Padre Fabio Bartoli peccati e reati..... imperdibile ottima lettura

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Caterina63
00venerdì 29 novembre 2013 00:03
VI CONDIVIDO CHE...
da qualche mese ho scoperto Padre FABIO BARTOLI, parroco nella diocesi di Roma e assistente ecclesiastico della Comunità Maria del Rinnovamento Carismatico, in questa veste è molto impegnato nella predicazione di ritiri spirituali e incontri di formazione biblica e ha scritto qualche libro molto interessanti fra i quali questo dove in questo articolo proprio nel suo blog, spiega brillantemente la differenza che c'è tra il peccato e il reato e il motivo per cui non si riconosce più il peccato.... perchè, appunto tutto sta diventando reato, senza più la coscienza del peccato   

leggetelo, è anche gustoso!!!

Peccati e reati 1

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A quanto mi dicono uno dei passaggi più efficaci del mio libro è quello in cui parlo di una società che non conoscendo più il peccato lo ha sostituito con il reato e la definisco “terribile”. E’ una società terribile perché in questo modo rende impossibile ogni perdono ed ogni redenzione. Si perdona un peccato, non un reato! Un reato può solo essere sanzionato.

Si potrebbero portare mille esempi per sostenere questa tesi, dalla legge sul “femminicidio” recentemente approvata alla camera alla disgraziatissima proposta di legge sull’omofobia che nei fatti punisce il reato di opinione. Siccome però non voglio correre il rischio di sviare l’attenzione del lettore da quello che secondo me è il tema centrale, scelgo un esempio più neutro che spero susciti reazioni meno umorali: le sanzioni del giudice sportivo contro i cori razzisti negli stadi di calcio.

In tutti e tre i casi la fattispecie in esame è grave, a volte gravissima: è gravissimo lo stupro, ancor di più l’omicidio o la violenza tra le mura domestiche, è grave il dileggio di chiunque, per il suo orientamento sessuale e ancor di più per il colore della sua pelle o la provenineza etnica, culturale o geografica. Il punto della questione però è se la legge è davvero lo strumento più idoneo per impedire certi comportamenti.

Innanzitutto il rischio è che si cada in un eccesso di sanzione, come nel caso dei cori da stadio, dove per punire quindici deficienti si colpiscono in realtà quarantamila tifosi innocenti.

Poi c’è la difficoltà di definire il reato: ad esempio cantare “Milanesi di m…” è sicuramente sgradevole, e potrei usare aggettivi anche peggiori, ma è davvero un’offesa? Lo sarebbe se dicessi ad esempio “il sig. tal dei tali, residente alla Bovisa è una m…” ma in questo caso? Chi è l’offeso? E chi ha dunque diritto a costituirsi come parte lesa in un processo? La città di Milano? Il sindaco in rappresentanza dei cittadini tutti? E se ad essere offesa è una categoria, che so i tassisti ad esempio, o gli Ebrei? Chi li rappresenta i tassisti? E se non c’è un offeso chiaramente identificabile si può parlare di un offesa in senso giuridico?

Poi c’è il problema della responsabilità: ognuno evidentemente è responsabile per se stesso, ma quando chi offende è parte di un’organizzazione non sempre identificabile con chiarezza nei suoi confini chi paga? L’organizzazione? E perché un’associazione di tifosi o peggio ancora una società sportiva dovrebbe essere ritenuta responsabile direttamente delle boiate che fanno i suoi iscritti? Ammesso naturalmente che gli iscritti siano chiaramente identificabili. Ad esempio chi sa dirmi esattamente con una definizione giuridica cosa è un tifoso dell’Inter o anche un Cattolico se è per questo?

Poi c’è la proporzionalità della pena: se comminiamo mi pare cinquantamila euro per un coro razzista cosa faremo ad un omicida?

D’altra parte il problema oggettivamente c’è. Anche se difficilmente si potrebbe sostenere che abbia i caratteri di urgenza necessari a giustificare un intervento straordinario, come un decreto legge o l’intervento del giudice sportivo. La violenza, negli stadi o tra le mura domestiche, non è certo una novità e gli insulti e la discriminazione non sono certo nati ieri, né si può dire che siano in aumento, negli stadi come altrove.

Se lo scopo di queste leggi fosse quello dichiarato di creare una coscienza, di fare cultura, paradossalmente sarebbe assai meglio seguire la procedura ordinaria, perché un ampio e articolato dibattito servirebbe assai di più allo scopo di una decretazione inevitabilmente frettolosa e raffazzonata nella forma giuridica nonché confusa negli obbiettivi. Il punto è che lo scopo NON è quello di fare cultura, ovvero di educare. Al contrario. Queste leggi o proposte di leggi sono figlie di un fallimento, di un colossale collasso sociale, di una resa. Nascono cioè dalla impossibilità di educare, sono la dichiarazione di impotenza di uno stato che riconosce la sua incapacità ad educare i cittadini.

