La gioia del sacramento del perdono
Era un rinomato professore della Gregoriana che, dopo le lezioni, si chiudeva per ore nel confessionale a Sant’Ignazio. Ogni giorno una folla di persone di ogni ceto sociale faceva la fila per confessarsi da lui, piccolo prete che veniva dalle Dolomiti e che venne ribattezzato il confessore di Roma. Ecco la sua storia
di Gianni Valente da 30giorni giugno 2002
Padre Felice Cappello nella sua stanza alla Gregoriana
Ci vogliono meno di seicento passi per arrivare da Sant’Ignazio alla Gregoriana. Dalla chiesa dedicata al fondatore della Compagnia di Gesù all’Università Pontificia dove ancor oggi, mutato ciò che è mutato, sacerdoti e religiosi provenienti da tutto il mondo completano il loro cursus studiorum affidandosi alle mani esperte dei suoi figli spirituali. Ai margini del cuore barocco di Roma, si passa per vicoli e piazze – via del Caravita, via dell’Umiltà, via dell’Archetto, piazza della Pilotta – oggi tenuti in scacco dalla dittatura dei motorini. Pieni di gente che ha fretta di andare dove va. Compresi deputati, sfaccendati e portaborse che orbitano tra Montecitorio, il Parlamento, e gli altri palazzi del potere. Faceva lo stesso percorso quasi ogni giorno anche Felice Cappello. Coi suoi passetti svelti, il pastrano nero sopra il fisico minuto da pretino qualunque. Una figura così esile e dimessa che non ci avresti neanche fatto caso. E invece decine di migliaia di persone – donne e uomini, notabili e poveri cristi dell’umanità vitale e dolente degli anni a cavallo della guerra – venivano da tutti i rioni della Città eterna e da tutt’Italia a cercare pace e ristoro proprio da lui. Da quello che tutti conoscevano come “il confessore di Roma”. Loro, a lui, non davano tregua. Gli facevano la posta mentre traversava i vicoli. Negli ultimi anni un suo amico carabiniere in pensione aveva deciso di fargli da scorta, per impedire che l’assedio dei questuanti lo soffocasse. Cosa cercavano? Padre Cappello non aveva da offrire niente di suo. Per legare a sé quella folla di persone non aveva inventato metodi originali. Il rinomato professore di diritto canonico della Gregoriana, dopo le sue lezioni, non faceva altro che chiudersi per ore e ore nel confessionale numero due, a Sant’Ignazio, vicino alla sacrestia. Da lì, con la stola al collo e col rosario in mano, usciva la sera, sfinito dopo aver consolato e perdonato le pene degli uomini. Ritornava alla sua stanzetta alla Gregoriana. Sempre gli stessi gesti, i più ordinari. Da secoli e secoli qualsiasi prete può fare lo stesso. Eppure da lì sgorgava un flusso inesauribile di vita nuova per una folla immensa di persone. Raggiunte e toccate ad una ad una, nel segreto del proprio cuore. Bastavano poche parole sussurrate, sempre le stesse: «sta’ tranquillo», «abbi fiducia», «non pensare al passato, né al futuro, né alle tue miserie», «ricordati che il Signore è contento dell’anima tua», «vai in pace». E vite sfiorite e cuori invecchiati scoprivano che si poteva sempre ricominciare. Il suo confessionale era come una sorgente d’acqua fresca per chi aveva sete. Da un paese (non troppo) lontano
Erano freschi e zampillanti anche i ruscelli delle montagne dove Felice Cappello era nato, il 9 ottobre del 1879. Caviola, nella valle del Bois, era una frazione di poche case nel comune di Falcade, in provincia di Belluno. A pochi chilometri, guarda caso, da Canale d’Agordo, il paese natale di papa Luciani. Ultimo di dieci figli, molti dei quali morti in tenera età, il piccolo Felice era stato battezzato proprio nella pieve di Canale. Il padre Antonio, di professione tintore, e la madre Bortola avevano visto il loro ultimogenito trascorrere l’infanzia qualunque dei bambini di quelle parti e di quei tempi: il catechismo, le sere trascorse a raccontarsi le storie di montagna, l’anno punteggiato dalle domeniche di festa e dalle processioni a cui accorrevano tutti i valligiani, come al Corpus Domini e alla festa della Madonna del Rosario. E un bel pezzo di strada da fare a piedi ogni mattina con la neve o col sole, per andare a scuola, nella vicina frazione di Marmolada, portandosi dietro un ciocchetto di legno