Padre Felice Cappello e la gioia del Sacramento del Perdono (testimonianza)

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Caterina63
00domenica 26 agosto 2012 10:57

[SM=g1740717] [SM=g1740720] La gioia del sacramento del perdono


Era un rinomato professore della Gregoriana che, dopo le lezioni, si chiudeva per ore nel confessionale a Sant’Ignazio. Ogni giorno una folla di persone di ogni ceto sociale faceva la fila per confessarsi da lui, piccolo prete che veniva dalle Dolomiti e che venne ribattezzato il confessore di Roma. Ecco la sua storia


di Gianni Valente da 30giorni giugno 2002


Padre Felice Cappello  nella sua stanza alla Gregoriana

Padre Felice Cappello nella sua stanza alla Gregoriana

Ci vogliono meno di seicento passi per arrivare da Sant’Ignazio alla Gregoriana. Dalla chiesa dedicata al fondatore della Compagnia di Gesù all’Università Pontificia dove ancor oggi, mutato ciò che è mutato, sacerdoti e religiosi provenienti da tutto il mondo completano il loro cursus studiorum affidandosi alle mani esperte dei suoi figli spirituali. Ai margini del cuore barocco di Roma, si passa per vicoli e piazze – via del Caravita, via dell’Umiltà, via dell’Archetto, piazza della Pilotta – oggi tenuti in scacco dalla dittatura dei motorini. Pieni di gente che ha fretta di andare dove va. Compresi deputati, sfaccendati e portaborse che orbitano tra Montecitorio, il Parlamento, e gli altri palazzi del potere.

Faceva lo stesso percorso quasi ogni giorno anche Felice Cappello. Coi suoi passetti svelti, il pastrano nero sopra il fisico minuto da pretino qualunque. Una figura così esile e dimessa che non ci avresti neanche fatto caso. E invece decine di migliaia di persone – donne e uomini, notabili e poveri cristi dell’umanità vitale e dolente degli anni a cavallo della guerra – venivano da tutti i rioni della Città eterna e da tutt’Italia a cercare pace e ristoro proprio da lui. Da quello che tutti conoscevano come “il confessore di Roma”. Loro, a lui, non davano tregua. Gli facevano la posta mentre traversava i vicoli. Negli ultimi anni un suo amico carabiniere in pensione aveva deciso di fargli da scorta, per impedire che l’assedio dei questuanti lo soffocasse.

Cosa cercavano? Padre Cappello non aveva da offrire niente di suo. Per legare a sé quella folla di persone non aveva inventato metodi originali. Il rinomato professore di diritto canonico della Gregoriana, dopo le sue lezioni, non faceva altro che chiudersi per ore e ore nel confessionale numero due, a Sant’Ignazio, vicino alla sacrestia. Da lì, con la stola al collo e col rosario in mano, usciva la sera, sfinito dopo aver consolato e perdonato le pene degli uomini. Ritornava alla sua stanzetta alla Gregoriana. Sempre gli stessi gesti, i più ordinari. Da secoli e secoli qualsiasi prete può fare lo stesso.
Eppure da lì sgorgava un flusso inesauribile di vita nuova per una folla immensa di persone. Raggiunte e toccate ad una ad una, nel segreto del proprio cuore. Bastavano poche parole sussurrate, sempre le stesse: «sta’ tranquillo», «abbi fiducia», «non pensare al passato, né al futuro, né alle tue miserie», «ricordati che il Signore è contento dell’anima tua», «vai in pace». E vite sfiorite e cuori invecchiati scoprivano che si poteva sempre ricominciare. Il suo confessionale era come una sorgente d’acqua fresca per chi aveva sete.

Da un paese (non troppo) lontano
Erano freschi e zampillanti anche i ruscelli delle montagne dove Felice Cappello era nato, il 9 ottobre del 1879. Caviola, nella valle del Bois, era una frazione di poche case nel comune di Falcade, in provincia di Belluno. A pochi chilometri, guarda caso, da Canale d’Agordo, il paese natale di papa Luciani. Ultimo di dieci figli, molti dei quali morti in tenera età, il piccolo Felice era stato battezzato proprio nella pieve di Canale. Il padre Antonio, di professione tintore, e la madre Bortola avevano visto il loro ultimogenito trascorrere l’infanzia qualunque dei bambini di quelle parti e di quei tempi: il catechismo, le sere trascorse a raccontarsi le storie di montagna, l’anno punteggiato dalle domeniche di festa e dalle processioni a cui accorrevano tutti i valligiani, come al Corpus Domini e alla festa della Madonna del Rosario. E un bel pezzo di strada da fare a piedi ogni mattina con la neve o col sole, per andare a scuola, nella vicina frazione di Marmolada, portandosi dietro un ciocchetto di legno ciascuno per alimentare la stufa della classe.


Prima di andare a scuola, Felice serviva ogni mattina la messa nella chiesetta della Madonna della Salute. Aveva cominciato da quando era così piccolo che doveva essere aiutato a trasportare il messale. Quando i genitori, soprattutto mamma Bortola, lo veýevano fare il chierichetto con tanto trasporto, gli veniva spontaneo immaginare che il destino di quel figlio vivace e pieno di talenti Ð a scuola era un piccolo portento – sarebbe stato l’altare. A facilitare le cose fu l’incontro con don Antonio della Lucia, un prete di Canale d’Agordo. Un tipo energico, un predicatore affascinante, che in quegli anni si adoperava a far nascere le prime cooperative del latte nel bellunese per render meno grama la vita dei lavoratori e dei piccoli proprietari della montagna. Nella canonica di quel prete speciale, con la tonaca che odorava più di formaggio che d’incenso, Felice e suo fratello Luigi fecero le prime classi del ginnasio. Si usava così, allora, per le famiglie che non avevano i soldi per pagare la retta del seminario.

Quando Felice approdò al seminario minore di Feltre e poi al seminario maggiore gregoriano di Belluno, docenti e compagni di corso notarono presto le doti intellettuali fuori dal comune del seminarista montanaro. Ordinato diacono il 20 aprile 1902, quattro anni dopo aveva già conseguito le lauree in teologia, filosofia e in utroque iure. La prima a Bologna, le altre due a Roma, presso l’Accademia San Tommaso e all’Apollinare.

In quegli anni, la Chiesa italiana era attraversata da passioni e turbolenze. Il conflitto tra la Santa Sede e lo Stato nazionale uscito dal Risorgimento si perpetuava intorno alla “questione romana”. Intra moenia, la diffusione del modernismo divideva gli animi provocando reazioni a catena. Il giovane Felice, fresco di tre lauree, si gettava nella mischia sfoderando una discreta verve da polemista. Nei suoi articoli pubblicati sul settimanale bellunese La domenica arrivava a definire Garibaldi come «il bandito di Caprera», facendo infuriare i patrioti che rapirono una manciata di copie del “sacrilego” giornale e le bruciarono in piazza.