E poiché non si può educare non resta che reprimere.

E qui veniamo al titolo dell’articolo e all’assunto iniziale: peccati e reati. Perché lo stato non può né sa educare? Perché ha rinunciato ad avere una morale condivisa, e una morale condivisa è il punto di partenza di qualsiasi educazione. Se non c’è alcun punto fermo a cui agganciare la morale allora l’intero edificio educativo appare fondato sulla sabbia.

E poi c’è sempre il problema di Jung, sì lo psicologo, che ci assicura che i malesseri inconsci se non risolti vanno a depositarsi in una sorta di personalità ombra, che continua ad agire comprtamenti perversi, ma in modo carsico, per così dire, affiorando qua e là dove meno te lo aspetti… sta a vedere che dovendo rimuovere a forza certi comportamenti, invece di risolverne le cause attraverso l’educazione, la società finirà con lo svilupparne il doppio umbratile.

Nel suo ultimo saggio, Paolo Flores D’Arcais teorizza l’ateismo di stato (non la laicità, l’ateismo, che è altra cosa), arrivando addirittura a definire i credenti “civilmente dei minus habens”. Correttamente anche lui riconosce che uno stato non può sussistere senza una base etica comune, solo che non credendo alla Legge Morale Naturale, non gli resta che fondare questa etica comune sul consenso della maggioranza, questo però in una società variegata e multiculturale come è ormai la nostra, che ci piaccia o meno, significa nei fatti la legge del più forte, la ragione di chi ha gli opinion-maker migliori e i giornali più potenti.

Ecco perché non ci sono più peccati, ma solo reati, ecco perché non si può più educare, ma solo reprimere, ecco perché le nostre scuole annegano nella maleducazione, per non dire peggio. Mi parlate di violenza sulle donne? Di omofobia? Di razzismo? fatevi un giretto in qualsiasi liceo romano e lì ne troverete quanta volete. E allora che facciamo? Arrestiamo tutti gli adolescenti italiani? O ricominciamo ad educare?

Ah già per educare bisogna avere dei valori da trasmettere, bisogna cioè credere in qualcosa… ahiahiahi, vi siete cacciati in un brutto pasticcio temo.

segue



 

Caterina63
00venerdì 29 novembre 2013 00:08

Peccati e reati 2 (del primato della coscienza e dell’umanità del potere)

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Per continuare la riflessione su peccati e reati, iniziata nel precedente articoloriflettevo stamattina su come ci sia una differenza radicale tra i due nella diversa valutazione data all’intenzione, che nel giudizio su un peccato è essenziale, mentre in quello su un reato è del tutto irrilevante. Normalmente al vigile che mi fa la multa non importa nulla dei motivi che avevo per passare con il rosso. Partendo da questo mi sono domandato: ma non sarà anche per questo che la nostra società non conosce più peccati, ma solo reati? Non sarà che vediamo solo reati perché siamo diventati totalmente indifferenti alle intenzioni?

Non so voi, ma a me una società indifferente alle intenzioni fa paura. Intendiamoci, uno dei capisaldi della civiltà giuridica è l’impersonalità della legge, espressa nel principio “la legge è uguale per tutti”, principio che andrebbe inevitabilmente a farsi benedire se si dovessero applicare ad ogni fattispecie le infinite variabili dell’intenzione.

Eppure al tempo stesso non abbiamo ciascuno di noi il sentimento che per un giudizio veramente giusto sarebbe necessario che il giudice ci conoscesse intimamente, che sapesse davvero tutto di noi? Si sente spesso dire che per essere oggettivi bisogna giudicare le cose “da fuori”, cioè senza farsi influenzare da valutazioni personali. In realtà però, tutti noi quando veniamo giudicati vorremmo essere giudicati “da dentro”, cioè a partire dalle nostre motivazioni e dai nostri sentimenti. Sfortunatamente solo Dio può giudicare così, solo Dio può essere dentro ciascuno e giudicarlo a partire da quel dentro.

Anche il diritto però conosce in una certa misura questo principio e per questo introduce le attenuanti e lascia al giudice un certo margine di discrezionalità nell’applicazione della legge. Per questo un giudice non può mai essere un computer, che valuta in modo impersonale, ma deve essere innanzitutto un uomo, consapevole di giudicare un altro uomo e non semplicemente un gesto.

