezza; per quella parte invece che è estranea o opposta alla Chiesa cattolica, esse non sono strumenti di salvezza (salvo che si tratti di coscienza invincibilmente erronea; in tal caso il loro errore non è imputabile, sebbene si debba qualificare la coscienza comunque come erronea) [cf. ad es. il fatto delle ordinazioni di donne al sacerdozio e all’episcopato, o l’ordinazioni di persone omosessuali in certe comunità anglicane o vetero-cattoliche].

6. Il Vaticano II insegna che tutti i battezzati in quanto tali sono incorporati a Cristo (UR 3), ma nello stesso tempo dichiara che si può parlare soltanto di una aliqua communio, etsi non perfecta, tra i credenti in Cristo e battezzati non cattolici da una parte e la Chiesa cattolica dall'altra (UR 3).

Il battesimo costituisce il vincolo sacramentale dell'unità dei credenti in Cristo. Tuttavia esso di per sé è soltanto l'inizio e l'esordio, per così dire, perché il battesimo tende intrinsecamente all'acquisto della intera vita in Cristo. Pertanto il battesimo è ordinato all'integra professione di fede, all'integrale comunione nell'istituzione della salvezza voluta da Cristo, che è la Chiesa, e infine all'integrale inserzione nella comunione eucaristica (UR 22). E' evidente quindi che l'apparte­nenza ecclesiale non si può mantenere piena, se la vita battesimale ha poi un seguito sacramentale e dottrinale oggettivamente difettoso e alterato. Una Chiesa è pienamente identificabile soltanto laddove si trovano riuniti gli elementi «sacri» necessari e irrinunciabili che la costituiscono come Chiesa: la successione apostolica (che implica la comunione con il Successore di Pietro), i sacramenti, la sacra Scrittura. Quando qualcuno di questi elementi manca o è difettosamente presente, la realtà ecclesiale risulta alterata in proporzione della manchevolezza riscontrata. In particolare, il termine «Chiesa» può essere legittimamente riferito alle Chiese orientali separate, mentre non lo può essere alle Comunità nate dalla Riforma, poiché in queste ultime l'assenza della successione apostolica, la perdita della maggior parte dei sacramenti, e specialmente dell'eucaristia, feriscono e indeboliscono una parte sostanziale della loro ecclesialità (cf. Dominus Iesus, 16 e 17).

7. La Chiesa cattolica ha in sé tutta la verità, poiché è il Corpo e la Sposa di Cristo. Tuttavia non la comprende tutta pienamente. Perciò ha bisogno di essere guidata dallo Spirito «alla verità tutta intera» (Gv 16,13). Altro è l'essere, altra la conoscenza piena dell'essere. Perciò la ricerca e la conoscenza progredisce e si sviluppa. Anche i membri della Chiesa cattolica non sempre vivono all'altezza della sua verità e dignità. Perciò la Chiesa cattolica può crescere nella comprensione della verità, nel senso di appropriarsi consapevolmente e riflessamente di ciò che ontologicamente ed esistenzialmente essa è già. In questo contesto si capisce l'utilità e la necessità del dialogo ecumenico, per recuperare ciò che eventualmente sia stato emarginato o trascurato in determinate epoche storiche e integrare nella sintesi dell'esistenza cristiana nozioni in parte dimenticate. Il dialogo con i non cattolici non è mai sterile né formale, nel presupposto però che la Chiesa è consapevole di avere nel suo Signore la pienezza della verità e dei mezzi salvifici.

Le suddette puntualizzazioni dottrinali consentono di sviluppare una teologia in piena continuità con la Tradizione e nello stesso tempo in linea con l’orientamento e l’approfondimento voluto dal Concilio Vaticano II e dal Magistero successivo fino ad oggi.

II. La Chiesa cattolica e le religioni in rapporto alla salvezza.

E’ normale che, in un mondo che cresce sempre più assieme fino a produrre un villaggio globale, anche le religioni si incontrino. Così oggi la coesistenza di religioni diverse caratterizza sempre più la quotidianità degli uomini. Ciò conduce non solo ad un avvicinamento esteriore di seguaci di religioni diverse, ma contribuisce ad uno sviluppo di interessi verso sistemi di religioni fino ad oggi sconosciute. Nell’Occidente prevale sempre più nella coscienza collettiva la tendenza dell’uomo moderno a coltivare la tolleranza e la liberalità, abbandonando sempre più la pretesa del Cristianesimo ad essere la “vera” religione. La cosiddetta pretesa di assolutezza del cristianesimo, tradotta nella formula tradizionale dell’unica Chiesa in cui soltanto vi è la salvezza, incontra oggi tra i cattolici e gli evangelici incomprensione e rifiuto. Alla formula classica “extra Ecclesiam nulla salus”, oggi si sostituisce spesso la formula “extra Ecclesiam multa salus”.

Le conseguenze di questo relativismo religioso non sono soltanto di ordine teoretico, ma hanno riflessi devastanti di ordine pastorale. E’ sempre più diffusa l’idea che la missione cristiana non deve più perseguire il fine della conversione delle genti al Cristianesimo, ma la missione si limita ad essere o pura testimonianza della propria fede o impegno nella solidarietà e nell’amore fraterno per la realizzazione della pace tra i popoli e della giustizia sociale.

In tale contesto si può osservare una deficienza fondamentale, cioè la perdita della questione della verità. Venendo a mancare la domanda sulla verità, cioè sulla vera religione, l’essenza della religione non si differenzia più dalla sua mistificazione, cioè la fede non riesce a distinguersi più dalla superstizione, l’esperienza autentica religiosa non si distingue più dall’illusione, la mistica non si distingue più dal falso misticismo. Infine, senza la pretesa di verità, anche l’apprezzamento per ciò che è giusto e valido nelle diverse religioni, diventa contraddittorio, perché manca il criterio di verità per constatare ciò che di vero e di buono c’è nelle religioni.

E’ quindi necessario e urgente oggi richiamare i punti fermi della dottrina cattolica sul rapporto tra Chiesa e religioni in ordine alla questione della verità e della salvezza, salvaguardando l’identità profonda della missione cristiana di evangelizzazione. Presentiamo una sintesi ordinata dell’insegnamento del Magistero al riguardo, che mette in luce come anche su questo aspetto esiste una continuità sostanziale del pensiero cattolico, pur nella ricchezza delle sottolineature e delle prospettive emergenti nel Concilio Vaticano II e nel più recente Magistero pontificio. 

1. Il mandato missionario. Cristo ha inviato i suoi Apostoli perché “nel suo Nome” “siano predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati” (Lc 24, 47). “Ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt 28,19). La missione di battezzare, dunque la missione sacramentale, è implicita nella missione di evangelizzare, poiché il sacramento è preparato dalla Parola di Dio e dalla fede,  la quale è consenso a questa Parola (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1122).

2. Origine e scopo della missione cristiana. Il mandato missionario del Signore ha la sua ultima origine nell’amore eterno della Santissima Trinità e il fine ultimo della missione altro non è che di rendere partecipi gli uomini della comunione che esiste tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 850).

3. Salvezza e Verità. “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e arrivino alla conoscenza della verità” (1 Tim 2,4). Ciò significa che “Dio vuole la salvezza di tutti attraverso la conoscenza della verità. La salvezza si trova nella verità” (Dich. Dominus Iesus, 22). “La certezza della volontà salvifica universale di Dio non allenta, ma aumenta il dovere e l’urgenza dell’annuncio della salvezza e della conversione al Signore Gesù Cristo” (Ibid).

4. La vera religione. Il Concilio Vaticano II “professa che lo stesso Dio ha fatto conoscere al genere umano la via, attraverso la quale gli uomini, servendolo, possono in Cristo trovare salvezza e divenire beati. Questa unica vera religione crediamo che sussista nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore ha affidato la missione di comunicarla a tutti gli uomini” ( Dich.Dignitatis humanae, 1).

5. Missione ad gentes e dialogo inter-religioso. Il dialogo inter-religioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa. “Inteso come metodo e come mezzo per una conoscenza e un arricchimento reciproco, esso non soltanto non si contrappone alla missio ad gentes, anzi ha speciali legami con essa e ne è un’espressione” (Lett. Enc. Redemptoris missio, 55). “Il dialogo non dispensa dall’evangelizzazione”(ibid.) né può sostituirla, ma accompagna la missio ad gentes (cf.Congregatio pro Doctrina Fidei,  Dich. Dominus Iesus, 2 e Nota sull’evangelizzazione). “I credenti possono trarre profitto per se stessi da questo dialogo, imparando a conoscere meglio “tutto ciò che di verità e di grazia era già riscontrabile, per una presenza nascosta di Dio, in mezzo alle genti” (Dich. Ad gentes, 9). Se infatti essi annunciano la Buona Novella a coloro che la ignorano, è per consolidare, completare ed elevare la verità e il bene che Dio ha diffuso tra gli uomini e i popoli, e per purificarli dall’errore e dal male “per la gloria di Dio, la confusione del demonio e la felicità dell’uomo” (Ibid.)” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 856).

6. Quanto al rapporto tra Cristianesimo, ebraismo e islam, il Concilio non afferma affatto la teoria, che purtroppo si sta diffondendo nella coscienza dei fedeli, secondo la quale le tre religioni monoteiste (ebraismo, islamismo e cristianesimo) siano come dei rami di una stessa rivelazione divina. La stima verso le religioni monoteiste non diminuisce e non limita in alcun modo il compito missionario della Chiesa: “la Chiesa annuncia ed è tenuta ad annunciare incessantemente che Cristo è la via, la verità e la vita (Gv 14,6) in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa” (Nostra aetate, 2).

7. Il legame della Chiesa con le altre religioni non cristiane. “La Chiesa riconosce nelle altre religioni la ricerca, ancora “nelle ombre e nelle immagini” (Cost. Dogm. Lumen gentium, 16) di “un Dio ignoto”, ma vicino, “poiché è Lui che dà a tutti la vita e respiro ad ogni cosa”. Pertanto la Chiesa considera “tutto ciò che di buono e di vero” si trova nelle religioni “come una preparazione al Vangelo, e come dato da Colui che illumina ogni uomo affinché abbia finalmente la vita” (Ibid.)” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 843).

“Ma nel loro comportamento religioso, gli uomini mostrano anche limiti ed errori che sfigurano l’immagine di Dio” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 844): “molto spesso gli uomini, ingannati dal Maligno, hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore, oppure vivendo e morendo senza Dio in questo mondo, sono esposti alla disperazione finale “ (Cost. Dogm. Lumen gentium, 16).

8.  La Chiesa sacramento universale della salvezza. La salvezza viene da Cristo per mezzo della Chiesa che è il suo Corpo (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 846). “Deve essere fermamente creduto che “la Chiesa pellegrina è necessaria alla salvezza. Infatti solo Cristo è mediatore e la via della salvezza; egli si rende presente a noi nel suo Corpo che è la Chiesa”(Cost. Dogm. Lumen gentium, 14)” (Dominus Iesus, 20). La Chiesa è “sacramento universale di salvezza” (Cost. Dogm. Lumen gentium, 48) perché, sempre unita in modo misterioso e subordinata a Gesù Cristo Salvatore, suo Capo, nel disegno di Dio ha un’imprescindibile relazione con la salvezza di ogni uomo.

9. Valore e funzione delle religioni in ordine alla salvezza. “Secondo la dottrina cattolica si deve ritenereche “quanto lo Spirito opera nel cuore degli uomini e nella storia dei popoli, nelle culture e religioni, assume un ruolo di preparazione evangelica (Lett. Enc. Redemptoris missio, 29)”. E’ dunque legittimo sostenere che lo Spirito Santo opera la salvezza nei non cristiani anche mediante quegli elementi di verità e di bontà presenti nelle varie religioni; ma è del tutto erroneo e contrario alla dottrina cattolica “ritenere queste religioni, considerate come tali, vie di salvezza, anche perché in esse sono presenti lacune, insufficienze ed errori, che riguardano le verità fondamentali su Dio, l’uomo e il mondo” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Notificazione a proposito del libro di J. Dupuis: “Verso una teologia cristiana del pluralismo religioso”, 8).

Riassumendo, risulta chiaro che l’autentico annuncio della Chiesa in relazione alla sua pretesa di assolutezza non è sostanzialmente cambiato dopo l’insegnamento del Vaticano II. Esso esplicita alcuni motivi che completano tale insegnamento, evitando un contesto polemico e bellicoso, e riportando in equilibrio gli elementi dottrinali considerati nella loro integrità e totalità.

Conclusione

Che cosa sta all’origine dell’interpretazione della discontinuità o della rottura con la Tradizione ?

Sta ciò che possiamo chiamare l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del Conciliofin dal principio, sovrapponendosi a esso. Con questa espressione, non si intende qualcosa che riguarda i testi del Concilio, né tanto meno l’intenzione dei soggetti, ma il quadro di interpretazione globale in cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti. Il Concilio non è affatto l’ideologia paraconciliare, ma nella storia della vicenda ecclesiale e dei mezzi di comunicazione di massa ha operato in larga parte la mistificazione del Concilio, cioè appunto l’ideologia paraconciliare. Perché tutte le conseguenze dell’ideologia paraconciliare venissero manifestate come evento storico, si dovette verificare la rivoluzione del ’68, che assume come principio la rottura con il passato e il mutamento radicale della storia. Nell’ideologia paraconciliare il ’68 significa una nuova figura di Chiesa in rottura con il passato, anche se le radici di questa rottura erano già da qualche tempo presenti in certi ambienti cattolici.  

Tale quadro di interpretazione globale, che si sovrappone in modo estrinseco al Concilio, si può caratterizzare principalmente da questi tre fattori:

1) Il primo fattore è la rinuncia all’anathema, cioè alla netta contrapposizione tra ortodossia ed eresia.

In nome della cosiddetta “pastoralità” del Concilio, si fa passare l’idea che la Chiesa rinuncia alla condanna dell’errore, alla definizione dell’ortodossia in contrapposizione all’eresia. Si contrappone la condanna degli errori e l’anatema pronunciato dalla Chiesa in passato su tutto ciò che è incompatibile con la verità cristiana al carattere pastorale dell’insegnamento del Concilio, che ormai non intenderebbe più condannare o censurare, ma soltanto esortare, illustrare o testimoniare.

In realtà non c’è nessuna contraddizione tra la ferma condanna e confutazione degli errori in campo dottrinale e morale e l’atteggiamento di amore verso chi cade nell’errore e di rispetto della sua dignità personale. Anzi, proprio perché il cristiano ha un grande rispetto per la persona umana, si impegna oltre ogni limite per liberarla dall’errore e dalle false interpretazioni della realtà religiosa e morale.

L’adesione alla persona di Gesù Figlio di Dio, alla sua Parola e al suo mistero di salvezza, esige una risposta di fede semplice e chiara, quale è quella che si trova nei simboli della fede e nella regula fidei. La proclamazione della verità della fede implica sempre anche la confutazione dell’errore e la censura delle posizioni ambigue e pericolose che diffondono incertezza e confusione nei fedeli.

Sarebbe quindi sbagliato e infondato ritenere che dopo il Concilio Vaticano II il pronunciamento dogmatico e censorio del Magistero debba essere abbandonato o escluso, così come sarebbe altrettanto sbagliato ritenere che l’indole espositiva e pastorale dei Documenti del Concilio Vaticano II non implichi anche una dottrina che esige il livello di assenso da parte dei fedeli secondo il diverso grado di autorità delle dottrine proposte.

2) Il secondo fattore è la traduzione del pensiero cattolico nelle categorie della modernità. L’apertura della Chiesa alle istanze e alle esigenze poste dalla modernità (vedi Gaudium et Spes) viene interpretata dall’ideologia para-conciliare come necessità di una conciliazione tra Cristianesimo e pensiero filosofico e ideologico culturale moderno. Si tratta di un’operazione teologica e intellettuale che ripropone nella sostanza l’idea del modernismo, condannato all’inizio del Novecento da S. Pio X.

La teologia neo-modernistica e secolaristica ha cercato l’incontro con il mondo moderno proprio alla vigilia della dissoluzione del “moderno”. Con il crollo del cosiddetto “socialismo reale” nel 1989 sono crollati quei miti della modernità e della irreversibilità dell’emancipazione della storia che rappresentavano i postulati del sociologismo e del secolarismo. Al paradigma della modernità succede infatti oggi quello post-moderno del “caos” o della “complessità pluralistica”, il cui fondamento è il relativismo radicale. Nell’Omelia dell’allora Cardinale Joseph Ratzinger, prima di essere eletto Papa, in occasione della celebrazione liturgica “Pro eligendo pontifice”(18/04/2005), viene focalizzato il centro della questione: “Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero…La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via…Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.

Di fronte a questo processo occorre innanzitutto recuperare il senso metafisico della realtà (cf. Enciclica Fides et ratio di Papa Giovanni Paolo II) ed una visione dell’uomo e della società fondata su valori assoluti, metastorici e permanenti. Questa visione metafisica non può prescindere da una riflessione sul ruolo nella storia della Grazia, cioè del Soprannaturale, di cui la Chiesa, Corpo Mistico di Cristo, è depositaria. La riconquista del senso metafisico con il lumen rationis deve essere parallela a quella del senso soprannaturale con il lumen fidei.

Al contrario, l’ideologia para-conciliare ritiene che il messaggio cristiano deve essere secolarizzato e reinterpretato secondo le categorie della cultura moderna extra e anti ecclesiale, compromettendone l’integrità, magari col pretesto di un “opportuno adattamento” ai tempi. Il risultato è la secolarizzazione della religione e la mondanizzazione della fede.

Uno degli strumenti per mondanizzare la Religione è costituito dalla pretesa di modernizzarla adeguandola allo spirito moderno. Questa pretesa ha condotto il mondo cattolico ad impegnarsi in un “aggiornamento”, che costituiva in realtà in una progressiva e a volte inconsapevole omologazione della mentalità ecclesiale con il soggettivismo e il relativismo imperanti. Questo cedimento ha portato ad un disorientamento nei fedeli privandoli della certezza della fede e della speranza nella vita eterna, come fine prioritario dell'esistenza umana.

3) Il terzo fattore è l’interpretazione dell’aggiornamento voluto dal Concilio Vaticano II.

Con il termine “aggiornamento”, Papa Giovanni XXIII volle indicare il compito prioritario del Concilio Vaticano II. Questo termine nel pensiero del Papa e del Concilio non esprimeva però ciò che invece è accaduto in suo nome nella recezione ideologica del dopo-Concilio. “Aggiornamento” nel significato papale e conciliare voleva esprimere la intenzione pastorale della Chiesa di trovare i modi più adeguati e opportuni per condurre la coscienza civile del mondo attuale a riconoscere la verità perenne del messaggio salvifico di Cristo e della dottrina della Chiesa. Amore per la verità e zelo missionario per la salvezza degli uomini sono alla base i principi dell’azione di “aggiornamento” voluto e pensato dal Concilio Vaticano II e dal Magistero pontificio successivo.

Invece dall’ideologia para-conciliare, diffusa soprattutto dai gruppi intellettualistici cattolici neomodernisti e dai centri massmediatici del potere mondano secolaristico, il termine “aggiornamento” venne inteso e proposto come il rovesciamento della Chiesa di fronte al mondo moderno: dall’antagonismo alla recettività. La Modernità ideologica – che certamente non deve essere confusa con la legittima e positiva autonomia della scienza, della politica, delle arti, del progresso tecnico – si è posta come principio il rifiuto del Dio della Rivelazione cristiana e della Grazia. Essa non è quindi neutrale di fronte alla fede. Ciò che fece pensare ad una conciliazione della Chiesa con il mondo moderno portò così paradossalmente a dimenticare che lo spirito anticristiano del mondo continua ad operare nella storia e nella cultura. La situazione postconciliare venne così descritta già da Paolo VI nel 1972:

“Da qualche fessura è entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio: c’è il dubbio, l’incertezza, la problematica, l’inquietudine. E’ entrato il dubbio nelle nostre coscienze ed è entrato per finestre che invece dovevano essere aperte alla luce. Anche nella Chiesa regna questo stato di incertezza. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E’ venuta invece una giornata di nuvole, di tempeste, di buio, di ricerca, di incertezza. Come è avvenuto questo? Vi confidiamo un nostro pensiero: c’è stato l’intervento di un potere avverso: il suo nome è il diavolo, questo misterioso essere a cui si fa allusione anche nella lettera di san Pietro” (Paolo VI, Insegnamenti, Ed. Vaticana,vol. X, 1972, p. 707).

Purtroppo gli effetti di quanto individuato da Paolo VI non sono scomparsi. Un pensiero estraneo è entrato nel mondo cattolico, gettando scompiglio, seducendo molti animi e disorientando i fedeli. Vi è uno “spirito di autodemolizione” che pervade il modernismo, che si è impadronito, tra l’altro, di gran parte della pubblicistica cattolica. Questo pensiero estraneo alla dottrina cattolica si può constatare ad esempio sotto due aspetti.

Un primo aspetto è la visione sociologica della fede, cioè un’interpretazione che assume il sociale come chiave di valutazione della religione, e che ha comportato una falsificazione del concetto di chiesa secondo un modello democratico. Se si osservano le discussioni attuali sulla disciplina, sul diritto, sul modo di celebrare la liturgia, non si può evitare di registrare che questa falsa comprensione della Chiesa è diventata diffusa tra i laici e teologi secondo lo slogan: Noi siamo il popolo, noi siamo Chiesa (Kirche von unten). Il Concilio in realtà non offre alcun fondamento a questa interpretazione, poiché l’immagine del popolo di Dio riferita alla Chiesa è sempre legata alla concezione della chiesa come Mistero, come comunità sacramentale del corpo di Cristo, composto da un popolo che ha un capo e da un organismo sacramentale composto da membra gerarchicamente ordinate. La Chiesa non può quindi diventare una democrazia, in cui il potere e la sovranità derivano dal popolo, poiché la Chiesa è una realtà che proviene da Dio ed è fondata da Gesù Cristo. Essa è intermediaria della vita divina, della salvezza e della verità, e dipende dalla sovranità di Dio, che una sovranità di grazia e di amore. La Chiesa è allo stesso tempo dono di grazia e struttura istituzionale, perché così ha voluto il suo Fondatore: chiamando gli Apostoli, “Gesù ne istituì dodici” (Mc 3,13).

 Un secondo aspetto, su cui attiro la vostra attenzione, è l’ideologia del dialogo. Secondo il Concilio e la Lettera Enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam, il dialogo è un importante e irrinunciabile mezzo per il colloquio della Chiesa con gli uomini del proprio tempo. Ma l’ideologia paraconciliare trasforma il dialogo da strumento a scopo e fine primario dell’azione pastorale della Chiesa, svuotando sempre più di senso e oscurando l’urgenza e l’appello alla conversione a Cristo e all’appartenenza alla Sua Chiesa.

Contro tali deviazioni, occorre ritrovare e recuperare il fondamento spirituale e culturale della civiltà cristiana, cioè la fede in Dio, trascendente e creatore, provvidente e giudice, il cui Figlio Unigenito si è incarnato, è morto e risuscitato per la redenzione del mondo e ha effuso la grazia dello Spirito Santo per la remissione dei peccati e per rendere gli uomini partecipi della natura divina. La Chiesa, Corpo di Cristo, istituzione divino-umana, è il sacramento universale della salvezza e l’unità degli uomini, di cui essa è segno e strumento, è nel senso di unire gli uomini a Cristo mediante il suo Corpo, che è la Chiesa.

L’unità di tutto il genere umano, di cui parla LG, 1, non deve essere intesa quindi nel senso di raggiungere la concordia o la riunificazione delle varie idee o religioni o valori in un “regno comune o convergente”, ma essa si ottiene riconducendo tutti all’unica Verità, di cui la Chiesa cattolica è depositaria per affidamento di Dio stesso. Nessuna armonizzazione delle dottrine “varie e peregrine”, ma annuncio integro del patrimonio della verità cristiana, nel rispetto della libertà di coscienza, e valorizzando i raggi di verità sparsi nell’universo delle tradizioni culturali e delle religioni del mondo, opponendosi nello stesso tempo alle visioni che non coincidono e non sono compatibili con la Verità, che è Dio rivelato in Cristo.

Concludo ritornando alle categorie interpretative suggerite da Papa Benedetto nel Discorso alla Curia Romana, citato all’inizio. Esse non fanno riferimento al consueto e obsoleto schema ternario: conservatori, progressisti, moderati, ma si appoggiano su un binario squisitamente teologico: due ermeneutiche, quella della rottura e quella della riforma nella continuità. Occorre imboccare quest’ultimo indirizzo nell’affrontare i punti controversi, liberando, per così dire, il Concilio dal para-concilio che si è mescolato ad esso, e conservando il principio dell’integrità della dottrina cattolica e della piena fedeltà al deposito della fede trasmesso dalla Tradizione e interpretato dal Magistero della Chiesa.

Caterina63
00mercoledì 13 ottobre 2010 11:03

Il Vaticano II, un Concilio “rivoluzionario”?


Convegno di studi a Roma, dal 16 al 18 dicembre 2010


di padre Serafino M. Lanzetta, FI*

ROMA, martedì, 12 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Il Seminario Teologico “Immacolata Mediatrice”, dei Francescani dell’Immacolata, organizza un convegno di studi sul Concilio Ecumenico Vaticano II, dal 16 al 18 dicembre prossimi, a Roma, presso l’Istituto Maria SS. Bambina (via Paolo VI, 21).

Mossi dal discorso del Santo Padre alla Curia Romana (22 dicembre 2005), in cui il Pontefice rilevava che nel post-concilio due ermeneutiche si erano tra loro scontrate: quella vera della «continuità nella riforma» e quella che ha seminato confusione perché privilegiante lo spirito, il fattore “evento”, a scapito della lettera, quella cioè della «rottura», ci si prefigge di esaminare il Vaticano II e di mettere in luce la sua natura e il suo fine peculiari, entrambi di carattere pastorale.

