Parlare in Chiesa ? il capo scoperto? san Paolo e i suoi insegnamenti alle Donne

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Caterina63
00domenica 21 giugno 2009 14:46

Il velo muliebre in Chiesa: origine e significato



La donna deve portare sul capo il segno dell’autorità di Cristo sulla natura umana


Perché S. Paolo consiglia alle donne di tenere il capo coperto durante le azioni liturgiche?

Il Codice di Diritto Canonico del 1917 prescriveva alle donne di tenere il capo coperto in Chiesa, soprattutto al momento della Santa Comunione [1]. Nel nuovo Codice non c’è traccia di questa disposizione e ormai questa antica e venerabile usanza è caduta nel dimenticatoio; eppure essa era fondata su una disposizione dello stesso Apostolo San Paolo. Ma, tra l’esegesi razionalista moderna, che tende a storicizzare tutte le disposizioni particolari (“roba d’altri tempi...”), e il famigerato luogo comune per cui “l’uomo di oggi” non sarebbe più in grado ci capire certe cose, anche la consuetudine, per le donne, di coprire il capo in chiesa, è andata perduta.

Per non parlare poi di molte suore, che, un tempo ben vestite (chi non ricorda i cappelloni delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli?), oggi espongono il ciuffo, per andar di pari passo con chi ha gettato tonaca e coletto bianco alle ortiche (e qui, visti i magrissimi risultati estetici, avendo tolto il velo, c’è assai spesso da stenderne subito un altro, questa volta pietoso, come si suol dire). Ma guai se ci limitassimo a rimpiangere i tesori che ci hanno scippato: dobbiamo cercare, con l’aiuto della Madonna, anche per questo caso, le ragioni della Tradizione: e allora leggiamo le parole dell’Apostolo, e vediamo come alcuni Padri della Chiesa le hanno interpretate.

Dalla prima lettera di S. Paolo Apostolo ai Corinzi: [11,3]
"Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l'uomo, e capo di Cristo è Dio.
[4] Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo.
[5] Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata.
[6] Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra.
[7] L'uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell'uomo.
[8] E infatti non l'uomo deriva dalla donna, ma la donna dall'uomo;
[9] né l'uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo.
[10]Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli.
[11] Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l'uomo, né l'uomo è senza la donna;
[12] come infatti la donna deriva dall'uomo, così l'uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio.
[13] Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto?
[14] Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l'uomo lasciarsi crescere i capelli,
[15] mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo.
[16] Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio".

Da questo brano, noi possiamo ben comprendere i motivi per cui S. Paolo consiglia alle donne di tenere il capo coperto durante le azioni liturgiche. I motivi sono, essenzialmente, quattro:

1) La simbologia delle nozze tra Cristo e la natura umana. In chiesa, durante la liturgia, l’uomo e la donna non rappresentano solo se stessi, ma l’uomo – ogni uomo – rappresenta Cristo, lo Sposo: la donna rappresenta il genere umano, la natura umana sposa del Verbo. Possiamo comprendere ciò considerando la natura sponsale della fede (Ti sposerò nella fede e tu conoscerai il Signore – Os 2,22), il contesto generale della liturgia (l’atmosfera in cui la fede è esercitata nel modo più perfetto) e l’esplicito richiamo alle nozze di S. Paolo: E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall'uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo - 1 Cor 11, 8-9. Cristo sta all’uomo (maschio e femmina) come l’uomo sta alla donna. Inoltre l’uomo, diversamente dalla donna, è “immagine e gloria di Dio”, non per se stesso, ma in quanto rappresenta Cristo: perciò egli non può stare con il capo coperto, perché in questo modo egli “disonora il suo capo” (11,4) il suo proprio rappresentare Cristo: un uomo con il capo coperto non rappresenta bene Cristo, così una donna con il capo scoperto, non rappresenta bene la natura umana e la Chiesa sposa di Cristo. In questo senso Tertulliano dice: “Poiché io sono l’immagine del creatore, non c’è posto in me per un altro capo (che non sia Cristo)” (Contro Marcione, V, 8, 1).

2) Un segno della sottomissione a Cristo. Una donna con il capo coperto dal velo, ricorda a tutti coloro che sono in chiesa che la natura umana è sposa di Cristo: perciò la donna, in quanto rappresenta la natura umana, deve avere un segno della sua dipendenza sul suo capo (1 Cor 11,10): questo segno della dipendenza è il segno dell’autorità di Cristo nei confronti della sua Sposa, la natura umana. Perciò il Concilio Gangrense chiama il velo memoriale, ricordo della sottomissione. S. Giovanni Crisostomo lo chiama insegna della sottomissione; Tertulliano giogo della sua umiltà (cf. Cornelius a Lapide, ad loc.).

3) Il rispetto del perfetto equilibrio del cosmo. L’edificio della chiesa rappresenta il cosmo, ricolmato della gloria di Dio, specialmente durante la celebrazione della S.Messa (I cieli e la terra sono pieni della tua gloria…). Il cosmo è perfettamente ordinato (Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso - Sap 11,20). Nessuno può dimenticare la presenza, all’interno della chiesa-cosmo, della gerarchia celeste, perfettamente ordinata (Voi vi siete invece accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all'adunanza festosa… - Eb 12,22). Non è quindi conveniente che in un cosmo perfettamente ordinato qual è la celebrazione liturgica, la ordinata relazione tra Cristo-Sposo e Chiesa-Sposa - la particolare relazione che la celebrazione liturgica ricrea nel modo più perfetto -, non sia mostrata (Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli - 1 Cor 11,10)

4) Un segno naturale di umiltà. Ultimo aspetto, ma non di minore importanza: "Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l'uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo" (1 Cor 11, 14-15).

È obbligatorio, per le donne, portare il velo in Chiesa? Oggi non più (di fatto non è mai stato obbligato, si cresceva nella Chiesa sapendo che portare il velo, per le donne, era un atto naturale dovuto a Dio), ma S. Paolo ce ne spiega i sempre validi motivi di convenienza.

Don Alfredo Morselli, 16 giugno 2009

NOTE

[1] Can. 1262. ... §2. “Viri in ecclesia vel extra ecclesiam, dum sacris ritibus assistunt, nudo capite sint [...] mulieres autem, capite cooperto et modeste vestitae, maxime cum ad mensam Dominicam accedunt”.

...non sarebbe il caso di portare con noi un foulard e di metterlo quando entriamo in una Chiesa o quando andiamo a prendere la Santa Eucarestia?

Due foto eloquenti e significative: due Donne portano il velo alla Santa Messa di stamani a san Giovanni Rotondo, celebrata dal Pontefice Benedetto XVI

                Velo

                Padre Pio



Caterina63
00lunedì 22 giugno 2009 09:46
Alcuni interventi significativi dal Blog dove è nata la discussione e che trovate lincando al titolo postato in apertura thread....

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da Mic:

io ho sempre riferito il velo della sposa alle parole dell'Angelo a Maria: "su te stenderà la Sua ombra la potenza dell'Altissimo" e - perché no? - lo stesso significato potrebbe avere il velo muliebre (che vedo confermato dalle parole dell'articolo: la donna rappresenta l'umanità-sposa), a prescindere, forse, dalle ragioni di modestia e di distogliere durante le celebrazioni l'attenzione dalle pettinature elaborate e ornate di un tempo

Anche nel matrimonio ebraico c'è qualcosa di simile a quello delle chiese orientali: quasi in conclusione del rito si apre l’Aron (l'armadio sacro) e dinanzi ai rotoli della Torah il Rabbino copre con il suo Talleth (lo scialle della preghiera, le cui frange -ai quattro angoli- ricordano il Nome di Dio) il capo degli sposi pronunciando la benedizione.

Anche oggi, in Israele ho visto donne ebree osservanti portare vesti lunghe e la testa coperta con un velo messo un maniera tale che tra l'altro conferisce loro una grazia e una femminilità tutte particolari

Comunque è un simbolo molto bello che purtroppo si è perso, se reintrodotto occorrerebbe recuperarne il senso profondo... secondo me è bene puntare soprattuto al recupero della 'sostanza' della celebrazione: il sacrificio (da cui solo scaturisce la mensa escatologica e la lode e la gratitudine), la grandezza del mistero, la sacralità, la solennità e tutti i significati profondi che ogni momento della celebrazione antica possiede!

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Da Arnulfo:

Ho trovato questo collegamento ad un sito deidcato all'Anno paolino, che può servire da approfondimento:
http://www.letterepaoline.it/node/126
anche per parare le facili accuse delle lollarde di maschilismo e di pregiudizi patriarcali.

Anche l'abito ha una dimensione teologica, oltre che culturale. Tutto il contrario del proverbio. Si pensi al significato del "vestire a festa".
Sarebbe il caso di studiare anche la simbologia delle nozze; nelle liturgie orientali è la coppia (maschi e femmina) ad essere avvolta dal velo: simbolizza la Chiesa domestica, come quella universale deve essere "sposa di Cristo".


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Oggi il nuovo Codex non lo prescrive come invece faceva il vecchio, ma non per questo mi sembra di poter dire che l'uso sia facoltativo: lo Spirito Santo per bocca di san Paolo non mi pare che si limiti solo a consigliare l'uso di coprirsi, ma vuole che ci si copra. A questo punto che il Codex lo imponga o ne taccia non fa differenza alcuna, attesa la superiorità della Parola (si dice così oggi, no?).
Le argomentazioni dei novatori sono errate in radice: la Scrittura è per tutti gli uomini di tutti i tempi, pertanto il velo ha il suo valore oggi come lo aveva ieri. Ciò che dispiace un pò è che neppure nelle messe vetus ordo il sacerdote richiama alla fedeltà alla Parola anche con il coprirsi il capo, il quale, per altro, conferisce alla donna anche eleganza e bellezza.

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Mic risponde all'intervento sopra:


Ciò che dispiace un pò è che neppure nelle messe vetus ordo il sacerdote richiama alla fedeltà alla Parola anche con il coprirsi il capo

si, ma i richiami dovrebbero essere fatti non solo per una giusta 'osservanza', ma insegnando il significato profondo del velo che, vissuto pienamente insieme ad un vita sacramentale piena e VIVA, fondata su una davvero Santa e Divina Liturgia, non solo introdurrebbe nell'umanità 'dispersa' di oggi il senso della 'sottomissione' al suo Creatore Signore e Sposo, ma farebbe anche scoprire alle donne il loro vero ruolo, che non è certo quello di essere imitatrici né antagoniste degli uomini!

Se le donne e gli uomini riscoprissero nei loro rapporti interpersonali e di coppia il significato autentico di queste cose (non i giuridismi e i sensi del dovere), forse qualcosa davvero nel mondo potrebbe cambiare.

Se la sottomissione della donna ha la valenza del rispetto, del prendersi cura, dell'accogliere dell'ascoltare, del trasmettere quel che ha custodito nel cuore e l'atteggiamento dell'uomo è quello di Cristo per la Sua Chiesa, beh, certo che allora ci siamo.

Chiaramente non è una realtà DATA, perché nessuno di noi riesce ancora a viverla in pienezza, ma è tutta da vivere e da costruire con l'aiuto della Grazia Santificante ed è un crescere nella Fede e quindi nell'Amore e anche nella Giustizia...
noi non siamo giusti, ma è il Signore Misericordioso e Giusto, che ci giustifica sia col perdono, che con la trasformazione che opera in noi quando ci dona Sé stesso


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da sagmarius:


Don Alfredo Morselli ha scritto un bellissimo articolo che risponde a domande che mi ero poste anni fa e che avevo poi chiuse nel "cassetto dei pensieri banali" perché mi erano parse "non rilevanti".
Mi sbagliavo.

Concordo poi con chi scrive che il velo nelle funzioni religiose conferisce alla donna una particolare eleganza e bellezza.
Bisogna riconoscere che tra le altre cose, sicuramente più importanti, in questi quarant'anni ci siamo dimenticati, o siamo stati indotti a dimenticare, anche del senso del bello.
Così degradando la Verità si è degradata la Bellezza.

Infatti il degrado che ha coinvolto il linguaggio, i suoni, il canto, le cerimonie, i profumi, le immagini sacre, l’architettura, la simbologia, i paramenti del clero, l’abbigliamento dei fedeli ecc. esprime in modo inequivocabile il degrado della Verità che si professa.
Non è del resto comune sentir dire dai fedeli cattolici che la nostra è una religione come le altre e che tutte portano a Dio e alla salvezza?

Non mi si obbietti che in situazioni estreme di indigenza o di persecuzione la sostanza della Fede si esalta nella mancanza degli accidenti: le eccezioni confermano la regola.


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Dante Pastorelli:

Quando ero un bimbetto, vivevo in una società pressoché totalmente contadina, uscita dalla guerra. Fame e miseria. Eppure, le donne più povere, coi vestiti a toppe e scarpe scalcagnate, o con gli zoccoli di legno, prive di cappotto e magari coperte nell'inverno soltanto da uno scialle vecchio o da un "fazzolettone", una specie di plaid rustico color cinerino ripiegato a triangolo ed usato a mo' di scialle, un velo o un foularino leggero sulla testa lo portavano in chiesa.
E così ancora nelle campagne lucchesi degli anni 50 e 60.

Insomma s'è perduto il senso della sacralità di quel velo. Riportare le donne a quell'usanza lodevole credo sia impresa disperata.

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Mic risponde a Dante:


Insomma s'è perduto il senso della sacralità di quel velo. Riportare le donne a quell'usanza lodevole credo sia impresa disperata.

infatti, ma non pensa che se le donne fossero riportate a quell'usanza - non solo lodevole, ma anche in qualche modo 'formativa' e 'per-formativa' (sia pure in senso lato) per ciò che rappresenta anche nella celebrazione (stando a quanto già detto: donna=umanità sposa) - riconducendole al suo significato profondo e non esclusivamente in termini di 'osservanza' 'eleganza' e 'bellezza', molte più donne parteciperebbero al rito antico con il capo coperto e con molta compenetrazione nel gesto... e chissà che non possa venirne fuori anche qualcosa d'altro e di meglio per l'umanità? Questa potrà sembrarvi una sciocchezza - e vi assicuro che ho dovuto vincere un certo pudore nell'esprimerla - ma forse se non ci limitiamo a beccare sull'aia, tanto sciocchezza non è e forse ci fa capire una della tante (troppe) cose che nel corso dei secoli ci siamo persi e stentiamo a ritrovare!

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un mio intervento

Alla Santa Messa oggi celebrata dal Pontefice da san Padre Pio ;-)

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l'Articolo andrebbe distribuito ai tanti ordini religiosi femminili che hanno dismesso l'abito gettando alle ortiche il velo dando un pessimo esempio....