Sul fronte modernista, nel suo volumetto giovanile La conoscenza di Dio secondo ragione, prendeva di petto le dottrine di Loisy e compagni, guadagnandosi una gragnola di insulti da parte dei novatori.
Già nel 1905, nell’opuscolo intitolato La questione dei cattolici alle urne, toccava l’argomento spinoso del non expedit, la formula con cui la Santa Sede, dopo l’occupazione di Roma, aveva vietato ai cattolici di partecipare alle elezioni politiche. La sua tesi della revocabilità del precetto astensionista venne ripresa e sostenuta anche sulle pagine di Civiltà Cattolica.

Pio X, che già si preparava a cancellare quell’impedimento ormai superato dai fatti, fece inviare alla curia di Belluno il seguente dispaccio: «Autorizziamo v. s. e i giornali cattolici a dichiarare che l’opuscolo La questione dei cattolici alle urne esprime le idee della Santa Sede ed è diretto a preparare il terreno alle sapienti disposizioni del Santo Padre per una revoca o parziale o generale del non expedit».


Con un inizio così dirompente, padre Cappello sembrava destinato da subito a una brillante carriera ecclesiastica. Nel 1906 era già professore di diritto canonico al seminario di Belluno. Dopo il primo triennio d’insegnamento, scese a Roma. Entrò in contatto con la casa degli scrittori di Civiltà Cattolica, che allora era in via di Ripetta. Tra il 1910 e il 1913 partecipò ai concorsi per l’assunzione di aiutanti e impiegati alla Sacra Congregazione concistoriale e al Sant’Uffizio.

E qui avvenne un caso strano.

Tutte e due le volte, nonostante avesse superato le prove con ottimi risultati, non venne assunto.
Il semplice fatto che provenisse dal seminario di Belluno, di cui si parlava come di un “covo di modernisti”, lo rendeva a priori persona non grata alle congregazioni romane. Nonostante le aspre polemiche che padre Cappello aveva sostenuto coi suoi colleghi modernisti bellunesi, anche lui faceva le spese di un’operazione “terra bruciata” che non andava troppo per il sottile.


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Caterina63
00domenica 26 agosto 2012 11:02

La notte di Lourdes

Fu un duro colpo, per uno come lui, così devotamente obbediente al magistero. Decise di portare il suo cuore in subbuglio davanti alla Madonna. E partì subito per Lourdes.


Erano anni in cui gli anticlericali italiani schiumavano rabbia contro la “bottega di Lourdes”.

Il Podrecca, che dirigeva il giornale satirico L’Asino, aveva percorso tutt’Italia con le sue conferenze traboccanti bestemmie contro l’Immacolata. Padre Cappello passò tutta una notte in preghiera nella grotta di Bernadette. Al mattino, si diresse verso l’ufficio telegrafico appena aperto. E spedì un telegramma a padre Ottavio Turchi, provinciale dei Gesuiti di Roma, per chiedergli di essere accettato nella Compagnia di Gesù.

A quel tempo, padre Cappello aveva 34 anni ed era già prete da undici. Ad attirarlo verso l’Ordine di Sant’Ignazio c’era la sua amicizia con padre Enrico Rosa e tutto il cenacolo della Civiltà Cattolica. Ma c’era anche – confidava più avanti negli anni – il desiderio di condividere l’avventura dell’Ordine che gli appariva come «il più perseguitato dai nemici della Chiesa».

In mezzo ai colleghi più giovani, l’ultimo arrivato al noviziato di villa Torlonia, vicino Castel Gandolfo, era fuori misura. Il suo nome era già noto ai canonisti del tempo. I suoi scritti avevano avuto recensioni lusinghiere sulle maggiori riviste italiane e straniere. Circostanza che rese ancor più ammirevole e feconda l’umiltà docile con cui si sottopose alla dura disciplina che segnava la sua condizione. Con la mancanza quasi assoluta d’indipendenza, l’uniformità a volte estenuante della vita comune, le tante forme di privazione tipiche dell’ascesi gesuita, distribuite lungo tutta la giornata. A uno come lui, ad esempio, costò parecchio non poter leggere nessuna rivista – neanche Civiltà Cattolica! – per tutto il noviziato.

Il confessionale usato da padre Cappello per oltre quarant’anni  nella chiesa di Sant’Ignazio a Roma

Il confessionale usato da padre Cappello per oltre quarant’anni nella chiesa di Sant’Ignazio a Roma

Il nuovo di sempre
Quello del canonista Felice Cappello è anche il curriculum di un grande professore di fama internazionale. Un portento di erudizione e chiarezza intellettuale, secondo le migliori performance della grande tradizione gesuita. Un giacimento inesauribile di scienza e dottrina a cui, nei lunghi decenni di studio e di insegnamento, attinsero tutti: generazioni di studenti prima al Collegio Leoniano di Anagni e poi alla Pontificia Università Gregoriana; frotte di monsignori di Curia, che scaricavano sul povero professore sempre disponibile le loro assillanti richieste di pareri e consulenze commissionate dai dicasteri vaticani (quegli stessi che avevano sbattuto la porta in faccia al “modernista” venuto dalle Dolomiti); e poi vescovi, sacerdoti, congregazioni religiose, semplici fedeli.

Cappello, lo sapevano tutti, era un limone da poter spremere all’infinito. Non diceva mai basta. Per non parlare della sua produzione editoriale sconfinata: centinaia di articoli di diritto canonico ed ecclesiastico sciorinati in quarant’anni di collaborazioni alla Civiltà Cattolica e alle riviste specializzate. E poi le sue opere monumentali, divenute veri classici del diritto canonico, come il trattato De censuris, i tre volumi della Summa iuris canonicis e gli insuperati cinque volumi sul diritto sacramentario. Opere in cui l’ultima preoccupazione era quella di essere originale, di atteggiarsi al pioniere che traccia vie nuove. Nei suoi libri ci si imbatte in interi brani semplicemente trascritti da opere di autori precedenti. A chi gli prospettava un qualche caso che sembrava mai visto prima, rispondeva spesso: «Questo è già stato risolto dagli antichi».


Per lui la novità sgorgava dalla Tradizione. Dalla duttile applicazione degli insegnamenti di sempre ai casi sempre diversi della vita. Come scrisse il gesuita Peter Huizing, anche lui professore di diritto canonico, «Cappello possedeva un talento acuto nel penetrare subito l’essenza delle leggi, in quanto egli sapeva distinguere immediatamente quanto in esse ci fosse di assolutamente vincolante da quanto derivasse da norme accidentali e quindi adattabili a varie circostanze e necessità».

Anche la sua spiritualità non inseguiva grandi teorie. Quando predicava diceva le cose più modeste e meno originali. Di solito, erano brani del Vangelo infilati l’uno dopo l’altro, con qualche parafrasi di commento. La sua intensa vita di preghiera «non aveva avuto nessuno sviluppo dottrinale, teologico, orientato verso qualcuna delle forme di spiritualità approfondite e descritte dagli autori della materia», come scriveva il suo biografo Domenico Mondrone. Per tutta la vita le sue preghiere furono quelle semplici del bambino di Caviola, davanti alla Madonna della Salute.