Certo, non per fare del Vaticano II un concilio “di serie B”, ma al fine di mettere meglio in luce quest’unicum che caratterizza per la prima volta un Concilio Ecumenico: non voler dichiarare nuovi dogmi o insegnare in modo definitivo ed infallibile, ma prefiggersi di dire la dottrina di sempre al mondo di oggi; con accenti nuovi, espressioni nuove, ma la fede di sempre, in modo pastorale. Così si espresse Giovanni XXIII nel Discorso di apertura del Concilio (11 ottobre 1962): «Quel che più di tutto interessa il Concilio è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace».

Il Vaticano II, indubitabilmente, come conviene ad un concilio, ha portato notevoli progressi nel campo dogmatico: nel suo svolgersi, soprattutto con l’impronta ecclesiologica datagli da Paolo VI, si formularono asserti magisteriali “nuovi”, nella continuità dell’unica Tradizione. Basti rammentare il concetto di collegialità inserito nel contesto della Chiesa comunione, un maggiore approfondimento degli elementa Ecclesiae, per i quali le altre confessioni cristiane sono ordinate all’unica Chiesa di Cristo, la Chiesa cattolica, ecc.

Spesso, però, magari presi dal fervore del nuovo, quando non addirittura da un accecamento storicista, si dimentica di considerare che il Vaticano II non si identifica con la Tradizione della Chiesa, non è il suo fine: questa è più grande, mentre il Concilio ne è un momento espressivo e solenne; si dimentica poi il suo carattere magisteriale ordinario, sebbene espresso in forma solenne dall’Assise conciliare, e l’assenza di pronunciamenti infallibili; si dimentica, infine, che i documenti del Vaticano II – a differenza di Trento e del Vaticano I, ad esempio – sono distinti in Costituzioni, Dichiarazioni e Decreti, e pertanto non hanno tutti il medesimo valore dottrinale, rimanendo pur sempre chiara e fontale l’attitudine generale del Concilio, di insegnare in modo autentico ordinario.

Paolo VI, infatti, nell’Udienza Generale del 12 gennaio 1966, ricordava che «bisogna fare attenzione: gli insegnamenti del Concilio non costituiscono un sistema organico e completo della dottrina cattolica; questa è assai più ampia, come tutti sanno, e non è messa in dubbio dal Concilio o sostanzialmente modificata; ché anzi il Concilio la conferma, la illustra, la difende e la sviluppa…».

Richiamandosi poi alle Notificazioni del Segretario Generale del Concilio, del 16 novembre 1964, aggiungeva: «…dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell’autorità del supremo magistero ordinario il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti».

Dove si annida, però, quella volontà di far risultare il Vaticano II come «un nuovo inizio a partire dal nulla», sì da diventare un «superdogma», mentre esso in verità «escogitò di rimanere in un livello modesto, come un semplice concilio pastorale» (Cardinale J. Ratzinger, Discorso ai Vescovi del Cile, 13 luglio 1988)? A nostro modo di vedere, e come si tenterà di far emergere dai lavori del convegno, una della cause è lo stesso lemma “pastorale”, che nella stagione post-conciliare ha subito notevoli trasformazioni: un ricco approfondimento accanto però ad una voluta equivocità.

Si è verificata un’inversione: la pastorale è divenuta la vera dogmatica, mentre la dogmatica è stata superata in nome della pastorale. Per molti l’unico concilio dogmatico è il Vaticano II, mentre quelli precedenti sarebbero superabili in nome del nuovo concetto di “pastorale”, che nella categoria “evento”, compendia e sorpassa a livello esistenziale la discontinuità dogmatica causata in precedenza dalle definizioni di fede e la stessa reticenza nei confronti del mondo; per altri il Vaticano II, in quanto semplicemente pastorale, sarebbe sic et simpliciter inoffensivo, se non addirittura da cancellare con un colpo di spugna, ignorando però che il mistero-Chiesa rimane identico nel fluttuar degli eventi, in ragione dell’assistenza dello Spirito Santo e della vigile premura del Magistero.

Il problema è molto delicato e richiede un esame attento, critico e ragionato, partendo dalle fonti e non dai sentimenti. Qual è la mens del Concilio? Dove si evidenzia? Non si può pertanto prescindere dai documenti e dallo stesso iter storico-dottrinale che ha portato alla loro promulgazione. Non stiamo certo con Otto Hermann Pesch che parla di un «significato rivoluzionario» del Vaticano II, stiamo con la Chiesa e nella Chiesa: Ella solo è portatrice della Tradizione. Ma si tenterà di capire perché, di fatto, sembra che una rivoluzione ci sia stata.

[Per maggiori informazioni, si legga il programma]

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*Padre Serafino M. Lanzetta, sacerdote professo dell'Istituto dei Francescani dell'Immacolata, è parroco della Chiesa di S. Salvatore in Ognissanti (Firenze) dal 2004 e insegna teologia dogmatica presso l'Istituto Teologico "Immacolata Mediatrice" (Cassino - Frosinone). Dal 2006 è direttore della rivista teologica "Fides Catholica". Collabora con diversi periodici a carattere culturale e teologico e ha curato finora la realizzazione di due convegni teologici presso il Cenacolo del Ghirlandaio, Firenze, con le relative pubblicazioni.



Caterina63
00venerdì 15 ottobre 2010 09:36

Los mineros de la Tradicion

C’era una volta una miniera che da quasi duemila anni produceva, senza mai esaurirsi, i più preziosi tesori. Era la cava di Santa Misa, che un grande minatore del passato, Leonardo de Portomauricios, aveva definito il tesoro nascosto.

I minatori lavoravano ininterrottamente, senza inventarsi nuovi metodi di estrazione, come avevano imparato dai loro antenati; sempre lo stesso fruttuoso sistema di lavorazione per 15 secoli.

Ma un bel giorno, un terribile disastro minerario, chiamato la reforma, si abbatté sulla miniera: il ciclone buñiño soffiava, aumentando le proporzioni della tragedia.

I buoni mineros erano rimasti intrappolati per quarant’anni nel buio della miniera: e lì, senza perdere la speranza, avevano lavorato nell’oscurità, sottoponendosi ad aspre penitenze, mai perdendo la fiducia in Dio, ed elevando continue preghiere, certi che un giorno sarebbero stati esauditi.

Nonostante fossero passati 40 anni, il ministro delle miniere Ratzeriño non si dava per vinto. Alcune Conferencias episcopales - società minerarie che non di rado facevano la fronda al ministro delle miniere - gli suggerivano: “Ormai sono tutti morti, quella miniera è ormai cosa del passato: abbiamo qui una nuova miniera che sostituisce la vecchia”.

Ma Ratzeriño - un po’ perché gli piaceva sempre la vecchia miniera, nella quale aveva lavorato in gioventù - un po’ perché la nuova miniera non produceva quasi niente, nonostante avessero inventato i più strampalati metodi di lavorazione, con danze sciamaniche e urla selvagge al limite del sopportabile – non si arrese.

E così, un giorno, appoggiando l’orecchio per terra, gli sembrò di sentire un Dominus vobiscum.

“Sono vivi, sono vivi! E sento anche delle voci giovani!”, esclamò il buon vegliardo. Per l’emozione, alcuni membri delle Conferencias furono colti da strani malori. Al pronto soccorso fu diagnosticata una indigestione di I grado.

I tecnici delle Conferencias scuotevano la testa, ma l’anziano ministro delle miniere fece ulteriori ricerche, e così, da una sonda, usci un biglietto: SIAMO TUTTI VIVI; firmato los mineros de la Tradicion.

Ratzeriño diede ordine di costruire una speciale cabina per estrarre i minatori: la chiamò Summorum Pontificum.

Le previsioni erano alquanto menagrame: «Ci vorranno molti anni prima di estrarre i minatori e far riprendere la produzione ordinaria della miniera».

«Non dico produzione ordinaria, ma straordinaria!», rispose Ratzeriño.

Ratzeriño dunque non si scoraggio, e andò avanti con i lavori. Condannò l'escavazione della rottura, dicendo che bisognava scavare nella continuità.

Finalmente venne il giorno della liberazione, il 7 luglio 2007.

Al momento di entrare nella capsula Summorum Pontificum i minatori dicevano: “Introibo ad Altare Dei”.

Milioni e milioni di fedeli erano ad attendere i minatori; c’erano i bambini, stanchi dei girotondi della pace, desiderosi dei primi elementi della dottrina cristiana; c’erano giovani che aspettavano seminari senza errori e con una intensa vita spirituale; c’erano folle che aspettavano confessori rimasti fermi ai dieci comandamenti piuttosto che alla raccolta differenziata dei rifiuti e al codice della strada, e sacerdoti adoratori che esponessero loro il SS. Sacramento.

Erano state predisposte delle cure mediche per i minatori, ma questi rinunciarono, perché non c’era tempo da perdere.

La miniera che aveva dato tesori preziosi per secoli era ormai riaperta: e, pur essendo il cielo ancora nuvolosissimo, un raggio di luce illuminava tutta la terra, confortando il cuore dei buoni fedeli.


Caterina63
00mercoledì 17 novembre 2010 18:57
 

I dilemmi tridentini: uno spirito per ogni Concilio.




Tra il 1545 e il 1563 nel nord Italia (principalmente a Trento, tranne un periodo bolognese) si tenne, con alcuni periodi di interruzione, il Concilio Tridentino. Ad esso sono seguiti, in quasi cinque secoli di storia della Chiesa, appena altre due assisi conciliari: il Vaticano I (1869-70) e il Vaticano II (1962-65).

Essi si inseriscono, in ogni caso, in un lungo elenco di Concili: nella Chiesa Cattolica se ne individuano in tutto ventuno, comprendenti oltre sedici secoli di storia cristiana. Ognuna di queste solenni assemblee ha il proprio posto e la propria dignità, pur se alcune possono aver lasciato un peso maggiore di altre.
Nonostante questa prospettiva, a partire da una quarantina d'anni fa si è andata purtroppo diffondendo un'idea di rifiuto di tutto ciò che non sembrasse in linea con una malintesa idea di “spirito” del Concilio Vaticano II.

Questa prospettiva, è bene dirlo, non è stata fatta propria, generalmente, dai pastori della Chiesa e, soprattutto, dai Sommi Pontefici che, dopo il beato Giovanni XXIII, hanno esercitato il ministero petrino. Eppure in troppi settori ecclesiali è stata accettata l'idea che la Chiesa fosse stata “rifondata” negli anni Sessanta e che si dovesse lavorare per demolire una generica “Chiesa costantiniana”, giudicata contaminata, deviata, lontana dalla purezza del cristianesimo primitivo. In una simile visione il Concilio di Trento veniva a trovarsi sotto un fuoco poco amichevole, giudicato come espressione di una visione inevitabilmente sorpassata di Chiesa. Ma esso fu probabilmente visto anche come un ostacolo al cammino ecumenico verso i fratelli protestanti: Trento diventava così sinonimo di inaudita rigidità teologica, di scarso afflato dialogico, di fondamentale espressione di una Chiesa troppo “ricca”, “lontana”, “chiusa”.

Questa rappresentazione, alquanto parziale, non è ancora morta del tutto: essa ha prodotto gravi danni tra i fedeli ed è importante che venga estromessa, poiché, oltre ad essere scarsamente fondata, è pure foriera di rischi alquanto elevati sul piano dottrinale. E questa è una preoccupazione alquanto importante, nonostante le voci in contrario. Quest'idea, del resto, è già stata affrontata e confutata oltre vent'anni fa dall'allora cardinal Ratzinger (nota 1).

Il Concilio di Trento, infatti, intervenne in maniera decisa per ristabilire e difendere l'ortodossia cattolica contro i forti attacchi delle idee protestanti. In esso vennero ribaditi e definiti molto chiaramente punti fondamentali del patrimonio dottrinale cattolico: il rifiuto del libero esame delle Sacre Scritture, del predestinazionismo protestante; l'accettazione della dottrina del peccato originale, dei sette sacramenti, della Presenza Reale, del Santo Sacrificio della Messa, del sacerdozio ministeriale, del Purgatorio, del culto della Beata Sempre Vergine Maria e dei santi, delle reliquie, delle indulgenze. Il Tridentino trattò ovviamente anche d'altro, ma questi mi sembrano i punti principali. Certamente non si pretese di svolgere una piena e totale esposizione del dogma cattolico, ma nondimeno si vollero precisare e chiarire quei punti che il protestantesimo aveva messo in pericolo.

A questo punto forse potrebbe sembrare avere un qualche fondamento l'idea che un processo ecumenico verso i protestanti debba necessariamente passare, se non da un'abolizione, quantomeno da una revisione di Trento. Non è così: ha infatti affermato il Concilio Vaticano II che “Bisogna assolutamente esporre con chiarezza tutta intera la dottrina. Niente è più alieno dall'ecumenismo che quel falso irenismo, che altera la purezza della dottrina cattolica e ne oscura il senso genuino e preciso.” (nota 2)

Del resto, la Madre Chiesa è rimasta fedele anche oggi – e non si vede, del resto, come potrebbe non esserlo – a quanto venne da essa medesima definito a Trento: il Concilio Vaticano II presenta innumerevoli citazioni e rimandi al Concilio Tridentino, così come l'attuale Catechismo della Chiesa Cattolica.

I Sommi Pontefici hanno chiaramente manifestato questo pensiero. Il servo di Dio Paolo VI nel 1964 (quindi in pieno Vaticano II) parlò del “grande Concilio ecumenico che appunto da Trento prende il suo nome” (nota 3), di “grande opera del Concilio di Trento” (nota 3), affermò che “lo spirito del Concilio di Trento è la luce religiosa non solo per il lontano secolo decimosesto, ma lo è altresì per il nostro” (nota 3) e che “lo spirito del Concilio di Trento riaccende e rianima quello del presente Concilio Vaticano, che a quello si collega e da quello prende le mosse” (nota 3).Ma anche il venerabile Giovanni Paolo II non ha fatto mancare la propria voce in merito, parlando in proposito di “grande evento della storia della Chiesa” (nota 4), di “inestimabile occasione di grazia e di religioso rinnovamento” (nota 4), di “grande risposta della fede cattolica alle sfide della cultura moderna ed agli interrogativi posti dai Riformatori” (nota 4) e diversi altri elogi ancora.

Infine, anche l'attuale Pontefice regnante, Benedetto XVI, ha per esempio ricordato il Concilio di Trento come “nuova attualizzazione e una rivitalizzazione della […] dottrina” (nota 5).

In conclusione, penso appaia alquanto evidente come il Concilio di Trento, oggetto di eccessivi attacchi e ingiustificate amnesie, è invece un momento tuttora fondamentale della storia della Chiesa e conserva tuttora i suoi benefici effetti sulla cristianità. E' pur vero che, d'altro canto, pare poco giustificabile la pretesa di chi volesse ergere il Tridentino a propria esclusiva bandiera ed utilizzarlo come una sorta di clava per rivendicare un impossibile ritorno ad una “Chiesa Tridentina” che, peraltro, non è poi di così semplice individuazione, poiché la realtà ecclesiale è varia e complessa.

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(nota 1) “ [...] Circolano facili slogans. Secondo uno di questi, ciò che oggi conta sarebbe solo l'ortoprassi, cioè il "comportarsi bene", l' "amare il prossimo". Sarebbe invece secondaria, se non alienante, la preoccupazione per l'ortodossiaortoprassi, dell'amore per il prossimo, non cambiano forse radicalmente a seconda dei modi di intendere l'ortodossia? Per trarre un esempio attuale dal tema scottante del Terzo Mondo e dell'America Latina: qual è la giusta prassi per soccorrere i poveri in modo davvero cristiano e dunque efficace? La scelta di una retta azione non presuppone forse un retto pensiero, non rinvia forse alla ricerca di una ortodossia? [...] ” (J.Ratzinger, Rapporto sulla fede. Vittorio Messori a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2005 (edizione originale 1985), pag. 19-20. Il corsivo è presente nell'opera citata

(nota 2) Cfr. Decreto sull'Ecumenismo Unitatis Redintegratio, n. 11.

(nota 3) Cfr. Omelia di Paolo VI dell'8 marzo 1964.

(nota 4) Cfr. Discorso di Giovanni Paolo II a Trento del 30 aprile 1995.

(nota 5) Cfr. Risposte di Benedetto XVI ai sacerdoti della diocesi di Albano, 31 agosto 2006.
 

Caterina63
00domenica 19 dicembre 2010 17:33

Nancy, Festa della Compassione 1981

Cari Amici,

Questa lettera sarà ricevuta da molti come quella di un fantasma. Effettivamente, quando ho proposto di sottoscrivere alla pubblicazione delle Conferenze ai Giovani, ho avuto il grave torto di non precisare che ero incapace di dire a chiunque, fosse pure un bambino di sette anni, qualcosa di diverso da ciò che predico alle Carmelitane… e nelle Lettere agli Amici. La maggior parte di voi ha dunque potuto credere che quelle Conferenze non li riguardassero. Siccome esse mi hanno richiesto un grande lavoro, non potevo far fronte alla redazione delle une e delle altre: di qui un silenzio apparente di parecchi anni.

Questo malinteso è reso più spiacevole dal fatto che il tentativo piuttosto folle di fare arrivare a dei giovani lo stesso messaggio indirizzato a dei contemplativi mi ha costretto a presentarlo in un modo più semplice, ma non meno profondo e in definitiva più felice, forse, di quello adottato nei ritiri alle comunità, nelle Lettere agli Amici e, peggio ancora, nei ciclostilati.

Per fortuna questa lacuna sta oggi per essere colmata dalla pubblicazione del libro Adoration ou Désespoir presso le edizioni CLD, che riprende proprio il testo delle Conferenze ai Giovani (tranne quattro conferenze, che mi potete sempre chiedere).

Devo segnalare che parecchie librerie hanno poca simpatia per le edizioni CLD a causa della loro impostazione tradizionale, perciò è probabile che la maggior parte di voi non abbia sentito parlare di questo libro, l’ho constatato io stesso da più parti. Mi permetto di invitarvi ad acquistarlo, insistendo se è il caso presso il vostro libraio di fiducia. Come ho appena spiegato, potete considerare questo libro come l’insieme delle Lettere agli Amici che non avete ricevuto gli scorsi anni.

Adesso che il lavoro è terminato, non ho intenzione di fermarmi e spero di proporre presto nuove Lettere, la prima delle quali parlerà di Madre Teresa, a partire da un ritiro che ho predicato su di lei. Fin d’ora aggiungo a queste poche parole:

1) Una breve professione di fede a proposito del Concilio Vaticano II°, per collocarmi senza clamore di fronte alle questioni scottanti che agitano la Chiesa di Francia.

2) Il catalogo degli Scritti e delle Registrazioni preparati in questi ultimi quattro anni: questo per riprendere largamente i contatti con tutti coloro che, un giorno o l’altro, hanno potuto interessarsi a ciò che facevo.

Devo dire che la decisione di mandarvi questa lettera deve molto alla testimonianza di una di voi, perché ho piuttosto tendenza a minimizzare l’importanza dei miei sforzi. Ecco quello che mi dice:

“Le sue lettere mi mancano molto, dopo l’ultima del Natale del 1977. Non penso di essere la sola perché, qualche mese fa, E. S. mi diceva di trovarsi nella mia stessa situazione.

Se è perché ha delle ragioni per interrompere, non posso che inchinarmi, anche se forse le gioverà sapere quale vuoto crea il suo silenzio. Sarà perché ho appena ascoltato nella Messa una lettura che mi ha molto colpito. Era Ezechiele 33, 7-9: “O Figlio d’uomo, io ti ho costituito sentinella per gli Israeliti; ascolterai una parola dalla mia bocca e tu li avvertirai da parte mia. Se io dico all’empio: Empio tu morirai, e tu non parli per distoglier l’empio dalla sua condotta, egli, l’empio, morirà per la sua iniquità (si allude alla morte dell’anima: vedi a questo riguardo ciò che dico più avanti sull’analogia della fede); ma della sua morte chiederò conto a te. Ma se tu avrai ammonito l’empio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte, egli morirà per la sua iniquità, tu invece sarai salvo.”

Il nostro tempo – non so se più o meno degli altri – ha terribilmente bisogno di sentinelle, perché il “mondo” è malvagio. E tuttavia lo Spirito, lo testimoniano parecchi segni, è sempre all’opera e molte volontà non aspettano che questo segno per rispondere.

Con profonda fedeltà.”

***

BREVE PROFESSIONE DI FEDE A PROPOSITO DEL CONCILIO

La parola di Dio ci è trasmessa dalla Scrittura e dalla Tradizione. La Tradizione è essenzialmente orale, anche se si esprime attraverso numerosi testi. Essa ingloba e supera la Scrittura, perché è essa che ci consegna la Scrittura e ci dà per esempio la lista dei libri ispirati o, come si dice, canonici (non troverete questa lista nella Bibbia).

È sempre la Tradizione che spiega e interpreta infallibilmente, non solo la Bibbia ma la stessa Tradizione, la cui natura, ripeto, è essenzialmente orale: “Ma come potranno invocarlo senza aver prima creduto in Lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?” (Rm 10, 14). La Tradizione si trasmette così da uomo a uomo, e non da libro ad uomo, fosse pure, questo libro, la Bibbia: “Capisci quello che stai leggendo?” chiede Filippo all’eunuco etiope. “E come lo potrei, se nessuno mi istruisce?” (At 8, 31).

Per trasmettere e interpretare la Rivelazione, la Tradizione utilizza costantemente ciò che si chiama l’analogia della fede. Questo vuol dire che essa interpreta i testi della Bibbia alla luce dei testi della Bibbia, i testi del Magistero alla luce dei testi del Magistero: più profondamente, essa interpreta i testi alla luce della Tradizione orale che ingloba e supera tutti i testi.

Per far questo, il Magistero è dotato di un carisma infallibile, che esercita costantemente in modo ordinario, e talora in modo straordinario, per attirare l’attenzione dei fedeli su certe verità, alcune delle quali diventano allora dei dogmi solennemente definiti.

La pienezza del Magistero è concentrata nella persona del Papa, ma si estende all’insieme dei Vescovi riuniti attorno al Papa, specialmente in occasione dei concili ecumenici.

Ora il Concilio Vaticano II è ecumenico perché è stato voluto come tale dal Papa e dai Vescovi del mondo intero, che è come dire il Magistero in funzione in quel periodo. Come i testi di questo Concilio ricordano espressamente, li si deve intendere alla luce degli altri Concili, della Bibbia e più profondamente, come ho appena detto, della Tradizione tutta intera. Non ci può dunque essere a priori nessuna contraddizione tra questo Concilio e gli altri, in particolare il Concilio di Trento e il Vaticano I: dubitare di questo è dubitare della Rivelazione.

È capitato, nella storia della Chiesa, che le stesse parole, la stessa proposizione, la stessa tesi, sia considerata come eretica in un contesto eretico, e ortodossa e cattolica in un contesto cattolico.

Non ho da sapere, e nessun fedele ha bisogno di sapere, ciò che è successo prima e durante il Concilio nel corso della preparazione degli schemi: lo Spirito Santo può disertare gli uomini di Chiesa e le loro discussioni, non può disertare un Concilio ecumenico come tale.

Ciò che ha tradito il Concilio è stata la “tradizione” (e la traduzione) dei suoi testi da parte dei pastori e dei cristiani (la tradizione con la t minuscola è sempre più o meno una traduzione, e cioè un tradimento: traduttore, traditore!). Molti hanno rifiutato di praticare a loro riguardo l’analogia della Fede: hanno opposto allora questo Concilio agli altri, sia per attenuare la portata dei dogmi del passato, sia per denunciare il Vaticano II come infedele agli insegnamenti del passato.

Procedere così è già porsi al di fuori della Rivelazione, è rifiutare la sottomissione dell’intelligenza umana alla semplicità trascendente della Parola di Dio: lo affermo a priori, e ancor prima di prendere in considerazione il contenuto dei testi conciliari, perché mi basta sapere che il concilio è ecumenico per sapere che un tale atteggiamento è in realtà il naufragio della Fede.

Certe proposizioni del Vaticano II possono sembrare nuove: non si vede come conciliarle con gli insegnamenti del passato. In questo caso affermo a priori che è l’intelligenza umana che è in difetto: essa non riesce a innalzarsi al livello della Tradizione orale e alla sua divina armonia. Il lavoro dei teologi dovrà allora consistere nel cercare umilmente questa armonia che sfugge.

S. Tommaso d’Aquino non vedeva come conciliare l’Immacolata Concezione con la necessità universale della Salvezza: si sarebbe inchinato davanti all’affermazione di un Concilio ecumenico, anche in assenza di una definizione solenne: gli sarebbe bastato il Magistero ordinario di un concilio per sottomettere il proprio giudizio.

Notiamo bene, a questo proposito. che non tutti i testi di Concilio hanno la stessa portata, come il Concilio stesso indica con chiarezza. Le costituzioni dogmatiche del Vaticano II appartengono al Magistero straordinario, benché non definiscano nessun nuovo dogma e non pronuncino anatemi. Gli altri testi appartengono al Magistero ordinario, ma dovete sapere che anche il Magistero ordinario è sostenuto dal carisma dell’infallibilità: richiede solo, per essere interpretato, più flessibilità nella pratica dell’analogia della Fede, allo scopo di conciliare le sue parole con l’insieme della Tradizione. Misconoscere queste molteplici sfumature è rendersi inadatti ad ascoltare correttamente la Parola di Dio.

Molti hanno voluto sradicare i testi del Vaticano II dalla Tradizione, trascinando così molti fedeli nel naufragio della Fede. Ma anche coloro che, a causa di questo, rifiutano il Concilio, fanno naufragio nella Fede. È la mia convinzione molto semplice (ma non semplicistica), e lo dico semplicemente. Mi si può dire quello che si vuole: tutto si urterà nella mia mente contro la nozione di Concilio ecumenico e più in generale contro quella di Magistero. Non è una questione d’obbedienza, se non è l’obbedienza della Fede, che non si distingue dalla fede stessa: la fede nella Rivelazione infallibilmente trasmessa dalla Tradizione.

Che ciascuno si metta dunque umilmente in ascolto della Tradizione alla luce della Tradizione, e lo Spirito Santo lo assisterà con il carisma dell’infallibilità in credendo, l’infallibilità nell’accogliere la Parola di Dio.