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da Silvano.dottori:

Io sono uno dei fortunati ad avere un parroco che, oltre a dire settimanalmente la Santa Messa V.O., invita caldamente le donne a coprirsi il capo e così (quasi) tutte lo fanno. Il problema a mio avviso è che c'è molta ignoranza nei fedeli sul significato del velo: occorre spiegarlo, magari ritagliando un minuto all'omelia, così come occorrerebbe spiegare poco alla volta il perchè di tante altre verità oggi non più di moda, di tante vicende, tradizioni, devozioni oggi cadute nel dimenticatoio. Spiegare le differenze sostanziali tra il V.O. e il N.O. L'ignoranza e le scontate accuse e prese di posizione dei nemici della Tradizione della Chiesa sono le cose da sconfiggere con l'insegnamento, con la spiegazione del perchè.
Non tutti hanno avuto la fortuna di poter crescere in certi ambienti o di poter accedere a certa formazione. Bisognerebbe trovare un sistema più capillare per formare, per dare la possibilità a tutti di approfondire senza preconcetti. Io sono ancora piuttosto ignorante in materia, non ho certo la cultura e la preparazione di certi personaggi che qui intervengono con autorevolezza; a loro dico: non stancatevi mai di intervenire per ribadire i sani concetti, le verità, le nozioni anche se vi sembrano ovvie, perchè spesso per molti tali non sono.


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Una mia risposta:


Claudio ha detto...

"E infatti non l'uomo deriva dalla donna, ma la donna dall'uomo; né l'uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo."
(1Cor.11,8 ss. )

Ammetto che questi versi di San Paolo mi hanno sempre suscitato molta perplessità, perchè non riesco a trovarne un'interpretazione non maschilista. Lo dico con molto rispetto e volontà di capire le intenzioni dello Spirito. Per favore, qualcuno può aiutarmi?


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scherziamo?
e lo dico da Donna^__^
san Paolo ha anticipato la medicina e la scienza;-)
prima del Novecento si credeva che fosse la donna a determinare il sesso del nascituro, lo studio sulla vita umana, grazie alla sana tecnologia ha permesso di PROVARE che è l'Uomo a stabilire il sesso del nascituro, ergo aveva ragione san Paolo: la Donna deriva dall'Uomo, infatti è il suo seme che lo determina nel concepimento...ma attenzione, aggiunge san Paolo dell'altro importante:
L'Uomo NON resta incinto ergo non è l'Uomo fatto per la donna ma la donna per l'Uomo perchè è LEI CHE NE RACCOGLIE IL SEME NEL GREMBO VERGINALE..
.

San Paolo aveva anticipato TUTTI sullo studio dell'Uomo e della Donna...il secolo scorso la scienza stessa gli ha dato ragione, ma si è lungi dal rammentarlo e si continua a leggere questi passi paolini come pensieri contro la Donna...^__^

Il discorso di san Paolo da fastidio a molti perchè sanno che la diversità che loro vogliono imporre (uomo-uomo, donne con donne...) è falsa, mentre la diversità creata da Dio la conferma la scienza stessa...

grande san Paolo!!! ti Amo!!!!


P.S.

Naturalmente poi il discorso paolino si allarga per trovare pienezza e compimento NELLA CHIESA e nel rapporto di Cristo con la Chiesa SUA SPOSA....è la Chiesa infatti CHE RACCOGLIE-RICEVE DAL SUO SPOSO e a sua volta, proprio come la Donna, la Chiesa da ai SUOI FIGLI il santo nutrimento... non è infatti la Chiesa che che genera Cristo ma il contrario...ma la Chiesa è indispensabile a Cristo per incontrarsi con l'Uomo così come Dio ebbe "bisogno di Maria" per l'Incarnazione divina e prodigiosa....

Fraternamente CaterinaLD

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Anonimo risponde:

Caterina ha giustamente sottolineato un aspetto che il femminismo ha abbandonato: la diversità (non certo in quanto a dignità) tra uomo e donna. Leggendo con la dovuta umiltà l'Apostolo si riesce a capire di più l'economia del Creatore, oggi difficile da comprendere a motivo di ideologie femministe che hanno "liberato" la donna trasformandola in un oggetto.
E' più maschilista san Paolo con la sua gerarchia o l'attuale egualitarismo che tratta la donna come oggetto?

Suggerisco la lettura di un interessantissimo articolo apparso su zenit.

http://www.zenit.org/article-18354?l=italian

Vi si parla del recupero del ruolo maschile [che comporta come corollario il risalto del ruolo femminile] prendendo come modello nientemeno che "il Figlio dell'Uomo", Gesù benedetto.

Il livellamento maschio-femmina rientra nella grande categoria del livellamento ad ogni costo (che comprende di tutto un po', dal sette politico al vanno tutti in Paradiso) ed è molto più anticristiano di quel che sembra. Anzi, il mito dell'assoluta par condicio - consapevolmente o no - si oppone alla fantasia, alla libertà e in definitva alla signorìa di Dio.

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inopportuno ha detto...

La chiesa no deve vivere come se fosse chiusa in cella, ma nel mondo, no in base a un modello patriarcale ma all’amore fraterno. L’intimismo, lo spiritualismo, l'irenismo continuista e la devozione alle regole devono trasformarsi e aprirsi alla sofferenza dei fratelli.
Questioni come questa del velo possono, aldilà della poesia teologale indubbiamente contenuta nella riflessione di mons. Morselli, risolversi in una nuova preoccupante chiusura nella cittadella delle proprie sicurezze
.

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Ciò sarebbe vero se, come è stato accennato da Luisa, si rischiasse di agire come fanno i TdG o i Pentecostali il cui obbligo nel portare il velo non è il senso teologico che da la Chiesa, ma una letterale sottomissione ALL'UOMO mentre san Paolo, con tutta l'esegesi della Chiesa pone il discorso di sottomissione AL CRISTO PRESENTE NELL'EUCARESTIA...non a caso i vescovi portano lo zucchetto ^__^

Io direi che il velo è come per la questione dell'inginocchiatoio: spiegandone l'uso va lasciato anche la libertà di usarli, certo è che se NON si catechizza in questi termini, se non si favorisce il loro uso, tutto rischia di diventare sempre un odioso obbligo....
Io a capo scoperto in Chiesa e durante l'Eucarestia mi sento a disagio, per anni mi è stato LETTERALMENTE CHIESTO di NON mettere il velo perchè essendo l'unica che lo faceva e avendo compiti nella Chiesa, ERO RIDICOLA...ho sempre obbedito, ma con una grande pena nel cuore, alcune volte ho così rinunciato ad avere compiti nella Chiesa per poter mettere il velo, ponendomi quasi nascostamente agli ultimi banchi...

Si chiede tolleranza per non portare il velo e per non inginocchiarsi alla Comunione, a quando l'applicazione della tolleranza per chi vuole mettere il velo e l'inginocchiatoio senza essere accusati di fanatismo?




Caterina63
00lunedì 10 gennaio 2011 21:57

MARIA
Donna in ascolto del Verbo

Maria con il Figlio di Dio che si fa "parola" ha avuto un rapporto assolutamente unico: la Parola, da lei accolta, si è fatta carne nel suo grembo. Nessuno più di lei ci può indicare in che modo accostarci alla Parola di Dio e come farla fruttificare in noi.

di MARIO MASINI


In una lettera di S. Paolo si legge questa sorprendente disposizione: «Le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare» (1 Cor 14, 34).


 Queste parole dell'apostolo vanno inquadrate entro gli ordinamenti che egli sta disponendo per il buon svolgimento delle assemblee liturgiche, le quali non debbono essere disturbate da interventi inopportuni non soltanto delle donne, ma anche neppure di coloro che hanno il carisma di parlare in lingue straniere e perfino della profezia.

Tale disposizione paolina va inquadrata pure entro la sensibilità delle chiese della Siria, della Palestina e della Grecia, ove erano presenti cristiani provenienti dalla religione sia ebraica sia greca, per i quali il tacere delle donne nelle pubbliche assemblee - fossero essere di tipo religioso o laico - era un fatto comune e tranquillamente accettato.

Queste spiegazioni smussano indubbiamente la perentorietà della frase paolina, ma non distruggono il fatto: nell'antico costume giudaico e in quello del cristianesimo primitivo il silenzio della donna era la norma. È questa l'usanza che anche Maria conobbe ed entro la quale visse quando partecipava al culto nella sinagoga di Nazaret. Già da allora ella fu la donna del silenzio.

Maria, donna del silenzio

In tutto il corso della sua esistenza Maria fu donna del silenzio. Secondo i Vangeli, ella ha parlato soltanto sette volte: due volte con l'angelo Gabriele (Lc 1,34ss), due volte con Gesù (in occasione del suo ritrovamento nel tempio di Gerusalemme [Lc 2,48] e alle nozze di Cana [Gv 2, 3]), una volta con i camerieri di Cana (Gv 2,5), una volta per salutare Elisabetta (Lc 1,40) e una volta per cantare il Magnificat (Lc 1,46-55).

Per il resto della sua vita Maria ha sempre taciuto: nel racconto della nascita di Gesù Luca non riferisce alcuna parola proferita da Maria; neppure sul Calvario - quando Gesù pur le rivolge importanti parole (Gv 19,26) - Maria parla; i Vangeli di Matteo e di Marco addirittura non riferiscono alcuna parola di Maria. E l'ultima volta che, secondo i Vangeli, Maria ha parlato è stato agli inizi del ministero evangelico di Gesù, quando «in Cana di Galilea egli diede inizio ai suoi miracoli» (Gv 2,11).

Maria, donna dell'ascolto

Maria può essere qualificata come "donna del silenzio", purché per "silenzio" si intenda lo «spazio nel quale lo spirito può aprire le ali» (A. De Saint-Éxupéry) e il «luogo di ogni incontro, cioè di ogni presenza» (J. Rassam). Il silenzio di Maria è «un silenzio tutto inteso ad ascoltare» (D. Bonhöffer): è «il silenzio dell'ascolto», «il silenzio dell'accoglienza della Parola».

Di fatto Maria è sempre "in ascolto": ascolta le parole dell'angelo (Lc 1,28ss), il saluto profetico e la benedizione di Elisabetta (Lc 1,43-45), il canto degli angeli del Natale (Lc 2,14), la profezia di Simeone (Lc 2,28-35), le lodi di Dio e gli encomi di Gesù dell'ultraottuagenaria Anna (Lc 2,38), le oscure parole di Gesù dodicenne (Lc 2, 49), il parlare di Gesù annunciatore del Vangelo a partire dal giorno di Cana (Gv 2,7) e fino a quello della sua morte in croce (Gv 19,26-30). Giustamente Paolo VI ha fissato Maria come l'icona della «Vergine in ascolto», «che accoglie la Parola di Dio».

Ognuna di queste situazioni di ascolto vissute da Maria offre, se esplicitata, un aspetto dell'esemplarità di Maria come icona dell'ascolto: ci limitiamo a considerare qualche tratto del racconto della sua annunciazione.

Pompeo Batoni
Annunciazione
(Roma, Basilica del S. Cuore)

La Vergine dell'attesa

Pur presentando l'Annunciazione con un racconto di splendida bellezza anche letteraria, il Vangelo di Luca (1,26-38) non precisa in quale situazione l'angelo trovò Maria quando le recò l'annuncio della divina maternità. Ma tutto lascia intendere che Maria fu raggiunta dalla Parola di Dio nel bel mezzo della sua vita di giovinetta, forse nel tempo della preghiera, forse mentre era intenta alle faccende domestiche, forse mentre si recava con la brocca in testa ad attingere acqua alla fontana di Nazaret, forse mentre sedeva solitaria, pensosa e orante. Su questo punto nel Vangelo tutto è indeterminato e incerto.

E tuttavia proprio questa indeterminatezza lascia spazio a ritenere per certo che, nell'Annunciazione, Maria fu raggiunta dalla Parola divina mentre non coltivava per se medesima progetti che oltrepassassero quelli che il ristretto orizzonte di un minuscolo e oscuro borgo palestinese consentiva ad una giovane donna.

L'evangelista annota che, all'udire le parole dell'angelo: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te» - Maria «si domandava che senso avesse un tale saluto» (1,28-29). La fraseologia del testo greco indica che Maria si dette a una riflessione accurata e prolungata con la quale cercava di darsi spiegazione del messaggio che si era sentita rivolgere. Ma non trovava spiegazione. Di fatto non c'era spiegazione perché Dio aveva compiuto su Maria la sua scelta graziosa, cioè di amore. E l'amore è sempre gratuito; e la grazia è grazia proprio perché è gratuità. Di fatto, Dio non abbandona la Vergine ad un infruttuoso cercare; la sua Parola dà la risposta e la spiegazione: Maria ha «trovato grazia presso Dio», il quale sta per dare in lei compimento alle promesse messianiche fatte ai suoi padri (cf. Lc 1,30-33).

La Parola che Maria ascoltò fu dapprima inquietante, ma subito divenne illuminativa e rappacificante. Sempre così è la Parola di Dio.

Vergine illuminata dalla Parola

I profeti avevano talora opposto alla Parola divina obiezioni che si muovevano in direzione contraria a quella che essa proponeva loro perché si ritenevano impari per quel cammino. Geremia (1,6), ad esempio, aveva obiettato a Dio che lo chiamava al ministero profetico della parola: «Signore Dio, io non so parlare perché sono giovane».

L'interrogativo rivolto da Maria all'angelo - «Com'è possibile ch'io possa concepire e partorire se non conosco uomo?» (v. 34) - si muove soltanto parzialmente in tale direzione. Fin da subito Maria ha accolto l'offerta che Dio le aveva rivolto attraverso l'angelo, e tuttavia ella è obbligata dalla propria umanità a comprendere le parole di Gabriele secondo i comuni parametri dell'intendere. Per questo ella può pensare soltanto che le vengano proposti una normale gravidanza e un comune parto: è in questa prospettiva che ella fa presente all'angelo di "non conoscere uomo". Maria riesce a configurarsi soltanto una normale maternità umana, e quindi oppone ciò che - da un punto di vista umano - ostacola tale maternità.

E tuttavia ella intuisce che le parole dell'angelo sono troppo cariche di mistero per poter riferirsi unicamente ad una ordinaria maternità: perciò ella domanda che le venga spiegato il qual modo si compirà il progetto divino nel quale ella ha accettato di venir coinvolta. Quando l'angelo le spiega il progetto divino e in qual modo esso si realizzerà (v. 35), Maria vede aprirlesi orizzonti degni della grandezza di Dio. Ella avrà un figlio ad opera dello Spirito Santo e per l'intervento della «potenza dell'Altissimo». Questo figlio sarà carico di tutti i misteri di Dio: sarà figlio suo e insieme «Figlio di Dio» (v. 35) e si chiamerà «Gesù», perché «salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21).

Per aver accolto la Parola e il progetto di Dio Maria si trova avviata verso orizzonti impensati e splendidi. Quelli che la Parola di Dio apre a chi l'accoglie nella fede.

La Vergine feconda

La risposta della Vergine alla spiegazione datale dall'angelo - «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto» (v. 38) - nella sua letteralità non rende adeguatamente la forza del testo greco, il quale include accoglienza gioiosa ed entusiastica: questo senso andrebbe reso con questa espressione o un'altra simile: «Oh sì, sono felice che si compia in me quello che hai detto».

Allora si renderebbe manifesto anche quello che è sottinteso nelle ultime parole dell'angelo: «Nulla è impossibile a Dio» (v. 37). Questa è anche l'espressione con la quale Dio aveva rintuzzato la resistenza di Sara, incredula alla Parola che le annunciava la maternità, perché si riteneva troppo «vecchia e avvizzita» per esserne ancora capace (cf. Gen 18,10-15).