Insieme alla lettura del breviario, alla messa quotidiana e ai gesti dell’ascesi da principianti imparati durante il noviziato.

In un biglietto di propositi spirituali scritto nel 1939 si legge, tra l’altro: «Durante il giorno coltiverò l’unione con Dio, recitando almeno duecento o trecento giaculatorie e facendo cinque o sei visite al Santissimo Sacramento».

Nel 1952, la rivista del seminario lombardo di Venegono, La Scuola cattolica,aveva pubblicato una critica del famoso libretto di sant’Alfonso Maria de’ Liguori sulle visite al Santissimo Sacramento. Padre Cappello non la mandò giù. Qualche mese dopo, scrisse alla rivista una lettera piena di devozione per la «preziosissima operetta di sant’Alfonso, che coltiva ed accresce la fiamma d’amore verso Gesù sacramentato e la Vergine Santissima, ed ha formato il pascolo quotidiano di tante anime sante».


La manica larga

Se fosse stato solo un devoto professore di grido, la sua storia non avrebbe granché di speciale. Anche i suoi libri, monumenti di dottrina, scritti con la passione di un instancabile servitore della Chiesa, adesso giacciono impolverati negli scaffali di qualche biblioteca.

Ma padre Cappello lo sapeva: quella storia umana buona, così semplice e misteriosa, che lui aveva incontrato da bambino nella fede di suo padre, sua madre, di don Della Lucia e di tanti altri, e che per lui era cresciuta nel tempo, non si comunicava come si fa con le idee e i concetti che riempiono i libri. Quando Gesù era venuto, aveva inventato apposta degli strumenti per continuare nella Chiesa la Sua opera efficace di salvezza. Di generazione in generazione, fino alla fine del tempo. I gesti della Sua presenza viva e operante erano i sacramenti. Per un prete, non c’era cosa più grande e fruttuosa da fare che battezzare, dare l’eucaristia, assolvere dai peccati. In persona Christi.

Quando girava per le parrocchie di Roma, lo amareggiava vedere i confessionali abbandonati come mobili in disuso e tanti preti che per non avere quell’assillo si guardavano dal richiedere la licenza per confessare richiesta a quei tempi. Lui fin da giovane aveva visto che nel confessionale si decidono le sorti di tanti cuori. Che tante volte quel bugigattolo con la grata era la linea di frontiera tra la vita della grazia e la vita perduta.
Cominciò fin da giovane a mettercisi di lena, come sapeva fare lui. Ore e ore, interi giorni della sua settimana finivano inghiottiti in quell’opera silenziosa compiuta nella penombra di Sant’Ignazio, nella cappella della Gregoriana, nelle chiesette delle Dolomiti durante le sue vacanze estive ad Agordo, nei tanti conventi e noviziati che si affidavano alla sua cura.

Proprio lui, il grande conoscitore della dottrina ferma e dei princìpi inflessibili, al confessionale affidava tutto al lavoro della grazia. Non faceva distinzioni tra anime innocenti e pubblici peccatori. Sempre pronto a trovare la soluzione più indulgente, il punto di fuga, la feritoia nella corazza dove potesse passare la grazia a toccare e sciogliere i cuori induriti. Più misericordioso verso chi sbagliava di più. A un gesuita laureato di fresco raccomandava: «Nei suoi pareri e decisioni non usi mai la severità. Il Signore non la vuole. Dia sempre la soluzione che permetta alle anime di respirare».

Dava a tutti pene mitissime. Ascoltava e assolveva in pochi minuti. Voleva che anche l’accusa dei peccati fosse concisa. In una lettera di consigli ad una sua figlia spirituale, si trova scritto: «Quando si confessa, usi la formula generale, senza accennare alle tentazioni e agli scrupoli. Questa è la volontà di Dio». Quando era ancora novizio gesuita, gli capitò d’incontrare un vecchio ospite della prigione di Albano. Gli chiese: «Quanto tempo è che non ti confessi?». Il galeotto rispose un po’ strafottente: «Lo vuoi proprio sapere, pretino? Più di sessant’anni!».
E padre Cappello, di rimando: «Bene, ora faremo tutto in cinque minuti. Ci vuoi scommettere?». Il tempo della scommessa non era ancora scaduto, che l’avanzo di galera venne fuori cercando di nascondere per la vergogna le lacrime che gli affogavano gli occhi. I suoi compagni cominciarono a sfotterlo: «Ahó, che t’ha menato?». «Ma che menato, m’ha fatto sputà certi rospi!». E poi, rivolto a Cappello: «Reverendo, ar carcere de fronte ce sta puro mi moje. Diteje quello che ho fatto io, diteje che so’ contento, confessate puro a quella. Me lo fate, sto’ favore?».


Sulle confessioni di Cappello cominciarono presto i mugugni dei rigoristi. Al Sant’Uffizio arrivavano le denunce di chi lo accusava di essere un pericolo per la Chiesa per la manica larga che usava coi peccatori.
Qualcuno gli rinfacciava pubblicamente la contraddizione tra i princìpi fermi esposti nei suoi libri e la sua pratica “lassista”. Cappello rispondeva: «Quando si tratta del bene diretto e immediato di un’anima, è meglio seguire quello che hanno detto e fatto i santi, che quello che hanno scritto i dotti».
La sua indulgenza al confessionale non era un nuovismo.
Sgorgava proprio dalla sua semplice fedeltà al tesoro custodito nella Chiesa. Ad esempio, lo aveva letto proprio sul manuale del confessore di sant’Alfonso Maria de’ Liguori che «questo sacramento propriamente non è fatto per l’anime devote, ma per i peccatori».

Che i buoni confessori, «come esorta l’apostolo, quanto più infangata di peccati trovano quell’anima, tanta maggiore carità cercano d’usarle, alfin di tirarla a Dio». Che «la volontà del peccatore si muta per virtù della grazia divina, la quale opera alle volte in un istante». E che «al mal abituato Dio maggiormente soccorre, e perciò più che dal differirgli assoluzione, può sperarsi l’emenda dalla grazia del sagramento che lo renderà più forte [...]. Ed in fatti san Filippo Neri massimamente di quello mezzo della confessione frequente servivasi a pro deo recidivi in tal vizio».


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Caterina63
00domenica 26 agosto 2012 11:10

«Qualcuno ritorna sempre»

Lo stile di Cappello non andava a genio agli accigliati chierici censori. Ma per gli uomini fragili e incoerenti era un dono del cielo. La notizia passava di bocca in bocca: a Sant’Ignazio c’era un prete che dava la pace ai cuori agitati e feriti.
Da lui toccavi con mano che, come diceva egli stesso, «le nostre miserie sono limitate, la nostra malizia è finita. La misericordia di Dio non conosce limiti».
Di mese in mese, di anno in anno, cresceva intorno a lui la miriade di coloro che cercavano il suo aiuto. C’era di tutto: preti in crisi, mogli abbandonate, cardinali e vescovi, disoccupati, seminaristi in cerca del direttore spirituale, poveri mendicanti che sapevano delle sue elemosine, squilibrati e donne isteriche che volevano essere ascoltati. E tanta gente normale, con le speranze e le disperazioni di tutti. Lui non si sottraeva a nessuno. I portieri della Gregoriana non ne potevano più. A Sant’Ignazio, si dovette ricorrere al numeretto per regolare il flusso. A chi si lamentava per la confusione che a volte circondava il suo confessionale, rispondeva: «Bisogna aver pazienza. Intanto capita che quasi ogni settimana qualche anima lontana torna».