Ma non posso che incoraggiare i credenti a disertare le discussioni verosimilmente disertate anche dallo Spirito Santo, e che rischiano fortemente di attirarsi il rimprovero di Gesù Cristo a Pietro “Via da me, Satana, perché tu non pensi secondo Dio ma secondo gli uomini”.

Fr. M.D. Molinié, o.p.

Caterina63
00lunedì 20 dicembre 2010 11:40

Il dibattito sul Vaticano II sempre più vivo: parla P. Cavalcoli

Padre Giovanni Cavalcoli, domenicano e postulatore della causa di beatificazione di P. Thomas Tyn, il servo di Dio sacerdote tradizionalista dei nostri tempi postconciliari, ci fa l'onore di inviarci la sua risposta all'articolo di Corrado Gnerre nell'ambito del dibattito, che osiamo definire fondamentale per la storia della Chiesa, circa l'opera di de Mattei che si propone di scuotere il trionfalismo conciliare e la visione apologetica, che per quarant'anni ha imposto l'officina bolognese di Alberigo e Melloni.

Gentile Prof.Gnerre,

ho letto con interesse il suo articolo sul libro di Roberto De Mattei dedicato al Concilio Vaticano II, che ho trovato sul sito Messainlatino.

Circa la questione della continuità dei testi conciliari col Magistero precedente della Chiesa, è importante distinguere, come fanno i Papi del postconcilio, negli insegnamenti conciliari un aspetto pastorale da un aspetto dottrinale.

L’idea diffusa che il Vaticano II sia un Concilio solo pastorale è un pregiudizio che denota insufficiente informazione sia dei testi stessi del Concilio come delle spiegazioni che di questi testi sono state date dal successivo Magistero della Chiesa, è una tesi che fa comodo ai modernisti, i quali relativizzano il fatto dottrinale riducendo tutto a "pastorale", cioè a modernismo e fa comodo anche ai lefevriani per aver modo di sottrarsi al dovere di accettare le dottrine conciliari con la scusa che in pastorale la chiesa può sbagliare.

Bisogna dire invece che l’aspetto pastorale del Concilio riguarda il suo intento come Lei ha ben detto, di recuperare i valori della modernità e di comunicare all’uomo moderno il messaggio evangelico usando un linguaggio adatto ai nostri tempi e comprensibile dall’uomo d’oggi, suggerendo linee di azione e di attività pastorale.

Ma l’insegnamento conciliare non si limita a ciò. Il Concilio, oltre a confermare molti punti di dottrina cattolica, propone su molti punti, come hanno più volte ripetuto i Papi del postconcilio, una più avanzata conoscenza della divina rivelazione, o in modo diretto e immediato o in forma indiretta e mediata.

Il testo conciliare, nella prima parte della famosa "nota previa" al Segretario del Concilio Mons.Pericle Felici, dice bensì che il Concilio non intende proporre esplicitamente nuove definizioni dogmatiche; ma questo non toglie che di fatto, come lascia intendere chiaramente la seconda parte della "nota" e come di fatto è avvenuto - basta per accorgersene un’attenta lettura dei testi col dovuto criterio teologico – il Concilio contenga pronunciati dottrinali in materia di fede o prossima alla fede, sviluppando dottrine precedentemente definite, come per esempio quando definisce l’essenza della Chiesa, della collegialità episcopale, della divina rivelazione, della sacra tradizione o dell’ecumenismo o della libertà religiosa.

Stando così le cose e tornando al problema della continuità, bisogna distinguere il riferimento ai documenti pastorali da quello ai documenti dottrinali. Quando il Papa ci ha ricordato la "continuità nella riforma" fra il Vaticano II e il precedente Magistero, evidentemente si è riferito agli insegnamenti dottrinali e li suppone, giacchè non è pensabile per un cattolico che un Concilio smentisca nella dottrina della fede o prossima alla fede quanto ha detto il Magistero precedente, perché ciò supporrebbe la convinzione ereticale che Cristo, quando ha promesso alla sua Chiesa di assisterla fino alla fine del mondo affinchè non venga meno nella verità, ci ha ingannati.

Indubbiamente la continuità dottrinale va intesa bene. Essa non si limita al fatto di ripetere sempre le stesse formule dogmatiche - è utile anche questo: si pensi solo alla continua ripetizione del Credo che noi cattolici facciamo in ogni Messa domenicale -, ma essa, senza venir meno come continuità, comporta nel contempo uno sviluppo o un progresso nella conoscenza di quelle medesime immutabili verità che Cristo ha consegnato alla sua Chiesa da trasmettere agli uomini (ecco la Tradizione) fino alla fine dei secoli.

Se invece facciamo riferimento agli insegnamenti pastorali del concilio, in questo campo il Magistero non è infallibile, per cui non è proibito al cattolico ben preparato avanzare delle prudenti riserve per non dire critiche a certi indirizzi o modalità di comportamento o di linguaggio pastorale proposti dal Concilio. Io stesso come molti altri cattolici, mentre accolgo con assoluta adesione gli insegnamenti dottrinali, mi sento di dover avanzare delle rispettose critiche a certi orientamenti pastorali, i quali, dopo un’esperienza di quarant’anni, hanno dato prova di ottenere cattivi risultati e sono certamente una delle cause dell’attuale crisi della Chiesa. Dunque sono orientamenti che vanno corretti o abrogati e sostituiti con altri migliori e più saggi.

Per ottenere questo al limite si potrebbe indire un nuovo Concilio, ma può essere sufficiente una correzione di rotta nella pastorale da parte dell’episcopato, oggi ancora troppo legato a quegli orientamenti non più adeguati per non dire dannosi.

Mi riferisco ad un’ormai ben nota mentalità buonista, troppo accondiscendente nei confronti degli errori, delle ingiustizie e degli scandali, ad un certo ecumenismo irenista, opportunista, inconcludente e reticente, ad un rapporto col mondo moderno basato sull’equivoco e il cedimento, ad un linguaggio che a volte può essere strumentalizzato dai modernisti e ad altre cose.

La proposta di Mons.Gherardini di "un’attenta e scientifica analisi dei singoli documenti" prima di "metter mano all’auspicata ermeneutica della continuità", mi sembra dettata – se non interpreto male il pensiero dell’illustre teologo – da una certa pretesa di sottoporre i documenti ad un esame per verificare se questa continuità esista o non esista, quando invece il teologo cattolico deve dar per scontato che esiste, pena la messa in dubbio dell’assistenza dello Spirito Santo, alla quale accennavo sopra, sempre che Gherardini si riferisca, come mi par di capire, ai documenti dottrinali, giacchè per quelli pastorali, come ho detto, non esiste l’infallibilità, per cui almeno in linea di principio possono essere criticati o abrogati.

Quanto a ciò che Lei dice, "mi sembra che per la prima volta s’invochi da parte del Magistero un’ermeneutica per un atto del Magistero stesso", in realtà, come dimostra la storia del dogma, la Chiesa è sempre successivamente intervenuta a chiarire, esplicitare o interpretare pronunciamenti precedenti che avevano dato occasione a dubbi, controversie o false interpretazioni. E il postconcilio non fa eccezione. Per questo il riferimento che noi cattolici dobbiamo avere davanti allo sguardo non è l’interpretazione di questo o quel teologo o vescovo o cardinale - neppur il Papa come dottore privato è infallibile -, ma è l’interpretazione ufficiale del Magistero che nel corso di questi quarant’anni è intervenuto moltissime volte ad offrirci la retta interpretazione di singoli passi o documenti, sia per bocca del Papa che degli organi della Curia Romana o con lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica o col nuovo Codice di diritto canonico.

P.Giovanni Cavalcoli,OP
docente di teologia sistematica
nella facoltà teologica di Bologna
Bologna, 18 dicembre 2010
Caterina63
00giovedì 23 dicembre 2010 16:37
Da padre Giovanni Scalese in riferimento al testo sopra questo:

Continuità e sviluppo

Un lettore mi ha segnalato la lettera del Padre Giovanni Cavalcoli al Prof. Corrado Gnerre, pubblicata l’altro giorno su Messainlatino.it, esprimendo l’auspicio di un mio intervento sull’oggetto della controversia. 

Avevo già letto la lettera, come tutti gli interventi precedenti sull’argomento. Come sanno i miei lettori, il problema dell’interpretazione del Concilio rientra tra i miei maggiori interessi. Questo blog è nato con la pubblicazione di una riflessione proprio su Concilio e “spirito del Concilio” in tempi non sospetti (lo studio era del giugno 2008 e fu pubblicato a fine gennaio 2009). Come spiegavo in quel post, avevo inviato le mie considerazioni a un paio di siti web (uno dei quali aveva sollecitato una mia collaborazione), senza però vederle pubblicate. Erano passati già quattro anni dal discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana sulle due ermeneutiche del Concilio, ma fino ad allora quel discorso non aveva provocato alcun dibattito. Sembrava quasi che le mie riflessioni non potessero interessare nessuno. Una volta pubblicate, esse ebbero una discreta risonanza, soprattutto sui siti tradizionalisti. In questi ultimi due anni sembrerebbe che tutti si siano d’un tratto svegliati: ciascuno vuol dire la sua. La cosa non può che farmi piacere. Non vorrei essere frainteso: non sono cosí sciocco da pensare che l’interesse sul Concilio sia stato risvegliato dal mio post; voglio solo dire che avevo visto giusto dicendo che, trascorsi quarant’anni dal Vaticano II, fosse «non solo legittimo, ma in certa misura doveroso procedere a un ripensamento del Concilio».

Successivamente sono tornato a piú riprese nei miei post sull’argomento, non soltanto per confermare quanto da me espresso in quel primo studio, ma spesso per precisare, completare, rivedere e correggere le mie posizioni. L’argomento, secondo me, è ancora aperto, per cui leggo con grande interesse tutti i contributi che vengono pubblicati. Ciò che non prendo in considerazione sono le prese di posizione preconcette, ispirate dall’ideologia e che non ammettono discussione, come quando si presenta il Concilio come “nuovo inizio” o, al contrario, come “rovina” della Chiesa.

In questi ultimi tempi, è vero, non sono piú intervenuto in materia, nonostante l’intensificarsi del dibattito. Come mai? Mi sembra che questo debba essere per me un momento di ascolto e di riflessione prima che di proposta di soluzioni. Vedo che sono stati pubblicati recentemente contributi di un certo spessore: penso che prima di pronunciarsi sia doveroso leggerseli. E io confesso di non aver avuto ancora tempo e modo di leggere né il libro di Mons. Brunero Gherardini (fra l’altro, non reperibile nelle comuni librerie cattoliche) né, tanto meno, quello appena uscito del Prof. Roberto De Mattei. Non vorrei prendere una cantonata simile a quella che presi quando scrissi un post sul libro di Ralph McInerny, Vaticano II. Che cosa è andato storto? senza averlo ancora letto (per forza, a quell’epoca ero in India; eppure ci fu chi si indignò perché mi ero permesso di fare delle riflessioni basate su una recensione): quando poi lo lessi, mi accorsi che non rivestiva l’importanza, che sembrava attribuirgli Introvigne nella prefazione. Attualmente sto leggendo un testo fondamentale nel settore: lo Iota unum di Romano Amerio, al quale molti interventi successivi fanno riferimento. Per ora preferisco non pronunciarmi, dal momento che non ne ho ancora concluso la lettura, anche se mi sto già facendo un’idea.

Quanto alla lettera di Padre Cavalcoli (che ho avuto modo di conoscere al convegno su Amerio, tenuto a San Marino il 12 giugno scorso), non posso che condividerla in toto. Sarà che quando si ha la stessa formazione, si finisce sempre per ritrovarsi piú o meno d’accordo; ma a me quello di Padre Cavalcoli sembra un contributo notevole, che meriterebbe ben piú di una lettera. Mi sembrano quanto mai pertinenti le sue precisazioni sulla natura “pastorale” del Concilio. Questa non esclude affatto una sua innegabile dimensione “dottrinale”: «Il Concilio [contiene] pronunciati dottrinali in materia di fede o prossima alla fede, sviluppando dottrine precedentemente definite».

Agli esempi portati da Padre Cavalcoli (l’essenza della Chiesa, della collegialità episcopale, della divina rivelazione, della sacra tradizione o dell’ecumenismo o della libertà religiosa) mi permetto di aggiungerne un altro, che rende bene l’idea del valore dogmatico del Concilio: la definizione della sacramentalità dell’episcopato, una verità che fino ad allora era non era stata ancora sufficientemente messa in luce (si pensava che l’episcopato aggiungesse al sacerdozio solo la potestas jurisdictionis):

«Insegna il Sacro Concilio che con la consacrazione episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell’Ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei Santi Padri viene chiamata sommo sacerdozio, vertice del sacro ministero» (Lumen gentium, 21).

Sfido chiunque a considerare tale testo un intervento “pastorale”; il suo carattere dottrinale è indiscutibile («Insegna il Sacro Concilio...»). Semmai, si potrà discutere sulla sua “nota teologica” (= il suo carattere vincolante).

Un tale pronunciamento illustra bene anche il vero senso da dare all’idea di “continuità”, ripreso da Padre Cavalcoli:

«La continuità dottrinale va intesa bene. Essa non si limita al fatto di ripetere sempre le stesse formule dogmatiche ... ma essa, senza venir meno come continuità, comporta nel contempo uno sviluppo o un progresso nella conoscenza di quelle medesime immutabili verità che Cristo ha consegnato alla sua Chiesa da trasmettere agli uomini (ecco la Tradizione) fino alla fine dei secoli».

Alcuni avrebbero voluto che il Concilio si limitasse a riproporre, tali e quali, le formule già elaborate nei secoli precedenti; siccome non lo ha fatto, ciò sarebbe prova della sua “rottura” con la tradizione. Come spiega bene Padre Cavalcoli, “continuità” non è sinonimo di “ripetizione”, ma implica l’idea di “sviluppo” e di “progresso”, come nel caso della sacramentalità dell’episcopato, una “novità” ben radicata nella tradizione. Non per voler citare me stesso, ma solo per evitare di ripetere cose già dette, mi permetto di rinviare, a questo proposito, al mio post Tradizione e tradizione. Di solito, se si vuole difendere la tradizione, bisogna accettarne lo sviluppo; talvolta l’attaccamento acritico al passato e la riproposizione materiale delle vecchie formule possono rivelarsi come il peggior tradimento della tradizione.
Caterina63
00giovedì 23 dicembre 2010 18:38

concluso a Roma il Convegno sul Concilio Vaticano II: primi resoconti



“Il Concilio Vaticano II e la sua giusta ermeneutica alla luce della Tradizione della Chiesa” ha costituito l’oggetto di un importante Convegno di studi, organizzato dal 16 al 18 dicembre dall’Istituto dei Frati Francescani dell’Immacolata. Riportiamo un resoconto del convegno del prof. Fabrizio Cannone, che ne ha seguito i lavori.

Il Convegno sul Concilio Vaticano II dei Francescani dell’Immacolata, svoltosi a Roma dal 16 al 18 dicembre, ha costituito una delle prime risposte all’invito al dibattito e all’analisi critica sul Vaticano II, rivolto da Benedetto XVI nel suo ormai celebre discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005. Il dibattito si è recentemente acceso, anche sulla stampa, dopo la pubblicazione, avvenuta all’inizio di dicembre 2010, dello studio storico-sistematico sul Concilio del professor Roberto de Mattei (Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010). In questo contesto, il convegno dei Francescani dell’Immacolata ha rappresentato una eccellente sintesi delle ricerche storico-teologiche sul Concilio, sulle ermeneutiche cui ha dato luogo, sul valore dei suoi documenti ed anche sui suoi punti meno chiari e più problematici.

I lavori sono stati aperti il 6 dicembre da S. E. mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro e noto teologo e apologeta, che ha aperto i lavori spiegando brillantemente le cause della perdita dell’identità cristiana nel contesto della modernità occidentale. «L’uomo che il Concilio incontra – ha detto mons. Negri – porta sulle sue spalle il fallimento della modernità». Il prelato ha fatto notare che la cultura cristiana nell’epoca moderna si è dapprima scontrata con la cultura secolare, ma a poco a poco ha finito per essere assorbita da quest’ultima, scolorendo i suoi connotati e uniformandosi alle linee di pensiero del razionalismo e dell’illuminismo. Il Concilio poteva rappresentare un’occasione propizia per ricentrare la cultura cattolica sulla Tradizione ma, in quanto minato da contrapposizioni, lotte intestine, letture secolarizzate e peregrine applicazioni, esso non ha potuto svolgere il suo ruolo, e nel post-Concilio ciò che ha prevalso è stata non la fede e l’identità, ma l’aggiornamento e l’adattamento alla sterile mentalità del mondo. Solo un ritorno all’identità potrà arginare la crisi epocale di fede che si registra da alcuni decenni.

Nella stessa mattinata ha preso la parola S. E. mons. Brunero Gherardini, grande esponente della scuola teologica romana, recente autore di due libri di capitale importanza, dedicati il primo al Concilio stesso (Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice 2009) e il secondo al concetto di Tradizione, dal punto di vista della teologia cattolica (Quod et tradidi vobis La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Casa Mariana Editrice 2010). «Il Concilio Vaticano II – ha affermato mons. Gherardini – non fu un Concilio dogmatico e neppure disciplinare, ma soltanto un concilio pastorale, e il genuino significato della sua pastoralità è ancora tra la nebbia». Nell’approccio al Concilio occorre distinguere quattro diversi livelli che esprimono tutti, ma con qualità teologica diversa, il suo supremo Magistero. Accennare in questa sede alla gradazione suggerita da Gherardini significherebbe tradirne la precipua acribia teologica, così ci limitiamo a segnalare il fatto che, secondo questa esegesi, solo uno di questi livelli, corrispondente al terzo, comporta una incontestabile validità dogmatica, anche se solo di riflesso, dedotta da precedenti definizioni: questo livello coincide con le notevoli citazioni che il Concilio fa di dottrine già solennemente definite che trattano di temi di fede e di morale. Gli altri ambiti del magistero conciliare, per la loro natura pastorale, per la loro intrinseca novità o per la loro contestualizzazione storica contingente, non comportano né l’infallibilità, né la definitività, e dunque richiedono un certo ossequio della mente, ma non «l’obbedienza della fede». L’errore di molti teologi del post-Concilio è stato proprio quello di dogmatizzare un Concilio che si volle pastorale, facendone altro rispetto a ciò che si prefisse chi lo convocò.

Nella seconda parte della mattinata, padre Rosario Sammarco FI, ha parlato della Formazione permanente del Clero alla luce della Presbyterorum ordinis. Con un linguaggio diretto e coinvolgente l’oratore ha mostrato come questa giusta indicazione conciliare si sia smarrita nei meandri del post-Concilio segnato da quella evidente rottura con la Tradizione causata, come direbbe Benedetto XVI, dalla “teologia moderna”. Significativo il fatto, segnalato dal teologo, della scomparsa a partire dagli anni ’70 della discussione dei “casi di morale”: questa prassi importante consigliata da santi come Carlo Borromeo e che si generalizzò durante l’’800, costituendo un punto di riferimento per confessori e pastori d’anime, scomparve improvvisamente negli anni ’70 e fu perfino cancellata dal nuovo Codice del 1983. Segno di quanto la rottura e la discontinuità non furono solo tra pre-Concilio e Concilio, ma anche tra Concilio e post-Concilio. Il post-Concilio però nel contraddire il Concilio, per esempio nell’uso del latino liturgico raccomandato dall’assise e disatteso nei fatti, non fu una “germinazione spontanea”, ma fu voluto e attuato malamente dalle autorità competenti, proprio per l’influenza della svolta antropologica della teologia e della religione stessa. Dopo padre Sammarco, ha tenuto una lezione magistrale il rev. prof. Ignacio Andereggen, docente alla Gregoriana e filosofo cattolico di primo livello.

Il professore ha mostrato con maestria l’essenza filosofica della modernità a partire dall’analisi di 4 autori fondamentali: Cartesio, Kant, Hegel e Freud. In tutti costoro, pur con differenze che li rendono assolutamente non omogenei, vi è la presenza di quel relativismo epistemologico che fu tipico tratto del cosiddetto “Rinascimento” e in parallelo il rifiuto della tradizione filosofica come tale. Con questi autori, ogni volta ci si trova davanti ad un nuovo inizio, segno che la filosofia moderna e contemporanea, nel rigetto del patrimonio di pensiero più comune dell’umanità, non si fonda che su se stessa. Il rifiuto poi del pensiero scolastico e della metafisica ne è uno degli assi portanti. Quanto ha influito questa pseudo-filosofia sul Concilio? Andereggen non l’ha precisato ma è evidente che molti vescovi e soprattutto molti periti, specie di aria francese (Chenu, Congar, etc.) e tedesca (Rahner, Küng, etc.) ne erano notevolmente pervasi. Da qui quell’insorgere, come Maritain segnalerà già nel 1966, a solo un anno dalla chiusura dei lavori conciliari, del “neo-modernismo” effettivamente più subdolo e più pericoloso dell’antico, anche perché meno esplicitamente assunto e dichiarato. Senza una retta filosofia, ha spiegato sapientemente Andereggen, è impossibile fare teologia: senza una teologia corretta poi, si corrompe anche la dottrina della fede.

Nel pomeriggio dello stesso giorno il prof. Roberto de Mattei ha mostrato nella sua relazione che il Concilio Vaticano II non può essere presentato come un evento che nasce e muore nello spazio di tre anni senza considerarne le profonde radici e le altrettanto profonde conseguenze che esso ebbe nella Chiesa. Il nesso tra Concilio e post-Concilio, ha affermato il prof. de Mattei, non è il nesso dottrinale tra i documenti del Concilio e altri documenti del post-Concilio. È il rapporto storico, stretto e inscindibile, tra il Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1962 e il 1965, e il post-Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1965 e il 1978 e si protrae fino ai nostri giorni. Questo periodo, globalmente considerato, dal 1962 al 1978, anno della morte di Paolo VI, forma un unicum, un’epoca, che può essere definita come l’epoca della Rivoluzione conciliare, così come gli anni tra il 1789 e il 1796, e forse fino al 1815, costituirono l’epoca della Rivoluzione francese. La pretesa di separare il Concilio dal post-Concilio, secondo de Mattei, è altrettanto insostenibile di quella di separare i testi conciliari dal contesto pastorale in cui furono prodotti. Nessuno storico serio, ma neanche nessuna persona di buon senso, potrebbe accettare questa artificiale separazione, che nasce da partito preso, più che da serena e oggettiva valutazione dei fatti. «Ancora oggi – ha concluso lo storico romano – viviamo le conseguenze della “Rivoluzione conciliare” che anticipò e accompagnò quella del Sessantotto. Perché nasconderlo? La Chiesa, come affermò Leone XIII, aprendo agli studiosi l’Archivio Segreto Vaticano, “non deve temere la verità”».

Lo storico francese Yves Chiron, la cui documentata relazione è stata letta da frà Juan Diego FI, ha poi parlato della volontà di certi vescovi e cardinali sotto Pio XI e Pio XII di convocare un nuovo Concilio o piuttosto di completare il Vaticano I, arrestato brutalmente dall’invasione di Roma del settembre 1870. I pontefici, pur assai interessati a queste proposte, le hanno infine respinte per evitare pericoli di frazionamento e “democratizzazione” dell’Assemblea deliberante. Interessanti i documenti portati alla luce dallo Chiron circa i temi che si intendevano trattare nell’eventuale Sinodo: essi erano simili a quelli poi proposti dalla Curia Romana sotto Giovanni XXIII, i quali in blocco furono respinti dal dibattito in aula per l’opposizione manifestata da certi influenti padri progressisti. Il 17 dicembre la giornata è stata aperta da un’interessante relazione storica su Alcuni personaggi, fatti e influssi al Concilio Vaticano II del padre Paolo Siano FI, il quale ha mostrato come l’ottimismo pastorale verso l’uomo e verso il mondo suggerito dai testi conciliari è stato usato da varie lobbies come grimaldello per condizionare lo svolgimento e la ricezione del Vaticano II. L’autore ha documentato come i fenomeni di crisi dottrinale, spirituale, liturgica e missionaria del post-Concilio hanno i loro prodromi in alcune idee e azioni di veri Padri e periti dell’assise conciliare. Padre Siano ha proposto come “medicinale” alla crisi almeno due “farmaci”: una Mariologia “forte” (in linea con la Tradizione e il Magistero della Chiesa) e una liturgia più orientata (anche visibilmente) a Cristo Crocifisso.

Di seguito ha tenuto una relazione, concisa ma densa, il rev. prof. Giuseppe Fontanella FI dal titolo Il Perfectae caritatis e la vita religiosa. Dove hanno condotto gli esperimenti pastorali?. Secondo il relatore, il documento conciliare si situa in linea con lo sviluppo teologico raggiunto circa il tema della vita religiosa, ma tante realizzazioni successive sembrano aver ceduto allo spirito della secolarizzazione e dell’orizzontalismo. I religiosi in quest’ottica dovrebbero diminuire le pratiche propriamente religiose, e aumentare l’inserimento nel mondo, allontanandosi però in tal modo dallo spirito dei fondatori. Ancora una volta i numeri parlano più che le analisi cervellotiche. Malgrado la tanto ripetuta “vocazione universale alla santità” gli istituti di perfezione hanno perso larga parte dei loro membri, soprattutto quelli che più hanno innovato rispetto ai loro tradizionali usi e costumi. Successivamente, S. E. mons. Atanasius Schneider, vescovo ausiliare in Kazakhstan, ha tenuto una profonda relazione sul senso pastorale del Concilio, mostrando, attraverso numerose citazioni, che nel Concilio esiste uno spirito teocentrico, apostolico, penitenziale e missionario, anzi la missionarietà ne sarebbe quasi la nota caratteristica.

È innegabile che il Vaticano II, letto in quest’ottica, abbia una gran quantità di bei testi di spiritualità e di religiosità, di dottrina omogenea alla grande Tradizione della Chiesa. Il problema secondo il Prelato sta nella cattiva interpretazione di certi suoi passaggi meno chiari: è evidente altresì che quando si parla di interpretazione, specie se universale e autorevole, non si può far riferimento ad una scuola particolare, come per es. quella di Bologna, ma ci si deve riferire alle commissioni post-conciliari e agli stessi episcopati. E dunque su costoro ricade la responsabilità di certe letture minimaliste e arbitrarie. In ogni caso, mons. Schneider ha coraggiosamente chiesto un nuovo Sillabo degli errori avvenuti nella interpretazione del Concilio e se questo Sillabo un giorno sarà pubblicato dalla Massima Autorità di certo esso gioverà a tutti i cattolici.