Parimenti e ancor più al di là di ogni impossibilità nell'ordine naturale e di ogni comprensione nell'ordine razionale, il Dio che rende feconde le sterili, rende possibili la maternità umana d'una vergine e la maternità divina d'una donna. Mediante l'opera dello Spirito santo Dio fa partorire anche le vergini e rende una creatura umana la madre del Figlio di Dio.

«Nulla è impossibile a Dio», solo che l'uomo dia accoglienza alla sua Parola. Lo aveva rilevato già s. Leone Magno (sec. V): «Dio come dona fecondità alla sterile, così la dona alla Vergine Maria». E ognuno che, come Maria, accoglie la Parola di Dio mediante la fede, ricevendo fecondità dallo Spirito santo, diventa capace di imprese che non soltanto sono più grandi di lui ma anche degne della grandezza di Dio.

La fecondità della Parola in chi l’ascolta

Se si rivisitassero gli altri testi evangelici che parlano di Maria si raccoglierebbero tratti che configurano la Vergine anche come icona della meditazione e della custodia sapienziale della Parola di Dio. Questa icona mariana è particolarmente suggestiva ed utile al popolo cristiano che, oggi sta, felicemente, tornando alla Parola di Dio. E la Parola che, mediante lo Spirito Santo, ha reso feconda la Vergine Maria, per la grazia del medesimo Spirito renderà fecondo di luci, di ispirazioni, di progetti, di creatività, di impegno, di speranze il popolo cristiano.

S. Gregorio Magno (sec. VI) ha scritto questa affermazione, che costituisce la sintesi della sua esperienza dell'incontro con la Parola di Dio e che proprio per la sua veracità è stata innumerevoli volte rivissuta nei secoli: «Le parole di Dio crescono insieme con chi le legge». E ha spiegato: «Nella misura in cui uno progredisce personalmente, nella stessa misura la Scrittura progredisce con lui». E cioè: quanto più si offre ascolto ed accoglienza alla Parola divina, tanto più essa apre orizzonti alla vita del cristiano e della Chiesa. Detto con le parole d'un teologo medievale: la Parola di Dio farà «sorgere su di noi il luminoso mattino in cui Dio viene a farci visita» (Goffredo di Admont). Come sempre è avvenuto nella storia, è infatti nella Parola divina che si costituisce la Chiesa e si edifica il popolo cristiano.

P. Mario Masini, dei Servi di Maria, è uno degli autori più impegnati nel campo della lectio divina, il metodo di meditazione della Scrittura sviluppatosi nel mondo .onastico: Di lui le Edizioni San Paolo hanno pubblicato due opere: Lectio divina, preghiera antica e nuova e - opera più sostanziosa - La lectio divina. Teologia, spiritualità, metodo. Le Edizioni Paoline, a loro volta, hanno pubblicato: Maria, lo Spirito e la Parola. Lectio divina dei testi mariani.


Caterina63
00lunedì 21 febbraio 2011 16:27

Le donne con il velo in chiesa


da Cordialiter:

Il vecchio Codice di Diritto Canonico del 1917 prescriveva che le donne in chiesa avessero il capo coperto, soprattutto al momento della Comunione.

Invece, il Codice attualmente in vigore non prescrive nulla al riguardo, pertanto le donne non sono più obbligate ad indossare il velo. Tuttavia, questa antica e venerabile usanza rimane una pratica conveniente, soprattutto quando una donna partecipa alla Messa tradizionale.

L'usanza di indossare il velo in chiesa derivava da quanto venne disposto in proposito da San Paolo Apostolo, o meglio dallo Spirito Santo per mezzo di San Paolo. Ci sono vari motivi che inducono ad auspicare il ripristino dell'uso del velo. Uno di questi è che il capo coperto rappresenta un segno naturale di umiltà.

Oggi molte donne vanno in giro vestite in maniera indecente, con minigonne o altri abiti provocanti e scandalosi che causano una miriade di peccati mortali. Al contrario, vedere in chiesa una donna vestita con abiti modesti e col capo coperto, è edificante quasi quanto una predica sul decoro dell'abbigliamento cristiano.

Alle lettrici del blog mi permetto di chiedere umilmente di ricominciare ad utilizzare un velo, o un foulard sul capo, quando vanno alla Messa tridentina.






 Confesso che in passato, essendomi stato insegnato da bambina di portare il velo, lentamente mi si arrivò perfino a VIETARMELO, accusandomi di volermi "far vedere", di voler primeggiare... e come una sciocca lo tolsi adeguandomi alla mentalità modernista....

Ma restando pur sempre con un certo grado di disagio, ringraziando Benedetto XVI con il suo Summorum Pontificum, tornai a rimettere il velo per la Messa antica, ed oggi lo porto anche se mi capita la Messa moderna....
 
Ho compreso che se può davvero essere tacciato di quel "farsi vedere o primeggiare" e allora che sia, che sia un primeggiare per rendere TESTIMONIANZA AL DIO CHE HO DAVANTI SOTTO I VELI DELL'EUCARESTIA ed io sia di testimonianza con il velo dell'umiltà...  solo così ho compreso davvero quanto ora fossi tornata ad essere veramente LIBERA


Un grazie a Cordialiter per questo consiglio prezioso!

Caterina63
00giovedì 24 febbraio 2011 12:51

Le donne che frequentano la chiesa sono più felici


Mostrano anche maggiore immunità agli eventi negativi


ARLINGTON (Virginia, Stati Uniti), mercoledì, 23 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Uno studio recente mostra che le donne che frequentano regolarmente la chiesa sono più immuni agli alti e bassi della vita, e in generale sono più felici.

Alexander Ross, dell'Istituto per le Scienze Psicologiche, è l'autore dell'inchiesta, che si è concentrata sulla felicità decrescente delle donne americane negli ultimi 36 anni.

Ross ha scoperto che la frequentazione della chiesa è un fattore significativo nella felicità delle donne. Si è infatti constatato che una flessione di questa frequentazione nel periodo che va dal 1972 al 2008 ha avuto effetti diretti sulla felicità delle donne coinvolte nello studio.

“Il calo della frequentazione nel tempo, un comportamento associato a una minore felicità generale, spiega in parte il declino della felicità delle donne”, ha sottolineato Ross.

Cambiamenti nella società

Allo stesso modo, le donne che hanno riferito di frequentare regolarmente la chiesa sembrano più immuni agli elementi che hanno provocato il declino generale della felicità.

“Se si presuppone che i cambiamenti che la nostra società ha sperimentato negli ultimi decenni abbiano avuto un impatto negativo sulla felicità delle donne”, ha osservato Ross, “l'analisi sostiene la conclusione che le donne che frequentano la chiesa sono state meno sensibili a questo impatto”.

Lo studio, pubblicato nel volume più recente dell'Interdisciplinary Journal of Research on Religion, ha sottolineato un calo della frequentazione della chiesa anche da parte degli uomini nello stesso periodo, ma a ciò non è corrisposto un significativo declino della felicità maschile.

Ross ha spiegato che ciò potrebbe essere dovuto al fatto che le donne hanno modificato le loro abitudini relative alla frequentazione della chiesa nel corso degli anni in modo più drastico rispetto agli uomini. Il declino della frequentazione femminile è inoltre più consistente di quello della frequentazione maschile.

L'esperto ha anche sottolineato che “nonostante le aspettative di ruolo per uomini e donne siano cambiate negli ultimi decenni, si potrebbe dire che sono cambiate in modo più radicale per le donne”.

“Nel contesto di un maggiore senso di disgregazione sociale, forse le donne hanno beneficiato più degli uomini dell'influenza stabilizzatrice di una frequentazione regolare della chiesa”.

“Sant'Agostino non sarebbe sorpreso di ciò che abbiamo scoperto, perché insegnava che il bene più grande per l'umanità è Dio”, ha concluso Ross.

Caterina63
00sabato 11 agosto 2012 16:57

Paolo apostolo e le donne nella Chiesa.
Febe (Rm 16,1-2) e Lidia (At 16,11-15.40)
di Don Pino Pulcinelli

Mettiamo a disposizione on-line sul nostro sito l’articolo scritto da Don Pino Pulcinelli per il sito www.bibbiaonline.it I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (18/11/2008)


Indice


Introduzione

Bisogna dire subito che il tema di questa breve ricerca non verte in generale sulla concezione della donna in Paolo apostolo – argomento che torna puntualmente alla ribalta quando si affronta quello più ampio del ruolo della donna nella vita e nel ministero della Chiesa (cliccate sul link per altri articoli sull'argomento Donne e la Chiesa) – ma si concentra sull’aspetto specifico del ruolo di collaborazione nell’evangelizzazione che alcune donne hanno avuto nella chiesa nascente di matrice paolina. Quindi non “Paolo e la donna”, ma “Paolo e le donne in quanto collaboratrici nel suo ministero apostolico”.

E tuttavia i due aspetti, quello specifico e quello più generale, sono naturalmente interdipendenti, tanto che risulta indispensabile, prima di focalizzare il discorso sulle due figure che compaiono nel titolo, fornire almeno qualche elemento – necessariamente sommario - che aiuti a ricostruire il quadro storico; negli ultimi decenni questo campo della ricerca ha visto un grande approfondimento, anche grazie all’impulso dell’istanza femminista nella teologia e specificamente nell’esegesi biblica[1].

A questo riguardo Paolo può essere letto e interpretato – come di fatto è successo – in modi opposti, sia come uno dei principali detrattori del ruolo e del ministero della donna nella famiglia e nella chiesa (e pertanto, una delle cause della sua discriminazione nella società di matrice cristiana), oppure come il primo chiaro propugnatore del principio di uguaglianza tra l’uomo e la donna.
E bisogna dire che gli sforzi esegetici non sono riusciti a risolvere del tutto questa palese tensione emergente dai suoi scritti, anzi alcune volte gli studiosi si sono dovuti arrendere di fronte ad affermazioni che prese dal contesto appaiono evidentemente contraddittorie, come vedremo.

Se ci si accinge a studiare i testi che trattano del ruolo della donna nelle prime comunità cristiane, è doveroso fare subito delle precisazioni riguardo alle fonti.
Innanzitutto – con la Schüssler-Fiorenza - si deve ragionevolmente ammettere che “l’effettivo contributo delle donne al movimento missionario cristiano delle origini rimane in larga parte perduto a causa della scarsità delle nostre fonti e del loro carattere androcentrico[2].

Inoltre, se in particolare parliamo di “Paolo e le donne”, va osservato come i testi in questione, che ad una cultura moderna di uguaglianza risultano più “antipatici” nei riguardi delle donne, si trovano soprattutto nelle cosiddette lettere deuteropaoline e pastorali (Col ed Ef, 1-2 Tm e Tt)[3]. Specialmente per queste ultime andrebbe fatto un discorso a parte, in quanto evidentemente riflettono un'epoca diversa, posteriore, con gli autori che manifestano una viva preoccupazione di fronte a delle crisi di carattere dottrinale e autoritativo (cfr. le raccomandazioni a rigettare errori e a "custodire il deposito"; a rispettare le autorità familiari ed ecclesiali, ecc.). Anche la considerazione della donna risente di questo clima di apprensione, così che per favorire la pacificazione e l'ordine ecclesiale, forse in un eccesso di prudenza, si pensa di "restringere il suo campo di azione". Il dramma è che quelle frasi hanno senz'altro influito nell'interpretazione discriminante del ruolo della donna nella chiesa.

Limitando per il momento il campo ai testi paolini ormai comunemente considerati autentici (1Ts, 1-2 Cor, Fil, Fm, Gal, Rm), troviamo delle affermazioni sulle donne soltanto nella 1Cor ai capp. 7, 11 e 14 e in Gal 3,28, e comunque l’argomento non viene mai esplicitamente messo al centro della trattazione; se egli ne parla è per rispondere a domande sul matrimonio (1Cor 7), o per risolvere problemi contingenti, di carattere “disciplinare”, riguardanti cioè il comportamento delle donne nelle assemblee (1Cor 11 e 14); oppure – e qui abbiamo un brano che si staglia su tutti gli altri (Gal 3,28) - per esprimere le sovvertitrici conseguenze del battesimo che realizza l’unità in Cristo conferendo una stessa dignità alle persone, al di là delle differenze etniche (giudei e greci), sociali (schiavi e liberi) e sessuali (uomini e donne).
In altre due lettere, Fil e Rm, nelle sezioni finali, al momento delle raccomandazioni e dei saluti, Paolo nomina alcune donne per nome, attribuendo loro interessanti qualifiche, su cui sarà utile soffermarsi in vista del nostro tema specifico, a proposito cioè del loro ministero di collaboratrici nell’evangelizzazione.

Già da queste premesse si può comprendere come risulti difficile, se non impossibile, partendo da questi brani arrivare a delineare con sufficiente precisione ciò che Paolo stesso non aveva intenzione di fare in tali scritti, e cioè la presentazione del suo “pensiero sulle donne”. Ciò non significa però che non valga la pena vagliare e valorizzare tutti gli elementi presenti; anzi, proprio dal loro studio, soprattutto se inquadrato nella ricostruzione dell’ambiente storico-culturale delle origini cristiane, emerge la ricchezza e la novità di alcune intuizioni dell’apostolo.

Sempre riguardo alle fonti, un discorso a parte dovrà essere fatto per la particolare opera storiografica costituita dagli Atti degli Apostoli, dove troveremo il racconto dell’episodio riguardante Lidia.

Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-35[4]; e in Gal 3,28

Negli scritti sicuramente autentici di Paolo i brani che fanno più problema, specialmente se accostati tra loro, si trovano nella stessa lettera, la 1Cor. Il primo è quello in cui egli tratta dell’acconciatura delle donne nelle riunioni di preghiera (11,2-16), il secondo è quello in cui ordina alle donne di tacere nell’assemblea (14,33b-35)[5].

Per il brano di 1Cor 11,2-16, conosciuto soprattutto con il titolo tradizionale “il velo delle donne”[6], la difficoltà maggiore è data soprattutto dal v. 10, una vera crux interpretum: δια τουτο οφειλει η γυνη εξουσιαν εχει επι της κεφαλης δια τους αγγελους; letteralmente: “per questo la donna è tenuta ad avere un’exousia (potere, autorità) sul capo a causa degli angeli”[7].

Tra le numerose ipotesi interpretative, che non ci mettiamo ora ad elencare e valutare[8], una delle più convincenti è quella in cui “εξουσιαν εχειν” viene tradotto con “avere sotto controllo”, e il resto va inteso in questo senso: “per questo (quando la donna profetizza – cf. v. 5) deve avere sotto controllo la sua acconciatura”; cioè le donne quando fanno interventi pubblici nella comunità (profetizzano o pregano in assemblea) devono tenere un abbigliamento e un’acconciatura decorosa, in particolare devono coprirsi la testa[9]. Questa indicazione di Paolo non avrebbe soltanto l’intenzione di regolare il modo di comportarsi (e di abbigliarsi) delle donne, ma soprattutto di contrastare un tentativo di annullare quelle differenziazioni sessuali – di cui la capigliatura è manifestazione tra le più immediate - insite nella natura stessa; in un ambiente di facili costumi come quello della città di Corinto (in cui era diffusa anche l’omosessualità), quest’uso poteva favorire una certa indistinzione e promiscuità, con gravi e prevedibili conseguenze, sia sul versante morale che su quello della testimonianza.