Una sera, incontrandolo mentre tornava sfiancato da Sant’Ignazio dopo ore e ore di confessionale, e sempre con la corona del rosario in mano, padre Paolo Dezza, che allora era il rettore della Gregoriana, gli disse che la cosa non poteva continuare così. Padre Cappello gli rispose: «Tutte le volte che vado a Sant’Ignazio, trovo persone che da venti, trenta e più anni non si confessano, e vengono da me… Me lo vuole impedire? E se muoiono?».


Per padre Cappello non era mai troppo tardi. Per questo non aveva remore moralistiche ad avvicinarsi al letto dei moribondi. Per fare largo a chi, come il buon ladrone, con un piccolo scatto poteva rubare il Paradiso all’ultima ora. Aveva saputo che Curzio Malaparte, lo scrittore toscano dalla vita tormentata vissuta sempre lontana dalla Chiesa, era gravemente ammalato alla clinica Sanatrix. L’ex fascista “selvaggio” della prima ora, poi caduto in disgrazia sotto il regime e diventato collaboratore degli alleati durante la guerra, nel suo libro Maledetti toscani aveva scritto con tono canzonatorio: «Che i pratesi siano galantuomini anche quando fan quattrini, si vede da questo: che riescono sempre a salvarsi l’anima, ed è il miglior affare di cui un buon cristiano possa vantarsi a questo mondo». Padre Cappello cominciò a fargli visita. Un giorno, dopo un colloquio più lungo del solito, chiamò una suora infermiera e gli chiese un bicchiere d’acqua dicendo che era per Malaparte. Quando il gesuita uscì dalla stanza lo scrittore confidò alla suora: «Mi son fatto battezzare da padre Cappello, non ho resistito davanti alla sua persuasione a convertirmi e confessarmi, ora sono un uomo nuovo». Dopo la sua morte, ci furono perfino delle interpellanze al Parlamento, che chiedevano di garantire la pace dei moribondi contro «i turbamenti di ecclesiastici profittatori».

Uno scarto di prete
La vita lunga e affannata di padre Cappello fu allietata da tante amicizie speciali.

Quando saliva in Trentino per le sue brevi vacanze, passava volentieri a Padova a far visita al cappuccino Leopoldo Mandic, il santo confessore elevato a furor di popolo agli onori degli altari nell’ottobre 1983. Anche lui, tante volte, si inginocchiò per confessarsi davanti al piccolo frate di stirpe bosniaca, assaporando da penitente la stessa divina misericordia che a sua volta elargiva senza posa dai confessionali di Roma. Si incontrava spesso con don Orione, che gli chiedeva consiglio per tutte le beghe giuridiche legate alle sue opere religiose. Lo frequentava don Giovanni Calabria. Lo conosceva bene anche padre Pio da Pietrelcina. «Perché venite da me? A Roma avete padre Cappello!» disse una volta il burbero frate a certi romani che erano scesi a San Giovanni Rotondo. La frase fu riportata dai giornali, e alla Gregoriana ci fu una vera invasione. Il povero padre Dezza dovette chiamare la polizia per rimettere le cose a posto.

A stroncare la santa routine dell’esile gesuita, più che la vecchiaia e gli acciacchi al fegato sempre trascurati, fu proprio la spossante mole di impegni che continuavano ad accumularsi sulle sue spalle minute. Non voleva in alcun modo rinunciare al suo ministero di confessore. E da Oltretevere, al vecchio professore ormai in pensione continuavano ad arrivare incalzanti richieste di pareri, relazioni, consulenze. Ci lavorava di notte. Scrive padre Mondrone: «Quanti sfruttatori ebbero promozioni a posti più alti a spese dell’umile gesuita della Gregoriana!». Negli ultimi tempi, ad affaticare Cappello, ci si mise anche il lavoro svolto al Sinodo Romano e per le commissioni preparatorie del Concilio Vaticano II.
Il 22 marzo del 1962 fece la sua ultima attraversata di Roma, coi mezzi pubblici, come faceva sempre, per andare a confessare in un convento di suore a Tor de’ Cenci. Dal giorno dopo, la malattia epatica di cui soffriva cominciò a provocargli una serie di dolori lancinanti, fino a produrre un collasso cardio-circolatorio. Si confessò e ricevette l’estrema unzione da padre Dezza. Si spense nella notte del 25 marzo, prima dell’una, dopo aver ripetuto le sue ultime giaculatorie.

Per decenni, intorno al suo confessionale, aveva fatto ressa il mondo. Le speranze, le miserie, le bestemmie della vita reale di migliaia di persone. Venivano da soli. Oggi, nella Chiesa, si architettano strategie per “evangelizzare i lontani”. I confessionali, come e più di allora, sono quasi sempre vuoti.
Al suo funerale si radunò una folla di ventimila persone. Mentre il corteo funebre si dirigeva alla cappella dei gesuiti del Verano, dal popolo dei suoi penitenti si alzò una voce: «Padre Cappello lo rivolemo a Sant’Ignazio!».

A Sant’Ignazio, di padre Cappello, c’è rimasta la tomba, con un quadro e un epitaffio. Lo hanno traslato nella sua chiesa nel 1984. Anche il suo confessionale, illuminato, è tenuto come una reliquia. Dentro, si vedono la sua stola, alcuni suoi indumenti lisi, e una trentina di ex voto per grazie ricevute. Si può prendere il suo santino con la preghiera privata per chiedere la sua intercessione. La causa di beatificazione, iniziata nel ’90, procede lentamente per le solite lungaggini.
Ma rimane anche qualcos’altro.

Pochi passi più in là, c’è padre Giuseppe. Un giovanotto di 87 anni. Lo trovi quasi sempre lì, a pregare nella penombra del suo confessionale. Per parecchi anni gli è capitato di confessare fianco a fianco con padre Cappello. Si ricorda le file di gente. E di quando capitava che i penitenti, venuti fin lì per cercare il confessore di Roma, non lo trovavano e un po’ delusi ripiegavano da lui. Racconta che un anno fa, a piazza Venezia, un furgone lo ha messo sotto e quasi ammazzato. Ma da qualche mese è di nuovo in piedi. «Forse perché» dice ammiccando «gli altri preti hanno cose più importanti da fare. E per stare qui al confessionale il Signore ha ancora bisogno di uno scarto come me».