Una conferenza di grande valore teologico è stata poi quella di padre Serafino Lanzetta, giovane teologo dei Francescani dell’Immacolata. Padre Lanzetta ha fatto uno status quaestionis sull’approccio teologico al Vaticano II attraverso l’analisi della ricezione del Concilio in varie e diverse scuole teologiche post-conciliari. Quello che è emerso in sede di conclusioni è che il Concilio, sulle cui rette intenzioni non è dato di dubitare a nessuno, ha però favorito le opposte ermeneutiche post-conciliari con l’aver abbandonato, o almeno tralasciato, un approccio metafisico alle realtà della fede e della morale. Ciò che il Concilio insegna, lo insegna usando un modo descrittivo e spesse volte solo allusivo, e questo ha permesso ai novatori di estrapolare conclusioni teologiche aberranti di cui il Vaticano II non è responsabile, se non a causa della poca chiarezza e della poca precisione terminologica.

Le numerose ermeneutiche in atto e le variegate griglie interpretative, per esempio, erano impossibili da applicare ai testi del Vaticano I, e se sono state applicate con relativa facilità al Vaticano II, ciò è avvenuto per un certo rigetto del linguaggio scolastico tipico della tradizione teologica precedente detta sprezzantemente “manualistica”. Ad essa si volle sostituire il “resourcement” (De Lubac) cioè il ritorno ai Padri: ma i Padri in molti punti di teologia e di filosofia ne sapevano meno di noi, stante il progresso teologico nella comprensione della immutabile Rivelazione Divina e l’apporto decisivo del Tridentino e del Vaticano I in fatto di dogmatica. Il ritorno ai Padri e alle loro formule, alla liturgia dei primordi e alla Scrittura sa tanto di biblicismo, di fideismo e di archeologismo: tutto ciò che respingeva profeticamente Papa Pio XII nell’Humani generis (1950).

Ha tenuto quindi un’importante relazione il rev. don Florian Kolfhaus, della Segreteria di Stato. Il teologo tedesco ha, svolto una critica “dall’interno” ai documenti conciliari mostrando che il loro vario e differenziato valore magisteriale corrisponde alla loro maggiore o minore autorevolezza, la quale a volte si riduce al mero precetto disciplinare. Il Concilio Vaticano II voleva essere un concilio pastorale, cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi. Esso non affermò nessun nuovo dogma, nessun solenne anatema, e promulgò differenti categorie di documenti rispetto ai concili precedenti; e ciononostante il Vaticano II deve essere compreso nella continuità ininterrotta del Magistero, poiché esso fu un concilio della Chiesa legittimo, ecumenico e dotato della relativa autorità. Alcuni suoi documenti, vale a dire decreti e dichiarazioni, come Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, Nostra Aetate sulle religioni non cristiane e Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa, ha sottolineato don Kolfhaus, non sono né documenti dottrinali in cui si definiscono verità infallibili, né testi disciplinari che presentano norme concrete. In questo sta la grande novità del Vaticano II: contrariamente a tutti gli altri concili, che esponevano dottrina o disciplina, esso supera queste categorie. Si tratta di una esposizione dottrinale che non vuole tuttavia dare definizioni o delimitazioni in funzione contraria a degli errori, ma è rivolta all’agire pratico condizionato dal tempo. Il Concilio non ha proclamato alcun “nuovo” dogma e non ha revocato alcuna “vecchia” dottrina, ma piuttosto ha fondato e promosso una nuova prassi nella Chiesa.

La proposta di don Kolfhaus è stata quella di denominare la sfuggente espressione di magistero pastorale “munus predicandi”, ben delimitata rispetto al “munus determinandi”. Questo significa: annuncio della dottrina, non definizione dottrinale; legato al tempo e conforme al tempo, non immutabile e non sempre uguale; vincolante, ma non infallibile. Il 18 dicembre, ultimo giorno dei lavori, S. E. mons. Agostino Marchetto, parlando su Rinnovamento all’interno della Tradizione, ha ribadito la contraddittorietà delle analisi della scuola progressista di Bologna dei vari Dossetti, Alberigo, Melloni, etc., negando che per quanto riguarda il rapporto Concilio – post-Concilio, si possa parlare di un post hoc propter hoc. Resta da capire come è stato possibile ad una scuola teologica ultra-minoritaria di imporsi quasi ovunque nell’insegnamento universitario cattolico, nelle facoltà di teologia e di storia ecclesiastica, nelle riviste più lette dai teologi, dai pastori e perfino da fedeli.

Il rev. mons. prof. Nicola Bux, da parte sua, ha egregiamente parlato della scomparsa dello ius divinum nella liturgia: anche questa scomparsa, data dal Vaticano II e dall’immediato post-Concilio. Il liturgista pugliese ha notato che la Sacrosanctum Concilium permetteva una interpretazione in conformità colla tradizione liturgica cattolica, espressa ancora nel 1963 dalla Veterum Sapientia di Giovanni XXIII, ma nei fatti prevalse la logica della desacralizzazione e dell’innovazione. Infatti, tra il 1965 e il nuovo messale del 1970 vi sono state, da parte di organi diversi, come la Congregazione della fede e quella del Culto, delle circolari e delle autorizzazioni non solo diverse ma perfino contraddittorie e questo ha prodotto un caos liturgico da cui l’intera Chiesa non si è mai più ripresa. Don Bux ha incoraggiato i presenti alla duplice fedeltà alla tradizione liturgica, riabilitata dal recente motu proprio Summorum Pontificum, e all’esempio del Sommo Liturgo che a poco a poco sta riportando ordine e decoro nella celebrazione del Culto Divino.

Il neo-cardinale Velasio De Paolis, illustre canonista, ha concluso con vibranti parole in difesa del diritto ecclesiastico, giudicato negli anni del post-Concilio addirittura anti-evangelico. La legge invece è fonte di libertà e di sicurezza, e l’anomia (assenza di legge o di legge certa) crea malintesi, ingiustizie, discordie e rotture. Quando il diritto divino e canonico tornerà a regnare tra gli ecclesiastici l’attuale confusione generalizzata si attenuerà e si aprirà una nuova fase per la Chiesa.
I lavori, sapientemente moderati, nel corso dei tre giorni, dal padre Alessandro Apollonio FI, sono stati chiusi da mons. Gherardini, che ha ribadito come il Concilio Vaticano II non fu un unicum, un “blocco dogmatico”. Fu un Concilio pastorale e sul piano pastorale va collocato e giudicato, senza forzature ermeneutiche, che ne impongono la dogmatizzazione.

È questo il messaggio conclusivo del convegno romano destinato certamente a fare data, per il numero e la qualità dei relatori e degli ascoltatori, tra i quali si distinguevano S. Emin. il cardinale Walter Brandmüller e il segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, S. E. mons. Guido Pozzo. Fu del resto proprio il cardinale Ratzinger a dichiarare già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile che «il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale». Tuttavia, proprio questo “concilio pastorale” – proseguiva il cardinal Ratzinger – viene interpretato «come se fosse quasi un superdogma, che priva di significato tutti gli altri concili».

Caterina63
00venerdì 24 dicembre 2010 15:15

Cristina Siccardi ci descrive il convegno sul Concilio

Cristina Siccardi dedica ai lettori di Messainlatino (e per questo sentitamente la ringraziamo) questa attenta relazione dedicata al convegno organizzato dai Francescani dell'Immacolata sul Concilio Vaticano II. Un convegno che si distingue per l'alto livello dei relatori, sia sotto il profilo scientifico, sia per la loro importanza istituzionale. Curiosamente, il convegno ha avuto poca, se non nulla eco sulla stampa; ma la cosa non ci preoccupa: lo stesso accadde, cinque anni orsono, con il discorso del Papa sulle due ermeneutiche: ed oggi vediamo come quella scossa apparentemente lieve sta causando una crescente, liberatoria valanga.



Concilio Ecumenico Vaticano II
Un Concilio pastorale analisi storico-filosofico-teologica

Il Concilio Vaticano II non è più un tabù. Questa sorprendente e provvidenziale realtà è stata sancita innanzitutto con lo storico discorso alla Curia romana di Benedetto XVI del 5 dicembre 2005, quando il Papa rimise sul tavolo delle questioni il Concilio stesso parlando di "ermeneutica della continuità", evidenziando perciò una lettura conciliare alla luce della Tradizione, elemento necessario, fondante e imprescindibile della Chiesa. Pareva che il "superdogma" conciliare fosse intoccabile e chi tentava di trattarlo, senza glorificarlo, veniva guardato con grande sospetto, come fosse un nemico, che occorreva tenere a debita distanza e del quale bisognava diffidare… A confermare ulteriormente che il Concilio non è più un tabù è stato in questi giorni il significativo e bellissimo Convegno di studi "per una giusta ermeneutica alla luce della Tradizione della Chiesa" che è stato organizzato dal Seminario teologico "Immacolata Mediatrice" dei Francescani dell’Immacolata. L’iniziativa, dal titolo "Concilio Ecumenico Vaticano II. Un Concilio pastorale analisi storico-filosofico-teologica", è stata una prima seria risposta al dibattito aperto dal Sommo Pontefice: un’eccellente sintesi delle ricerche sul Concilio e sulle ermeneutiche, sul valore dei documenti conciliari, sull’esame dei punti meno chiari e più problematici.

L’importante evento, quasi apripista per altre iniziative di questo carattere, si è tenuto a Roma nei giorni 16-17-18 dicembre all’Istituto Maria SS. Bambina (via Paolo VI 21) e ha visto alternarsi sulla cattedra nomi di altissimo livello: Monsignor Luigi Negri (Vescovo di Marino-Montefeltro), Monsignor Brunero Gherardini (Pontificia Università Lateranense), Don Rosario M. Sammarco (Professore al Seminario Teologico Immacolata Mediatrice), Don Ignacio Andereggen (Professore all’Università Pontificia Gregoriana), Professor Roberto de Mattei (Università Europea di Roma), Professor Yves Chiron (Direttore del Dictionnaire de biographie française), Don Paolo M. Siano (Professore al Seminario Teologico Immacolata Mediatrice), Don Giuseppe Fontanella (Professore al Seminario Teologico Immacolata Mediatrice), Monsignor Atanasio Schneider (Vescovo ausiliare di Karaganda, Kazakistan), Don Serafino M. Lanzetta (Professore al Seminario Teologico Immacolata Mediatrice), Don Florian Kolfhaus (Dottore della Segreteria di Stato del Vaticano), Monsignor Agostino Marchetto (Segretario del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti), Don Nicola Bux (Professore all’Istituto ecumenico di Bari), Cardinale Velasio de Paolis (Presidente della Prefettura degli Affari economici della Santa Sede).

Al raduno di Roma, destinato a rimanere agli atti della storia, sia per il numero e la qualità dei relatori, sia per la materia trattata, erano presenti anche il Cardinale Walter Brandmüller e il segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, Monsignor Guido Pozzo e altri membri della Curia romana.

Dopo quarantacinque anni di culto conciliare, dove la prassi ha compiuto un’opera secolarizzante a vasto raggio, svuotando seminari e chiese e demotivando la Fede stessa, è giunto il momento di fare un’accurata riflessione su ciò che è stato il Concilio, su come sono stati condotti i lavori preconciliari e quelli propriamente conciliari. Insomma, è giunto finalmente il tempo di tornare ai contenuti della Fede e di analizzare tutto alla loro luce, dopo l’euforia innovativa e gli entusiasmi di una presunta "nuova Pentecoste", che aveva la specifica tensione a rendere antropomorfe le realtà soprannaturali; euforia ed entusiasmi tipici degli anni Sessanta, carichi di rivoluzionaria voglia di novità.

Con grande onestà intellettuale, il Convegno ha offerto il suo apporto su ciò che il Concilio è stato. Esami approfonditi e sistematici sono stati presentati con grande rigore e spessore intellettuale, facendo presente anche l’ambiguità di certuni testi conciliari, un’ambiguità che, ormai, nessuno può più far finta di non vedere o trascurare, visto che dai frutti si riconosce l’albero: "Voi li riconoscerete da' frutti loro; colgonsi uve dalle spine, o fichi da' triboli?" (Mt 7,16).

Ha dichiarato Don Kolfhaus (nel suo intervento dal titolo "Annuncio di un insegnamento pastorale-motivo fondamentale del Vaticano II. Ricerche su Unitatis redintegratio, Dignitatis humanae e Nostra aetate"): "Il Concilio Vaticano II voleva essere un concilio pastorale, cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi. Il cardinal Ratzinger già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile affermava che il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale". Tuttavia, proprio questo "concilio pastorale" – proseguiva il cardinal Ratzinger – viene interpretato "come se fosse quasi un superdogma, che priva di significato tutti gli altri concili". Noi tutti lo constatiamo giorno per giorno: molti difendono il carattere vincolante e il significato del Vaticano II, che senza dubbio ci sono, ma solo pochi ricordano i venti concili dogmatici precedenti. In effetti, non mancano oggi forti richiami che mettono in guardia da un arretramento rispetto al Concilio e da una sua arbitraria svalutazione. Ciò è fuori discussione, non si tratta di questo. Al contrario: quello che finora è l’ultimo concilio può essere rettamente compreso solo se rimane inserito nel magistero vivo di tutti i precedenti. E d’altra parte, il Vaticano II è stato un concilio come mai ve ne erano stati prima. Questa affermazione troverà d’accordo tutti, per quanto differenti possano essere le valutazioni su di esso. Nessun nuovo dogma, nessun solenne anatema, differenti categorie di documenti rispetto ai concili precedenti; e ciononostante il Vaticano II deve essere compreso nella continuità ininterrotta del Magistero, poiché esso fu un concilio della Chiesa legittimo, ecumenico e dotato della relativa autorità".

Il problema centrale è la tensione creata dal concetto di "Concilio pastorale" o di "Magistero pastorale". Il Vaticano II ha introdotto, non sul piano concettuale, ma su quello della prassi, un nuovo tipo di Concilio. Qui non è in discussione il carattere vincolante del Magistero, che, anche quando non si tratta di dogmi, ovvero di definizioni infallibili della dottrina rivelata, si pronuncia in questioni di fede e morale con autorità, cioè esigendo consenso o obbedienza. Si tratta piuttosto della questione se il Magistero, inteso almeno come esercizio del "munus determinandi", sia affatto presente in tutti i documenti.

"Il Concilio non ha proclamato nessun nuovo dogma, ma ha forse esercitato un magistero paragonabile a quello del Papa nelle sue encicliche?" ha posto il quesito Don Kolfhaus, al quale ha così risposto: "Nei decreti e nelle dichiarazioni non si tratta dell’affermazione magisteriale di verità, bensì dell’agire pratico, cioè della pastorale come conseguenza della dottrina. Nella teologia manca un concetto per questo magistero pastorale […]. Non si può fare a meno di rimproverare a certi teologi "moderni" un atteggiamento conservatore, poiché essi non di rado guardano ai decreti e alle dichiarazioni del Vaticano II come a testi dogmatici, che definiscono "nuove" verità. Il Concilio stesso non voleva questo". Per esempio, a riguardo della dichiarazione sul dialogo interreligioso, il 18 novembre 1964, il relatore del Segretariato per l’unità dei cristiani dichiarò nell’aula conciliare: "Per quanto concerne lo scopo della dichiarazione, il Segretariato non vuole emanare alcuna dichiarazione dogmatica sulle religioni non cristiane, bensì presentare norme pratiche e pastorali" (cfr. Acta Synodalia (AS) III/8. 644). Quanti teologi, invece, richiamandosi proprio alla Nostra aetate, da questi principi miranti alla prassi del dialogo hanno elaborato una teologia delle religioni che vede nelle fedi non cristiane vie di salvezza autentiche e indipendenti da Cristo e dalla sua Chiesa? Ha ancora spiegato il rappresentante della Segreteria di Stato: "Quanto spesso si è sostenuto, citando la Unitatis Redintegratio, che il Vaticano II avrebbe rinunciato alla "pretesa di assolutezza" della Chiesa, la quale dovrebbe comprendersi finalmente come una tra molte chiese? Chi legge gli atti, resta sorpreso. Nel decreto sull’ecumenismo si dichiara espressamente che le sue asserzioni non toccano nel modo più assoluto la verità dell’assioma "Extra Ecclesiam nulla salus" (cfr. AS III/7. 32) e che non v’è alcun dubbio che solo la Chiesa cattolica è la Chiesa di Cristo ("Clare apparet identificatio Ecclesiae Christi cum Ecclesia catholica … dicitur … una et unica Dei Ecclesia" AS II/7. 17.)".

I Padri conciliari e i loro teologi, nelle cartelle portadocumenti, avevano i libri scolastici (preconciliari, dunque) utilizzati nei loro anni di studio, perciò, ha ancora sostenuto Kolfhaus: "Chi conosce a memoria le risposte del catechismo può usare con la coscienza tranquilla immagini ed espressioni nuove, quando si tratta di utilizzare la dottrina cattolica nella pratica e in un modo conforme ai tempi. La pastorale poggia sulla dottrina, la prassi presuppone la retta dottrina. Il rovesciamento di questo ordine porta troppo facilmente a far sì che con "una nuova realtà pastorale" si sviluppi una "nuova" dottrina. Esempi di ciò ve ne sono in abbondanza nella vita quotidiana delle comunità ecclesiali. Questo vale anche per molti teologi che – sorridendo delle semplici verità del catechismo – considerano le affermazioni pastorali conciliari alla stregua di asserti dottrinali, per poi sviluppare di qui nuove posizioni (personali)". Proprio a questo riguardo si può individuare il grande problema che, prima o poi, dovrà essere preso in considerazione e risolto. Un Concilio, il XXI, non può per la sua caratterizzazione pastorale, nel deludente tentativo di confrontarsi e dialogare con il mondo, ergersi a solenne interprete dei venti concili precedenti.

È indubbio che urge mettere ordine e delineare le diverse terminologie per fare, innanzitutto, un distinguo fra "magistero dottrinale", "magistero disciplinare", "magistero pastorale" e dunque definire il "Concilio pastorale", l’unico della Storia della Chiesa.

In questa sistematizzazione trovano ampia risonanza i due volumi di immenso valore di monsignor Brunero Gherardini, illustre esponente della Scuola teologica romana: Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare (Casa Mariana Editrice 2009) e Quod et tradidi vobis. La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa (Casa Mariana Editrice 2010). Il teologo Gherardini nel suo illuminante e chiarificatore intervento ha esordito facendo riferimento ad una figura allegorica: "C’era una volta l’Araba Fenice. Tutti ne parlavano, ma nessuno l’aveva mai vista. E c’è oggi una sua versione aggiornata, di cui pure tutti parlano e nessuno sa dire di che cosa si tratti: si chiama Pastorale. […]. La pastorale come aggettivo qualificativo o come aggettivo sostantivato ricorre in effetti decine e decine di volte. Non una sola, però, per darne se non la definizione, almeno un accenno di spiegazione. Riconosco che, analizzando criticamente le varie dichiarazioni, è possibile farsene una vaga idea; essa, però, non sarebbe espressione diretta dell’insegnamento conciliare. L’esempio più probante è dato da Gaudium et spes, qualificata addirittura come "Costituzione pastorale", tutta essendo un fermento ideale e propositivo a favore dell’uomo, della sua libertà e dignità, della sua presenza nella famiglia, nella società, nella cultura e nel mondo, allo scopo di conferire alla vita privata e pubblica un respiro ed una dimensione a misura umana. L’abbinamento dei due lemmi – Costituzione pastorale - è la novità più novità di tutto il Vaticano II […]. È forse dipeso da questa irrisolta aporia la problematicità che accompagna tuttora, dopo circa mezzo secolo di postconcilio, ogni discorso sulla pastorale. In pratica, essa serve per legittimar un po’ tutto ed il suo stesso contrario. Le due ermeneutiche conciliari, alle quali s’è spesso riferita l’analisi del Santo Padre, quella che fa del Vaticano II l’inizio d’un nuovo modo d’esser Chiesa e quella che lo collega invece alla vivente Tradizione ecclesiale, son ambedue legittimate dall’irrisolta aporia".

Chi ha dimestichezza non solo con la Gaudium et spes, ma con tutti i sedici documenti conciliari, ha proseguito monsignor Gherardini, si rende conto che la varietà tematica e la corrispettiva metodologia collocano il Vaticano II su quattro livelli, qualitativamente distinti (è possibile ascoltare l’intera conferenza di Monsignor Gherardini su http://catholicafides.blogspot.com/ connettendosi sulla TV dei Francescani dell'Immacolata):
1. Generico, del Concilio ecumenico in quanto Concilio ecumenico;
2. Specifico del taglio pastorale;
3. Dell’appello ad altri Concili;
4. Delle innovazioni.

Da ciò si deduce che molti teologi e interpreti del post-Concilio dogmatizzarono un Concilio che si volle pastorale, facendone altro rispetto a ciò che si prefisse chi lo convocò.
Altra rilevante relazione è stata quella del professor Roberto de Mattei, autore del recente e importante volume Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta (Lindau 2010), giunto in pochi giorni alla seconda edizione: un testo fondamentale per chi vuole comprendere veramente la storia di questo snodo della vita della Chiesa e non continuare, pervicacemente, a coprirsi gli occhi. Il professore ha evidenziato come il Concilio Vaticano II non può essere presentato come un evento che nasce e muore nello spazio di tre anni, trascurando le profonde radici e le profonde conseguenze che ebbe nella Chiesa. Fu, per il professor de Mattei, una vera e propria Rivoluzione in seno alla Chiesa; inoltre non è sostenibile la tesi di poter separare il Concilio dal post-Concilio, come non lo è quella di separare i testi conciliari dal contesto pastorale in cui furono prodotti. "Ancora oggi viviamo le conseguenze della "Rivoluzione conciliare" che anticipò e accompagnò quella del Sessantotto. Perché nasconderlo? La Chiesa, come affermò Leone XIII, aprendo agli studiosi l’Archivio Segreto Vaticano, "non deve temere la verità"".

Il Vescovo ausiliare di Karaganda, monsignor Atanasio Schneider, si è soffermato sul concetto di interpretazione del Concilio e dei suoi documenti e per fare ciò non si può fare certo riferimento ad una scuola particolare, come per esempio quella celebre, ma faziosa di Bologna, ma ci si deve riferire alle commissioni post-conciliari e agli episcopati per avere giudizi oggettivi e avulsi da posizioni sia minimaliste che massimaliste. Proprio per tale ragione monsignor Schneider ha coraggiosamente evocato la necessità di un nuovo Sillabo per evidenziare gli errori sorti nella interpretazione del Concilio e se un giorno tale documento pontificio dovesse essere pubblicato, ha affermato, sarà un grande beneficio per tutta la Chiesa.

Il 14 dicembre 2010, sul sito web Zenit padre Serafino Lanzetta aveva scritto che il Convegno si sarebbe tenuto "in un clima abbastanza rovente e in un crescente dibattito, segno che qui si nasconde un problema unito ad una speranza. Si desidera lumeggiare la vera natura del Concilio […]. Fino a poco tempo fa, il solo pensare di potersi porre in modo critico dinanzi al Vaticano II, appariva come una cripto-eresia per la coltre di silenzio che necessariamente doveva regnare, ammantandolo sol di lodi e di encomi. Eppure, dopo quarant’anni e più, siamo dinanzi ad un dato innegabile: la rottura e lo spirito del Concilio, ovvero quel modo di decontestualizzarlo dalla Tradizione bimillenaria, hanno prevalso e la Chiesa si è lentamente e progressivamente secolarizzata. Il mondo, in un certo senso, ha vinto sulla Chiesa; quel mondo che la Chiesa voleva raggiungere in ogni modo. Il Vaticano II è un problema? Sì, nel senso che le radici dell’estro post-conciliare non sono solo nel post-concilio. Il post-concilio non dà ragione di sé. Dunque, bisogna prendersi la briga, per amore della Chiesa e per il futuro della fede nel mondo, di andare ad esaminare la radice del problema".
La tre giorni si è chiusa con un nuovo intervento di monsignor Brunero Gherardini, il quale ha ribadito come il Concilio Vaticano II fu, appunto, un Concilio pastorale e su tale piano va collocato e giudicato, senza forzature ermeneutiche, cioè interpretative che ne "impongono la dogmatizzazione". La strada ormai è aperta e tracciata, sta agli uomini di buona volontà, coloro che desiderano servire il Regno di Dio e non il mondo, intraprenderla per amore di Cristo e della Sua Chiesa.
Cristina Siccardi

Roma 16-17-18 dicembre 2010
Caterina63
00mercoledì 29 dicembre 2010 18:37
[SM=g1740733] Ancora sul convegno dei FFI sul Vaticano II
Il Prof. de Mattei presenta il suo libro al telegiornale

www.youtube.com/watch?v=Te2C4ShyEvc&feature=player_embedded


“Il Concilio Vaticano II e la sua giusta ermeneutica alla luce della Tradizione della Chiesa” ha costituito l’oggetto di un importante Convegno di studi, organizzato dal 16 al 18 dicembre dall’Istituto dei Frati Francescani dell’Immacolata. Riportiamo un resoconto del convegno del prof. Fabrizio Cannone, che ne ha seguito i lavori.

Il Convegno sul Concilio Vaticano II dei Francescani dell’Immacolata, svoltosi a Roma dal 16 al 18 dicembre, ha costituito una delle prime risposte all’invito al dibattito e all’analisi critica sul Vaticano II, rivolto da Benedetto XVI nel suo ormai celebre discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005. Il dibattito si è recentemente acceso, anche sulla stampa, dopo la pubblicazione, avvenuta all’inizio di dicembre 2010, dello studio storico-sistematico sul Concilio del professor Roberto de Mattei (Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010). In questo contesto, il convegno dei Francescani dell’Immacolata ha rappresentato una eccellente sintesi delle ricerche storico-teologiche sul Concilio, sulle ermeneutiche cui ha dato luogo, sul valore dei suoi documenti ed anche sui suoi punti meno chiari e più problematici.