È per questo, molto probabilmente, che Paolo richiede che la donna che profetizza non deve perdere ciò che per la cultura del tempo rappresenta un contrassegno forte di femminilità. Ma richiedendo questo, allo stesso tempo egli ammette chiaramente che la donna possa parlare pubblicamente nell'assemblea (cf. v. 4); ciò è da tenere presente, quando si va ad interpretare nel capitolo 14 la celebre frase: αι γυναικες εν ταις εκκλησιαις σιγατωσαν; “le donne nelle assemblee tacciano” (14,34; rafforzato subito appresso con: ου γαρ επιτρεπεται αυταις λαλειν; “infatti non è permesso loro di parlare”; e al v. 35: ισχρον γαρ εστιν γυναικι λαλειν εν εκκλησια; “è infatti vergognoso per una donna parlare nell’assemblea”). Come risolvere il problema?

Il fatto che alcuni codici antichi pongono i vv. 34-35 dopo il v. 40 (nessuno però li omette) è segno che hanno creato delle difficoltà nei lettori (e nei copisti). Non è però sufficiente questo indizio per dedurre un’interpolazione post paolina. Accettando questa ipotesi, essa naturalmente risolverebbe il problema alla radice e scagionerebbe di fatto l’apostolo da due grandi accuse: da una parte dall’incoerenza con se stesso (per quanto scritto poco prima al cap. 11) e dall’altra da una disdicevole coerenza con la mentalità corrente sia nel mondo giudaico che in quello ellenistico-romano, decisamente discriminante nei confronti delle donne[10].

Una soluzione da non scartare a priori è quella che sottolinea la diversità di soggetti o di tipo di discorso tra i due brani[11]. In 1Cor 11 si tratterebbe di un parlare orante e profetico (προσευχομενη η προφητευουσα) delle donne, in 1Cor 14 Paolo rimprovererebbe un parlare (λαλειν) disordinato e confusionario che reca disturbo all’assemblea e non la edifica. D’altra parte la stessa ingiunzione a tacere Paolo la usa nei confronti del glossologo se nell’assemblea non c’è chi possa interpretare il suo parlare in lingue con il Signore (14,28).

Un’altra ipotesi che va prendendo piede negli ultimi vent’anni è quella che in questi versetti problematici vede la citazione di uno o più slogan diffusi da chi nella comunità era ostile alla partecipazione attiva delle donne (gruppo che Paolo dunque non appoggerebbe)[12]. Senza escludere questa che è ritenuta da numerosi studiosi la migliore ipotesi, bisogna dire però che non c’è traccia, né nella grammatica e nemmeno nella sintassi, dell’inizio di un discorso diretto.

Alla fine del suo lungo e approfondito studio su questo brano, così conclude Biguzzi: “Tutto quello che nei secoli si è tentato di dire riguardo a 1Cor 14,33b-35 sembra insoddisfacente” (p. 153).

Qui più che mai vale allora il principio generale che occorre far attenzione a non isolare un testo, tanto più bisogna guardarsi dall’assolutizzarlo e poi identificare il pensiero di chi l’ha scritto con quel testo lì. Quindi è sicuramente sbagliato – oltre che improprio dal punto di vista metodologico e contenutistico – prendere questo testo (mulieres in ecclesiis taceant) per riassumere il pensiero di Paolo sulle donne.

Se si volesse per forza sceglierne uno che esprima i principi ispiratori, al di là di questioni disciplinari contingenti, allora non c’è dubbio che occorra riferirsi a Gal 3,28 [in un contesto in cui si parla dell’essere “figli di Dio” proprio dei battezzati, rivestiti di Cristo e appartenenti a lui, cf. 3,26-29][13]:

ουκ ενι Ιουδαιος ουδε Ελλην
Non c'è giudeo né greco;

ουκ ενι δουλος ουδε ελευθερος
non c'è schiavo né libero

ουκ ενι αρσεν και θηλυ
non c'è maschio e femmina

παντες γαρ υμεις εις εστε εν Χριστω Ιησου
tutti voi infatti uno siete in Cristo Gesù.

In questo che è probabilmente un testo o inno battesimale diffuso presso le prime comunità cristiane[14], ci sono tre binomi formati da opposti che trovano in Cristo il proprio superamento: c’è la dicotomia che è insieme etnica, culturale e religiosa: giudeo / greco; quella sociale-classista: schiavo / libero; e infine la dicotomia sessuale maschio / femmina; da notare che la scelta di usare i due neutri αρσεν και θηλυ, cioè maschio e femmina, invece che uomo / donna sembrerebbe addirittura voler annullare la differenza che è insita nella natura stessa[15]. In realtà dal contesto si evince che questo binomio vuolesoprattutto sottolineare come l’essere in Cristo (attraverso la fede e il battesimo) è ora il criterio nuovo che informa i rapporti interpersonali e conferisce uguale dignità alle persone, indipendentemente da tutti i condizionamenti, anche quelli sessuali.

Queste categorie, assieme a quelle espresse dai primi due binomi, non possono più avere un influsso discriminante sulla persona[16]. L’affermazione di Gal 3,28 è dunque molto forte, e il principio del superamento delle discriminazioni che viene propugnato costituisce indubbiamente uno dei fondamenti essenziali del cristianesimo: da questo punto non si può più tornare indietro[17].

È interessante infine confrontare l’affermazione di Gal 3,28 con il testo di 1Cor 7: infatti lì – mentre si sta trattando dello status in cui si viene chiamati - si ritrovano chiari elementi dello stesso triplice binomio: il “circonciso/incirconciso” del v. 18 (περιτετμηνος τις εκληθη μη επισπασθω εν ακροβυστια κεκληται τις μη περιτεμνεσθω) corrisponde a giudeo/greco; l’altra esatta corrispondenza l’abbiamo nei termini schiavo/libero dei vv. 21-22; l’ultimo binomio, “non c’è più né uomo né donna”, non compare tale e quale, ma a ben vedere è presente a più riprese in tutto il capitolo, quando Paolo – in modo sorprendente e innovativo rispetto alla cultura circostante – non fa altro che applicare a casi concreti proprio quel principio di uguaglianza e di reciprocità tra l’uomo e la donna (più specificamente, moglie/marito)[18] espresso a chiare lettere in Gal 3,28[19]. In questo senso si può affermare che Paolo con Gal 3,28 non rimane a livello di teoria, ma viene da lui stesso messo in pratica nel disciplinare la vita della comunità.

Un'altra osservazione – che malgrado la sua ovvietà conviene ribadire – è quella che in casi come questi va considerato il condizionamento storico e culturale di tali pronunciamenti in campo disciplinare: essi sono stati scritti in occasione di vicende contingenti e circoscritte a quel particolare periodo storico della chiesa e non vanno perciò indiscriminatamente considerati normativi per la chiesa di oggi (e quando purtroppo lo si è fatto non è stato certamente un bene per la chiesa); non siamo infatti di fronte a principi dottrinali generali, la cui validità si estenderebbe a tutte le epoche, ma a indicazioni fortemente influenzate dalle situazioni e problemi concreti di determinate comunità paoline.

Da questa base di partenza è praticamente impossibile affermare che Paolo in via di principio chieda che le donne tacciano nell’assemblea; ogni seria ricostruzione della condizione della donna nelle prime comunità cristiane di matrice paolina non può non tenerne conto.

Infine, un argomento molto importante, difficilmente conciliabile con il mulieres in ecclesiis taceant è la prassi stessa di Paolo che emerge sia dalle lettere che dagli Atti degli Apostoli, e qui arriviamo al nostro tema specifico.





[SM=g1740771]  continua........

Caterina63
00sabato 11 agosto 2012 16:58

Le collaboratrici nell’apostolato

Le lettere autentiche di Paolo contengono – specialmente nella loro parte finale – numerosi accenni a persone menzionate con il loro nome, spesso accompagnati da brevi titoli e osservazioni, che studiati singolarmente e nel loro contesto, si sono rivelati preziosi per ricostruire il quadro della situazione storica delle prime comunità cristiane, e in particolare il ruolo delle donne nel ministero apostolico.

Ad esempio, nella lettera ai Filippesi Paolo nomina due donne, Evodia e Sintiche, esortandole ad essere concordi nel Signore (4,2: παρακαλω το αυτο φρονειν εν κυριω), e prega un suo fedele compagno di aiutarle (a riconciliarsi), poiché esse hanno combattuto per il vangelo insieme con lui (αιτινες εν τω ευαγγελιω συνηθλησαν μοι), al pari di altri collaboratori (συνεργων) tra cui Clemente: “i loro nomi sono scritti nel libro della vita” (4,3).

Per queste donne l’aver lottato insieme all’apostolo per la diffusione del vangelo comporta in qualche modo l’aver esercitato almeno in parte lo stesso ministero dell’apostolo; inoltre le espressioni di ammirazione e il fatto che praticamente sono le uniche persone ad esser nominate – oltre a Clemente che è probabilmente un componente di quella chiesa – portano a dedurre che esse devono aver avuto un ruolo di primo piano nella conduzione di quella comunità[20]. Qualcosa di simile si può supporre anche di Cloe (1Cor 1,11) e soprattutto della "sorella Apfia" (Απφια τη αδελφη), unico caso di una donna esplicitamente citata da Paolo tra i destinatari di una sua lettera, subito dopo la menzione di Filemone e prima di Archippo (Fm 2)[21].

Ma è soprattutto nel capitolo conclusivo della lettera ai Romani che abbondano i riferimenti a donne collaboratrici nell’apostolato, a cui Paolo rivolge saluti e apprezzamenti[22].
Vediamoli in sintesi:

In Rm 16,1-16 Paolo nomina ventinove persone, riportando il nome di ventisette di loro, tra cui otto donne (più due senza nome, la madre di Rufo e la sorella di Nereo; vv. 13.15)[23].
La prima menzionata è Febe, detta “nostra sorella, che è diacono della chiesa di Cencre… patrona (προστατις) di molti e anche di me stesso” (vv. 1-2). La vedremo a parte.
Al v. 3 dice di salutare Prisca ed Aquila (suo marito). Prisca (o Priscilla), è identificata come collaboratrice (συνεργος)[24];
al v. 6 saluta Maria “che si è data molto da fare per voi” (πολλα εκοπιασεν εις υμας);
al v. 7 chiede di salutare “Andronico e Giunia… eccellenti tra gli apostoli” (εισιν επισημοι εν τοις αποστολοις). Giunia non è un uomo come molti commentatori – specialmente nel passato – hanno sostenuto, bensì una donna[25], di loro Paolo afferma che sono suoi parenti, e diventati discepoli di Cristo prima di lui (προ εμου γεγοναν εν Χριστω).
Al v. 12 dice di salutare Trifena e Trifosa, due donne che “si danno da fare per il Signore” (τας κοπιωσας εν κυριω); e “la carissima Perside”, anch’essa “si dà molto da fare per il Signore” (πολλα εκοπιασεν εν κυριω).
Al v. 13 saluta la madre di Rufo che è stata anche per Paolo una madre.
Al v. 15 si nomina infine Giulia e la sorella di Nereo.

Se si va a fare il conto di tutte le persone menzionate in 16,1-16, le donne sono circa un terzo degli uomini, e tuttavia le cose che si dicono di loro sono talmente rilevanti da far intravedere un loro ruolo di primo piano nelle prime comunità cristiane (e non solo in quelle di matrice paolina, in quanto sappiamo che Paolo scrive ad una comunità non fondata da lui), in quanto collaboratrici nel ministero apostolico di Paolo, o in generale in quanto “si sono date da fare per il Signore”[26].

Rm 16 dunque, come ha affermato un commentatore, può davvero essere intesa come “la più gloriosa attestazione di onore per l’apostolato della donna nella chiesa primitiva”[27].

Febe (Rm 16,1-2)[28]: sorella nella fede, diacono e patrona

Per quanto riguarda Febe, ci fermiamo ad analizzare il testo più da vicino:

1Vi raccomando (συνιστημι) Febe nostra sorella (αδελφην),
che è anche diacono (διακονον) della chiesa che è a Cencre,
2affinché la accogliate nel Signore in maniera degna dei santi
e l’assistiate nelle cose di cui può aver bisogno.
Poiché anche lei è stata patrona (προστατις) di molti e anche di me stesso.

Paolo inizia la sezione finale della lettera ai Romani raccomandando Febe[29] a quella comunità. Si tratta di una donna di Cencre - una delle due località portuali presso Corinto, situata nella parte orientale dell’istmo[30] (sul lato occidentale c’era l’altro porto, quello di Lecheo) – e il fatto che viene nominata per prima fa ritenere che fosse lei l’incaricata di recapitare la lettera stessa[31]. In realtà non conosciamo il motivo del suo viaggio a Roma; alcuni commentatori suppongono che abbia avuto da sistemare alcuni affari legati al suo lavoro[32].

Il verbo tipicamente paolino συνιστημι (raccomandare, dimostrare, consistere, esistere) è usato anche altrove per presentare e raccomandare un amico ad un altro[33].

Le credenziali di questa donna presentata da Paolo contengono tre titoli:
αδελφη/διακονος/προστατις.
Per quanto riguarda il primo, mentre il maschile “fratello” (αδελφος), quale appellativo di membri della stesso gruppo religioso, non è una caratteristica specifica cristiana, sembra invece che lo sia l’uso di sorella (αδελφη)[34]. Inoltre, il pronome possessivo “nostra” (ημων) è un’attestazione del fatto che era già comune il concetto di comunione e quindi di universalismo tra membri di chiese sparse nelle varie parti del mondo.

Febe è un diacono della chiesa di Cencre. Questo secondo titolo (διακονος) è stato oggetto di molte discussioni[35]. Innanzitutto si tratta di un sostantivo che serve invariato sia al maschile che al femminile (perciò non è pienamente corretto tradurlo con “diaconessa”, come fanno alcune Bibbie); inoltre occorre evitare l’anacronismo di attribuire a questo termine il significato che “diaconessa” assumerà nei secoli successivi[36].

Nel nostro caso non è nemmeno sufficiente pensare ad un generico “servizio” (si sarebbe probabilmente usato il verbo “διακονεω”, come in Rm 15,25; o le si sarebbe attribuita una generica “διακονια”, come in 1Cor 16,15), invece bisogna tener presente che con questo termine Paolo solitamente designa se stesso o i suoi collaboratori nell’esercizio del ministero apostolico (cf. ad es.: 1Cor 3,5; 2Cor 3,1-11; Fil 1,1; cf. Rm 15,8: Cristo diacono dei circoncisi)[37]; e come per quelle ricorrenze si traduce nella maggior parte dei casi con “ministro”- a cui è legato un ruolo di responsabilità e autorità nella chiesa - anche qui coerentemente andrebbe tradotto e compreso allo stesso modo[38].