Il pro-penitenziere maggiore ricorda il confessore di Roma
Gli insegnamenti del papa, le opinioni dei teologi

Negli anni in cui ero studente al Seminario Romano, partecipavo alle sessioni del cosiddetto “caso morale” che si tenevano periodicamente all’Istituto di Sant’Apollinare, ora sede della Pontificia Università della Santa Croce. Si trattava di incontri aperti ai sacerdoti e ai seminaristi di Roma, in cui venivano affrontati e risolti dei casi di ordine morale, dottrinale o giuridico in cui un sacerdote si poteva imbattere nell’esercizio del suo ministero. Solitamente l’esposizione del caso e la sua soluzione, appoggiata a riferimenti dogmatici e biblici, venivano affidate a un seminarista del Seminario romano o del Collegio Capranica. Seguivano gli eventuali interventi dei presenti, e alla fine la discussione veniva conclusa dall’epitome, ossia dalla sintesi che ricapitolava i termini e la soluzione del caso affrontato, svolta da un professore riconosciuto come autorevole in materia. Spesso, il ruolo di epitomatore era affidato al padre Felice Cappello.

La chiesa di Sant’ Ignazio

La chiesa di Sant’ Ignazio

Io, che ero seminarista del Seminario Romano, nel 1951 per due volte fui scelto dal mio professore Pietro Palazzini per dare la soluzione del caso esposto. La seconda volta, il caso riguardava gli oneri di messe. Si chiedeva se un sacerdote fosse o meno obbligato a celebrare di nuovo le sante messe che aveva già celebrato e per le quali aveva ricevuto le relative offerte, nel caso fosse sorto un dubbio sulla validità di tali messe (ad esempio, se ci si era accorti che nel momento della consacrazione invece del vino era stato per errore consacrato dell’aceto). Tale problema morale presupponeva per la sua soluzione la risposta a una questione di indole dogmatica: occorreva definire in cosa consiste l’essenza del sacrificio celebrato nella messa.

Io, che ero al terzo anno di teologia e stavo studiando il trattato sull’eucaristia sotto la guida di quel grande maestro di teologia sacramentaria che fu il cardinal Francesco Carpino, esposi la mia soluzione contenuta fondamentalmente nell’enunciato che le messe andavano senz’altro ripetute se in esse non era stata rispettata l’essenza del sacrificio eucaristico, e che tale essenza consisteva nella consacrazione sotto le due specie del pane e del vino. Corredai la mia soluzione con un elenco di opinioni di grandi teologi. Il padre Cappello, svolgendo la sua epitome, osservò che egli approvava la tesi di fondo da me esposta.
Tuttavia rilevò amabilmente, e con grande garbo, che il solutore aveva appoggiato la sua tesi appunto col parere di grandi teologi, omettendo di citare l’enciclica del 1943 Mediator Dei et hominum del sommo pontefice Pio XII allora felicemente regnante, dove erano stati ribaditi gli elementi essenziali del sacrificio eucaristico. Tale enciclica – sottolineò il padre Cappello –, essendo espressione del magistero pontificio, aveva un’autorità dimostrativa di gran lunga superiore a quella delle opinioni dei teologi. Mi fece quest’appunto con estrema delicatezza, bonariamente, senza darmi bacchettate.
Allora compresi il mio errore e con gioia volli obbedire ancora di più.


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Caterina63
00domenica 26 agosto 2012 11:13

Il confessore di Roma visto da vicino


«A scuola spiegava: “I princìpi sono princìpi. Restano fermi e vanno sempre difesi. Ma le coscienze non sono tutte uguali. Nell’applicare i princìpi alle coscienze ci vuole tanta prudenza, tanto buon senso, tanta bontà”». Il cardinale Giovanni Battista Re ricorda padre Cappello, suo professore alla Gregoriana e per tre anni suo confessore


di Gianni Valente 30giorni giugno 2002


Un'immagine di Padre Cappello

Un'immagine di Padre Cappello

A Roma, alla fine degli anni Cinquanta, tra gli studenti che seguivano le ultime lezioni di padre Felice Cappello e s’inginocchiavano al suo confessionale c’era anche don Giovanni Battista Re. Un giovane sacerdote, anche lui di origini montanare come il suo professore-confessore (Re proviene da una famiglia contadina della Val Camonica), che il vescovo di Brescia aveva mandato alla Gregoriana a studiare diritto canonico, con l’idea di tirarne fuori un bravo e preparato insegnante per il seminario diocesano.

Poi le cose hanno preso un’altra piega. Ma ancor oggi, per il cardinal Re, che dal settembre 2000 è prefetto della Congregazione per i vescovi dopo essere stato per 11 anni sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato, le stagioni romane dei suoi studi giovanili rimangono legate nel ricordo alla cara figura dell’esile gesuita che confessava a Sant’Ignazio.
Il cardinal Re ha accettato volentieri di raccontare a 30Giorni il padre Cappello che ha visto da vicino.

Eminenza, quando conobbe padre Felice Cappello?
GIOVANNI BATTISTA RE: Ho avuto la fortuna di averlo come professore alla Pontificia Università Gregoriana l’ultimo anno in cui insegnò come docente ordinario, nel ’57-58, e poi per tre anni l’ho avuto come confessore.


Che ricordo ha del professor Cappello?
RE: Come alunno mi colpiva la sua chiarezza e la sua memoria prodigiosa. Durante la lezione non apriva mai il libro e citava a memoria i canoni e interi brani di decretali senza modificare i testi di una parola. Sembra che, fin da giovane, conoscesse a memoria tutta la Divina commedia, tutta l’Eneide


Una cultura di cui andar fieri...
RE: Spesso chi sopravanza gli altri in cultura e in saggezza è portato ad atteggiamenti di superiorità e di distacco. In padre Cappello invece non c’era ombra di orgoglio. E non era per falsa modestia. Sembrava non accorgersi delle doti che gli altri ammiravano in lui. La sua fede aveva un riverbero immediato e riconoscibile nell’umile e affabile disponibilità che mostrava verso chiunque lo avvicinasse, senza eccezione, compresi gli importuni. Pur essendo il professore che più si imponeva per prestigio e per autorità, era quello che noi studenti avvicinavamo con più facilità e che sentivamo più vicino. Quando terminava la lezione, mentre usciva lo circondavamo per fargli domande che spesso non avevano nulla a che vedere con la lezione da lui tenuta, ma che riguardavano avvenimenti del giorno o problemi che ci incuriosivano. Lui rispondeva all’accavallarsi delle domande con saggezza e bontà, da vero maestro che voleva insegnare ai suoi alunni a crescere umanamente, intellettualmente e anche spiritualmente. Non dava mai segni d’impazienza o di aver fretta.


Com’erano le sue lezioni?
RE: Non gli interessava apparire originale, anche se alcune interpretazioni sue erano state accolte da altri autori e facevano testo; la sua preoccupazione era di facilitare agli studenti l’accesso ai tesori di dottrina custoditi dalla Tradizione. Era aggiornatissimo su tutte le pubblicazioni ed aveva una grande conoscenza del cuore umano.