Ricordo una volta, appena ordinato sacerdote, che mentre mi stavo precipitando in ospedale per amministrare l’unzione degli infermi ad un malato venni fermato perché ero passato col rosso. Consapevole di aver sbagliato mi stavo predisponendo a pagare con l’intenzione di fare il più in fretta possibile e chiesi anche al vigile di fare in fretta, per la medesima ragione. Quello che mi sorprese moltissimo fu che non solo il vigile stracciò la multa, ma mi si mise davanti a sirena accesa per farmi arrivare al più presto.

Come valutare questo gesto? Da una parte indubbiamente tutti gli altri automobilisti sanzionati da quel vigile potrebbero risentirsi per quella che ai loro occhi può sembrare una discriminazione, dall’altra il vigile ha fatto un’operazione prettamente umana: cioè una ponderazione di valori (almeno suppongo). In altre parole ha valutato che per un credente, come ovviamente erano il malato da cui stavo andando e la sua famiglia, l’unzione degli infermi vale quanto la vita stessa e che quindi in quella situazione la rapidità era essenziale. Non so se fosse un credente anche lui, ma è certamente entrato dentro le mie motivazioni e il mio sistema di valori, mi ha giudicato “da dentro”.

Io credo che ci sia qualcosa di eroico, di epico perfino, nel sorriso del vigile che straccia una multa. E’ una rivendicazione di autonomia, la proclamazione del primato della coscienza sopra l’oggettività dei regolamenti, l’affermazione di un potere dal volto umano, incarnato in una persona e non espressione di un impersonale e burocratico governo.

Il problema è che per fare una ponderazione di valori e quindi una decisione secondo coscienza, che parta “da dentro”, occorre averla una coscienza. E qui casca l’asino. Credo che il vero motivo per cui questa società non conosce più peccati, ma solo reati e quindi non è più capace di giudicare in maniera umana, ma solo in forma meccanica, limitandosi alla mera applicazione della legge, sia che appunto non ha più la minima idea di cosa sia la coscienza.

La coscienza infatti non è il giudizio soggettivo. Molte volte le persone quando dicono che fanno una cosa “in coscienza” intendono dire solo che la fanno consapevolmente, cioè sapendo quello che fanno. In questa accezione praticamente bisognerebbe essere ubriachi per non agire in coscienza e a questo punto ci si domanda che bisogno c’è di aggiungere che una decisione è presa in coscienza. Qualsiasi decisione che non sia del tutto scriteriata diventa una decisione di coscienza!

In verità la coscienza è tutt’altra cosa. Anche prescindendo dalla definizione che ne da il Concilio Vaticano II che la definisce “voce di Dio nell’intimo dell’uomo” quando scopre in se stesso una legge che non è egli stesso a darsi, cioè la morale naturale, anche limitandosi alla definizione laica di “ponderazione di valori”, non possiamo parlare di coscienza senza ammettere l’esistenza di valori esterni a noi che precedono il nostro giudizio, tra cui appunto la coscienza deve orientarsi per applicarli alla concretezza della vita. Coscienza quindi è esattamente il contrario di arbitrio, implica il riconoscimento di una o più autorità superiori a sé e la necessaria sottomissione ad esse. Ultimamente Coscienza è obbedienza.

Il nostro vigile, quello che straccia la multa, allora rappresenta l’ideale di un potere-dotato-di-coscienza, cioè di un potere dal volto umano, non anonimo, incarnato da persone vere. Purtroppo ormai il volto umano del potere sta rapidamente diventando una bestia mitologica, più rara di un unicorno. Sempre di più vediamo le persone che intorno a noi devono esercitare un minimo di potere (in qualsiasi forma: dall’impiegato allo sportello, al maestro di scuola, alla segretaria della palestra, al vigile urbano appunto e perfino a volte al parroco) intrappolate nelle maglie della burocrazia, trincerarsi dietro regolamenti sempre più complessi, soffocanti e capziosi, impossibilitati a qualsiasi decisione di coscienza perché incapaci di assumersi ogni responsabilità.

Di chi è la colpa di questa disumanizzazione del potere? Ancora una volta della sparizione della morale comune. Se c’è una morale condivisa infatti non è necessario prescrivere minuziosamente ogni comportamento perché certe cose appaiono ovvie, come alzarsi e cedere il posto ad un anziano in autobus ad esempio.

Ancora una volta: è indispensabile tornare ad una educazione morale, ad un’etica condivisa, e quindi alla fine dei conti ad una legge morale naturale, per non perdere ogni possibilità di convivenza umana.





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