Naturalmente occorre tener presente che a quel tempo il ruolo e i compiti di tipo ministeriale-gerarchico abbinati ai singoli titoli sono in piena evoluzione e non hanno ancora raggiunto una sufficiente comune comprensione (una prima istituzionalizzazione la si fa normalmente risalire al tempo delle lettere pastorali; cf. 1Tm 3,1s; Tt 1,5s)[39]; quindi anche la portata di quel ministero designato attraverso la connotazione di diacono, in ogni caso dipendeva dai contesti locali e dalle necessità delle singole chiese[40].
Comunque sia, Febe rimane la prima donna diacono di cui si viene a conoscenza nella storia del cristianesimo.

L’ultimo titolo è un hapax del NT: προστατις è un deverbale da προιστημι, che al transitivo significa “porre come patrono, capo”; all’intransitivo, “porsi davanti (come difensore)”; nelle due ricorrenze paoline il verbo al participio (προισταμενος) indica senz’altro il ruolo di guida e presidenza (cf. Rm 12,8; 1Ts 5,12). Ma vediamo più in particolare:
l’equivalente maschile è προστατης, ben attestato nella letteratura ellenistica[41], per il ruolo di persona benestante e influente, protettore legale, patrono e leader di gruppi religiosi. Per il femminile, le meno numerose attestazioni in papiri e iscrizioni (del secondo e terzo secolo), lasciano intendere lo stesso significato del maschile[42]. Nel nostro caso bisogna intendere dunque il senso di “donna posta sopra altri”, e normalmente andrebbe tradotto con “protettrice, patrona” o, in traduzione più moderna, “presidente”[43].
Occorre inoltre tener presente che, al contrario di quando si riteneva nel passato, il ritrovamento e lo studio recente di papiri e iscrizioni, fa registrare una discreta presenza di donne che detenevano ruoli da leader anche in gruppi religiosi[44].

Ora il fatto che Paolo affermi che Febe è stata patrona di molti e anche di lui stesso, lascia supporre che ella fosse benestante e altolocata socialmente. Probabilmente la sua casa era adatta ad ospitare la comunità cristiana di Cencre, della quale in quanto diacono era anche una leader. Inoltre nella sua generosità non mancava di offrire ospitalità e protezione ai missionari itineranti, come Paolo e collaboratori. Ciò che Paolo chiede dunque ai romani in termini di accoglienza e assistenza nei riguardi di Febe (16,2: ινα αυτην προσδεξησθε εν κυριω αξιως των αγιων και παραστητε αυτη εν ω αν υμων χρηζη πραγματι: “che l’accogliate nel Signore in maniera degna dei santi e l’assistiate nelle cose di cui può aver bisogno”) in qualche modo deve riflettere ciò che anche lei ha fatto (και γαρ αυτη προστατις πολλων εγενθη) nei confronti di fratelli e sorelle in Cristo, sia quelli appartenenti a quella comunità locale, che quelli di fuori che si trovavano a passare nella sua casa.

Insomma, i romani, nel ricevere e leggere la lettera di Paolo a loro destinata, si trovavano in presenza di una donna (probabilmente latrice dello scritto) di grande prestigio umano e cristiano, sorella nella fede, ministro della sua comunità di Cencre, benefattrice generosa e patrona per chiunque dei fratelli si fosse trovato a passare nella sua casa.




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Caterina63
00sabato 11 agosto 2012 17:00

Lidia (At 16, 11-15.40)[45]: il Signore le apre il cuore e lei apre la sua casa alla comunità

Lidia può ben essere un altro esempio di protettrice/patrona, anche se forse non così influente come Febe. Anche lei, ha accolto Paolo e i suoi collaboratori nella sua casa.
Ma prima di esaminare più da vicino il testo, è necessario spendere qualche parola sulla natura del libro che contiene l’episodio del suo incontro con Paolo, gli Atti degli Apostoli.

Sappiamo che l’autore – tradizionalmente identificato con il Luca collaboratore di Paolo (cf. Col 4,14; 2Tm 4,11; Fm 1,24) – ha concepito la sua opera in due parti: Vangelo e Atti; con il libro degli Atti ha l’intento di mostrare la continuità della storia della salvezza che, iniziata con il popolo d’Israele, ha avuto culmine in Gesù, centro del tempo (il Vangelo), e che ora continua nella chiesa per opera dello Spirito santo (Atti). Egli, come premette nel prologo al vangelo, è deciso a offrire un’opera fondata su ricerche accurate (Lc 1,3: παρηκολουθηκοτι ανωθεν πασιν ακριβως καθεζης “avendo indagato con acribia ogni cosa con ordine”), quindi su fatti reali di cui è venuto a conoscenza.

Arrivare a dire però, date queste premesse, che siamo di fronte ad un libro “storico” nel senso che diamo noi oggi correntemente a questo termine, sarebbe fuori della concezione che a quel tempo avevano della storia. L’autore degli Atti – pur basandosi nel complesso su fatti realmente accaduti e tramandati sia per iscritto che oralmente – rilegge questi avvenimenti in una prospettiva teologica: essendo il libro rivolto principalmente a chi è già credente, per rafforzare la sua fede, descrive l’opera dello Spirito santo nel tempo della chiesa, nella sua diffusione “fino agli estremi confini della terra” (cf. 1,8).

Per quando riguarda il nostro caso, nel racconto della prassi missionaria di Paolo, in fin dei conti è soprattutto il punto di vista lucano ad emergere e non tanto quello paolino[46].
E qui va accennato al recente cambiamento di opinione di alcuni studiosi su Luca come l’“evangelista dalla parte delle donne”, opinione altrimenti comune per essere tra gli scrittori sacri colui che dà più spazio alle figure femminili nella chiesa nascente, anche in contrasto con la mentalità dell’epoca; in realtà egli – pur attribuendo loro un ruolo fondamentale nella storia della salvezza (basta pensare ai brani mariani) – tenderebbe ad escluderle da ruoli di responsabilità e di direzione della comunità cristiana[47].

Di queste prospettive – oltre che dalla distanza temporale (almeno una generazione) che separa la stesura degli Atti dalle lettere paoline - occorre tenere conto nell’utilizzare gli Atti come fonte “storica” per la conoscenza di Paolo e della sua attività missionaria, anche in rapporto alle donne.

Scorrendo il cap. 16 – dove troviamo l’episodio di Lidia – abbiamo un saggio di come Luca
rilegge gli avvenimenti in una prospettiva teologica.
Ci troviamo nel cosiddetto “secondo viaggio missionario di Paolo” (in realtà è il primo che compie come “capo missione”), con lui si trova Sila (15,40); insieme hanno l’intento di andare a trovare i fratelli nelle città dove era già stata predicata la Parola (cf. 15,36); così da Antiochia attraversano la Siria e la Cilicia; a Listra prendono con sé Timoteo e attraversano la Frigia e la Galazia; di qui vogliono dirigersi verso la Bitinia, ma “lo Spirito non lo permise loro” (16,7); trovandosi nel porto di Troade, “durante la notte apparve a Paolo una visione” (16,9): un uomo macedone (ανηρ Μακεδων) che lo supplicava di andare da loro in Macedonia ad aiutarli. Il narratore conclude: “Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore”; per lui il macedone era Dio, o meglio, Dio si era servito di questa visione per manifestare la sua chiamata. Al di là di come sono andate concretamente le cose, si vuole dire che Paolo andò in Macedonia sulla base di una chiamata di Dio, spinto dallo Spirito missionario.

A parte questo, va notato che proprio in questo brano la redazione passa bruscamente alla prima persona plurale: “subito cercammo” (16,10). È la prima delle tre cosiddette “sezioni noi” degli Atti (la seconda, in 20,5-15 + 21,1-18; la terza da 27,1 fino a 28,16) nelle quali il lettore non è messo in grado di identificare colui che ora si esprime includendosi nella narrazione.
Senza entrare nella complessa questione[48], possiamo limitarci a dire che, a differenza dall’autore del resto del libro, che si serve di questa sorta di “diari di viaggio”, probabilmente l’autore di queste sezioni è un testimone oculare accompagnatore di Paolo. Accettando invece l’ipotesi tradizionale – per la quale è lo stesso Luca a scrivere anche queste sezioni, magari utilizzando appunti scritti a quel tempo – bisognerebbe ammettere che a quel punto del viaggio, salpando da Troade verso la Macedonia (si passa dunque dall’Asia all’Europa), ai tre (Paolo, Sila e Timoteo) si era aggiunto anche Luca.

Ecco allora gli antefatti dell’incontro con Lidia. Passando per la Samotracia e Neapoli, il gruppo missionario giunge a Filippi, colonia romana[49]. Dopo alcuni giorni – dice il narratore (16,13a) – “di sabato uscimmo fuori della porta [della città], lungo il fiume, dove ritenevamo fosse la preghiera” (τη τε ημερα των σαββατων εξηλθομεν εξω της πυλης παρα ποταμον ου ενομιζομεν προσευχην ειναι).

Già questi elementi indicano che nella città romana c’erano dei giudei o dei seguaci della religione giudaica (simpatizzanti, proseliti e timorati di Dio)[50]; e il fatto che cercassero un luogo un po’ in disparte dove fare la preghiera di sabato (vicino al fiume – il piccolo Gangite, a un paio di Km a ovest della città - probabilmente l’acqua serviva per il rituale delle abluzioni), lascia intendere che non c’era una sinagoga nella città[51]. Per metonimia, προσευχη (preghiera) può indicare anche il luogo dove si svolgeva l’incontro di preghiera (cf. 16,16). Flavio Giuseppe annota che un decreto di Alicarnasso autorizzava i giudei a “fare le loro preghiere (προσευχας) sulla riva del mare, secondo l’uso dei loro padri” (Ant. XIV 10,23)[52].

V. 13b: “Ci mettemmo a sedere e parlammo alle donne che vi erano radunate” (και καθισαντες ελαλουμεν ταις συνελθουσαις γυναιξιν). L’uso del verbo συνερχομαι (“convenire”, radunarsi) mette in evidenza che non si tratta di un incontro casuale, ma un convenire deliberato e comunitario (cf. Lc 5,15; At 2,6.11; 10,45; 1Cor 11,17-34; ecc.): queste donne si sono raccolte in assemblea per fare la preghiera, probabilmente hanno preso da sole l’iniziativa, senza il concorso di uomini (fatto unico in tutto il NT).
Ciò che è casuale è l’incontro con Paolo e i suoi compagni.

Le azioni del sedersi e iniziare a parlare (καθιζω e λαλεω), sono tipiche giudaiche del modo di comunicare un insegnamento, sia nelle sinagoghe che all’aperto (cf. Lc 4,20-21; 5,3; At 13,14-15; Mt 5,1-2; ecc.); l’essere radunati in un luogo con un intento religioso, seduti e parlare indica dunque un contesto di insegnamento, di interpretazione e di predicazione della Scrittura[53]. L’imperfetto segnala un’azione continuativa e ripetuta, il plurale “parlavamo” indica che non è Paolo soltanto a prendere la parola, ma anche i suoi compagni; e c’è da immaginarsi che le donne non siano rimaste sempre in silenzio (come avrebbero potuto Paolo e compagni infatti rendersi conto che esse comprendevano la loro lingua e che erano interessate a quell’insegnamento?).

Il v. 14a ci presenta la figura principale della scena: “E una donna di nome Lidia, commerciante di porpora della città di Tiatira, timorata di Dio, stava ad ascoltare” (και τις γυνη ονοματι Λυδια πορφυροπωλις πολεως Θυατειρων σεβομενη τον θεον ηκουεν).
Il nome Lidia originariamente designava un abitante della regione omonima (colonia della Macedonia), ma almeno a partire da Orazio (Odi I, 8, 1) era già un nome proprio di persona. La donna era di Tiatira, città rinomata per la produzione della tinta di porpora. Il fatto che fosse venditrice (e forse anche fabbricante) “fuori piazza” di questo prezioso prodotto (che amavano sfoggiare nelle corti e tra le famiglie benestanti, cf. Lc 16,19), induce a pensare che Lidia sia stata una donna indipendente economicamente, con delle persone alle sue dipendenze e capace di gestire bene l’impresa commerciale.

Essa era una “timorata [o adoratrice] di Dio” (σεβομενη τον θεον). Di per sé l’espressione indica chi è devoto di Dio in senso generico; ma negli Atti indica sempre chi tra i pagani – uomo o donna – è seguace della religione dei giudei e orbita intorno alla sinagoga (i “proseliti” erano invece coloro che, provenendo dal paganesimo, erano divenuti pienamente giudei accettando la circoncisione). Secondo la narrazione degli Atti, è tra questi “timorati di Dio” che la predicazione di Paolo riscosse il maggior successo (At 13,43; 16;14; 17,4.17; 18,7; unica ricorrenza in cui si rivelano ostili a Paolo: At 13,50). A Tiatira c’era probabilmente un insediamento di giudei; è possibile che Lidia abbia conosciuto lì la religione giudaica e vi abbia aderito, divenendo così “adoratrice di Dio [dell’unico]”. Rimane ugualmente a livello di congettura se le donne che erano con lei al fiume per la preghiera fossero giudee o simpatizzanti come lei (e forse anche sue dipendenti nell’impresa commerciale?).

Al continuativo lalèin di Paolo e compagni, fa riscontro il continuativo akouein di Lidia (imperfetto, “stava ad ascoltare”), segno della sua predisposizione ad accogliere l’annuncio cristiano.
V. 14b: “Il Signore le aprì il cuore per accogliere le cose dette da Paolo” (ης ο κυριος διηνοιξεν την καρδιαν προσεχειν τοις λαλουμενοις υπο του Ραυλου). Ecco di nuovo la prospettiva teologica: è il Signore ad aprire il suo cuore alla predicazione di Paolo; solo il Signore è in grado di farlo; è significativo questo verbo tipicamente lucano, διανοιγω (Lc 2,23; 24,31s. 45; At 7,56; 17,3; unica altra ricorrenza: Mc 7,34), da leggere con lo stesso senso che si ritrova nell’episodio dei discepoli di Emmaus: “si aprirono (διηνοιχθησαν) i loro occhi” (Lc 24,31); “Non ardeva forse il nostro cuore quando egli, lungo la via, ci parlava e ci spiegava (διηνοιγεν) le Scritture?” (24,32); “Allora aprì loro la mente all' intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45). Specialmente quest’ultima frase sta in parallelo con la nostra:
At 16,14: ης ο κυριος διηνοιξεν την καρδιαν προσεχειν τοις λαλουμενοις υπο του Ραυλου
Lc 24,45: αυτων διηνοιχθην τον νουν του συνιεναι τας γραφας
In entrambi i casi è il Signore ad agire, egli apre il cuore o la mente[54], per accogliere le parole di Paolo o per comprendere le Scritture.

v. 15 “Dopo essere stata battezzata (lei) e la sua casa, ci invitò dicendo: «Se mi avete giudicato fedele al Signore, entrate a casa mia e restate(ci)». E ci costrinse.”
Il narratore, che risulta essere presente alla scena, a questo punto sintetizza e non aggiunge molti particolari; restano dunque aperte alcune domande: Lidia è stata battezzata subito, quel sabato lì al fiume, o ci sono state altre catechesi prima del battesimo?
Se facciamo riferimento a episodi simili (cf. il battesimo di Cornelio, cap. 10 o a quello dell’etiope eunuco, cap. 8,26-39) bisogna optare per un battesimo immediato; se così è stato, resta la difficoltà data dal fatto che insieme a lei viene battezzata “la sua casa” (di cui si deve quindi presupporre la presenza presso il fiume): con questo termine ovviamente è intesa tutta la cerchia di familiari, ma anche la servitù (se c’era) che apparteneva alla casa. Allo stesso tempo si deve dedurre che Lidia fungeva da capofamiglia (era vedova?).
Ma il narratore non ritiene importante fornire questi dettagli, a lui sta a cuore soprattutto mostrare come il Signore agisce attraverso la predicazione dei missionari per la diffusione della sua Parola “fino agli estremi confini”.