E che cosa ricorda di padre Cappello come confessore?
RE: Aveva il dono di dare serenità e tranquillità. Era sempre breve, ma sapeva centrare l’essenziale. Sapeva incoraggiare e dare sicurezza e pace interiore. Era fedelissimo agli insegnamenti della Chiesa e, in pari tempo, padre Cappello era il contrario del rigorista.

A scuola spiegava: «I princìpi sono princìpi. Restano fermi e vanno sempre difesi. Ma le coscienze non sono tutte uguali. Nell’applicare i princìpi alle coscienze ci vuole tanta prudenza, tanto buon senso, tanta bontà». Anche la sua conoscenza sterminata del diritto canonico gli confermava che per la Chiesa la “salus animarum” è “suprema lex”: la legge suprema è la salvezza delle anime. E il sacramento della confessione è per la salvezza dei peccatori e per la liberazione dai peccati e per suscitare l’impegno a migliorare.
Chi s’inginocchiava al suo confessionale percepiva subito che egli attuava quanto insegnava.
Padre Cappello trovava poi tempo anche per visitare gli ammalati e, in particolare, quanti erano vicini alla morte. Sono celebri alcuni casi in cui egli preparò spiritualmente alla morte persone lontane dalla Chiesa (Curzio Malaparte, Concetto Marchesi).

Un filo d’oro lega le storie di Cappello e di Albino Luciani. Nascono nello stesso posto, la zona di Agordo, e crescono avendo davanti agli occhi le stesse figure di santi sacerdoti di montagna. Quali affinità vede tra queste due persone?
RE: Albino Luciani e padre Cappello erano parenti per via paterna. Anche Albino Luciani aveva una memoria prodigiosa, benché ad un livello inferiore rispetto a padre Cappello. Ambedue avevano grande semplicità e grande bontà. Ambedue erano animati dallo stesso amore a Cristo, alla Chiesa e all’umanità. Ambedue avevano un cuore grande. Ambedue sono stati convincenti testimoni dell’amore di Dio.


Padre Cappello per ben due volte fu respinto a due concorsi nelle Congregazioni vaticane che gli avrebbero senz’altro aperto una brillante carriera di Curia. Fu un incidente o una fortuna, per lui e per la Chiesa?
RE: Con padre Cappello gesuita, la Chiesa ha avuto un religioso che alla Pontificia Università Gregoriana ha contribuito alla formazione di generazioni di sacerdoti, che sono stati o sono ora professori nei seminari o vescovi e cardinali o superiori di istituti religiosi. La provvidenza divina ha voluto che egli, giovanissimo sacerdote, non fosse ammesso a lavorare nella Curia romana per ragioni che non riguardavano la sua persona ma il seminario dal quale proveniva e in cui era stato giovane insegnante.

La sua mancata assunzione in un dicastero della Curia romana e l’amicizia col direttore della Civiltà Cattolica padre Enrico Rosa fecero nascere in lui il desiderio di farsi gesuita. Tuttavia, aveva qualche dubbio circa tale decisione che comportava un cambio nella traiettoria della sua vita. Volle pertanto recarsi in pellegrinaggio a Lourdes per chiedere alla Madonna di illuminarlo.
Passò un’intera notte in preghiera, inginocchiato davanti alla grotta della Madonna. Fu una notte di preghiera che richiamava la “veglia d’armi” di sant’Ignazio nel santuario di Montserrat.
Appena spuntato il sole, padre Cappello dalla grotta di Lourdes si recò all’ufficio telegrafico per spedire al padre Ottavio Turchi, provinciale dei Gesuiti a Roma, un telegramma col quale chiedeva di essere accettato nella Compagnia di Gesù.
Fatto questo, andò a celebrare la messa per ringraziare della nuova vocazione che era spuntata nel suo cuore e alla quale intendeva essere fedele per l’intera vita.
Questo episodio mi fu raccontato da padre Paolo Dezza, diventato poi cardinale.

Cos’altro ricorda di padre Cappello?
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RE: La devozione a Maria e al Sacro Cuore di Gesù. Padre Cappello aveva sempre la corona del rosario in mano. Vedendolo pregare, veniva voglia di pregare e di raccomandarsi alle sue preghiere. La preghiera era il suo riposo: vi trovava ristoro, faceva fatica a interromperla per fare altro. E poi c’erano le sue tante piccole penitenze. Alla Gregoriana, nella sua stanza molto semplice, il suo letto era sempre sepolto sotto una montagna di libri.

Un giorno chiesi ad un suo confratello come padre Cappello poteva dormire in quel letto coperto sempre di un mucchio di libri. Mi rispose che padre Cappello passava le sue poche ore di sonno notturno in una sedia a sdraio, avvolto in una coperta.

Qualche anno fa, lei ha celebrato la messa a Sant’Ignazio nell’anniversario della morte di padre Cappello.

RE: Padre Cappello morì alle prime ore del 25 marzo, festa dell’Annunciazione. Aveva 83 anni. Fino al giorno prima aveva normalmente lavorato. Si sentì male nel pomeriggio del 24 marzo. Fu portato nell’infermeria dell’Università Gregoriana. Si spense serenamente alle prime luci del giorno seguente, festa dell’Annunciazione della Madonna.

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Caterina63
00domenica 26 agosto 2012 11:18

Storie di preti montanari


Albino Luciani e Felice Cappello venivano dalle stesse montagne ed erano lontani parenti. Una trama di fatti e circostanze comuni intrecciò le vite dei due sacerdoti. La sorella di Giovanni Paolo I racconta….


di Antonia Luciani


La prima messa da vescovo di Albino Luciani a Canale d’Agordo nel febbraio del ’59

La prima messa da vescovo di Albino Luciani a Canale d’Agordo nel febbraio del ’59

Una lunga consuetidine ha legato padre Felice Cappello ad Albino Luciani, il "papa dei 33 giorni". Più volte Luciani ha ricordato l’amicizia che li aveva uniti. "La sua compagnia è stata per me una benedizione". Erano conterranei. Le stesse montagne del Bellunese li hanno visti crescere da bambini. A quei luoghi era legata una memoria comune. Una storia semplice di circostanze, di persone care e di fatti comuni. Ad Antonia Luciani, sorella minore del "Papa del sorriso", abbiamo chiesto un ricordo di questa compagnia. Antonia oggi ha 82 anni. Di quella lunga consuetudine ha un ricordo vivido e lucidissimo. Ecco come, attraverso la freschezza delle immagini, ce la racconta.