I lavori sono stati aperti il 16 dicembre da S. E. mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro e noto teologo e apologeta, che ha aperto i lavori spiegando brillantemente le cause della perdita dell’identità cristiana nel contesto della modernità occidentale. «L’uomo che il Concilio incontra – ha detto mons. Negri – porta sulle sue spalle il fallimento della modernità». Il prelato ha fatto notare che la cultura cristiana nell’epoca moderna si è dapprima scontrata con la cultura secolare, ma a poco a poco ha finito per essere assorbita da quest’ultima, scolorendo i suoi connotati e uniformandosi alle linee di pensiero del razionalismo e dell’illuminismo. Il Concilio poteva rappresentare un’occasione propizia per ricentrare la cultura cattolica sulla Tradizione ma, in quanto minato da contrapposizioni, lotte intestine, letture secolarizzate e peregrine applicazioni, esso non ha potuto svolgere il suo ruolo, e nel post-Concilio ciò che ha prevalso è stata non la fede e l’identità, ma l’aggiornamento e l’adattamento alla sterile mentalità del mondo. Solo un ritorno all’identità potrà arginare la crisi epocale di fede che si registra da alcuni decenni.

Nella stessa mattinata ha preso la parola S. E. mons. Brunero Gherardini, grande esponente della scuola teologica romana, recente autore di due libri di capitale importanza, dedicati il primo al Concilio stesso (Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice 2009) e il secondo al concetto di Tradizione, dal punto di vista della teologia cattolica (Quod et tradidi vobis La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Casa Mariana Editrice 2010). «Il Concilio Vaticano II – ha affermato mons. Gherardini – non fu un Concilio dogmatico e neppure disciplinare, ma soltanto un concilio pastorale, e il genuino significato della sua pastoralità è ancora tra la nebbia». Nell’approccio al Concilio occorre distinguere quattro diversi livelli che esprimono tutti, ma con qualità teologica diversa, il suo supremo Magistero. Accennare in questa sede alla gradazione suggerita da Gherardini significherebbe tradirne la precipua acribia teologica, così ci limitiamo a segnalare il fatto che, secondo questa esegesi, solo uno di questi livelli, corrispondente al terzo, comporta una incontestabile validità dogmatica, anche se solo di riflesso, dedotta da precedenti definizioni: questo livello coincide con le notevoli citazioni che il Concilio fa di dottrine già solennemente definite che trattano di temi di fede e di morale. Gli altri ambiti del magistero conciliare, per la loro natura pastorale, per la loro intrinseca novità o per la loro contestualizzazione storica contingente, non comportano né l’infallibilità, né la definitività, e dunque richiedono un certo ossequio della mente, ma non «l’obbedienza della fede». L’errore di molti teologi del post-Concilio è stato proprio quello di dogmatizzare un Concilio che si volle pastorale, facendone altro rispetto a ciò che si prefisse chi lo convocò.

Nella seconda parte della mattinata, padre Rosario Sammarco FI, ha parlato della Formazione permanente del Clero alla luce della Presbyterorum ordinis. Con un linguaggio diretto e coinvolgente l’oratore ha mostrato come questa giusta indicazione conciliare si sia smarrita nei meandri del post-Concilio segnato da quella evidente rottura con la Tradizione causata, come direbbe Benedetto XVI, dalla “teologia moderna”. Significativo il fatto, segnalato dal teologo, della scomparsa a partire dagli anni ’70 della discussione dei “casi di morale”: questa prassi importante consigliata da santi come Carlo Borromeo e che si generalizzò durante l’’800, costituendo un punto di riferimento per confessori e pastori d’anime, scomparve improvvisamente negli anni ’70 e fu perfino cancellata dal nuovo Codice del 1983. Segno che, in misura diversa, una certa discontinuità non fu solo tra pre-Concilio e Concilio, ma anche tra Concilio e post-Concilio. Il post-Concilio però nel contraddire il Concilio, per esempio nell’uso del latino liturgico raccomandato dall’assise e disatteso nei fatti, non fu una “germinazione spontanea”, ma fu voluto e attuato malamente dalle autorità competenti, proprio per l’influenza della svolta antropologica della teologia e della religione stessa. Dopo padre Sammarco, ha tenuto una lezione magistrale il rev. prof. Ignacio Andereggen, docente alla Gregoriana e filosofo cattolico di primo livello.

Il professore ha mostrato con maestria l’essenza filosofica della modernità a partire dall’analisi di 4 autori fondamentali: Cartesio, Kant, Hegel e Freud. In tutti costoro, pur con differenze che li rendono assolutamente non omogenei, vi è la presenza di quel relativismo epistemologico che fu tipico tratto del cosiddetto “Rinascimento” e in parallelo il rifiuto della tradizione filosofica come tale. Con questi autori, ogni volta ci si trova davanti ad un nuovo inizio, segno che la filosofia moderna e contemporanea, nel rigetto del patrimonio di pensiero più comune dell’umanità, non si fonda che su se stessa. Il rifiuto poi del pensiero scolastico e della metafisica ne è uno degli assi portanti. Quanto ha influito questa pseudo-filosofia sul Concilio? Andereggen non l’ha precisato ma è evidente che molti vescovi e soprattutto molti periti, specie di aria francese (Chenu, Congar, etc.) e tedesca (Rahner, Küng, etc.) ne erano notevolmente pervasi. Da qui quell’insorgere, come Maritain segnalerà già nel 1966, a solo un anno dalla chiusura dei lavori conciliari, del “neo-modernismo” effettivamente più subdolo e più pericoloso dell’antico, anche perché meno esplicitamente assunto e dichiarato. Senza una retta filosofia, ha spiegato sapientemente Andereggen, è impossibile fare teologia: senza una teologia corretta poi, si corrompe anche la dottrina della fede.

Nel pomeriggio dello stesso giorno il prof. Roberto de Mattei ha mostrato nella sua relazione che il Concilio Vaticano II non può essere presentato come un evento che nasce e muore nello spazio di tre anni senza considerarne le profonde radici e le altrettanto profonde conseguenze che esso ebbe nella Chiesa. Il nesso tra Concilio e post-Concilio, ha affermato il prof. de Mattei, non è il nesso dottrinale tra i documenti del Concilio e altri documenti del post-Concilio. È il rapporto storico, stretto e inscindibile, tra il Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1962 e il 1965, e il post-Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1965 e il 1978 e si protrae fino ai nostri giorni. Questo periodo, globalmente considerato, dal 1962 al 1978, anno della morte di Paolo VI, forma un unicum, un’epoca, che può essere definita come l’epoca della Rivoluzione conciliare, così come gli anni tra il 1789 e il 1796, e forse fino al 1815, costituirono l’epoca della Rivoluzione francese. La pretesa di separare il Concilio dal post-Concilio, secondo de Mattei, è altrettanto insostenibile di quella di separare i testi conciliari dal contesto pastorale in cui furono prodotti. Nessuno storico serio, ma neanche nessuna persona di buon senso, potrebbe accettare questa artificiale separazione, che nasce da partito preso, più che da serena e oggettiva valutazione dei fatti. «Ancora oggi – ha concluso lo storico romano – viviamo le conseguenze della “Rivoluzione conciliare” che anticipò e accompagnò quella del Sessantotto. Perché nasconderlo? La Chiesa, come affermò Leone XIII, aprendo agli studiosi l’Archivio Segreto Vaticano, “non deve temere la verità”».

Lo storico francese Yves Chiron, la cui documentata relazione è stata letta da frà Juan Diego FI, ha poi parlato della volontà di certi vescovi e cardinali sotto Pio XI e Pio XII di convocare un nuovo Concilio o piuttosto di completare il Vaticano I, arrestato brutalmente dall’invasione di Roma del settembre 1870. I pontefici, pur assai interessati a queste proposte, le hanno infine respinte per evitare pericoli di frazionamento e “democratizzazione” dell’Assemblea deliberante. Interessanti i documenti portati alla luce dallo Chiron circa i temi che si intendevano trattare nell’eventuale Sinodo: essi erano simili a quelli poi proposti dalla Curia Romana sotto Giovanni XXIII, negli schemi preparatori, i quali furono respinti in blocco (eccetto lo schema sulla Liturgia) dal dibattito in aula per l’opposizione manifestata da certi influenti padri progressisti. Il 17 dicembre la giornata è stata aperta da un’interessante relazione storica su Alcuni personaggi, fatti e influssi al Concilio Vaticano II del padre Paolo Siano FI, il quale ha mostrato come l’ottimismo pastorale verso l’uomo e verso il mondo suggerito dai testi conciliari è stato usato da varie lobbies come grimaldello per condizionare lo svolgimento e la ricezione del Vaticano II. L’autore ha documentato come i fenomeni di crisi dottrinale, spirituale, liturgica e missionaria del post-Concilio hanno i loro prodromi in alcune idee e azioni di vari Padri e periti dell’assise conciliare. Padre Siano ha proposto come “medicinale” alla crisi almeno due “farmaci”: una Mariologia “forte” (in linea con la Tradizione e il Magistero della Chiesa) e una liturgia più orientata (anche visibilmente) a Cristo Crocifisso.

Di seguito ha tenuto una relazione, concisa ma densa, il rev. prof. Giuseppe Fontanella FI dal titolo Il Perfectae caritatis e la vita religiosa. Dove hanno condotto gli esperimenti pastorali?. Secondo il relatore, il documento conciliare si situa in linea con lo sviluppo teologico raggiunto circa il tema della vita religiosa, ma tante realizzazioni successive sembrano aver ceduto allo spirito della secolarizzazione e dell’orizzontalismo. I religiosi in quest’ottica dovrebbero diminuire le pratiche propriamente religiose, e aumentare l’inserimento nel mondo, allontanandosi però in tal modo dallo spirito dei fondatori. Ancora una volta i numeri parlano più che le analisi cervellotiche. Malgrado la tanto ripetuta “vocazione universale alla santità” gli istituti di perfezione hanno perso larga parte dei loro membri, soprattutto quelli che più hanno innovato rispetto ai loro tradizionali usi e costumi. Successivamente, S. E. mons. Atanasius Schneider, vescovo ausiliare in Kazakhstan, ha tenuto una profonda relazione sul senso pastorale del Concilio, mostrando, attraverso numerose citazioni, che nel Concilio esiste uno spirito teocentrico, apostolico, penitenziale e missionario, anzi la missionarietà ne sarebbe quasi la nota caratteristica.

È innegabile che il Vaticano II, letto in quest’ottica, abbia una gran quantità di bei testi di spiritualità e di religiosità, di dottrina omogenea alla grande Tradizione della Chiesa. Il problema secondo il Prelato sta nella cattiva interpretazione di certi suoi passaggi meno chiari: è evidente altresì che quando si parla di interpretazione, specie se universale e autorevole, non si può far riferimento ad una scuola particolare, come per es. quella di Bologna, ma ci si deve riferire alle commissioni post-conciliari e agli stessi episcopati. E dunque su costoro ricade la responsabilità di certe letture minimaliste e arbitrarie. In ogni caso, mons. Schneider ha coraggiosamente chiesto un nuovo Sillabo degli errori avvenuti nella interpretazione del Concilio e se questo Sillabo un giorno sarà pubblicato dalla Massima Autorità di certo esso gioverà a tutti i cattolici.

Una conferenza di grande valore teologico è stata poi quella di padre Serafino Lanzetta, giovane teologo dei Francescani dell’Immacolata. Padre Lanzetta ha fatto uno status quaestionis sull’approccio teologico al Vaticano II attraverso l’analisi della ricezione del Concilio in varie e diverse scuole teologiche post-conciliari. Quello che è emerso in sede di conclusioni è che il Concilio, sulle cui rette intenzioni non è dato di dubitare a nessuno, ha però favorito le opposte ermeneutiche post-conciliari con l’aver abbandonato, o almeno tralasciato, un approccio metafisico alle realtà della fede e della morale. Ciò che il Concilio insegna, lo insegna usando un modo descrittivo e spesse volte solo allusivo, e questo ha permesso ai novatori di estrapolare conclusioni teologiche aberranti di cui il Vaticano II non è responsabile, se non a causa della poca chiarezza e della poca precisione terminologica.

Le numerose ermeneutiche in atto e le variegate griglie interpretative, per esempio, erano impossibili da applicare ai testi del Vaticano I, e se sono state applicate con relativa facilità al Vaticano II, ciò è avvenuto per un certo rigetto del linguaggio scolastico tipico della tradizione teologica precedente detta sprezzantemente “manualistica”. Ad essa si volle sostituire il “resourcement” (De Lubac) cioè il ritorno ai Padri: ma i Padri in molti punti di teologia e di filosofia ne sapevano meno di noi, stante il progresso teologico nella comprensione della immutabile Rivelazione Divina e l’apporto decisivo del Tridentino e del Vaticano I in fatto di dogmatica. Il ritorno ai Padri e alle loro formule, alla liturgia dei primordi e alla Scrittura sa tanto di biblicismo, di fideismo e di archeologismo: tutto ciò che respingeva profeticamente Papa Pio XII nell’Humani generis (1950).

Ha tenuto quindi un’importante relazione il rev. don Florian Kolfhaus, della Segreteria di Stato. Il teologo tedesco ha, svolto una critica “dall’interno” ai documenti conciliari mostrando che il loro vario e differenziato valore magisteriale corrisponde alla loro maggiore o minore autorevolezza, la quale a volte si riduce al mero precetto disciplinare. Il Concilio Vaticano II voleva essere un concilio pastorale, cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi. Esso non affermò nessun nuovo dogma, nessun solenne anatema, e promulgò differenti categorie di documenti rispetto ai concili precedenti; e ciononostante il Vaticano II deve essere compreso nella continuità ininterrotta del Magistero, poiché esso fu un concilio della Chiesa legittimo, ecumenico e dotato della relativa autorità. Alcuni suoi documenti, vale a dire decreti e dichiarazioni, come Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, Nostra Aetate sulle religioni non cristiane e Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa, ha sottolineato don Kolfhaus, non sono né documenti dottrinali in cui si definiscono verità infallibili, né testi disciplinari che presentano norme concrete. In questo sta la grande novità del Vaticano II: contrariamente a tutti gli altri concili, che esponevano dottrina o disciplina, esso supera queste categorie. Si tratta di una esposizione dottrinale che non vuole tuttavia dare definizioni o delimitazioni in funzione contraria a degli errori, ma è rivolta all’agire pratico condizionato dal tempo. Il Concilio non ha proclamato alcun “nuovo” dogma e non ha revocato alcuna “vecchia” dottrina, ma piuttosto ha fondato e promosso una nuova prassi nella Chiesa.

La proposta di don Kolfhaus è stata quella di denominare la sfuggente espressione di magistero pastorale “munus predicandi”, ben delimitata rispetto al “munus determinandi”. Questo significa: annuncio della dottrina, non definizione dottrinale; legato al tempo e conforme al tempo, non immutabile e non sempre uguale; vincolante, ma non infallibile. Il 18 dicembre, ultimo giorno dei lavori, S. E. mons. Agostino Marchetto, parlando su Rinnovamento all’interno della Tradizione, ha ribadito la contraddittorietà delle analisi della scuola progressista di Bologna dei vari Dossetti, Alberigo, Melloni, etc., negando che per quanto riguarda il rapporto Concilio – post-Concilio, si possa parlare di un post hoc propter hoc. Resta da capire come è stato possibile ad una scuola teologica ultra-minoritaria di imporsi quasi ovunque nell’insegnamento universitario cattolico, nelle facoltà di teologia e di storia ecclesiastica, nelle riviste più lette dai teologi, dai pastori e perfino da fedeli.

Il rev. mons. prof. Nicola Bux, da parte sua, ha egregiamente parlato della scomparsa dello ius divinum nella liturgia: anche questa scomparsa, data dal Vaticano II e dall’immediato post-Concilio. Il liturgista pugliese ha notato che la Sacrosanctum Concilium permetteva una interpretazione in conformità colla tradizione liturgica cattolica, espressa ancora nel 1963 dalla Veterum Sapientia di Giovanni XXIII, ma nei fatti prevalse la logica della desacralizzazione e dell’innovazione. Infatti, tra il 1965 e il nuovo messale del 1970 vi sono state, da parte di organi diversi, come la Congregazione della fede e quella del Culto, delle circolari e delle autorizzazioni non solo diverse ma perfino contraddittorie e questo ha prodotto un caos liturgico da cui l’intera Chiesa non si è mai più ripresa. Don Bux ha incoraggiato i presenti alla duplice fedeltà alla tradizione liturgica, riabilitata dal recente motu proprio Summorum Pontificum, e all’esempio del Sommo Liturgo che a poco a poco sta riportando ordine e decoro nella celebrazione del Culto Divino.

Il neo-cardinale Velasio De Paolis, illustre canonista, ha concluso con vibranti parole in difesa del diritto ecclesiastico, giudicato negli anni del post-Concilio addirittura anti-evangelico. La legge invece è fonte di libertà e di sicurezza, e l’anomia (assenza di legge o di legge certa) crea malintesi, ingiustizie, discordie e rotture. Quando il diritto divino e canonico tornerà a regnare tra gli ecclesiastici l’attuale confusione generalizzata si attenuerà e si aprirà una nuova fase per la Chiesa.
I lavori, sapientemente moderati, nel corso dei tre giorni, dal padre Alessandro Apollonio FI, sono stati chiusi da mons. Gherardini, che ha ribadito come il Concilio Vaticano II non fu un unicum, un “blocco dogmatico”. Fu un Concilio pastorale e sul piano pastorale va collocato e giudicato, senza forzature ermeneutiche, che ne impongono la dogmatizzazione.

È questo il messaggio conclusivo del convegno romano destinato certamente a fare data, per il numero e la qualità dei relatori e degli ascoltatori, tra i quali si distinguevano S. Emin. il cardinale Walter Brandmüller e il segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, S. E. mons. Guido Pozzo. Fu del resto proprio il cardinale Ratzinger a dichiarare già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile che «il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale». Tuttavia, proprio questo “concilio pastorale” – proseguiva il cardinal Ratzinger – viene interpretato «come se fosse quasi un superdogma, che priva di significato tutti gli altri concili».

Fonte: Corrispondenza romana


Un ricco resoconto del convegno romano sul Concilio è stato pubblicato anche da Chiesa e postconcilio.




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Caterina63
00giovedì 13 gennaio 2011 11:43

Convegno sulla Tradizione a Parigi: la relazione della prof.ssa Siccardi






Con molto piacere e riconoscenza pubblichiamo questa relazione sul convegno parigino inviataci dalla dottoressa Cristina Siccardi, che al convegno stesso ha partecipato come relatrice. Autrice della più nota biografia italiana dedicata al fondatore della FSSPX, ella ha avuto modo in quell'occasione di narrare come il suo interesse per mons. Marcel Lefebvre sia nato dallo studio storico della figura del papa Paolo VI. Il quale considerò il caso Lefebvre una spina dolorosa del suo pontificato e, molto legato alla cultura francese, finì col prendere le parti dei vescovi di quel paese, avversari spietati del confratello che osava attenersi con ostinazione alle certezze di sempre. Un Papa, peraltro, che seppe anche accorgersi delle derive e della rovina, come attesta il suo famoso discorso sul fumo di Satana; ma poco riuscì a compiere per opporvisi: un pontefice dagli occhi bene aperti e le mani legate, secondo la definizione di Romano Amerio. Mons. Lefebvre, per contro, si vide costretto alla non verde età di 65 anni, per amore della Chiesa, della S. Messa e del Sacerdozio, ad opporsi a tutto e a tutti: un destino che è stato proprio anche di grandi figure della Chiesa, come S. Atanasio, S. Caterina da Siena, S. Giovanna d'Arco. Perché, secondo una frase del grande teologo Garrigou-Lagrange, citata dalla dott.ssa Siccardi nella relazione, "La Chiesa è intransigente in linea di principio perché crede, è tollerante nella pratica perché ama. I nemici della Chiesa sono tolleranti in linea di principio perché non credono, e intransigenti nella pratica perché odiano".
Enrico


Da sin. a destra: don D. Pagliarani, l'abbé A. Lorains e don E. du Chalard


Il decimo Congresso Teologico del Courrier de Rome, dal titolo "La Tradizione: una soluzione alla crisi della Chiesa?", svoltosi a Parigi il 7-8-9 gennaio 2011 alla Maison de la Chimie (28 rue Saint-Dominique), ha avuto un notevole successo di pubblico, un pubblico attento e qualificato, che ha seguito i lavori proposti di giorno in giorno da docenti, studiosi, intellettuali di varie nazionalità. La sintesi del Congresso, di altissimo livello storico, filosofico, teologico e di precisa ponderazione sullo stato attuale della Chiesa, si può riassumere nel volgere il suo titolo dalla forma interrogativa a quella affermativa, mutando l’articolo indeterminativo in quello determinativo: la Tradizione è la soluzione alla crisi della Chiesa.

La prima giornata, dopo aver precisato lo stato della questione (padre Alain Lorans), ha analizzato la crisi ariana (padre Laurent Biselx), quella protestante (padre Nicolas Portail), quella susseguente alla Rivoluzione Francese (professor Jean de Viguerie), quella modernista (padre Claude Boivin) e quella postconciliare (padre Niklaus Pfluger). È emerso come, in tutti i casi in cui la Chiesa è uscita dalla sua crisi, lo ha fatto soltanto con un ritorno alla Tradizione precedente al momento drammatico affrontato. Questo ritorno non è stato un semplice riportare indietro le lancette dell’orologio della storia (operazione dannosa, oltre che impossibile), ma da esso è sempre scaturito un progresso, che ha reso la dottrina cattolica più capace di rispondere alle false obiezioni a lei poste dai movimenti ereticali all’origine di ogni singola crisi.

Sempre alla storia della Sposa di Cristo si può applicare il consiglio che sant’Ignazio di Loyola, nei suoi esercizi spirituali, dà ad ogni singolo fedele: "In tempo di desolazione non si deve mai fare mutamento ma restare fermo e costante nei propositi e nella determinazione in cui si stava nel giorno precedente a tale desolazione, o nella determinazione in cui si stava nell'antecedente consolazione. Come infatti nella consolazione ci guida e consiglia di più il buono spirito, così nella desolazione il cattivo, con i cui consigli non possiamo prendere la giusta strada" (Regola 318). I progressi ed i mutamenti avverranno quando la crisi (desolazione) sarà passata e la Chiesa sarà tornata alla Tradizione (consolazione) precedente.

Nella seconda giornata si è esaminato in che modo la Tradizione possa curare i mali della crisi presente. Si è partiti dal confronto razionale tra Tradizione e pensiero moderno (padre Jean-Michel Gleize), approfondendo le radici teologico-dottrinali dell’irrazionalismo contemporaneo ed il loro affondare nella negazione del giusto ordine trinitario, conseguente alla negazione del Filioque (il procedere dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio), vale a dire negando la necessaria precedenza della verità rispetto all’amore, approfondimento e spiegazione di quanto detto in merito da Romano Amerio nel suo capolavoro Iota Unum (padre François Knittel). Di questo tema e, soprattutto, delle sue conseguenze sull’attuale diffusione del relativismo, troviamo ampi accenni nell’enciclica Caritas in veritate di Benedetto XVI.

Ampia è poi stata la trattazione del rapporto fra Concilio Vaticano II e Magistero della Chiesa, non tanto per ciò che concerne i suoi contenuti, quanto, invece, per ciò che riguarda il suo stesso modo di porsi, il suo legame con il divenire storico, il suo linguaggio innovativo e caratteristico degli anni Sessanta del secolo passato, il suo lasciarsi plasmare, da un punto di vista formale, dal caratteristico spirito di quel decennio, del suo rifuggire da ogni definizione, anche solo terminologica (padre Davide Pagliarani). Su questo stesso tema, ma concentrato sulla pastoralità del Concilio, corre l’obbligo di segnalare il magistrale intervento di monsignor Brunero Gherardini al Convegno organizzato dai Francescani dell’Immacolata, tenuto il 16-17-18 dicembre 2010 a Roma ed intitolato "Il Vaticano II: un Concilio pastorale. Un’analisi storico-filosofico-teologica".

L’assoluta necessità del ritorno alla Tradizione è emersa, per usare un gergo fotografico, in negativo dalla brillante relazione del dottor Francesco Colafemmina sull’eclissarsi dello stesso concetto di bello nell’arte sacra, a mano a mano che la committenza ecclesiastica si allontanava dal richiamo dottrinale della Tradizione: se la bellezza se ne va con la Tradizione, con essa, inevitabilmente, dovrà tornare.

Particolarmente toccante, nella sua lucida disamina, è risultata la relazione di padre Yannick Escher, il quale ha portato la sua testimonianza di prete che ritrova le ragioni e la gioia del proprio sacerdozio nel ritorno alla Tradizione, illustrando, una per una, le strade che gli si aprivano dinanzi.

La giornata si è chiusa ascoltando una tavola rotonda con il dottor Alessandro Gnocchi (autore con il professor Mario Palmaro di testi coraggiosi, quanto autorevoli, sulla crisi della Chiesa e sulla Tradizione), padre Emmanuel du Chalard e padre Alain Lorans, a riguardo della situazione, in rapido mutamento, della Chiesa in Italia e, conseguentemente, a Roma. Come segni tangibili di speranza, sono stati citati, tra gli altri, gli ultimi libri di monsignor Gherardini e il volume Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta di Roberto de Mattei, oltre al già ricordato Convegno dei Francescani dell’Immacolata.

Il Congresso teologico si è congedato con la lunga quanto appassionante intervista di padre Alain Lorans a monsignor Bernard Fellay. Il Superiore generale della Fraternità San Pio X ha illustrato che cosa sia un prete, quale debba essere la sua identificazione con nostro Signore Gesù Cristo, quanto ciò che in un laico è un ""semplice" peccato" diventi, in un sacerdote, "vero e proprio sacrilegio"… L’amore per Cristo e per la sua Chiesa acquisisce, nelle parole del Vescovo, un senso unicamente sacerdotale, perdendo ogni connotazione terrena… nell’orizzonte di un prete così delineato non c’è spazio per altro che per Dio e per il Paradiso, per sé e per i fedeli a lui affidati. Ecco che, alla domanda su quale sia il contributo della Fraternità San Pio X alla Chiesa, la risposta del Superiore generale non poteva che essere quella di difendere il sacerdozio di sempre, affinché Dio mandi "molti santi sacerdoti".