A questo punto l’adesione di fede di questa donna, riconosciuta da Paolo e collaboratori e confermata nel battesimo, trova anche una visibilità nel vissuto attraverso il gesto dell’ospitalità da lei generosamente offerta – anzi, quasi imposta ai missionari; e qui Paolo mostra di fare un'eccezione al suo principio di rinunciare al diritto di farsi mantenere dalle comunità[55].
Il verbo qui usato (παραβιαζομαι) letteralmente significa “costringere con la forza, imporre”: l’unica altra ricorrenza è significativo ritrovarla nell’episodio dei discepoli di Emmaus: “essi lo costrinsero (παρεβιασαντο), dicendo: «Resta con noi, perché si fa sera ed il sole ormai tramonta». Ed egli entrò per rimanere con loro» (Lc 24,29).
Come emerge chiaramente, ci sono diversi paralleli tra i due racconti, che permettono di rintracciare la visione teologica che pervade il progetto Vangelo-Atti: l’azione di Cristo risorto continua nell’azione dei testimoni del risorto.
Ad essi – in questo caso Paolo e collaboratori - Lidia apre le porte della sua casa, così come il Signore aveva aperto il suo cuore alle parole di Paolo.

L’uomo macedone (ανηρ Μακεδων) della visione si è rivelato in realtà… una donna! Anzi, un gruppo di donne… una casa che, grazie all’adesione di fede di Lidia, va a costituire il nucleo iniziale di una comunità gloriosa, quella dei filippesi, una comunità che più delle altre darà a Paolo gioia e collaborazione[56]. Inoltre Lidia resta la prima persona in Europa di cui veniamo a sapere che, ascoltando la predicazione dell'Apostolo, accoglie il vangelo e si fa battezzare.

Il battesimo di una donna – non in quanto moglie di qualcun’altro che si fa battezzare “con la sua casa” - è a sua volta la dimostrazione che si sono infrante le divisioni e discriminazioni che impedivano alle donne di entrare in una condizione di uguaglianza con gli uomini; il superamento della circoncisione – dagli ebrei ritenuta indispensabile per entrare a far parte del popolo dei salvati – attraverso il battesimo di tutti i credenti in Cristo, annullava non soltanto il “muro di divisione” tra giudei e non (cf. Ef 2,14), tra schiavi e liberi, ma anche quello della discriminazione in base al sesso. Difficilmente oggi possiamo immaginare l’impatto che questa “buona notizia-novità” deve aver avuto nella vita sociale e religiosa delle persone che a quel tempo abbracciarono la fede cristiana.

È valsa dunque la pena di seguire l’ispirazione divina di venire a Filippi: l’adesione alla fede di questa donna – che nell'ottica lucana ha significative analogie con i discepoli di Emmaus - la rende punto di riferimento per la nascente comunità, e la sua casa diviene chiesa domestica (16,40). La sua storia – di cui siamo venuti a conoscenza tramite il racconto degli Atti – negli intenti del narratore vuole essere anche un paradigma per tutte quelle donne che con il loro coraggio, la loro generosità e impegno missionario hanno reso possibile quella diffusione della Parola di Dio che ha fatto la chiesa.

Conclusione

Da questa breve indagine si può trarre un quadro per il quale è praticamente impossibile tacciare Paolo di misoginia o di discriminazione nei confronti della donna. I dati che riguardano la presenza e il ruolo delle donne nella chiesa delle origini, pur non essendo molto abbondanti, costituiscono una chiara attestazione dell’applicazione del principio fondamentale di uguaglianza nella dignità e nella responsabilità missionaria; questo lo si deduce non soltanto dalle affermazioni sulle donne che si trovano sparse in alcuni suoi scritti, ma soprattutto dalla sua prassi, così come emerge sia dalle lettere che dagli Atti degli Apostoli.

Rispetto all’ambiente e alle varie culture a lui contemporanee (greco-romana e giudaica) su questo punto Paolo non va annoverato tra i conservatori, ma tra gli innovatori coraggiosi: senza rischio di esagerare si può considerare Paolo il più grande araldo della nuova legge di libertà costituita dal Vangelo di Gesù Cristo, in cui è iscritto anche il paragrafo importante del pieno riconoscimento dei diritti alla donna, nella società e nella chiesa.

Un’interpretazione fondata sul pregiudizio di una mentalità maschilista e incapace di cogliere la portata liberatrice della Parola di Dio - e reiterata nel corso dei secoli - ha spinto tanti cristiani autorevoli a discriminare la donna nella famiglia e nella chiesa, causando direttamente la sua marginalizzazione nella società di matrice cristiana.

Grazie a Dio, anche il magistero ufficiale ultimamente ha iniziato a riconoscere questa responsabilità, facendone ammenda, ed invitando tutta la chiesa a cambiare mentalità:

«Non sarebbe certamente facile additare precise responsabilità, considerando la forza delle sedimentazioni culturali che, lungo i secoli, hanno plasmato mentalità e istituzioni. Ma se in questo non sono mancate, specie in determinati contesti storici, responsabilità oggettive anche in non pochi figli della Chiesa, me ne dispiaccio sinceramente. Tale rammarico si traduca per tutta la Chiesa in un impegno di rinnovata fedeltà all'ispirazione evangelica, che proprio sul tema della liberazione delle donne da ogni forma di sopruso e di dominio, ha un messaggio di perenne attualità, sgorgante dall'atteggiamento stesso di Cristo» (Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, 29 giugno 1995)[57].

Don Pino Pulcinelli - Roma 2004




[SM=g1740771]  seguono le NOTE

Caterina63
00sabato 11 agosto 2012 17:01

Note

[1] Alcune opere di riferimento in italiano:
E. Schüssler Fiorenza, In memoria di lei: Una ricostruzione femminista delle origini cristiane, Claudiana, Torino 1990 (orig. ingl. 1983); C.S. Keener, “Uomo e donna”, Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di G.F. Hawthorne; R.P. Martin; D.G. Reid; ed. ital. a cura di R. Penna, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999; pp. 1576-1592; B. Byrne, Paolo e la donna cristiana, ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1991 (orig. ingl. 1989). Per il quadro storico-sociale: E.W. Stegemann e W. Stegemann, Storia sociale del cristianesimo primitivo: Gli inizi nel giudaismo e le comunità cristiane nel mondo mediterraneo , EDB, Bologna 1998 (orig. ted. 1995); pp. 605-687.
Altri studi per approfondire:
G. Dautzenberg, “Zur Stellung der Frauen in den paulinischen Gemeinden”, in: Die Frau im Urchristentum, QD 95; ed. G. Dautzenberg et al.; Herder, Freiburg 1983, 182-224; S. Heine, Frauen der frühen Christenheit: zur historischen Kritik einer feministischen Theologie, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1986 (trad. ingl. 1987); C.S. Keener, Paul, Women and Wives: Marriage and Women's Ministry in the letters of Paul, Hendrickson, Peabody (MA) 1992; N. Baumert, Frau und Mann bei Paulus: Überwindung eines Missverständnisses, Echter, Würzburg 1992 (trad. Ingl. 1996); F.M. Gillman, Women who knew Paul, The Liturgical Press, Collegeville, MINN 1992; K.A. Gerberding, "Women Who Toil in Ministry", Cur TM 18 (1991) 285-291; P. Trebilco, "Women as Co-workers and Leaders in Paul's Letters", JCBRF 122 (1990) 27-36; J.-Y. Thériault, "La femme chrétienne dans les textes pauliniens", ScEs 37 (1985) 297-317; B. Witherington, Women in the Earliest Churches, University Press, Cambridge 1988.
Riguardo all’approccio femminista nell’esegesi biblica, cf. Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1993, pp. 59-62; “Numerosi sono i contributi positivi provenienti dall’esegesi femminista. Le donne hanno preso così una parte più attiva nella ricerca esegetica; sono riuscite a percepire, spesso meglio degli uomini, la presenza, il significato e il ruolo della donna nella Bibbia, nella storia delle origini cristiane e nella Chiesa. ... La sensibilità femminile porta a svelare e a correggere alcune interpretazioni correnti, che erano tendenziose e miravano a giustificare il dominio dell’uomo sulla donna” (p. 61).
Per una opinione ragionata sul contributo dell’esegesi femminista, cf. M. Perroni, “Lettura femminile ed ermeneutica femminista del NT; uno status quaestionis”, RivBiblIt 41 (1993) 315-339; Id., “Una valutazione dell’esegesi femminista: verso un senso critico integrale”, StPatav 43 (1996) 67-92 (dove si prende in esame soprattutto il testo di Lc 10,38-42).

[2] E. Schüssler Fiorenza, In memoria di lei, cit., p. 191-192. Sarebbero tanti gli esempi che si potrebbero portare per mostrare il punto di vista maschile-patriarcale che emerge da tante pagine della Scrittura, sia dell’AT che nel NT; basti pensare a Sir 25,12ss dove si descrive a tinte piuttosto forti la donna malvagia; o alla nota del narratore alla moltiplicazione dei pani (Gv 6,10): “Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini (ανδρες)”; oppure all’episodio dell’adultera (Gv 8,3s): perché nessuno si chiede che fine ha fatto l’adultero? E ancora, al modo di tradurre servilmente i testi sempre con il pronome maschile – singolare o plurale – quando chiaramente il senso è inclusivo (“padri”; “figli”; “fratelli”... e le madri? le figlie? le sorelle?); non dimentichiamo che gli autori umani della Bibbia sono esclusivamente di sesso maschile! E gli interpreti della Scrittura – almeno fino a qualche decennio fa - idem!

[3] Che naturalmente restano a far parte del canone neotestamentario e per molti cristiani continueranno ad essere considerate "paoline". Occorre però distinguere da questo materiale "post-paolino" i testi che hanno sicuramente Paolo come autore. In Ef e Col si trovano i testi che parlano della sottomissione della moglie al marito (Ef 5,22; Col 3,18); in 1Tm 2,11-15 si trova il testo più forte nella “limitazione di spazio” alle donne: si mette insieme silenzio e sottomissione; in vari altri brani delle Pastorali, ad esempio in 2Tm 3,6-7 si usano parole offensive per stigmatizzare certe donne con comportamento riprovevole; in Tt 2,3-5 si tratta di avvertimenti e limitazioni nel loro campo d’azione; ecc.

[4] Su questi due testi e per uno status quaestionis su vari aspetti del tema “Paolo e la donna”, vedi il recente e approfondito studio di G. Biguzzi, Velo e silenzio: Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-36, EDB, Bologna 2001 (bibliografia: pp. 159-171). Si vedano inoltre i commentari alla 1Cor di C.K. Barrett, La prima lettera ai Corinzi, EDB, Bologna 1979 (orig. ingl. ’68); G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinti, EDB, Bologna 1995; W. Schrage, Der erste Brief an die Korinther, 3 volls., (EKK VII, 1-3) Neukirchener Verlag, Zürich-Neukirchen-Vluyn 1991-1995-1999 (su 1Cor 11,2-16 il II vol. [1Kor 6,12-11,16] pp. 487-541).

[5] Per questo secondo brano trova sempre più sostenitori l’ipotesi che si tratti di una interpolazione (l’indizio che più viene segnalato è quello di una diversa collocazione di questi versetti in vari manoscritti antichi); Schrage ne è talmente sicuro che addirittura mette in appendice il commento dei vv. 33-34, cf. Schrage, Korinther, cit., III vol. (1Kor 11,17-14,40) pp. 479-501; Cf. anche Barbaglio, La prima lettera ai Corinti, cit., p. 732; 764-768.
Per il primo brano invece i pochi fautori dell’ipotesi non si possono avvalere di argomenti di critica testuale.

[6] Almeno nella metà dei casi, nei titoli nelle Bibbie e nei commentari si usa il termine “velo”: in realtà nel brano non ricorre mai il termine specifico (cf. invece καλυμμα, che ricorre le uniche quattro volte in tutto il NT in 2Cor 3,13-16; c’è un sinonimo in 1Cor 11,15: περιβολαιον); si tratta quindi già di un’interpretazione suggerita dall’aggettivo ακατακαλυπτος di 1Cor 11,5 (ακατακαλυπτω τη κεφαλη = “a capo scoperto / svelato”; e soprattutto dalla variante testuale presente in alcune versioni e testimoni patristici, “καλυμμα” al posto di “εξουσια”).

[7] Cf. le varie traduzioni italiane: “Per questo la donna deve portare un segno di dipendenza sul capo, a motivo degli angeli” (Paoline 1985); La traduzione della CEI 1974 impiega addirittura cinque parole per tradurre εξουσιαν “un segno della sua dipendenza” (la Versione CEI 1997: “un segno dell’autorità”); forse per le traduzione moderne sarebbe stato meglio dare più peso alla traduzione letterale della Volgata: “ideo debet mulier potestatem habere supra caput propter angelos”. Tralasciamo la questione degli angeli, dato che non interessa direttamente per il nostro scopo.

[8] Rimandiamo allo studio di Biguzzi, cit., pp. 42-48.

[9] Così ad esempio G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinti, cit., p. 530; e lo stesso Biguzzi, cit., p. 46.

[10] Sulla posizione della donna nel mondo antico, cf. S.E. Kraemer, “Women in the Religions of the Greco-Roman World”, RSR 9 (1983) 127-139; e soprattutto E.W. Stegemann e W. Stegemann, Storia sociale del cristianesimo primitivo, cit., pp. 605-687.
Qualche eccezione è rappresentata da alcuni culti misterici giunti dal vicino Oriente, da alcune scuole filosofiche che almeno in teoria sostenevano l’uguaglianza tra la donna e l’uomo; cf. per questo e sul mito dell’androgino, W.A. Meeks, “Image of the Androgyne” HR 13 (1974) 165-208, citato da Byrne, cit., p. 27.

[11] Per questa ipotesi cf. Biguzzi, cit., pp. 121-127.

[12] Id., pp. 142-152.

[13] Per dei commentari a Gal cf. A. Pitta, Lettera ai Galati, EDB Bologna 1996 (su 3,28 pp. 224-230); A. Vanhoye, Lettera ai Galati, Paoline, Milano 2000 (su 3,28 pp. 99-103); R.N. Longenecker, Galatians, Word Books, Dallas – Texas 1998.