ciascuno per alimentare la stufa della classe. Prima di andare a scuola, Felice serviva ogni mattina la messa nella chiesetta della Madonna della Salute. Aveva cominciato da quando era così piccolo che doveva essere aiutato a trasportare il messale. Quando i genitori, soprattutto mamma Bortola, lo veýevano fare il chierichetto con tanto trasporto, gli veniva spontaneo immaginare che il destino di quel figlio vivace e pieno di talenti Ð a scuola era un piccolo portento – sarebbe stato l’altare. A facilitare le cose fu l’incontro con don Antonio della Lucia, un prete di Canale d’Agordo. Un tipo energico, un predicatore affascinante, che in quegli anni si adoperava a far nascere le prime cooperative del latte nel bellunese per render meno grama la vita dei lavoratori e dei piccoli proprietari della montagna. Nella canonica di quel prete speciale, con la tonaca che odorava più di formaggio che d’incenso, Felice e suo fratello Luigi fecero le prime classi del ginnasio. Si usava così, allora, per le famiglie che non avevano i soldi per pagare la retta del seminario. Quando Felice approdò al seminario minore di Feltre e poi al seminario maggiore gregoriano di Belluno, docenti e compagni di corso notarono presto le doti intellettuali fuori dal comune del seminarista montanaro. Ordinato diacono il 20 aprile 1902, quattro anni dopo aveva già conseguito le lauree in teologia, filosofia e in utroque iure. La prima a Bologna, le altre due a Roma, presso l’Accademia San Tommaso e all’Apollinare. In quegli anni, la Chiesa italiana era attraversata da passioni e turbolenze. Il conflitto tra la Santa Sede e lo Stato nazionale uscito dal Risorgimento si perpetuava intorno alla “questione romana”. Intra moenia, la diffusione del modernismo divideva gli animi provocando reazioni a catena. Il giovane Felice, fresco di tre lauree, si gettava nella mischia sfoderando una discreta verve da polemista. Nei suoi articoli pubblicati sul settimanale bellunese La domenica arrivava a definire Garibaldi come «il bandito di Caprera», facendo infuriare i patrioti che rapirono una manciata di copie del “sacrilego” giornale e le bruciarono in piazza.
Sul fronte modernista, nel suo volumetto giovanile La conoscenza di Dio secondo ragione, prendeva di petto le dottrine di Loisy e compagni, guadagnandosi una gragnola di insulti da parte dei novatori.
Già nel 1905, nell’opuscolo intitolato La questione dei cattolici alle urne, toccava l’argomento spinoso del non expedit, la formula con cui la Santa Sede, dopo l’occupazione di Roma, aveva vietato ai cattolici di partecipare alle elezioni politiche. La sua tesi della revocabilità del precetto astensionista venne ripresa e sostenuta anche sulle pagine di Civiltà Cattolica.
Pio X, che già si preparava a cancellare quell’impedimento ormai superato dai fatti, fece inviare alla curia di Belluno il seguente dispaccio: «Autorizziamo v. s. e i giornali cattolici a dichiarare che l’opuscolo La questione dei cattolici alle urne esprime le idee della Santa Sede ed è diretto a preparare il terreno alle sapienti disposizioni del Santo Padre per una revoca o parziale o generale del non expedit». Con un inizio così dirompente, padre Cappello sembrava destinato da subito a una brillante carriera ecclesiastica. Nel 1906 era già professore di diritto canonico al seminario di Belluno. Dopo il primo triennio d’insegnamento, scese a Roma. Entrò in contatto con la casa degli scrittori di Civiltà Cattolica, che allora era in via di Ripetta. Tra il 1910 e il 1913 partecipò ai concorsi per l’assunzione di aiutanti e impiegati alla Sacra Congregazione concistoriale e al Sant’Uffizio.
E qui avvenne un caso strano.
Tutte e due le volte, nonostante avesse superato le prove con ottimi risultati, non venne assunto.
Il semplice fatto che provenisse dal seminario di Belluno, di cui si parlava come di un “covo di modernisti”, lo rendeva a priori persona non grata alle congregazioni romane. Nonostante le aspre polemiche che padre Cappello aveva sostenuto coi suoi colleghi modernisti bellunesi, anche lui faceva le spese di un’operazione “terra bruciata” che non andava troppo per il sottile. continua...