Cristina Siccardi
Caterina63
00domenica 6 marzo 2011 17:58

Un nuovo saggio di mons. Gherardini


Tradizione, un termine che ingenera sicurezza, fiducia, tranquillità, a prescindere dall’oggetto a cui fa riferimento. La fisionomia di tale vocabolo, di per sé, è rasserenante e acquieta gli animi, origina, a prescindere da tutto, un effetto balsamico. Non è un caso che molte pubblicità attuali, soprattutto quando si tratta di presentare prodotti legati alla terra, li correlino alla tradizione, offrendo così la possibilità al fruitore di ottenere dati informativi rassicuranti perché fondati su qualcosa di certo, di un presente garantito dal passato, quindi provato, sperimentato, vissuto in precedenza e che se ha “tenuto” nel tempo è perché è valido. Insomma, tradizione è un termine che riconduce all’appartenenza e ad un preciso sigillo di garanzia, per tutti. Ebbene, trasportiamo questo termine alla Chiesa e scopriremo che essa è fondata proprio sulla Tradizione, che è il suo sigillo di Verità.

Anzi, la Chiesa è la Tradizione, lemma che per tanti anni è fuoriuscito dal vocabolario postconciliare: è stato estromesso dai teologi del XX secolo, quasi non avesse più diritto di asilo, perché riconducente ad una Chiesa considerata ormai lontana anni luce da un mondo maggiorenne, sapiente e progredito. Eppure, afferma il grande teologo di Santa Romana Chiesa Monsignor Brunero Gherardini: «Se vuoi conoscere la Chiesa, non ignorare la Tradizione. Se ignori la Tradizione, non parlar mai della Chiesa».

Quaecumque dixero vobis. Parola di Dio e Tradizione a confronto con la storia e la teologia (Lindau, € 18,00) di Monsignor Gherardini, vero compendio sulla Tradizione, è gradevolissimo nella sua fluidità e trasparenza, la cui esposizione (come sempre accade per i suoi saggi) intreccia pensiero teologico e filosofico con espressioni linguistiche di limpida purezza fiorentina. Testo gherardiniano anche da un punto di vista spirituale: la teologia non è mai disgiunta dall’anelito mistico dell’autore, dove l’armonia soprannaturale si respira in ogni sua pagina.

Apprezzabile anche da chi non è addetto ai lavori, Quaecumque dixero vobis è un prezioso sussidio per chi desidera comprendere il valore della Tradizione nella Chiesa, dal suo sorgere fino alla fine dei tempi, quando la Chiesa militante avrà terminato il suo sacro compito di custodire la Verità e i misteri della Salvezza ad essa connessi.
Le tradizioni, in termini generici, esprimono «una molteplicità di dati, fatti, notizie, memorie, consuetudini, sentenze, credenze, costumi che vengon trasmessi da una generazione alle altre, come valori di riferimento, insegnamenti, esempi, precetti da tener in evidenza e di cui far tesoro» (p. 33). La Tradizione della Chiesa cattolica la si coglie, invece, all’interno della Fede e se ne parla alla luce di essa: «In lumine fidei». La Tradizione iniziò quando Gesù, il Rivelatore, espresse oralmente la Rivelazione. La Tradizione orale proseguì per alcuni anni fino a quando ci fu un momento nel quale, dopo l’ascensione del Signore Risorto in Cielo, e prima che morisse l’ultimo Apostolo, parte di essa si «travasò» in quella scritta, vale a dire nel Nuovo Testamento. Da allora la Rivelazione, cioè la Tradizione, conobbe il duplice canale, orale e scritto. «Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21,25).

Nel IV secolo si formulò il Canone dei Libri Sacri, dove furono scartati certi testi (imbevuti di miracolismo, i cosiddetti «Vangeli apocrifi»), mentre trovarono “l’imprimatur” della Chiesa i testi che avrebbero costituito la «Regula fidei» (la regola della Fede): «il canone diventa così la testimonianza storico-teologica dell’autorità e responsabilità esclusiva della Chiesa, alla quale la Tradizione venne da Cristo stesso e dagli apostoli trasmessa perché la custodisse spiegasse predicasse e ritrasmettesse fin alla fine della storia, integralmente e fedelmente» (p. 37).

L’etimologia della parola Tradizione ha le sue origini nel greco пαραδίδομι/пαραδίδόναι (trasmetto-trasmettere) ed ebbe inizio quando Cristo consegnò la trasmissione orale della Rivelazione ai Suoi Apostoli  con il preciso mandato di portare la Buona Novella a tutte le genti.

Papa Benedetto XVI, dopo anni di lunga e terribile assenza, ha rimesso sul tavolo la questione della Tradizione, come afferma lo stesso Monsignor Brunero Gherardini: «… nessun Papa ha mai parlato tanto frequentemente e tanto insistentemente di Tradizione quanto il teologo, il vescovo, il cardinale, il papa Joseph Ratzinger. Le sue prese di posizione contro ogni spinta in avanti perché priva di radicamento nel passato della Chiesa […] si qualificano come una significativa riproposta della Tradizione, in un’epoca bruciata dall’ansia del nuovo» (p. 20).

L’unica Verità, trasmessa da Gesù ai Suoi e i Suoi ai membri della Chiesa, in nome e «in persona Christi», l’hanno detta ieri e la ripropongono oggi, ogni giorno, fedelmente, integralmente, senza innovazioni nel suo contenuto. Nel corso dei secoli la Tradizione, orale e scritta, cioè la trasmissione della Verità, non è mai stata mutata nella Chiesa, perché mutarla sarebbe corromperla (ecco le eresie), ma è stata approfondita e precisata. Fedele ad Essa è chi non ne ha deturpato la sostanza: ecco perché il compito dei teologi e degli esegeti è delicatissimo e di immensa responsabilità. «I criteri puramente scientifici non bastano; la Fede li trascende metafisicamente, non può pertanto dipenderne. E i criteri della Fede, che inverano anche quelli scientifici, vale a dire i principi ermeneutici dettati dalla Chiesa nel rispetto e a salvaguardia della Fede, son magistero ecclesiastico: sono, cioè, quella Tradizione che, dall’inizio in poi, solca l’empireo della Rivelazione consegnata alla storia» (p.41).

La Tradizione viene esaminata da Gherardini nella Sacra Scrittura, nei Padri della Chiesa, nell’elaborazione teologica, nel Magistero conciliare (in particolare Tridentino, Vaticano I e Vaticano II) e, infine, l’ultimo capitolo è dedicato alla Teologia della Sacra Tradizione.
Scrittura Divina e Tradizione, vagliate dalla Chiesa, costituiscono il suo tesoro a cui tutti possono attingere in quanto la Chiesa è cattolica, cioè universale. La Rivelazione è, in quanto tale, anche Tradizione, per essere stata dal Rivelatore trasmessa alla Chiesa.

San Paolo (5/10 – 64/67) parla di Tradizione e quando ne scrive lo fa con autorità, lo fa con potenza: «Vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l'ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano!

Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto» (1Cor 15,1-11).

Paolo di Tarso, che perseguitava la Chiesa di Cristo, che aveva contribuito a lapidare il protomartire Stefano (?-36), viene rapito e conquistato alla Fede e ne diventa il paladino, trasmettendo quel che ha ricevuto per rapire altri alla Verità, indicando loro la strada della Salvezza eterna. Monsignor Gherardini sottolinea: «L’accenno all’apparizione sulla via di Damasco spiega, penso, la ragione del sentirsi un abortivo: i Dodici, infatti, han potuto nascere a Cristo e crescere nella Fede cristiana alla scuola continuata di Lui; di fronte a loro, Paolo sa d’esse un immaturo, sì, un aborto, ma anche “afferrato” da Cristo (Fil 3,12), suo “prigioniero” (Ef 3,1;4,1) e da Lui costituito ponte e tramite della grazia che salva: riceve e ritrasmette, perché viva la Chiesa» (pp. 67-68).

San Paolo è fuoco, ma è anche tenerezza. Come non ricordare le parole che scrive nell’epistola a Timoteo, dove è presente la Fede entrata, grazie alla Tradizione, nella casa di colui sul quale ha imposto le mani? «Rendo grazie a Dio che io servo, come i miei antenati, con coscienza pura, ricordandomi di te nelle mie preghiere sempre, notte e giorno. Mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia. Mi ricordo infatti della tua schietta fede, che ebbero anche tua nonna Lòide e tua madre Eunìce, e che ora, ne sono certo, è anche in te.
Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio, che è in te mediante l’imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo» (2Tm 1,1-8).

Sfilano davanti a noi i Padri e Dottori della Chiesa: Clemente Romano (?-97), Ignazio d’Antiochia (?-107/110), Ireneo da Lione (130–202), Tertulliano (155 ca.–230 ca.), Clemente Alessandrino (150 ca.–215 ca.), Cipriano (210–258), Atanasio (295 ca.-373), Cirillo Alessandrino (370–444), Basilio (330–379), Gregorio Nazianzeno (329–390 ca.), Giovanni Crisostomo (344/354–407 begin_of_the_skype_highlighting              344/354 – 407    ), Leone Magno (390 ca.–461), Gregorio Magno (540 ca.– 604), Ilario di Poitiers (315 ca.–367), Ambrogio da Milano (339/340–397) … ed ecco il grande Agostino di Ippona (354–430) che comprese in maniera netta la funzione ineludibile della Tradizione nella prassi e per la Fede della Chiesa.

Per il Vescovo convertito la Tradizione apostolica è fonte della Fede. È suo fermo convincimento che «si è nella Fede vera (rectissime creditur)» solo se si professa «ciò che la Chiesa universale ha sempre professato e che non proviene da un Concilio, bensì dalla Tradizione degli apostoli» (De baptismo contra Donatum). Se ne deduce che la vera Fede è quella legata alla Tradizione, poiché invano si cercherebbero alcune verità nella Sacra Scrittura. Afferma sant’Agostino: «Ci son sacramenti che custodiamo non perché scritti, ma perché tramandati» (Ep 54,1,1).

Egli arriva dire: «Ego vero Evangelio non crederem, nisi me catholicae Ecclesiae commoveret auctoritas» («Nemmeno all’evangelo crederei, se  non mi fosse proposto dall’autorità della Chiesa»). C’è poi quella definizione agostiniana di Tradizione, «la verità è sempre ciò che, con vera Fede cattolica, fin dall’antichità vien predicato e creduto dalla Chiesa intera» (Contra Julianum VI,5,11), che si ricollega, ante litteram, a quello che affermerà, più tardi, san Vincenzo di Lérins (?–450 ca.): «è veramente e propriamente cattolico ciò che fu creduto in ogni luogo, sempre, da tutti» (Commonitorium II), pertanto è Tradizione ciò che si presenta come universale consenso, sin dagli albori della Fede, che non deve essere mai manomesso perché è oro e come oro deve essere mantenuto.

Dichiara san Vincenzo, il monaco che visse nel monastero della solitudine e del silenzio di Lérins (la piccola isola di fronte a Cannes che i religiosi, da selvatica e invivibile qual era, trasformarono in un angolo paradisiaco, violato quando, nel 732, i Saraceni trucidarono 500 monaci): «Oro hai ricevuto; oro devi restituire […] non piombo, non bronzo al posto del prezioso metallo» (Commonitorium II) e questa la definizione di Gherardini di Tradizione: «La Tradizione è la trasmissione ufficiale, da parte della Chiesa e dei suoi organi a ciò divinamente istituiti, e dallo Spirito Santo infallibilmente assistiti, della divina Rivelazione in dimensione spazio-temporale» (p. 170).

Se, però, le Sacre Scritture sono caratterizzate dalla fissità, cioè dalla invariabilità del contenuto, non così la Chiesa e la Tradizione: se l’annuncio (kerygma) è sempre lo stesso, non così il modo ricomunicarlo, quindi, nel trasmettere l’oro, di generazione in generazione, non può trasformarlo in piombo o bronzo, ma deve mantenerlo tale donandogli lucentezza e iridescenza nuove.

Non così pare aver fatto il Concilio Vaticano II, il quale, pur citando, nei documenti, la Tradizione l’ha di fatto emarginata, ponendo in primo piano l’apertura al nuovo, alla volontà di fraternizzare con il mondo moderno, di pacificarsi con la sua cultura. «L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura ed ha, in un certo senso, sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto Uomo s’è incontrata con la religione (perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? uno scontro, una lotta, un anatema? poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso.

La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito di questo almeno, voi umanisti moderni, rinunciatari alla trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti, siamo i cultori dell’uomo» (Paolo VI, Discorso di chiusura del Concilio Vaticano II, 7 dicembre 1965). È evidente che questo non è esattamente in linea con la Tradizione cattolica che ha sempre parlato di irriducibile ostilità tra Dio e il mondo, di cui, non per nulla, è principe Satana.

«Ma, attesa la natura del Concilio e la natura diversificata dei suoi Documenti, penso si possa sostenere che se da una ermeneutica teologica cattolica emergesse che taluni passi, o taluni passaggi e affermazioni del Concilio, non dicono soltanto "nove" ma anche "nova", rispetto alla perenne Tradizione della Chiesa, non si sarebbe più di fronte ad uno sviluppo omogeneo del Magistero: lì si avrebbe un insegnamento non irreformabile, certamente non infallibile» (Prefazione di Mons. M. Oliveri, Vescovo di Albenga-Imperia, al libro di Mons. B. Gherardini, Concilio Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento – AV -  2009).

«Va comunque apertamente e onestamente riconosciuto», chiosa Monsignor Gherardini, «che, ciò nonostante, i Padri conciliari non spogliaron il Concilio della dovuta ispirazione soprannaturale; non s’accorsero, però, di comprometterla. E di comprometter pure, contraddicendo ad alcune loro dichiarazioni di principio, la continuità del Concilio con la Tradizione di sempre» (pp.178-179).
La Tradizione, tuttavia, tornerà dal suo “presunto” esilio, presunto perché essa, anche se scaraventata in un angolo come Cenerentola, tolta la fuliggine dal suo volto, brillerà come oro purissimo, perché Cristo disse agli Apostoli: «Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv. 14,25-26), «Quaecumque dixero vobis».


Cristina Siccardi


Caterina63
00martedì 29 marzo 2011 16:35

Interessante articolo

di Paolo Facciotto:
In soffitta l’ideologia conciliarista Il vescovo Negri e la “storia mai scritta” di de Mattei “Finita una dittatura, tocca a noi vivere la fede oggi con il coraggio della missione” DOMAGNANO - (pf) “Il libro di de Mattei ha fatto finire una dittatura ideologica nella Chiesa, quella per cui vivevamo schiavi di una lettura ideologica del Concilio, un’ideologia che era diventata una ‘teologia conciliare’ per cui ‘ciò che non è progressista non è vero’ è uno dei passaggi dell’intervento conclusivo del vescovo di San Marino-Montefeltro, mons. Luigi Negri, alla presentazione del libro “Il Concilio Vaticano II - Una storia mai scritta” di Roberto de Mattei, vicepresidente del CNR, giovedì sera nella Sala del Castello di Domagnano.
 
Tanto per essere chiari, Negri non ha mancato di indicare il luogo in cui la lettura-dittatura ha preso forma negli scorsi decenni: “L’Istituto per le scienze religiose di Bologna diretto prima da Giuseppe Alberigo e oggi da Alberto Melloni”. Alla serata sono intervenuti oltre all’autore e al vescovo, il giornalista e scrittore Vincenzo Sansonetti e il professor Daniele Celli nel ruolo di moderatore. Sansonetti ha fornito un quadro introduttivo, sempre sul registro storico - che è quello del libro - e non dottrinale tanto per avere un’idea di che cosa è successo nella chiesa cattolica fra gli anni precedenti il Concilio, il suo svolgimento e l’immediato post-concilio, negli Stati Uniti d’America il clero e i seminaristi (nel 1950 rispettivamente di 60mila e 25mila persone) si dimezzarono, così come la pratica sacramentale.

De Mattei ha anzitutto chiarito l’ambito e il metodo della sua ricerca storica, delle verità di fatto, da distinguere da quello teologico delle verità di fede, benché i due ambiti non siano impermeabili l’uno all’altro. Ha spiegato come certe correnti riuscirono a far diventare il Vaticano II una specie di “super-dogma” (la definizione critica è dell’allora Card. Ratzinger), metro di misura della valutazione della tradizione: “i fatti e il contesto in cui nacquero, grazie a una certa conduzione e a un’orchestrazione mediatica, si posero come un magistero parallelo”.

De Mattei ha paragonato le posizioni assunte dai “vincitori” con quelle dei “vinti”, per riprendere le schematizzazioni appunto dell’“ideologia” conciliare: fra i primi il Card. Suenens che fu uno dei quattro moderatori dell’assise eppure nel 1968 andò alla testa della contestazione contro l’enciclica di Paolo VI Humanae Vitae fra i secondi il Card. Bacci e mons. Carli, sconosciuti ai più, il Card. Ruffini, che chiesero senza successo una posizione pastorale chiara sul comunismo, “eresia teorica e pratica dei nostri tempi”. Poi de Mattei ha riepilogato i grandi nodi della storia della Chiesa, inserendo il Vaticano II nella più ampia “vita della Chiesa che non è mai stata tranquilla”.

“Lo Spirito ha comunque parlato alla Chiesa”, ha detto nel suo intervento finale mons. Negri, “il Mistero è comunque al di là di tutti i limiti” e “tocca a noi vivere la fede oggi” avendo “il coraggio della missione”. Tanto più nel periodo preparatorio alla visita di Benedetto XVI alla diocesi il 19 giugno. Prossima tappa di avvicinamento, l’incontro con il Card. Carlo Caffarra sul libro del Papa su Gesù di Nazareth, il 31 maggio.

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Caterina63
00lunedì 4 aprile 2011 00:27
[SM=g1740733] 18° CONVEGNO DI STUDI CATTOLICI,
sotto la presidenza di MONS. BERNARD FELLAY,
Superiore Generale della
Fraternità Sacerdotale San Pio X,

sul tema:

La Fraternità San Pio X
1970-2010
Quarant’anni di battaglia
al servizio della Chiesa

audio con Alessandro Gnocchi nel suo intervento al Convegno: "Ermeneutica della continuità o continuità dell'ermeneutica? La Tradizione

it.gloria.tv/?media=119206


Rimini, 22-23-24 ottobre 2010



[SM=g1740722]


[SM=g1740733] "Il Concilio Vaticano II" una storia mai scritta, Roberto de Mattei e padre Giovanni Cavalcoli

Presentazione del libro a Bologna -- 26 marzo , su iniziativa delle associazioni Impegno Civico, Vera Lux e della Fondazione Lepanto

Con: padre Giovanni Cavalcoli o.p., prof. Andrea Padovani e l'autore
Modera il dott. Lorenzo Bertocchi.





www.youtube.com/watch?v=K8Z9VNUvOkI&feature=player_embedded




[SM=g1740722]



[SM=g1740733] Intervento a Firenze del prof. Roberto De Mattei in occasione della presentazione del suo (splendido) libro: "Concilio Vaticano II: una storia mai scritta".
L'incontro è guidato dai frati dell'Immacolata

it.gloria.tv/?media=139793



[SM=g1740722]



[SM=g1740733] Conferenza d'analisi storica del Prof. Roberto de Mattei (Università Europea di Roma) al Convegno di studi sul Concilo Vaticano II, organizzato dal Seminario Teologico "Immacolata Mediatrice" dei Francescani dell'Immacolata a Roma, dal 16 al 18 dicembre 2010. Prod. TRBC.

Le altre conferenze del convegno si possono seguire su:
www.tvimmacolata.net/


it.gloria.tv/?media=126511





[SM=g1740722]


[SM=g1740717] Conferenza "ll primato del culto di Dio come fondamento di ogni vera teologia pastorale:
proposte per una corretta lettura del Vaticano II"
di Mons. Atanasio Schneider al Convegno di studi sul Concilo Vaticano II, organizzato dal Seminario Teologico "Immacolata Mediatrice" dei Francescani dell'Immacolata a Roma, dal 16 al 18 dicembre 2010. Prod. TRBC.

Le altre conferenze del convegno si possono seguire su:
www.tvimmacolata.net/


it.gloria.tv/?media=134757




[SM=g1740738]


[SM=g1740738]
Caterina63
00sabato 23 aprile 2011 11:47

IL TERREMOTO DI DE MATTEI O DEL SISMA DELLA FEDE




(....) di Daniele di Sorco

Ro
berto De Mattei in Piazza San Pietro. Già fondatore di "Lepanto", è da sempre un sostenitore della Tradizione cattolica. Il sacerdote che gli è vicino ne è la prova.



1) IL MALE VIENE DAL PECCATO NON DA DIO. Per quanto riguarda il contenuto, l’intervento di De Mattei non ha nulla di eterodosso, anzi rispecchia in pieno la dottrina cattolica di sempre. In esso non si afferma che il terremoto del Giappone è necessariamente un castigo divino. Si dice semplicemente che gli eventi naturali – fausti o infausti che siano – dipendono in ultima analisi dalla causalità divina, che può permettere il male in vista di un maggior bene. Tale male può configurarsi anche (non soltanto) come una punizione, un ammonimento, non rivolto alle persone coinvolte, come se esse soltanto fossero peccatrici, ma all’umanità in generale. Che la radice morale del male sia il peccato, nel senso che è il peccato originale ad aver segnato l’ingresso del male nel mondo, è il dogma fondamentale della fede cattolica. Altrimenti dovremmo ritenere che il male è stato positivamente voluto da Dio, il che ripugna. Né possiamo pensare, in senso meccanicistico, che Dio abbia creato il mondo con le sue leggi per poi disinteressarsene, per cui lo svolgersi degli eventi naturali avverrebbe indipendentemente da Lui. Le cause naturali spiegano il come certe eventi si sono prodotti, non spiegano perché si sono prodotti, non spiegano la causa morale del fenomeno e il significato che esso assume nell’esistenza umana. Un Dio che crea il suo giocattolo imperfetto e poi gli dà la via, lasciandolo funzionare, non è un Dio onnipotente (perché il meccanismo è retto dal caso), né un Dio provvidente (visto che abbandona le sue creature ad un male fine a se stesso). Quindi dire che le catastrofi naturali, come tutti gli altri mali, sono permessi da Dio in vista di un maggior bene, cioè per la salvezza dell’anima, non solo è conforme alla dottrina cattolica, ma rispecchia l’assoluta bontà e onnipotenza di Dio. Certo, il perché certe volte la Provvidenza divina agisca in un certo modo ora ci sfugge: lo capiremo nell’altra vita. Ma ciò su cui si può essere sicuri è che essa agisca sempre per il meglio, sia di noi come singoli, sia dell’umanità in quanto ente collettivo.

Precisiamo questi concetti alla luce della Sacra Scrittura e della sacra Tradizione. A noi sfugge il perché dei singoli avvenimenti, ma non sfugge – in quanto cristiani – che i singoli avvenimenti hanno un perché. Alla luce del fine verso cui Dio ordina le vicende della storia, noi possiamo tentare di dare una spiegazione del perché di qualcosa, a patto che ciò avvenga a modo di ipotesi e con la consapevolezza che possiamo cogliere soltanto una minima porzione del problema, mentre la spiegazione completa la contempleremo in Dio solo nell’altra vita. Però bisogna ribadire con forza, con S. Agostino, che “non fit aliquid, nisi Omnipotens fieri velit, vel sinendo ut fiat, vel ipse faciendo” (Enchiridion, 95: ML 40, 276). Se infatti le cose materiali non dipendessero, in ultima analisi, da Dio, Dio non sarebbe onnipotente. Se invece dipendessero da Dio ma non fossero ordinate ad un fine buono (anche se a noi talora ignoto), Dio non sarebbe provvido. La Sacrae Theologiae Summa pubblicata dai Gesuiti spagnoli nel 1950 enuncia la tesi: “Universa quae condidit Deus providentia sua gubernat; eamque non effugiunt mala, nec physica, nec moralia”; e la classifica “De fide divina, catholica et definita” (Sacrae Theologiae Summa, Matriti, tom. II, ed. IV, 1962, pp. 168-170). Si tratta di un vero e proprio dogma. Del resto, l’universale provvidenza di Dio è stata sempre professata dalla Chiesa. I Padri scrissero opere su opere contro il fatalismo dei pagani. Sant’Agostino vi dedicò un intero libro, il “De civitate Dei”, senza timore di essere non compreso dai pagani o di urtare la sensibilità dei romani, che certo non venivano messi in ottima luce. Nella stessa direzione si mosse il Magistero ecclesiastico. Innocenzo III, nella professione di fede prescritta ai Valdesi, insegna che l’universalità della provvidenza appartiene al deposito della fede. E il Concilio Vaticano I, riecheggiando S. Agostino, definì: “Universa vero quae condidit Deus providentia sua gubernat”.

Quanto al male – e per male qui si intende anzitutto il male morale e poi il male fisico – la teologia cattolica insegna che esso è conseguenza del peccato. “Stipendium peccati mors” (Rom. 6, 23). Ovviamente non ci si riferisce soltanto ai peccati attuali del singolo, ma anche e in primo luogo al peccato originale, causa di tutti gli altri peccati: “Sicut per unum hominem peccatum in hunc mundum intravit, et ita per peccatum mors, et ita in omnes homines mors pertransit, in quo [= quia] omnes peccaverunt” (Rom. 5, 12). E ancora: “Unius delicto mors regnavit per unum” (Rom. 5, 17), “per unius delictum in omnes homines condemnationem” (Rom. 5, 18). Dio non ha destinato l’uomo, neppure parzialmente, alla morte, al male e alla sofferenza, imperfezioni, queste, del tutto estranee allo stato di grazia ed innocenza in cui si trovavano i nostri progenitori. È col peccato che l’uomo, in quanto uomo, ha meritato la decadenza da questo stato, con tutto ciò che ne consegue: morte, sofferenza, male. Ma la misericordia di Dio è stata talmente grande da voler essa stessa riparare il nostro torto mediante l’incarnazione e il sacrificio del Verbo, che non ha tolto la pena temporale che meritiamo per il peccato, ma ha rimosso la pena eterna, ossia la privazione della visione beatifica. Ed è questo che veramente conta, visto che il vero male, il male per eccellenza, è il mancato raggiungimento del proprio fine ultimo. “Sed non sicut delictum, ita et donum; si enim unius delicto multi mortui sunt, multo magis gratia Dei et donum in gratia unius hominis Iesu Christi in plures abundavit. Et non sicut unum peccatum, ita et donum; nam iudicium quidem ex uno in condemndationem, gratia autem ex multis delictis in iustificationem” (Rom. 5, 15-16).