Era la fine degli anni Cinquanta. Una volta, ricordo, mentre aprivo un giornale, che mi serviva per pulire i vetri, lessi che era morto Curzio Malaparte, quel personaggio e scrittore famoso (anche come miscredente), e lessi che questi, in punto di morte, aveva chiesto di confessarsi e aveva chiamato un sacerdote. Questo sacerdote era proprio padre Felice Cappello. Esclamai: "Padre Felice, il nostro parente!..". "Hai visto" dissi rivolgendomi a mio marito "in punto di morte ha voluto proprio il nostro padre Felice!".
C’è una parentela tra la nostra famiglia e padre Felice Cappello. Il nonno di mio papà, Giovanni Luciani, aveva una sorella e una delle figlie di questa sorella del nonno di mio papà si chiamava Bortola (come la nostra mamma). La Bortola si sposò, ed ebbe dieci figli, tra i quali gli ultimi due diventarono sacerdoti: padre Luigi Cappello, che divenne arcidiacono di Agordo, e Felice Cappello, appunto, che divenne gesuita. La nonna materna di padre Felice era dunque sorella al nonno di mio papà. È una parentela alla lontana, ma che s’intreccia, per parte di papà, con i Luciani. Padre Cappello era nativo di Caviola. Appena due chilometri da Canale d’Agordo. A quei tempi, Caviola e Canale, erano riuniti sotto un’unica parrocchia, e padre Felice è stato battezzato nella chiesa parrocchiale di Canale, San Giovanni Battista, dove noialtri tutti siamo stati battezzati. La nostra mamma era coetanea del padre Felice. Era nata nel 1879, lo stesso anno del padre Felice, e con lui ha frequentato il catechismo. L’ambiente dov’è cresciuto il padre Felice è, insomma, lo stesso che il nostro. Ricordo che la mamma e il papà ce ne parlavano a casa. Quando noi eravamo piccoli, padre Felice era già uno stimato sacerdote. Mio fratello Albino, fin da ragazzino ne aveva così sentito parlare, ma ebbe anche modo di conoscerlo quando era ancora giovane seminarista.

Durante l’estate infatti, quando padre Cappello veniva su dai familiari, passava sempre a trovare don Filippo Carli, il nostro parroco di Canale, al quale l’Albino era molto legato. Don Filippo è stato il maestro dell’Albino, una figura importante per mio fratello. Anche don Filippo era coetaneo di padre Felice ed erano molto amici. Sono cresciuti insieme. Insieme hanno fatto il catechismo. Insieme da piccoli andavano a fare i chierichetti alla chiesa della Madonna della Salute a Caviola, per un periodo hanno fatto insieme anche il seminario a Feltre e sono poi diventati sacerdoti negli stessi anni. Così durante quelle visite, l’Albino ebbe modo di incontrarlo. Ricordo che tra i libri che aveva portato con sé a Venezia, ce n’era uno, con una dedica di padre Felice, che mio fratello conservava come un caro ricordo: era un testo famoso di diritto canonico scritto dal padre Cappello. Glielo aveva regalato nel ’32. Fin da ragazzo, quindi, l’Albino aveva avuto modo di conoscere bene anche i suoi scritti. Negli anni seguenti, 1935-38, l’Albino ebbe modo di incontrarlo ancora durante le estati, quando il padre Felice veniva a trovare suo fratello, don Luigi Cappello, che era, in quegli anni, arcidiacono ad Agordo. Don Luigi, come don Filippo, sarà un altro riferimento importante per l’Albino.

Nelle estati di quegli anni, padre Felice si fermava spesso a Canale, invitato da don Filippo a predicare. La nostra chiesa si riempiva di gente. Venivano da tutta la vallata. Tanti poi andavano a confessarsi da lui anche ad Agordo, dove restava ospite del fratello. Lì, nella chiesa parrocchiale, c’è ancora il suo confessionale.

Mi ricordo di un incontro tra mio fratello e il padre Felice in quel periodo. Me lo ha raccontato l’Albino. Io avevo diciassette anni e lavoravo per la prima volta lontano da casa, nell’ospedale di Oderzo, vicino Treviso, e mio fratello Albino mi scriveva spesso, per rendermi meno pesante la lontananza da Canale. Mi raccontava quello che succedeva a casa, cosa faceva lui, descrivendo vari episodi, anche divertenti, così bene che mi sembrava di essere presente. Proprio come quello che mi ha scritto a proposito del suo incontro col padre Felice. Ancora oggi mi pare di essere lassù e di vedermeli davanti. Era l’estate del ’37. L’Albino aveva venticinque anni. Mi scrisse che lui si trovava nel prato davanti casa nostra e stava raccogliendo le susine dall’albero, avvicinandosi i rami col rastrello. Era lì nel prato con ai piedi i scarpet (delle ciabatte da casa con le suole fatte di stracci vecchi) e si vide venire incontro dalla strada monsignor Augusto Bramezza, (parroco a Canale dopo la morte di don Filippo), monsignor Luigi Cappello e suo fratello padre Felice. Stavano andando proprio da lui per fargli visita. "Immagina" mi scrisse "immagina come mi sono trovato confuso, ad essere lì con i scarpet ai piedi, il rastrello in mano per cogliere susine e dover ricevere il padre Felice Cappello!".

Alla fine degli anni Quaranta, quando l’Albino si recava spesso a Roma per la preparazione e la discussione della tesi di laurea, ebbe modo di incontrarlo ancora alla Gregoriana, dove il padre Felice insegnava. Durante gli anni di studio alla Gregoriana, padre Felice si era anche interessato di far ottenere all’Albino l’esonero dalla frequenza, non potendo, a causa della lontananza da Roma, partecipare assiduamente alle lezioni. L’Albino ebbe modo di incontrarlo spesso anche più tardi, durante la fase preparatoria del Concilio.
Mio fratello, ad un certo punto, ha avuto il desiderio di farsi gesuita. Questo lo confidò proprio a me. Erano gli anni ’34-35. Poco tempo prima che venisse ordinato sacerdote. Due suoi compagni di seminario, con i quali l’Albino era amico di vecchia data, erano entrati nella Compagnia di Gesù: padre Giuseppe Strim di Falcade e padre Roberto Busa. Ricordo la circostanza in cui me lo disse. Era d’estate, stavamo facendo il fieno nei prati verso Gares e l’Albino mi aiutava a "voltare l’erba", quella che lui e Edoardo avevano falciato di primo mattino. Io dovevo "girare l’erba" per farla asciugare. Quel lavoro era tanto per me, ma l’Albino mi aiutava sempre volentieri, e mentre lavoravamo assieme mi raccontava spesso tante cose. Un giorno, dunque, proprio mentre eravamo intenti a "voltare il fieno", mi disse: "Sai che Giuseppe Strim e Roberto Busa si sono fatti gesuiti? Anche a me piacerebbe tanto...". "E se lo vuoi" dissi "fai così anche tu". "Non posso", rispose. "Chiedi il permesso al vescovo...". E lui: "Glielo ho chiesto, ma ha risposto di no".

Servivano sacerdoti in diocesi. E così a lui il vescovo non lo consentì. Lo voleva in diocesi. Più volte, raccontando di aver visto la partenza dei suoi compagni di seminario, ricordava questo fatto con una punta di tristezza, e più volte mi ripeté che anche a lui sarebbe piaciuto tanto farsi gesuita.