[14] Propende per la provenienza prepaolina di questi binomi Byrne, cit., p. 26 (ivi ulteriore bibliografia); per l'origine paolina invece, Pitta, Galati, cit. p. 226.229.

[15] La costruzione del terzo binomio con και invece di ουδε – che non implica una variazione di significato - avvalora l'ipotesi della citazione implicita di LXX Gen 1,27 (αρσεν και θηλυ εποιησεν αυτους); così anche Pitta, Galati, cit. p. 229; Vanhoye, Galati, cit., p. 101.

[16] Per avere un confronto al negativo, si può citare la preghiera che l’ebreo recitava tre volte al giorno: “Ti ringrazio che non mi hai fatto pagano / che non mi hai fatto donna / che non mi hai fatto ignorante”; Queste tre berakhot sono attribuite a R. Judah ben Elai (circa 150 d.C.) in t. Ber. 7.18 e j. Ber. 13b, oppure a R. Meier (suo contemporaneo) in b. Menahi. 43b. Ma anche nel mondo Greco esistevano analoghe espressioni di “gratitudine”, ad es.: “che sono nato un essere umano e non una bestia, uomo e non donna, greco e non barbaro”, attribuite a Talete e a Socrate in Diogene Laerzio, Vitae Philosophorum 1,33; a Platone nel Marius di Plutarco (46,1); cf. R.N. Longenecker, Galatians, cit., ad loc..

[17] Naturalmente il tema dell’imparzialità e dell’uguaglianza di dignità emerge già dalla predicazione e dalla prassi di Gesù stesso; per un approfondimento di questo argomento cf. J. Moloney, Woman: First Among the Faithful, Collins Dove, Melbourne 1984 (specialmente alle pp. 8-25); ed anche Schüssler-Fiorenza, In Memoria di lei, cit., pp. 125-228.

[18] Ad esempio riconoscendo alla donna uguale diritto a ripudiare il coniuge, v. 13.

[19] Altre ricorrenze di questi binomi: 1Cor 12,12-13; Col 3,11.

[20] Cf. W. Cotter, "Women's Authority Roles in Paul's Churches: Countercultural or Conventional”, NT 36 (1994) 350-372; ritiene che delle 13 donne menzionate da Paolo, almeno 6 devono aver avuto ruoli da leader, cf. nota 2, p. 350.

[21] Cf. R. Penna, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, Città Nuova, Roma 2002, p. 171. Forse Apfia era la moglie di Filemone? È probabile comunque che condividesse con gli altri due destinatari un ruolo di guida nella comunità che si radunava nella sua casa.

[22] A favore dell’appartenenza di questo capitolo finale all’originaria lettera scritta da Paolo ai Romani, ultimamente anche R. Penna, “Note sull’ipotesi efesina di Rom 16”, in: Atti del VIII Simposio di Efeso su S. Giovanni Apostolo, a cura di L. Padovese, "Turchia: la Chiesa e la sua storia" XV, Pont. Ateneo Antoniano, Roma 2001, 109-114.

[23] Per il ruolo delle donne nella chiesa delle origini a partire da Rm 16, cf. S. Schreiber, "Arbeit mit der Gemeinde (Rom 16,6.12). Zur versunkenen Möglichkeit der Gemeindeleitung durch Frauen", in NTS 46 (2000) 204-226; Cf. F.M. Gillman, Women Who Knew Paul, Wilmington 1989; E. Schüssler Fiorenza, “Missionaries, Apostles, Coworkers: Romans 16 and the Reconstruction of Women’s Early Christian History”, WW 6 (1986) 420–33; P. Richardson, “From Apostles to Virgins: Romans 16 and the Roles of Women in the Early Church.” TJT 2 (1986) 232–61.
Per ultimo segnalo la recentissima pubblicazione di C. Marcheselli Casale, “Uno spaccato originale nella chiesa delle origini. Rm 16,1-2.3-16”, in: La Lettera ai Romani. Esegesi e Teologia, a cura di V. Scippa, Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, sez. S.Tommaso d’Aquino, Napoli 2003, pp. 111-136 (con ulteriore bibliografia); di questo interessante studio condivido ampiamente sia la metodologia che le tesi di fondo (il rivelante ruolo ecclesiale delle donne nella chiesa delle origini, che emerge in particolare nelle figure di Febe e Giunia); l’ho avuta tra le mani soltanto nella fase di revisione di bozze del presente articolo, e quindi non ho potuto utilizzarla più ampiamente.

[24] Non ci soffermiamo a parlare dell'importante figura di Prisca/Priscilla (in quanto si tratterebbe del campo specifico delle coppie impegnate nell’evangelizzazione): basterebbe il suo esempio di coadiutrice di Paolo e di maestra nella fede addirittura di un apostolo come Apollo (assieme a suo marito Aquila, cf. At 18,26) per fornire un solido argomento contro l’interpretazione restrittiva del mulieres taceant. Tuttavia non va lasciato cadere il fatto "anormale" – e perciò ancor più significativo - che delle sei ricorrenze totali nel NT di "Prisca/Priscilla", ben quattro volte è anteposta a quella di Aquila suo marito (Rm 16,3; At 18,18.26; 2Tm 4,19; è al secondo posto in 1Cor 16,19 e in At 18,2): chiaro segno della preminenza e della celebrità di questa donna nella chiesa delle origini.

[25] Si registra ancora qualche voce contraria, cf. M. H. Buber – D. B. Wallace, “Was Junia really an Apostle? A Re-examination of Rm 16,7”, NTS 47 (2001) 76-91; la maggioranza degli studiosi tuttavia, a ragion veduta, sostiene l’interpretazione femminile; tra gli altri, cf. J.D.G. Dunn, Romans 9-16, Dallas, Texas, Word Books 1998, ad loc.; J.A. Fitzmyer, Romans, Doubleday, New York 1993, p. 737-738 (trad it. Piemme, Casale Monferrato 1999). Anche i copisti, probabilmente presi dal dubbio che Paolo potesse attribuire ad una donna il nome di apostolo, corressero a volte con il maschile “Junianus”. Cf. inoltre B.J. Brooten, “ ‘Junia … Outstanding among the Apostles’ (Romans 16:7)”, In Women Priests, ed. L. and A. Swidler, Paulist, New York 1977, pp. 141-144; R.S. Cervin, “A note regarding the Name «Junia(s)» in Romans 16.7”, NTS 40 (1994) 464-470; J. Thorley, “Junia, a Woman Apostle”, NT 38 (1996) 18-29.

[26] S. Schreiber, sostiene che il verbo κοπιαω (usato in Rm 16 per quattro donne), indichi non soltanto attività apostoliche generiche, ma un ruolo nella guida carismatica della comunità; cf. Id., “Arbeit mit der Gemeinde”, cit., p. 204. 209. 224.

[27] Cf. P. Ketter, “Die Frau im Dienste der kirchlichen Gemeinde zur Zeit der Apostel”, Theologisch-praktische Quartalschrift 88 (1935) 36-52; 262-268; p. 49 (“Die herrlichste Ehrenurkunde für das Apostolat der Frau in der Urkirche”); citato in Biguzzi, cit., p. 134, nota 131. Ancora più deciso J.D.G. Dunn: “Per quanto riguarda il ministero femminile nelle chiese paoline la posizione non potrebbe essere più chiara. Le donne prevalgono nel ministero. Basta prendere il capitolo finale [di Rm], i dati parlano da soli”; Id., La teologia dell'apostolo Paolo, Paideia, Brescia 1999, p. 568-569.

[28] R. Jewett, “Paul, Phoebe and the Spanish Mission”, in The Social World of Formative Christianity and Judaism: Essays in Tribute to Howard Clark Kee, ed. J. Neusner et al., Philadelphia 1988, pp. 142–61; E.J. Goodspeed, “Phoebe’s Letter of Introduction” HTR 44 (1951) 55–57; M. Ernst, “Die Funktion der Phoebe (Röm 16,1f.) in der Gemeinde von Kenkrai”, Protokolle zur Bibel 1 (1992) 135-147. C.F. Whelan, “Amica Pauli: The Role of Phoebe in the Early Church”, JSNT 49 (1993) 67-85.

[29] Il nome Febe è preso dalla mitologia greca; era una Titana figlia di Urano e Gaia; significa “splendente, luminosa”; si deduce che questa donna era quindi di origine pagana.

[30] Notizie in Strabone, 8.335, 369.

[31] Cf. 2Cor 8,16-24; Fil 2,25-30; Fm 8-20; Per quanto riguarda la figura del latore delle lettere paoline, cf. A. Pitta, Il paradosso della Croce. Saggi di teologia paolina, Piemme, Casale Monferrato (AL), 1998, p. 25. Nel suo commento a Romani, Pitta suppone che in quanto latrice della lettera, a lei Paolo affida il compito di spiegarne il complesso contenuto; cf. Id. Lettera ai Romani, Paoline, Milano 2001, p. 514-515.

[32] πραγμα (16,2) è normalmente un termine generale (“compito, affare, faccenda”); ma si trova anche nel senso più specifico di “causa legale, processo”, come testimoniato da alcuni papiri ed anche da 1Cor 6,1.

[33] Delle 16 volte che ricorre nel NT (frequente invece nella LXX, 44 volte), 14 volte si trova nelle lettere paoline (Rm 3,5; 5,8; 16,1; 2Cor 3,1; 4,2; 5,12; 6,4; 7,11; 10,12.18; 12,11; Gal 2,18; Col 1,17; Lc 9,32; 2Pt 3,5); nel senso di “raccomandare qualcuno ad un altro” è attestato nella letteratura antica extrabiblica ed anche in 2Mac 9,25; in 2Cor 3,1 Paolo accenna alla pratica di scrivere lettere di raccomandazione.

[34] Cf. J.D.G. Dunn, Romans 9-16, cit. ad loc.; per altre ricorrenze del termine tecnico nel NT, cf. 1Cor 7,15; 9,5; Fm 2; Gc 2,15.

[35] Cf. H. W. Beyer, Diakonos, in GLNT II, 969-984; K. Romaniuk, “Was Phoebe in Romans 16,1 a Deaconess?”, ZNW 81 (1990) 132-134; G. Lohfink, “Weibliche Diakone im Neuen Testament“, Diakonia 11 (1980) 385–400; più in generale sui ministeri nel NT: K. Kertelge, Gemeinde und Amt im Neuen Testament, München, Kösel 1972; C.K. Barrett, Church, Ministry and Sacraments in the New Testament, Exeter, Paternoster Press, 1985; H. Hauser, L'église à l'âge apostolique: Structure et évolution des ministères, (Lectio divina 164) Cerf, Paris 1996; C. Perrot, Ministri e ministeri. Indagine nelle comunità cristiane del Nuovo Testamento, San Paolo, Milano 2002 (orig. fr. Paris 2000), sintesi sul ministero delle donne pp. 254-259.

[36] Ad es. in Costitutiones Apostolicae 3.7; Epifanio nel Panarion (376) precisa che esse non esercitano un ministero presbiterale, ma assistono nel battesimo delle donne. In epoca patristica le diaconesse erano “semplici cooperatrici che si occupavano prevalentemente dell’istruzione delle giovani e delle opere di carità”, cf. Byrne, cit., 106.

[37] Anche il genitivo oggettivo, “della chiesa di Cencre”, parla a favore di una funzione ben determinata e riconosciuta all’interno di quella comunità; non si tratta dunque di un servizio generico.

[38] Così traduce ad es. anche J.A. Fitzmyer, Romans, cit., p. 728.

[39] Cf. C. Marcheselli-Casale, Le Lettere Pastorali. Le due Lettere a Timoteo e la Lettera a Tito, EDB, Bologna 1995, l’excursus: Un ufficio di diaconessa nel NT? (1Tm 3,11), pp. 251-254.

[40] Attestazioni in età apostolica le troviamo in Ignazio d’Antiochia, Efesini 2,1; Magnesi 6.1.

[41] Cf. Filone, Virt. 155; Giuseppe Flavio, Ant. 14.157; ecc.

[42] Per la papirologia cf. O. Montevecchi, “Phoebe prostatis (Rom. 16,2)”, Miscellània papirologiga Ramon Roca-Puig en el seu vuitantè aniversari, ed. S. Janeras (Barcelona: Fund. S. Vives Casajuana, 1987) 205-16; M. Zappella, “A proposito di Febe προστατις (Rm 16,2)”, RivBib 37 (1989) 167-171.

[43] Così propone di tradurre R.R. Schulz, “A Case for ‘President’ Phoebe in Roman 12:2”, LTJ 24 (1990) 124-127.

[44] Per i titoli di αρχισυναγωγος o γυμνασιαρχος, attribuiti ad una donna, cf. B. Brooten, Women Leader in Ancient Synagogues, Chico, CA, Scholars, 1982 (specialmente cap. I).

[45] Oltre ai commentari agli Atti (cf. J.A. Fitzmyer, Gli Atti degli Apostoli, Queriniana, Brescia 2003; G. Rossé, Atti degli Apostoli, Città Nuova, Roma 1998), cf. I. Richter Reimer, “Lydia and Her House”, in: Id., Woman in the Acts of the Apostles. A Feminist Liberation Perspective, Fortress Press, Minneapolis 1995 (orig. ted. 1992), pp. 71-132 ; a livello di buona divulgazione, cf. R. Chiarazzo, “Lidia e la sua casa. E il Signore le aprì il cuore”, Rogate 1 (2002) 21-26.

[46] Un saggio della diversa prospettiva con cui si leggono gli stessi eventi lo si può facilmente avere leggendo At 15,1-29 e Gal 2,1-10, dove si tratta dell’assemblea di Gerusalemme.

[47] Cf. M. Perroni, Il discepolato delle donne nel Vangelo di Luca: Un contributo all'ecclesiologia neotestamentaria, Pontificio Ateneo S.Anselmo, Roma 1995.

[48] Per uno status quaestionis cf. la buona sintesi in G. Rossé, Atti, cit., pp. 50-63.

[49] Il nome viene da Filippo II, padre di Alessandro Magno; non aveva una popolazione numerosissima; la sua importanza le derivava dalla posizione strategica sulla via Egnatia. Divenuta colonia romana dal 42 a.C., godeva dello Jus Italicum (autoamministrazione e immunità da tasse di proprietà), era dunque in tutto una città romana.

[50] Per uno studio aggiornato di queste figure, cf. B. Wander, Timorati di Dio e simpatizzanti: studio sull'ambiente pagano delle sinagoghe della diaspora, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2002.

[51] Forse perché erano pochi i giudei presenti a Filippi, non sufficienti a formare il quorum per una sinagoga? O si radunavano fuori perché erano discriminati dalle autorità?

[52] Per uno studio approfondito della questione se la parola προσευχη indica una sinagoga o un luogo di preghiera all’aperto, cf. I. Richter Reimer, “Lydia...”, cit., p. 79-92.

[53] Così I. Richter Reimer, “Lydia...”, p. 77.