Se la morte, radice ed essenza del male morale, è conseguenza del peccato, e precisamente del peccato originale, non si vede per quale ragione il male fisico dovrebbe dipendere da altre cause; né si vede perché le calamità individuali e collettive non possano essere concepite anche nella prospettiva di un castigo, alla luce dei principi teologici che abbiamo esposto sopra. Del resto, l’antico Testamento ridonda di punizioni positivamente permesse da Dio in vista della conversione del suo popolo o di qualche persona in particolare, o ancora come esempio da lasciare ai posteri. Alcuni hanno obiettato che il nuovo Testamento modificherebbe radicalmente questo concezione. Ma un simile modo di pensare tradisce un’erronea nozione sia del valore della rivelazione mosaica sia del rapporto tra essa e il messaggio evangelico. I libri dell’antico Testamento, infatti, sono divinamente ispirati, al pari di quelli del nuovo. Pertanto la concezione dell’uomo, della natura, di Dio, che si trova espressa in essi, non dipende dalle elucubrazioni puramente umane – e quindi opinabili e discutibili – degli scrittori ebrei, ma è frutto della divina rivelazione. Certo, si tratta di una concezione ancora imperfetta. Gesù, come Egli stesso ha affermato, è venuto per compiere la legge, non per abolirla. Del resto, pensare che Dio si contraddica, rivelando prima qualcosa e poi successivamente smentendolo, non ha alcun senso. L’antico e il nuovo Testamento non sono opposti, ma complementari. Metterli in contrapposizione quanto alla sostanza della dottrina, significa cadere nell’errore degli antichi gnostici, i quali giungevano a sostenere che il Dio dell’antico Testamento fosse diverso dal Dio del nuovo. Nello specifico del caso che stiamo trattando, la rivelazione evangelica conferma in pieno quella mosaica, sia pur inserendola nella dimensione della Grazia. Oltre alle affermazioni di san Paolo sopra menzionate, si può ricordare l’episodio della guarigione del cieco nato, che qualcuno ha utilizzato per insinuare una presunta discontinuità tra la dottrina mosaica e quella evangelica. In realtà il passo, considerato nel suo vero senso, dimostra esattamente il contrario. Si dice infatti che il cieco non è cieco per peccati commessi da lui o dai genitori, ma si dice al contempo che Dio ha permesso questa ciecità perché si manifestasse appieno la sua gloria. Quindi Gesù non separa le cause seconde dalla causa prima, ma le connette nella prospettiva provvidenziale che aveva costituito il fondamento della religione mosaica e che continua a costituire il punto essenziale della religione cristiana.

Del resto, un Dio che non ha il controllo della natura da Lui stesso creata o che permette il male senza colpa morale da parte dell’uomo (ossia, in ultima analisi, senza il peccato originale), in che modo sarebbe più conforme alla concezione evangelica di misericordia e di amore? A noi sembra piuttosto che, in questo modo, si torni ad una concezione pagana della divinità, non onnipotente, non provvida e invece sottoposta, come tutto l’esistente, ad un fato cieco, capriccioso ed inesorabile. La dottrina tradizionale, al contrario, si accorda pienamente con l’assoluta onnipotenza e bontà divina, poiché tutto fa dipendere da Lui, e tutto – anche il male – riconduce alla volontà di provvedere al vero bene dell’uomo, ossia alla salvezza eterna. Tale volontà, com’è normale che sia, si esplica anche attraverso correzioni, ammonimenti, veri e propri castighi. Non dobbiamo aver timore di usare questa parola, visto che l’ha impiegata, più volte, la Madonna a Fatima. Sarebbe un buon padre, quello che non punisce mai i suoi figli, anche quando ce n’è bisogno? E sarebbe un buon padre colui che non ricorda ai suoi figli in che cosa consista il vero bene, che è la visione beatifica nel Paradiso? Dalla risposta, ovvia, a queste domande, si capisce facilmente come la dottrina tradizionale cattolica, efficacemente riproposta da De Mattei, non solo non contraddice all’infinito amore di Dio, ma ne è la sua diretta e necessaria conseguenza.

“OPPORTUNITÀ” O INERZIA?

Quando il mondo era ancora "cristiano" così vedeva anche il terromoto: in termini di Provvidenza divina
2) SE I CATTOLICI RINUNCIANO A SPIEGARE IN PUBBLICO LA LORO DOTTRINA. Vi sono alcuni, poi, che hanno sollevato un problema di opportunità. Secondo costoro, ciò che dice De Mattei è giusto, ma bisognerebbe guardarsi dall’affermarlo troppo chiaramente in pubblico, per evitare lo scandalo o la meraviglia di chi, essendo lontano dalla fede, non può comprendere fino in fondo la questione.

Ammettiamo il presupposto: la dottrina cristiana sulla causalità divina appare piuttosto complessa, non perché lo sia veramente, ma perché la mentalità odierna è completamente estranea ai fondamenti della sana filosofia e della divina rivelazione. Neghiamo, tuttavia, la conclusione che si cerca di trarne: appunto perché il mondo di oggi induce i cristiani a dimenticare un punto essenziale della propria fede, è necessario ribadirlo con forza, specialmente se esso è fonte di dubbi, disordientamento, confusione. Che cos’ha fatto De Mattei? Ha riaffermato la dottrina classica sull’origine del male e sulla provvidenzialità divina. In che occasione l’ha fatto? Parlando su un’emittente cattolica, ad un pubblico di cattolici. Non si capisce che cosa vi sia di inopportuno o di imprudente in tutto questo. Del resto, il problema dell’opportunità non si sarebbe posto neppure se avesse affrontato l’argomento su una testata laica. I cattolici, infatti, non devono in alcun modo vergognarsi della dottrina che professano, come se essa fosse irragionevole o sprovvista di solidi argomentazioni a suo favore. Certo, i problemi vanno affrontati con perizia e competenza. Ma vanno affrontati. Altrimenti si cade in un paradossale circolo vizioso, per cui non parlando mai di certe cose si pensa che esse non abbiano una spiegazione, e pensando che esse non abbiamo una spiegazione non se ne parla mai. Se i cattolici rinunciano a spiegare in pubblico la loro dottrina, lo faranno, al posto loro, i laicisti, deformando, alterando, ridicolizzando.

Grazie a questi presunti “motivi di opportunità”, ci troviamo di fronte a dei cristiani che definiscono “non conforme al Vangelo” una dottrina che la Chiesa ha sempre creduto, che separano il funzionamento del mondo (e quindi anche la creatura umana) dalla causalità divina, che negano il peccato come origine morale del male, che non attribuiscono al male permesso una funzione provvidenziale. Del resto, la sana dottrina non si conserva per forza di inerzia. Va continuamente ribadita, illustrata, difesa, come già san Paolo ordinava a Timoteo: “praedica verbum, insta opportune, importune; argue, obsecra, increpa in omni patientia et doctrina”, appunto perché “erit tempus cum sanam doctrinam non sustinebunt, sed ad sua desideria coacervabunt sibi magistros, prurientes auribus; et a veritate quidem avertent, ad fabulas autem convertentur” (2 Tim. 4, 2-4). La dottrina apostolica si oppone per diametrum all’inerzia di coloro che, per presunte ragioni di opportunità, ritengono che di certe cose bisognerebbe parlare il meno possibile, anche tra cattolici. Secondo l’Apostolo delle genti, predicare la verità, senza farsi condizionare dal rispetto umano, è un dovere che va perseguito con tenacia ed insistenza, soprattutto quando le persone sono più propense a dimenticarla e a rivolgere le proprie orecchie all’errore.

Si ha dunque l’impressione che, dietro al problema dell’opportunità, si celi invece quello “spiritus timoris” (2 Tim. 1, 7) che consiste nel tacere i punti più complessi della dottrina cristiana allo scopo di non urtare la sensibilità dei non credenti. Ma, in questo modo, quale effetto si ottiene? Non quello di evitare lo scontro coi laicisti, che anzi accuseranno i cattolici di aver studiatamente nascosto alcuni aspetti della loro fede perché essi stessi li ritengono incomprensibili e irrazionali. E neppure quello di tutelare la tranquillità dei credenti, i quali si troveranno sprovvisti di risposte ai loro interrogativi e di armi concettuali per rispondere alle obiezioni del mondo. Di fatto, si finisce per portara acqua al mulino dei militanti laicisti, che accusano i credenti di parzialità e irrazionalismo.

Riteniamo, dunque, che il prof. De Mattei, col suo intervento a Radio Maria, abbia compiuto un servizio utilissimo alla verità, facendo luce su una dottrina tanto importante quanto trascurata. Al tempo stesso, non riusciamo a capire le ragioni di quei cattolici, i quali, anziché reagire compattamente alle intemperanze dei laicisti, hanno, ancora una volta, scelto la strada dell’inerzia, del quieto vivere, della falsa opportunità, contribuendo in questo modo a rafforzare l’impressione di una loro sudditanza intellettuale nei confronti del mondo. “Non enim dedit nobis Deus spiritum timoris, sed virtutis et dilectionis et sobrietatis. Noli itaque erubescere testimonium Dei [...], sed collabora evangelio secundum virtutem Dei” (2 Tim. 1, 7-8).






post tratto da articolo su : Papalepapale

Caterina63
00martedì 10 maggio 2011 18:12

La Chiesa è infallibile, ma un Concilio può commettere errori

Il sito di Sandro Magister ha ospitato l'attesa replica del prof. de Mattei, che sotto riportiamo, alle critiche sollevate nei confronti del suo libro su Il concilio Vaticano II, senza dubbio uno dei più importanti degli ultimi decenni per la Chiesa, data la centralità dell'eredità conciliare nella situazione attuale e la forza eversiva che questo testo sprigiona, con la tranquilla forza dei fatti storicamente documentati.

Quel libro ha sollevato un acceso dibattito e, come noto, i più alti lai sono venuti dal "fuoco amico", se così si può dire, ossia da ambienti teologicamente conservatori che hanno vissuto molto male il fatto di sentirsi scavalcati nel ruolo che s'erano dati di guardiani dell'ortodossia. Non potendo controbattere sul piano accademico al saggio sul Concilio, la critica si è ridotta a brevi articoli giornalistici dove l'aprioristica stroncatura ha di gran lunga prevalso sulla pacata analisi. Perché anche il minimo buon senso ci insegna che sulla sola base di una recensione di trenta righe su un giornale, scritta da chi non ha titoli accademici in quel campo, non si può liquidare la monografia di uno storico di professione come "tendenziosa, ideologica, polarizzata, di parte, di tendenza estremista" (tutti aggettivi utilizzati in un articolo di mons. Marchetto sull'Osservatore romano) oppure "summa delle tesi anticonciliariste, riproposizione dell'ermeneutica della rottura e utile a fare a pezzi i testi conciliari, anziché a spiegarli come sarebbe compito della buona scienza" (espressioni, queste, di Introvigne sull'Avvenire). E' significativo, per inciso, che i due maggiori quotidiani del mainstream cattolico, Osservatore ed Avvenire, abbiano sentito l'esigenza di intimare un'altolà del genere al dibattito sul Concilio.

Eppure, un dibattito sulla giusta o non giusta ricezione del Concilio è precisamente quello che il Papa ha voluto suscitare con il famoso discorso del 2005 sulle due ermeneutiche del Concilio. Discorso che, si ricorderà, per i primi 2-3 anni è quasi caduto nel vuoto e nel silenzio dei media cattolici ufficiali, ma che è stato nondimeno liberatorio (per la prima volta in 40 anni, tutto il postconcilio è stato messo in discussione, e dal massimo rappresentante della Chiesa...). Poi, anche grazie all'accessibilità di quel discorso via internet ed alle discussioni sul web, l'insegnamento papale ha potuto lavorare sottotraccia portando ad un dibattito che, ad onta degli interventi dei watchdogs del conciliarmente corretto, non è più arrestabile. Perché, come diceva Metternich, è inutile chiudere le frontiere coi cancelli: le idee li scavalcano.

Si può essere d'accordo o meno con la ricostruzione di de Mattei, della quale non è peraltro revocabile in dubbio l'accuratezza della documentazione; ma su una cosa si deve convenire: che il migliore servizio a Papa Benedetto lo sta rendendo senza alcun dubbio chi, come lui, si sforza di saggiare alla prova dei dati documentali la dicotomia tra le ermeneutiche della rottura e della continuità. Non, invece, chi si limita a voler chiudere il discorso prima ancora di cominciarlo, ravvisando in ogni approfondimento un crimine di leso concilio o un attentato all'ermeneutica proposta dal Papa. Il quale ha sì fissato un criterio interpretativo, ma non l'ha potuto finora svolgere (salvi alcuni accenni sul concetto di libertà religiosa): ben venga allora chi porta avanti il discorso, quali ne siano le conclusioni. Per questo, e ora ci rivolgiamo a Magister, dobbiamo deplorare il suo presentare i campi del dibattito come se fossero uno "a sostegno del Papa" (quello degli 'stroncatori') e l'altro "contro Benedetto XVI" (quello alla de Mattei), allorché è semmai vero il contrario. Lo dimostra abbondantemente anche il fatto che per Magister scriverebbe "a sostegno del Papa" (sic) il teologo Rhonheimer, il quale invece circoscrive la "continuità" talmente a livello di principi ultimi che ammette tranquillamente che il Concilio fu "una chiara svolta rispetto al passato" e in nome di una evanescente "continuità vera" rigetta "falsi schemi di continuità", ossia tentativi effettivi di far concordare il prima e il dopo. Tanto da concludere: "La discontinuità è evidente. E più evidente ancora è la continuità, là dove essa è veramente essenziale e dunque necessaria". E sarebbe questa una tesi "a sostegno del Papa"? Sarebbe forse quella l'ermeneutica della "riforma nella continuità" voluta da Benedetto XVI, o è piuttosto una ripresentazione della sempre attuale "ermeneutica della rottura", sia pure con un labiale e inconsistente omaggio ad una solo postulata 'continuità'? Chi sono dunque i più fedeli interpreti del disegno revisionista del Pontefice, in merito alla ricezione del Concilio?

Enrico




di Roberto de Mattei

Il discorso alla curia romana di Benedetto XVI, il 22 dicembre del 2005, ha aperto un dibattito sul Concilio Vaticano II di cui sono recente espressione i libri di mons. Brunero Gherardini e l’importante convegno dei Francescani dell’Immacolata, svoltosi a Roma tra il 16 e il 18 dicembre 2010, oltre al mio studio, "Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta" (Lindau, Torino, 2010).

L’invito del papa a interpretare i documenti del Vaticano II secondo una “ermeneutica della continuità” ha offerto infatti un decisivo stimolo a sviluppare il dibattito sul Concilio in maniera diversa da come ha fatto la "scuola di Bologna", che lo ha presentato in termini di frattura e discontinuità con la tradizione bimillenaria della Chiesa.

Avrei sperato che i nostri contributi, mossi solo da un sincero desiderio di rispondere all’appello del Santo Padre, fossero accolti se non con entusiasmo, almeno con interesse, che fossero scientificamente discussi e non aprioristicamente respinti. Per quanto riguarda il mio libro, ad esempio, mi sarei atteso una seria discussione storica su riviste specializzate.

Su giornali legati alle istituzioni cattoliche mi rispondono, invece, Massimo Introvigne, partner dello Studio legale Jacobacci Associati, sociologo delle minoranze religiose, oggi rappresentante del governo italiano presso l’OCSE, e l’arcivescovo Agostino Marchetto, trent'anni di carriera diplomatica alle spalle, e poi, per quasi dieci anni, in prima fila nella difesa di immigrati, zingari, clandestini, come segretario per la pastorale dei migranti.

Né mons. Marchetto, né il dott. Introvigne, malgrado i loro meriti ecclesiastici o professionali, hanno probabilmente avuto tempo di frequentare biblioteche o archivi storici; nessuno dei due è storico di professione. Ed entrambi, nei loro articoli – pubblicati rispettivamente su “Avvenire” dell’1 dicembre 2010 e su “L’Osservatore Romano” del 14 aprile 2011 – rifiutano il mio libro da un punto di vista non storico, ma ideologico.

Introvigne definisce il mio libro “una vera summa delle tesi anticonciliariste”, che “ripropone purtroppo, ancora una volta, quell’ermeneutica della rottura che Benedetto XVI denuncia come dannosa”. Marchetto lo definisce una storia “ideologica”, “di tendenza estremista”, “polarizzata e di parte” come quella orchestrata dalla scuola di Bologna, anche se di segno contrario.

La critica di Marchetto e Introvigne sembra avere un solo fine: chiudere anticipatamente quel dibattito che Benedetto XVI ha aperto e invitato a sviluppare.

L’etichetta di tradizionalista o anticonciliarista è utilizzata in maniera analoga a quella di “fascista” con cui, negli anni Settanta, si pretendeva tappare la bocca ad ogni anticomunista. Allora il mito dominante negli ambienti politici era quello della Resistenza, oggi, negli ambienti ecclesiastici, è quello del Concilio Vaticano II.

La Resistenza, scriveva allora il filosofo Augusto Del Noce, cessa di essere un elemento da situare nella storia per diventare la misura della valutazione della storia. Oggi si ha l’impressione che il Concilio Vaticano II sia un evento che cessa di essere un elemento da situare nella Tradizione cattolica per diventare la misura stessa della valutazione della Tradizione.

Io credo, al contrario, che si possa discutere sul piano storico del Concilio Vaticano II in maniera non diversa da quanto hanno sempre fatto gli storici della Chiesa.

Rivolgendosi ad essi, nel 1889, Leone XIII scriveva che “coloro che la studiano non debbono mai perdere di vista che essa rinchiude un insieme di fatti dogmatici, che si impongono alla fede, e che nessuno può mettere in dubbio [...]. Nondimeno, poiché la Chiesa, che continua tra gli uomini la vita del Verbo Incarnato, si compone di un elemento divino e di un elemento umano, quest’ultimo deve essere esposto dai maestri e studiato dai discepoli con una grande probità. Come è detto nel libro di Giobbe: ‘Iddio ha forse bisogno delle nostre menzogne?’ (Gb 13, 7)”.

“Lo storico della Chiesa – continua Leone XIII – sarà tanto più efficace nel farne rilevare la sua origine divina, superiore ad ogni concetto di ordine puramente terrestre e naturale, quanto più sarà stato leale nel non dissimulare nulla delle sofferenze che gli errori dei suoi figli, e alle volte anche dei suoi ministri, hanno causato nel corso dei secoli a questa Sposa di Cristo. Studiata così la storia della Chiesa anche da sola costituisce una magnifica e convincente dimostrazione della verità e della discontinuità del cristianesimo”.

La Chiesa è indefettibile e tuttavia, nella sua parte umana, può commettere degli errori e questi errori, queste sofferenze, possono essere provocate, dice Leone XIII, dai suoi figli e anche dai suoi ministri. Ma ciò nulla toglie alla grandezza e alla indefettibilità della Chiesa. La Chiesa, disse Leone XIII, aprendo agli studiosi gli archivi vaticani, non teme la verità.

Una verità che lo storico cerca sul piano dei fatti, mentre il teologo la cerca in quello dei princìpi: ma non esiste una verità storica che si possa contrapporre ad una verità teologica. C’è un’unica verità, che è Cristo stesso, fondatore e capo del Corpo Mistico che è la Chiesa; e la verità sulla Chiesa è la verità su Cristo e di Cristo, nell’incontro con lui, che è sempre lo stesso, ieri, oggi e sempre.

Il mio libro nasce da un profondo amore alla Chiesa, al suo magistero e alle sue istituzioni, "in primis" al papato. E il mio amore per il papato vuol essere tanto grande da non fermarsi al papa attuale, Benedetto XVI, a cui mi sento profondamente legato, ma cerca dietro l’uomo l’istituzione che egli rappresenta. È un amore che vuole abbracciare con questo papa tutti i papi nella loro continuità storica e ideale, perché il papa per un cattolico non è un uomo, è un’istituzione bimillenaria; non è quel singolo papa, ma è il papato, è la serie ininterrotta dei vicari di Cristo, da san Pietro al regnante pontefice.

Ebbene, non c’è miglior modo di esprimere il proprio attaccamento al papa e alla Chiesa che quello di servire, in tutti i campi, la verità, perché non esiste nessuna verità, storica, scientifica, politica, filosofica che possa mai essere impugnata contro la Chiesa.

E dunque non dobbiamo temere di dire la verità sul Concilio Vaticano II, ventunesimo della storia della Chiesa. Sottolineo questa parola ventunesimo. Il Concilio Vaticano II non fu né il primo né l’ultimo Concilio nella storia della Chiesa: fu un punto, fu un momento della storia della Chiesa.

Nella storia della Chiesa ci sono stati ventuno Concili, oggi ritenuti ecumenici. Alcuni di questi Concili sono indimenticabili: il primo, quello di Nicea, che definì il nostro "Credo", poi il Concilio di Trento, il Concilio Vaticano I. Altri Concili sono oggi dimenticati: il che non significa che non siano stati Concili autentici, supreme espressioni del magistero della Chiesa.

Ma un Concilio entra nella storia per i documenti che ha prodotto. Nel XVI secolo vi furono due Concili: il Concilio Laterano V (1512-1517) e il Concilio di Trento. L’unica definizione dogmatica del quinto Concilio Lateranense fu quella secondo cui l’anima umana individuale è immortale; il Lateranense fu sotto certi aspetti un Concilio mancato: perché non riuscì ad avviare la grande riforma di cui la Chiesa aveva bisogno, e neppure a prevedere e ad arrestare la pseudo-riforma che divampò, con le 95 tesi di Lutero, proprio nell’anno in cui il Concilio si concludeva. Tutti ricordano il grande Concilio di Trento; pochi ricordano il Concilio Laterano V. Casomai si ricorda il Concilio Laterano IV (1215), che definì che “fuori della Chiesa cattolica non c’è salvezza”: una verità che è entrata a far parte della infallibile Tradizione della Chiesa.

I Concili possono promulgare dogmi, verità, decreti, canoni, che sono emanati dal Concilio, ma che non sono il Concilio. Mentre il dogma formula una verità, che una volta formulata trascende per così dire la storia, i Concili nascono e muoiono nella storia. Il Concilio è diverso dalle sue decisioni. Le decisioni del Concilio se sono infallibilmente promulgate entrano a far parte della Tradizione.

Nessun Concilio, neppure Trento o il Vaticano I, e tantomeno il Vaticano II, è più alto della Tradizione. Benedetto XVI afferma che i documenti del Concilio Vaticano II vanno letti nella loro continuità con la Tradizione della Chiesa. La Tradizione non è un evento, non è una parte, è il tutto. La Tradizione è come la Sacra Scrittura: una fonte della Rivelazione, divinamente assistita dallo Spirito Santo.

È privo di senso logico, prima che teologico, voler contrapporre, come fa qualcuno, Tradizione e magistero cosiddetto “vivente”, come se la Tradizione fosse il passato e il magistero vivente fosse il presente. La Tradizione è il magistero presente, passato e, potremmo dire, futuro.

Il magistero della Chiesa non è frutto della volontà definitoria del papa e dei vescovi, ma dipende, e non può essere separato, dalla Tradizione. Prima del magistero della Chiesa c’è la Tradizione, prima della Tradizione c’è la Rivelazione e prima della Rivelazione il Rivelatore, che è Cristo stesso.

Mi è stato rimproverato di trascurare i documenti del Concilio o di interpretarli in chiave di discontinuità con la Tradizione della Chiesa. Non è vera né la prima, né la seconda affermazione. L’interpretazione dei documenti del Concilio non spetta né a me, né a nessun aspirante interprete del Concilio, ma spetta al magistero della Chiesa, e al magistero io mi attengo. Ciò che io narro sono i fatti, ciò che ricostruisco è il contesto storico in cui quei documenti videro la luce.

E affermo che i fatti, l’evento, il contesto storico, ebbero un influsso nella storia della Chiesa non minore del magistero conciliare e postconciliare: si posero essi stessi come magistero parallelo, condizionando gli eventi.

Affermo che sul piano storico il post-Concilio non si può spiegare senza il Concilio, così come il Concilio non si può spiegare senza il pre-Concilio, perché nella storia ogni effetto ha una causa e ciò che avviene si inquadra in un processo, che spesso è addirittura plurisecolare e tocca non solo il campo delle idee, ma quello della mentalità e dei costumi.

Non nego con ciò la suprema autorità del Concilio e la autenticità e validità dei suoi atti. Ma ciò non significa infallibilità. La Chiesa è certamente infallibile, ma non sono infallibili tutte le espressioni dei suoi rappresentanti, anche supremi; e non è necessariamente né santo, né infallibile un Concilio: perché se è vero che lo Spirito Santo non manca mai di assisterlo è anche vero che bisogna corrispondere alla grazia dello Spirito Santo, che non produce automaticamente né santità né infallibilità. Se è vero che ogni Concilio può esercitare, in unione col papa, un magistero infallibile, un Concilio può anche rinunciare a esercitare tale magistero, per porsi su un piano totalmente pastorale e, su questo piano, commettere degli errori come accadde, a mio parere, quando il Concilio Vaticano II omise di condannare il comunismo.

Il Concilio Vaticano II, non dimentichiamolo, non fu un Concilio dogmatico, ma pastorale, il che non significa che fu privo di magistero, ma il suo magistero può essere considerato definitivo e infallibile solo quando ripropone, ed esplicita, come spesso fa, verità già definite dal magistero ordinario e straordinario della Chiesa.