Uno dei suoi santi preferiti era Francesco Saverio. In casa avevamo una devozione per questo santo. Mio fratello Edoardo mise anche il nome di Saveria ad una delle sue figlie, in onore di Francesco Saverio. Ricordo che quand’ero piccola l’Albino me ne raccontava la storia. Sapeva raccontarle le storie dei santi, rimanevano impresse: "Pensa... Francesco Saverio accettava per obbedienza di partire per le Indie con due soli giorni di preavviso... e una volta arrivato alle Indie, scriveva in ginocchio le sue relazioni al superiore, tanto stimava l’obbedienza... Questo" diceva "era quello che faceva i santi e mandava avanti le missioni". "I missionari" diceva "sono quelli che tirano il carro della Chiesa. Quelli che tirano il carro sono quelli che domandano i posti della fatica e del rischio". La missione l’Albino ce l’aveva nel cuore. Tanto che anche quando era patriarca di Venezia più volte mi confidò il desiderio di voler andare missionario. Una volta mi disse che negli anni precedenti c’era stato un cardinale canadese che aveva chiesto e ottenuto di andare missionario in Africa. Questo lo confidò anche a mia figlia Lina. Era il 1976 o il ’77: "Mamma, sai cosa mi ha detto lo zio Albino? Mi ha detto che se Dio vorrà, quando avrà raggiunto i limiti d’età, chiederà il permesso al Papa di andare come semplice missionario in Africa". E le aveva poi aggiunto che quello di andare missionario era stato un suo desiderio giovanile. Come quello di farsi gesuita.
L’Albino era attratto dallo studio e dal modo di vita dei gesuiti. Sottolineava il loro spirito d’obbedienza, anche il loro singolare voto di non accettare cariche ecclesiastichee penso che se da giovane aveva avuto questo desiderio di entrare nell’ordine di Sant’Ignazio, era anche perché aveva conosciuto il padre Felice. Dopo la morte del padre Felice, sentii una volta l’Albino ricordarlo con queste parole: "Giovanissimo, egli aveva preso tre lauree, era professore universitario consultato da congregazioni romane, vescovi, ministri... di lui però non m’ha colpito la scienza, che conoscevo attraverso i suoi tanti scritti, ma la fedeltà scrupolosa alla regola". E raccontò in proposito un episodio di quando si frequentavano spesso a Roma, durante la fase preparatoria del Concilio: "Dovendo uscire con lui dalla Gregoriana dove risiedeva, il padre Felice mi disse una volta: "Aspettami qui un momento, vado dal padre rettore perché legga queste tre lettere, prima che io le spedisca"". E l’Albino commentava: "Aveva ottant’anni, era quello che era, ma obbediva alla regola che voleva la posta controllata dal superiore".

Albino non partì come missionario, non entrò nella Compagnia di Gesù, ma un legame con i Gesuiti e col padre Felice, all’inizio del suo sacerdozio, era destino che lo mantenesse, perché appena ordinato sacerdote venne chiamato ad aiutare proprio il fratello del gesuita padre Felice Cappello: monsignor Luigi Cappello.

Ecco come andò.

Nell’inverno del ’35, vacante la parrocchia di Agordo, monsignor Rizzardin, allora vicario generale della diocesi di Belluno, si recò con una delegazione di due sacerdoti da don Luigi Cappello, che risiedeva a Trichiana, diocesi di Vittorio Veneto, per chiedergli di accettare la parrocchia di Agordo. Ma don Luigi non ne voleva sapere... Allora monsignor Rizzardin, per convincerlo, gli andava ripetendo: "Stia tranquillo, stia tranquillo, le daremo don Albino". Mio fratello però non era ancora sacerdote! Questo episodio, uno dei due sacerdoti che accompagnavano il monsignore, lo riportò a mia mamma: "Quale stima ha il vescovo di suo figlio! Non è ancora sacerdote e il vescovo l’ha già promesso come pegno!". Quante volte la mamma ci ha ripetuto questo fatto! Mi sembra ancora di sentirla... Furono una grande soddisfazione per la mamma queste parole di stima verso il suo figliolo per il quale aveva fatto tanto sacrifici... era proprio una consolazione per lei.

Albino ricevette l’ordinazione sacerdotale il 7 luglio del ’35. Rimase tutta l’estate a Canale, e ai primi di dicembre, quando monsignor Luigi Cappello fece il suo ingresso ad Agordo, scese giù anche l’Albino, come suo aiutante. Albino lo ricorderà: "Mi ha fatto stare sei mesi a Canale e mi ha detto: "Aspetta qui a Canale fino a quando verrò ad Agordo". E appena entrato lui, sono venuto anch’io". Questo lo disse il 29 giugno 1978 durante l’omelia nella chiesa parrocchiale di Agordo. Lo ricordo bene perché quella è stata l’ultima volta che mio fratello è tornato ad Agordo. Ebbe parole di grande stima per don Luigi. Gli era molto affezionato. Ricordava spesso le sue prediche. Efficaci. Sempre piene di esempi. Come quelle del nostro parroco don Filippo. In quegli anni lì, appena fatto prete, come giovane cappellano di don Luigi, andava spesso a visitare i malati e s’intratteneva con loro quante volte poteva... Visitava i villaggi per il catechismo: Giove, Valcozzena, saliva su al Rif fino al Piasent, incontrava i minatori che tornavano sudati e sporchi di polvere dalla miniera di Valle Imperina e si fermava a parlare con quella povera gente. Al pomeriggio lo aspettava tutto il lavoro in parrocchia. Confessava, confessava tanto, "quanto ho confessato..." diceva. Ricordava quegli anni come i più belli del suo sacerdozio.

Poi, in effetti, non ebbe più tanto la possibilità di stare in parrocchia. Gli vennero dati altri incarichi: prima professore e vicerettore al seminario, poi vicario generale del vescovo, poi vescovo... e lui a volte diceva: "Non confesso, non battezzo... mi sembra quasi di non essere sacerdote...".
Mi ricordo la prima volta che ha fatto un battesimo... venne da me tutto contento, mi sembra ancora di vederlo, in piedi davanti a me, tutto soddisfatto: "Sai che oggi ho fatto il primo battesimo?... Ho battezzato la Teresina...".
Dopo la sua elezione a pontefice, qualcuno ricordò un gesto di monsignor Cappello verso l’Albino, in un particolare episodio di quei primi tempi del suo sacerdozio ad Agordo. E riportando questo episodio dicevano: "Ecco come Albino Luciani è diventato il parroco della Chiesa!".

La domenica, a quei tempi, dopo le funzioni pomeridiane, c’era sempre la lezione di dottrina e la domenica questo compito normalmente era riservato al parroco. L’Albino era da poco arrivato ad Agordo. Una domenica, don Luigi, mentre si avviava alla lezione di catechismo accompagnato dall’Albino, con un gesto improvviso, si tolse la stola e la mise sulle sue spalle dicendogli: "Vai tu e parla del tema previsto". L’Albino, colto così di sorpresa, rimase tanto imbarazzato da diventare tutto rosso. È vero che quasi quarant’anni più tardi, a Venezia, Paolo VI gli metterà la sua stola sulle spalle facendolo arrossire davanti a tutti... ma il primo a mettergli su la stola fu proprio il suo parroco monsignor Luigi Cappello, il fratello del confessore di Roma.

Testo raccolto da Stefania Falasca



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