Il problema che a me interessa però non è la discussione sui testi del Concilio; lascio questa esegesi ai teologi, e prima di tutto al papa. Il problema che mi interessa, come membro della Chiesa, è capire le radici storiche della crisi che attraversiamo. Radici remote, perché la crisi che attraversiamo è plurisecolare, ma anche prossime, perché la crisi attuale risale, prima ancora del Sessantotto, all’epoca del Concilio Vaticano II, che non sono necessariamente i 16 documenti che lo hanno concluso, ma le parole, i gesti, le omissioni, durante e dopo il Concilio, dei padri conciliari e, d’altra parte, il magistero parallelo, soprattutto mediatico, che si affiancò al magistero autentico del papa e dei vescovi. E come non si può separare il post-Concilio dal Concilio, così non si può separare il Concilio dal pre-Concilio, perché la crisi non nasce l’11 ottobre del 1962, quando il Concilio si apre, ma fermenta nei pontificati precedenti, compreso quello di Pio XII.

Mi si accusa di essere contro Pio XII, verso il quale io ho una somma ammirazione, soprattutto per quanto riguarda il suo monumentale "corpus" dottrinale. Ma non sono il postulatore della sua causa di beatificazione, sono uno storico e come tale non posso negare che Pio XII abbia subìto da parte di certi suoi collaboratori un’influenza negativa in alcuni campi, come quello liturgico o esegetico. Non si può negare che la sua enciclica "Humani generis", che considero un ottimo documento, sia priva della forza teoretica e pratica della "Pascendi" di san Pio X. Possiamo dirlo rimanendo strenui difensori del primato romano e grandi ammiratori di Pio XII, perché la Chiesa non ha paura della verità e l’amore della verità nasce dalla santa libertà dei figli di Dio (Rm 8, 21). Altrimenti non comprenderemmo la vita tempestosa della Chiesa nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni.

Non c’è bufera, mediatica o cruenta, che ci spaventi, perché la Chiesa è sempre in piedi nelle tempeste: le eresie, gli scandali, le rivoluzioni non l’hanno scossa né hanno arrestato la sua marcia nella storia.

E un grande storico della Chiesa che non ebbe timore di raccontare la verità, Ludwig von Pastor, scrive, a conclusione della sua "Storia dei Papi", con parole che faccio mie:

“La rupe di Pietro supera le tempeste di tutti i secoli. Il fatto più grande, più inconcepibile nella storia della Chiesa di Cristo è che le età della sua più profonda umiliazione sono al tempo stesso quelle della sua più grande energia e forza invincibile, che morte e tomba sono per essa non segni della fine, ma simboli della resurrezione, che le catacombe dell’età primitiva come le persecuzioni anticristiane di quella contemporanea non possono riuscire per essa che a titolo di gloria. […] Cristo, infatti, cammina tuttora con Pietro sulle onde oscillanti e quindi vale anche per i successori di questo la parola: ‘Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam, et portae inferi non praevalebunt adversum eam’”.


Roma, 5 maggio 2011
Caterina63
00giovedì 19 maggio 2011 12:40

Il coraggio di un discorso. di L. Bertocchi (sul libro di mons. Gherardini)

“Eodem sensu eademque sententia”. Questo è il passo di San Vincenzo di Lerins che risuona nelle opere di Mons. Brunero Gherardini. “Nello stesso senso e nel medesimo significato”, è la chiave interpretativa che il teologo della gloriosa Scuola Romana richiama più volte nella sua coraggiosa ricerca teologica sull’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II.

L’altro punto fermo che penso sia necessario considerare affrontando il lavoro di Gherardini riguarda la preoccupazione sincera che anima l’autore rispetto alla crisi nella Chiesa, quella che molti ritengono gravissima. O si riconosce la profondità e l’ampiezza di tale crisi, oppure difficilmente si potrà capire il lavoro e lo sforzo del teologo toscano.

Nel 2009 con il suo primo libro sul tema egli proponeva un “discorso da fare”, oggi - “Concilio Vaticano II. Il discorso mancato” (Ed. Lindau - 2011) – quella proposta gli pare un occasione persa, perchè come risposta al suo appello registra prevalentemente il ripetersi di una specie di refrain, e cioè che la crisi nella Chiesa ha radici soltanto nel post-concilio, là dove si è affermata una interpretazione deviata dei documenti conciliari.

Mons. Gherardini non nega che vi sia stato l’abuso post-conciliare, questo ormai è un dato acquisito, ma cosa ha permesso che nella prassi si sviluppassero due interpretazioni contrapposte? Dove sono le radici di questi abusi? Qui si colloca il “discorso da fare” che propone Gherardini, il quale sa bene che una malapianta non viene estirpata semplicemente potandola.

Personalmente credo che questa sua proposta di ricerca sia del tutto ragionevole e anziché emarginarlo sarebbe meglio ascoltarne il suggerimento, ossia “prendersi tutti la testa fra le mani per decidere finalmente di mettere un po’ d’ordine nel disordinato andazzo di questo interminabile e sempre inossidabile post-concilio” (pag. 78).

Mons. Gherardini riconosce il Concilio Vaticano II come ecumenico e trae la ovvia conseguenza di considerarne il magistero come conciliare e solenne, ma di per sé – e il “ma” è assai rilevante – questo non depone affatto per una sua completa e totale dogmaticità e infallibilità. Ammetto che il discorso si fa complesso e impervio, ma proprio qui l’autore colloca il “discorso mancato”, infatti, più che l’avvio di un dibattito storico, teologico e filosofico sul tema, egli nota un pullulare di voci che di fatto si collocano nella scia del filone celebrativo del Concilio, voci che non aggiungono gran che alle questioni da risolvere.

Sembra che più che cercar di distinguere e capire, si sia preferito squalificare i presupposti del “discorso”, ma Gherardini, pur non nascondendo una certa delusione, prova a comunque a rilanciare.

Le principali piste di analisi proposte dall’autore credo possono essere ricondotte a due: la distinzione della qualità dei diversi documenti conciliari e la individuazione di quattro livelli in cui analizzare il concilio (generico, pastorale, di appello ai precedenti concili e quello delle innovazioni). Nell’analisi di Gherardini mi pare che il nodo fondamentale da sciogliere riguardi soprattutto il tema delle “innovazioni” introdotte dal Concilio, qui è particolarmente rilevante il problema interpretativo, tema connesso anche alla questione della dogmaticità/infallibilità del magistero.

L’autore risolve questo nodo sottoponendo le “innovazioni” al vaglio di quel principio - “eodem sensu eademque sententia” – che dovrebbe garantire l’aggiornamento rispetto alla fedeltà alla dottrina di sempre. In ultima analisi sembra che il problema venga sciolto con una espressione quasi sofferta, ma coraggiosamente chiara: “filologicamente, storicamente, esegeticamente e teologicamente – scrive Gherardini - si stenta, arrancando e ansimando come su di una salita impervia, a trovar una giustificazione per: la collegialità dei vescovi espressa dalla costituzione Lumen Gentium, il nuovo rapporto tra Scrittura e Tradizione indicato dalla costituzione Dei Verbum e le innovazioni attinenti la sacra liturgia, la soteriologia, il rapporto tra cristianesimo e giudaismo, islamismo e religioni in genere.” (pag. 96). Egli quindi dichiara di non poter assolutamente applicare l’aggettivo “dogmatico” a quello che lui indica come quarto livello del Concilio, quello delle “innovazioni”.

A questo punto entra in gioco l’altro argomento controverso, quello dei diversi livelli del magistero in rapporto al Vaticano II e anche in questo caso, come già osservato, la proposta di Gherardini è precisa: magistero conciliare e perciò solenne, ma di per sé non dogmatico e infallibile.

C’è chi ha scritto che quello di Gherardini non è un discorso, ma soltanto un denigrare, francamente mi sembra un giudizio un po’ troppo tranchant, certo le questioni poste sono piuttosto spinose, ma da semplice fedele mi preme sottolineare un punto che credo non debba mai esser perso di vista.

Il Vaticano II voleva andare incontro all’uomo moderno, abbracciarne le istanze, parlare il suo stesso linguaggio, esaltarne la dignità e così riconciliarlo con Dio, ebbene dopo quasi 50 anni siamo di fronte al fatto che molti uomini vivono “etsi Deus non daretur”, come se Dio non esistesse. Con questa realtà è necessario fare i conti, non si tratta di pessimismo, ma di quel sano realismo cattolico che ha sempre caratterizzato la Chiesa nel compimento della Sua missione: “che si convertano e credano al Vangelo”.

Grazie a uomini come Mons. Gherardini la discussione ha preso quota, alzandosi rispetto ad un andamento un po’ troppo soporifero e privo di quel sano nerbo che, in fin dei conti, è zelo per le anime.




fonte: Libertà e persona

I cattolici, in certi ambienti clericali, non sono graditi - Articolo di Alessandro Gnocchi su "Libero"


Il libro anti-Concilio troppo ortodosso per la Chiesa


Scrivo in prima persona, lasciando a riposo solo per questo turno Mario Palmaro, per raccontare una grottesca vicenda di genere clericalcuriale che mi ha visto coinvolto in compagnia del professor Roberto de Mattei. Riassunta brutalmente, suona così: oggigiorno, essere cattolici senza indulgere in sbavature dottrinali e morali non è il viatico migliore se si vuole andar per parrocchie, oratori e associazioni culturali cattoliche, anzi finisce che ti tolgono la parola come soggetto non gradito.

Ma questo è il succo del ragionamento. Per cogliere quella che i giornalisti chiamano notizia, bisogna partire dalla fine: ieri sera, lunedì 6 giugno, presso la Sala Santa Maria Gualtieri, in Piazza della Vittoria 1, a Pavia, è stata presentata l’opera Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, di Roberto de Mattei, edizioni Lindau; relatori Alessandro Gnocchi e Roberto de Mattei.

La presentazione di un libro non è necessariamente un evento degno di nota. Ma l’opera di de Mattei, vice presidente del Cnr e docente di Storia del Cristianesimo e della Chiesa all’Università Europea di Roma, è divenuto un caso editoriale perché, come recita il sottotitolo, osa raccontare la “storia mai scritta” di un mito del XX secolo.

Ma questa, per quanto innegabile, è una notizia secondaria rispetto a ciò che ha reso tribolata l’organizzazione della serata. La presentazione si è tenuta alla Sala Santa Maria Gualtieri a cura della Fondazione Lepanto e delle Edizioni Lindau dopo che il Collegio Ghislieri aveva declinato la possibilità di farlo nella propria sede. In un primo tempo, sembrava tutto fatto, il rettore era ben felice di ospitare uno studioso illustre, ma poi, improvvisamente, le date ipotizzate si sono riempite di impegni improrogabili. Si dirà: un intellettuale di formazione laica, laicissima, che non impazzisce per ospitare dei cattolici che parlano di un libro cattolico, anche in tempi di tolleranza, è una notizia, ma non eclatante.

In effetti, c’è dell’altro. Il laico Collegio Ghislieri era un ripiego su cui ci si era orientati dopo che il vescovo di Pavia, monsignor Giovanni Giudici, aveva opposto il suo personale e autorevole dissenso alla presentazione del libro di de Mattei in ambito riconducibile alla diocesi. Ne sa qualcosa il sacerdote che pensava di far del bene invitando l’autore e il sottoscritto a parlare di un’opera tanto importante e si è sentito dire che sarebbe stato meglio, molto meglio, lasciar perdere. Con tanto di telefonate, convocazioni e il monito clericaleggiante: di quel libro ha parlato male l’”Osservatore Romano”. Perché si sa, quando serve, fa brodo anche l’”Osservatore”.

A questo punto, la notizia non si può dire che non vi sia e va tradotta così: il vescovo cattolico della diocesi cattolica di Pavia non gradisce la presentazione di un libro cattolico, scritto da un cattolico, presentato da due cattolici, su invito di un’organizzazione cattolica.

Qualcuno farà notare che monsignor Giudici, uomo di curia dal purissimo pedigree martiniano che volentieri duetta con Enzo Bianchi, accoglie don Andrea Gallo e dialoga con l’Arcigay, non può vedere di buon occhio la calata in diocesi di cattolici che viaggiano contromano. Ma un minimo di fair play non guasterebbe: se a Pavia viene accolto senza problemi don Gallo per spiegare che lui ha anche un quinto vangelo, quello di De Andrè, perché non c’è posto per chi si ferma ai canonici quattro?

Domanda ingenua che, probabilmente, contiene la risposta. In una Chiesa in cui il federalismo dottrinale ha attecchito con molta più efficacia di quanto in Italia attecchisca quello fiscale, non possono godere di tranquilla cittadinanza coloro che pretendono di ribadire l’universalità e l’immutabilità della dottrina e della morale. Senza contare che de Mattei, agli occhi dei grandi numi di quella teologia che ama tanto i gentili e per nulla i fratelli un po’ retro’, ha commesso l’errore di sostenere le sue tesi mettendo mano ai documenti e raccontando fatti che nessuno è stato in grado di contestare. In un ambiente in cui generalmente si crede che il Vaticano II sia il primo e ultimo Concilio della Chiesa cattolica uno storico che fa il proprio mestiere può solo dare fastidio. Vuoi mettere quanto sono più riposanti preti cosiddetti ribelli come don Gallo che magari spiega l’intima religiosità di “Bocca di rosa” o monaci scomodi come il priore di Bose che mena il torrone l’accoglienza, la parresia e la profezia?

E così, dove sono passati fior di preti scomodi ma glamour, non sono passati de Mattei e Gnocchi. Il sacerdote che avrebbe voluto presentare il libro sul Vaticano II, con cattolicissima e ammirabile obbedienza, ha desistito dall’intento. Ma l’organizzazione della serata non si è fermata, fino a che non ha trovato asilo nella Santa Maria Gualtieri, aperta a tutti, cattolici compresi.

(Alessandro Gnocchi su Libero del 07/06/2011)



Caterina63
00sabato 27 agosto 2011 18:23



[...] La difficoltà e la prova della fede è quella di essere nuovi nell’antico e originali nel permanente, poiché appartiene all’uomo di essere produttivo con la libertà nell’ambito della verità esistenziale a ogni livello, anche a quello della fede e della salvezza. Lo spirito non è un canestro che riceve passivamente, ma un principio che attua se stesso «dirimendo» con la scelta l’alternativa della propria salvezza.
È questo il progresso nella continuità e fedeltà alla tradizione secondo la regola aurea di Vincenzo di Lerines, entrata nei testi autentici del magistero:
 «Insegna le stesse cose che hai imparato, così che dicendo in modo nuovo non dica cose nuove. Ma non ci sarà allora», si domanda egli subito, «nella Chiesa di Cristo nessun progresso? E come!», risponde, «e grandissimo. E chi è mai l’uomo tanto invidioso agli uomini, tanto odioso a Dio che cercherebbe di impedire questo? Beninteso, dev’essere un progresso, non un cambiamento: un autentico aumento per ciascuno e per tutti, per ogni uomo e per tutta la Chiesa, ma nel medesimo dogma, nello stesso senso e nella stessa formula»1. Tradizione nella modernità nel senso di una ripresa sempre rinnovata della verità antica per la salvezza degli uomini nuovi.

Chi pretende avanzare tagliando i ponti con il passato non avanza ma precipita nel vuoto, non incontra l’uomo storico in cammino verso il futuro della salvezza ma viene risucchiato dai gorghi del tempo senza speranza. La teologia contemporanea sembra in crisi proprio su questo punto, cioè quello della fede come tensione aperta fra i tempi della salvezza che è illuminata dalla presenza dello spirito di Cristo con la guida del magistero della Chiesa una santa cattolica apostolica.
Perciò viene da domandarsi: quale messaggio di salvezza può annunziare al mondo una teologia la quale, sotto il pretesto razionalistico della demitizzazione, svuota della loro realtà storica gli eventi di salvezza, lascia in ombra – qualcuno li nega o li omette completamente – i misteri e dogmi fondamentali del cristianesimo per applicarsi unicamente alle strutture socio-politico-economiche dell’uomo, rifiutando il sacro del mistero della caduta e della redenzione dell’uomo?

Quale principio di rinnovamento può essere una teologia che secolarizza senza scrupoli la morale e, quasi vergognosa dell’ideale di purezza e povertà cristiane del Vangelo, irrompe anch’essa per un’esistenza all’insegna del piacere, del rifiuto del sacrificio, e per la celebrazione aperta del sesso: brevemente, per allinearsi alla lotta di classe a braccetto con il marxismo, per proclamare l’innocenza liberatrice degli istinti con la brutalità della psicanalisi più avanzata? Che cosa deve o può fare il mondo di una teologia senza pudore, che disarma di fronte al male? che cosa può significare per la società consumistica, che sprofonda nella noia e nella ribellione dell’atto gratuito, una simile teologia che per salvare il mondo si abbevera al veleno che intossica il mondo? Non è questa una teologia del disprezzo di Dio, dell’uomo e del mondo? una teologia senza amore e senza pudore, che farnetica, come ammonisce lo stesso Vincenzo di Lerines, dietro le profanae vocum novitates?

Infatti, che cosa sta accadendo ora in teologia? o, piuttosto, che cosa sta accadendo da un paio d’anni o poco più anche in Italia, in questo campo che dovrebbe rappresentare l’orientamento di fondo della coscienza religiosa e il punto di riferimento di quanti aspirano a una verità e a un conforto oltre il tempo? Termini come «secolarizzazione» e «demitizzazione» nel campo biblico-dogmatico (e nel campo morale quelli di «psicanalisi» ed «etica della situazione») sono passati sulla Chiesa post-conciliare come un turbine di fuoco facendo il deserto dello spirito. Il pubblico dei fedeli, anche quello che frequenta le chiese e segue devoto i riti liturgici, si domanda sbigottito e smarrito che cosa sta accadendo. La stessa stampa laica, una volta sprezzante e assente, si sta buttando da qualche tempo sull’argomento come su un boccone ghiotto, gongolante nell’assistere allo spettacolo o regalo offerto dagli stessi teologi e uomini di Chiesa con l’affossamento di quelle verità che fino a ieri si presentavano eterne e che traevano da questa perennità nello scorrere del tempo l’efficacia di conforto sul male e di salvezza dal peccato.

È a conoscenza di tutti che un numero di «Panorama» del 1972 (n. 349-350) ha presentato in un modo, piuttosto pittoresco, ma sintomatico, il sabba del sesso con il consenso di rappresentanti della nuova teologia. Qui la sconcezza dell’esposizione non ha carattere episodico ma è il segno e il sintomo del rigurgito di una società in putrefazione, che trova per la prima volta nella sfera della stessa teologia cattolica ammiccamenti e consensi di autentica solidarietà. Ciò che fino a pochi anni fa incuteva orrore e costituiva peccato, ed era evitato perciò come tentazione, ora anche da questa teologia è preso per tabù repressivo dell’espansione e celebrazione della vita. Nei seminari le nuove norme hanno introdotto la psicologia sessuale (non bastava per una pastorale sana un buon corso di psicologia dell’età evolutiva con elementi di psicopatologia?) e l’effetto è stato immediato: i seminari si sono svuotati e le siepi di ortiche pullulano di tonache di preti e frati convolati allegramente (ma non tanto, poi!) alla proclamata integrazione affettiva.

Nella lotta della Chiesa per la difesa della dignità della vita e per l’esaltazione della purezza degli affetti, ammirata e raccomandata (anche se raramente praticata) dallo stesso paganesimo e nel pensiero moderno da un ateo come Fichte e da un materialista come Feuerbach, questi nuovi teologi si sono decisamente schierati e si stanno schierando dall’altra parte della barricata, quella dell’edonismo e della volgarità: non sono essi certamente disposti a difendere ancora la dottrina tradizionale sulla dignità del matrimonio, a trasmettere alle anime e ad applicare i documenti del magistero (diventati piuttosto rari, ma chiari e sufficienti). Invece questi giovani teologi buttano all’aria il fondamento della dogmatica e rifiutano l’ascetica per proclamare l’impegno di esperimenti da liaisons dangereuses: quello che prima era fango e miseria morale, ora passa per attuazione della personalità e, nei casi limite, è classificato al più come aberrazione psicologica e malattia. Il peccato, che l’antica teologia qualificava come prevaricazione della libertà e offesa di Dio, è diventato ora un affare privato dell’uomo con se stesso, che non ha né può avere alcuna incidenza con il rapporto a Dio: il peccato, nel senso della teologia classica, è per costoro invece ridotto a un residuo dello schiavismo spirituale di epoche di arretramento economico e sociale.

Non per nulla questi «pornoteologi» parlano con estrema serietà della funzione liberatrice del marxismo e del freudismo più outrancé. Ma non parlano soltanto: essi si schierano apertamente a fianco dei Filistei, dei Gebusei e dei Ferezei… contro il popolo eletto dei credenti: scorrazzano per i convegni, da un capo all’altro dell’Italia – e pare che abbiano fatto Pro Civitate Christiana di Assisi la loro «Cittadella» – per proclamare la libertà sartriana dell’atto gratuito, emuli di certi Catari medievali. E se l’autorità è intervenuta qualche volta allontanando dalla cattedra qualche falso profeta o richiamando all’ordine i più esagitati – i quali comunque stanno conducendo una fortunata marcia di occupazione delle cattedre nelle stesse facoltà teologiche di Roma e fuori Roma –, costoro sono i primi a strillare e protestare. La criticano come relitto di oscurantismo, la accusano come istituzione repressiva con i «fermi di polizia» teologica, la rifiutano come istituzione decrepita «fuori del tempo» e sorda al messaggio autentico di liberazione dell’uomo da parte della scienza, della tecnica, del benessere, del week-end, ecc. ecc.

A questa teologia morale del rifiuto della legge morale naturale fa da spalla, anzi da fondamento, una teologia dogmatica del rifiuto dei dogmi e dello sviamento delle verità fondamentali del Credo: un’improvvisa e totale capitolazione di fronte al razionalismo della teologia liberale protestante, colorato oggi da un pizzico di esistenzialismo e da molto marxismo. Questo rifiuto dei dogmi, assieme a quello del princìpi della morale che mirava a restituire e a salvare nell’uomo l’immagine di Dio, fa appello allo spirito di apertura del recente Concilio e di papa Giovanni che l’ha convocato, scambiando, con impudenza pari all’audacia, la disponibilità all’ascolto e alla comprensione con lo smussamento dei confini fra il vero e il falso, fra il bene e il male. Il card. Dell’Acqua, che fu prima segretario e poi intimo collaboratore del Papa del Concilio, protestò energicamente contro una siffatta strumentalizzazione dell’aggiornamento indicato da papa Giovanni come attuazione dell’ideale cristiano di purificazione della vita privata e sociale, per portarlo avanti in una direzione che è direttamente opposta a quella voluta dal Concilio e dal Papa: «Occorre… intenderci sulla parola di moda aggiornamento. Se per aggiornamento si vuol dire adeguamento alle odierne necessità attuando le direttive del Vaticano II e del Papa, allora piena approvazione e totale appoggio.

Ma se, invece, si volesse intendere – come purtroppo da taluni almeno in pratica si fa – libertà cioè di interpretare la sacra Scrittura e la Tradizione: libertà di insegnare una morale in contrasto con il magistero, allora si deve chiaramente affermare che non si tratta di aggiornamento, bensì di scardinamento delle strutture fondamentali della Chiesa; il che è da deplorare senza sottintesi: né si dica che quello era il pensiero di papa Giovanni XXIII. Ho avuto l’onore e la gioia di servire da vicino un così grande e indimenticabile Pontefice. Posso, anzi debbo dichiarare che si farebbe un torto a un Pontefice, venerato da cattolici e non cattolici, da credenti e non credenti, sostenere una tale mostruosa tesi, ben lontana dal modo di pensare e di operare di papa Giovanni.
Questi era “ortodosso” nel senso completo della parola, tradizionalista, ma nel senso giusto e vero di tale espressione, non conservatore nel senso sopra accennato». [...] Ma i teologi di oggi preferiscono adagiarsi nei gioachimismi sociologici e politici come programma della loro «reinterpretazione» del cristianesimo. Questa pretesa «reinterpretazione» si sta dimostrando in realtà un capovolgimento della dottrina tradizionale della Chiesa, sia in dogmatica come in morale, in quanto alla presentazione dei dogmi fondata sulla trascendenza della Rivelazione viene sostituito il principio moderno di immanenza, e al posto dell’ascesi cristiana di lotta contro le passioni e di espiazione del peccato si proclama la morale permissiva di conformità al principio edonistico della società consumistica del nostro tempo.

Il successo di questo movimento teologico è imponente e si dirama con manovra avvolgente dentro e fuori il mondo ecclesiastico, penetrando i movimenti contestatori sia della borghesia clericale sia delle ampie frange marxistiche del laicismo cattolico. Questo movimento sta largamente dominando l’editoria cattolica di tutto il mondo con abbondanza di mezzi e iniziative fervide e audaci: collane di studi, enciclopedie, riviste… a getto continuo. Così essi hanno potuto polarizzare l’opinione pubblica e perfino con abili slogan intimorire, e qualche volta perfino trascinare al proprio seguito, non pochi membri dell’episcopato e personaggi influenti nel governo della Chiesa.
È vero che c’è ancora una fascia notevole di teologi che restano fedeli alla tradizione e alla guida del supremo magistero: ma spesso sono quasi paralizzati, e la valanga dei progressisti li sta isolando e boicottando. I progressisti infatti si presentano come gli interpreti autentici, capaci di «portare avanti» il progetto dell’aggiornamento proposto dal Vaticano II.

Ma i teologi tradizionali li accusano di ritorno alla gnosi, di tradimento del messaggio salvifico mediante la «resa al mondo» e l’adesione alle concezioni protestanti e «libertine» nel campo del dogma e della morale. I progressisti invece irridono alle condanne del Vaticano I, della Pascendi di S. Pio X e della Humani generis di Pio XII… e affermano che il Vaticano II avrebbe fatto un taglio netto con la tradizione, che avrebbe liquidato definitivamente il principio di autorità, introducendo il principio carismatico, glorificato i modernisti proclamando la libertà religiosa illimitata, l’ecumenismo e il pluralismo teologico incondizionati, accettando il secolarismo e la demitizzazione…

(P. Cornelio Fabro, L'avventura della teologia progressista)



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