[54] Nella prospettiva dell’antropologia semitica non c’è una grande differenza di senso tra i due termini. Nella LXX νους ("mente") è raro; È usato 6 volte per tradurre l’ebraico leb-lebab ("cuore").

[55] Paolo è sempre stato contrario a ricevere per sé aiuti materiali o compensi dalle comunità che andava evangelizzando: cf. 1Cor 9,4.6-18, 2Cor 7,2; 11,7-10 (qui fa riferimento all'aiuto ricevuto dai "fratelli giunti dalla Macedonia"); in Fil 4,15-16 abbiamo la conferma di questa eccezione ("Proprio voi, Filippesi, sapete che all'inizio dell'evangelizzazione, quando lasciai la Macedonia, nessuna chiesa aprì un conto con me di dare e di ricevere, eccetto voi soli, e che una o due volte, mentre ero a Tessalonica, avete provveduto alle mie necessità"); anche gli Atti degli Apostoli attestano questo principio: cf. At 18,3; 20,34 ("Voi sapete che alle mie necessità e a quelle di coloro che erano con me hanno provveduto queste mie mani").

[56] Resta tuttavia la domanda: perché Paolo scrivendo ai Fil a distanza di alcuni anni da questo episodio non menziona Lidia? Forse aveva già lasciato Filippi? (così Penna, Filippesi, cit., p. 128) O era morta nel frattempo? Comunque è abbastanza probabile che le due donne menzionate nella lettera, Evodia e Sintiche (Fil 4,2-3) facessero parte dell’entourage di Lidia, che frequentassero quella che era stata la sua casa, ormai stabilmente divenuta chiesa domestica.

[57] Già nella Mulieris Dignitatem (1988) il Papa aveva coraggiosamente “corretto” un’interpretazione androcentrica e discriminatoria della Genesi e delle lettere paoline (cf. MD 9. 24).
Sulla missione profetica e di predicazione del vangelo, cui la donne partecipano alla pari con gli uomini, cf. Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti, Giovedì Santo 1995 (25 marzo 1995, punto 6).
L’invito appassionato a cambiare mentalità emerge soprattutto da queste parole del Papa: “Faccio oggi appello all’intera comunità ecclesiale, perché voglia favorire in ogni modo, nella sua vita interna, la partecipazione femminile... le donne partecipino alla vita della Chiesa senza alcuna discriminazione, anche nelle consultazioni e nell’elaborazione delle decisioni. È questa la strada che va percorsa con coraggio. In gran parte si tratta di valorizzare pienamente gli ampi spazi che la legge della Chiesa riconosce alla presenza laicale e femminile: penso ad esempio alla docenza teologica, alle forme consentite di ministerialità liturgica, compreso il servizio all’altare, ai consigli pastorali e amministrativi, ai sinodi diocesani e ai concili particolari, alle varie istituzioni ecclesiali, alle curie e ai tribunali ecclesiastici, a tante attività pastorali fino alle nuove forme di partecipazione nella cura delle parrocchie, in casi di penuria del clero, salvo compiti propriamente sacerdotali. Chi può immaginare quali grandi vantaggi verranno alla pastorale, quale nuova bellezza assumerà il volto della Chiesa, quando il genio femminile sarà pienamente riversato nei vari ambiti della sua vita?” (Saluto domenicale, 3 settembre 1995); sullo stesso argomento, cf. Vita consecrata, 57 (1996); Ecclesia in Europa 43 (28 giugno 2003).
Tutto questo – pur se non è il massimo – è già tanto: sarebbe un grande salto di qualità nella Chiesa se venisse recepito e messo in pratica!


[Approfondimenti]

Caterina63
00giovedì 24 gennaio 2013 21:42
[SM=g1740762]  in una Chiesa in Turchia..... il velo è parte integrante della Preghiera e della visita in Chiesa....


velo



[SM=g1740733]

Caterina63
00sabato 7 marzo 2015 09:55
  Il velo delle donne:
origine, significato e prassi ecclesiale


Perché è bene che le donne stiano a capo velato in presenza di Dio

di Don Leonardo Maria Pompei




pubblicato sul sito dell'Autore: Domina mea et Mater mea.

Don Leonardo Maria Pompei è il parroco della parrocchia San Michele Arcangelo, Borgo San Michele, Latina (sito della parrocchia)


Oggi in molti pensano che portare il velo in Chiesa sia sciocca bigotteria anacronistica, inutile ostentazione di religiosità, gesto comunque non più obbligatorio e non richiesto né da Dio né dalla Chiesa. Le cose, come vedremo subito, non stanno affatto a così. Sia la Parola di Dio contenuta nella Sacra Scrittura, sia le disposizioni delle massime autorità della Chiesa (san Lino Papa successore di san Pietro), sia anche i voleri dell'Alto pervenutici tramite rivelazioni private, affermano esattamente il contrario. Vediamo come.

1) SACRA SCRITTURA

Prima lettera di san Paolo ai Corinzi (1Cor 11,1-6.13-16)

Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo. Vi lodo poi perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l`uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l`uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo. Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio.

Il testo può sembrare non molto comprensibile a noi uomini del XXI secolo, comunque non è poi tanto difficile comprenderne il senso. Bisogna cominciare dagli ultimi versetti: i capelli lunghi sono "gloria della donna" ovvero segno esteriore della sua bellezza e, sovente, anche espressione della sua vanità, mentre per l'uomo vale esattamente il contrario. Per cui è segno di mortificazione e umiliazione davanti a Dio - per una donna - radersi o portare i capelli corti (come fanno le suore), mentre per gli uomini farsi crescere i capelli (tradizione universale, come è noto, nelle Chiese di oriente dove tutti i monaci hanno il divieto assoluto di tagliare i capelli, mentre in Occidente vige la regola - negli istituti di stretta osservanza - di radersi a zero). Ora mentre per un uomo coprirsi il capo sarebbe mancare di rispetto a Cristo (e infatti durante la Messa celebrata da un Vescovo gli viene tolto anche lo zucchetto prima della preghiera eucaristica), per una donna sarebbe mancanza di rispetto gloriarsi della sua bellezza esteriore davanti a Dio, non riconoscendo il primato dello spirito e dello spirituale sulla vanità dell'esteriore. Per questo san Paolo afferma che non è conveniente che una donna faccia la preghiera davanti a Dio a capo scoperto. C'è anche un'altra motivazione, senz'altro meno nobile, ma non meno importante: la donna è soggetta all'uomo (cioè al marito), nel senso che appartiene a lui e a lui solo. Una donna senza velo e ben acconciata, inevitabilmente attira l'attenzione degli uomini che la guardano. Questo, oltre che essere quanto mai inopportuno in Chiesa, è anche mancanza di rispetto verso il marito, a cui, solo, appartiene la moglie (fermo restando che è vero anche il contrario). Per cui portare il velo, almeno in Chiesa, è segno esteriore con cui si riconosce il primato dello spirito (unica cosa che conta davanti a Dio), si mortifica la vanità esteriore (destinata a sciogliersi come brina al sole col passare inesorabile del tempo), si esalta e si afferma la santità intemerata e incorruttibile dell'unione nuziale. In Chiesa gli uomini non devono guardare le donne, meno che mai quelle degli altri, ma pensare a Dio e a pregare. E basta. E per chi ha il gusto della contestazione vale il monito conclusivo dell'Apostolo: tra i figli di Dio questa consuetudine (oggi così diffusa) non c'è. La lasciamo ai figli del primo contestatore, ai suoi servi e ai suoi schiavi.



2) DISCIPLINA DELLA CHIESA

Il successore di san Pietro, San Lino, sancì con l'autorità di Sommo Pontefice questo obbligo per tutte le fedeli cattoliche. Riporto semplicemente quello che si legge nel BREVIARIUM ROMANUM del 1962, nel giorno 23 Settembre, festa liturgica di san Lino Papa e Martire. Prima la mia traduzione dal latino, poi l'originale per chi volesse controllarne l'esattezza.

"Lino Papa, nato a Volterra in Toscana, fu il primo dopo Pietro a governare la Chiesa. Fu di così grande fede e santità, che non solo scacciava i demoni, ma anche richiamava a vita ai morti. Scrisse gli atti del beato Pietro, in particolare e soprattutto quello che fece contro Simon Mago. Decretò che nessuna donna entrasse in Chiesa se non CON IL CAPO VELATO. Questo Pontefice fu decapitato per la costanza della sua fede, su ordine del malvagio e ingrato governatore Saturnino, la cui figlia aveva liberato dalla vessazione del demonio. Fu sepolto in Vaticano, presso la tomba del Principe degli Apostoli, il 23 Settembre. Regnò per undici anni, due mesi e 23 giorni, sono stati creati, e due volte nel mese di dicembre, ordinò quindici vescovi e diciotto sacerdoti".

Testo originale latino:

Linus Póntifex, Volatérris in Etrúria natus, primus post Petrum gubernávit Ecclésiam. Cuius tanta fides et sánctitas fuit, ut non solum dæmones eiíceret, sed étiam mórtuos revocáret ad vitam. Scripsit res gestas beáti Petri, et ea máxime quæ ab illo acta sunt contra Simónem magum. Sancívit ne qua múlier, nisi veláto cápite, in ecclésiam introíret. Huic Pontífici caput amputátum est ob constántiam fídei, iussu Saturníni ímpii et ingratíssimi consuláris, cuius fíliam a dæmonum vexatióne liberáverat. Sepúltus est in Vaticáno prope sepúlcrum Príncipis Apostolórum, nono Kaléndas Octóbris. Sedit annos úndecim, menses duos, dies vigínti tres, creátis, bis mense Decémbri, epíscopis quíndecim, presbyteris decem et octo.


Per la cronaca, nessun Pontefice, né tanto meno il Concilio Vaticano II (sempre messo in mezzo come il prezzemolo da coloro che pensano di sapere tutto ma che invece sono molto "ignoranti", nel senso etimologico del termine, cioè non sanno quello che dicono) ha mai abrogato o cancellato questa disposizione disciplinare, che non è certamente un dogma di fede ma ha radici apostoliche (come chiaramente si vede nel testo della lettera ai Corinzi) e vanta un'obbligatorietà canonica sancita dal primo successore di san Pietro. E qui mi si permetta di stigmatizzare una delle solite stranezze dei modernisti: stanno sempre a invocare e sbandierare la Chiesa primitiva, a dire che bisogna tornare agli usi della Chiesa delle origini... Più primitiva tradizione di questa quale sarebbe? Viene il sospetto che si invochi "la tradizione degli antichi" solo quando fa comodo...


3) LA MADONNA AFFERMEREBBE DI GRADIRE, ANZI DI VOLERE IL VELO PER TUTTE LE DONNE CATTOLICHE

Ho usato il condizionale per rispetto alla Chiesa, perché i messaggi della Madonna su questo argomento provengono da apparizioni non ancora ufficialmente riconosciute dalla Chiesa (ma non condannate) che il sottoscritto, pur senza voler in nessun modo prevenire il giudizio definitivo della Chiesa a cui anzi si rimette e sottomette fin d'ora, reputa attendibili. Si tratta delle apparizioni di Maracaibo (Venezuela). Non sono riconosciute ufficialmente, ma nel luogo è stato eretto un luogo di culto autorizzato dall'autorità ecclesiastica, cosa che equivale, come è noto, a una sorta di riconoscimento implicito. Per chi volesse approfondire il tema, trova tutto il materiale - sia in PDF per la lettura che in Mp3 per l'ascolto - a questo indirizzo:http://www.parrocchiasanmichele.eu/download/category/128-venezuela.html

Mi limito a riportare i messaggi relativi alla materia che stiamo trattando. Dapprima la Madonna dà delle ammonizioni relative alla DECENZA NEL VESTIRE nei luoghi sacri, rivolte prima agli uomini e poi alle donne:

La Vergine Maria illustra, nei dettagli, durante le sue apparizioni ai due veggenti (Josè Luis Matheus e Juan Antonio Gil) la maniera di presentarsi davanti all'altare del Padre suo Celeste: 
“Nostra Signora invita i suoi figli maschi a vestirsi sempre con pantaloni lunghi e chiede loro di evitare di portare degli 'shorts' nella casa del Padre suo, ma di indossare invece degli abiti che mostrino rispetto e decoro. 
D'altra parte, Maria chiede a tutte le sue figlie di presentarsi vestite con delle gonnelunghe e dei vestiti sobri e classici, senza sottomettersi alle mode indecenti; inoltre la santa Vergine le prega di evitare di presentarsi davanti al Tabernacolo con abiti scollati, corti o aderenti”. 
Queste le parole della Madonna: “Dì loro di presentarsi umili e rispettose davanti alla presenza della santa Trinità, che è sempre presente in ogni tabernacolo di tutte le Chiese e che è sempre circondato da tutti i Santi e gli Angeli del Paradiso. Anche Io sono lì in adorazione del mio Divin Figlio”.

Poi inizia a manifestare le sue richieste sul velo:

La Vergine Maria ha espresso ai due veggenti anche una particolare richiesta da presentare, a suo nome, alle sue figlie di tutte il mondo: DI PORTARE SEMPRE UN VELO IN CHIESA. 
Maria spiega infatti che portando un velo le sue figlie “si presentano come le umili serve di Dio, in tal modo esse ornano il Suo Tempio con la virtù dell'umiltà.
E DISTRUGGONO ALCUNI DEI NUMEROSI ATTACCHI CHE SATANA INFLIGGE CONTRO LA CHIESA DEL MIO DIVIN FIGLIO, poiché la capigliatura delle donne è il loro orgoglio e, ricoprendola con il velo, non solo si rivestono della virtù dell'umiltà, ma, praticandola, riescono a distruggere alcuni degli attacchi che Satana infligge contro la Chiesa Cattolica”.

Apro una piccola parentesi di commento. 
Rendiamoci conto di quello che dice la Madonna: da questo gesto di umile devozione dipende la distruzione di alcuni attacchi di Satana alla Chiesa!!! 
Altro che gesto esteriore che non servirebbe a niente perché importanti sarebbero solo le disposizioni del cuore! L'uomo non è un angelo: è corpo e anima. E il linguaggio esteriore, specie in segni così forte, è una vera e propria bomba lanciata dentro le linee del Nemico!

Riprendiamo i messaggi.

Chi scrive si ricorda che in un'occasione una signora, di origine anglosassone, fece ai due veggenti l'innocente commento che certamente la santa Vergine Maria, per quanto riguardava il velo, si rivolgeva alle donne di cultura latina. La risposta di Josè Luis Matheus fu questa:
“[ridendo] Mi spiace signora, ma l'invito della santa Vergine a portare il velo è rivolto alle donne di tutto il mondo, così come tutti i messaggi che ci ordina di trasmettere. Lei ci ha detto che agli occhi di Dio tutti gli uomini sono uguali e il suo messaggio si applica a tutti ed è valido per tutti”.

Solo a rigore di completezza, la Madonna in altri messaggi delle stesse apparizioni ha manifestato il desiderio che la Sacra Ostia sia presa direttamente in bocca e possibilmente in ginocchio. Per chi desidera approfondire rimando al materiale disponibile all'indirizzo sopra citato.

La Madonna, dunque, in queste apparizioni, sembrerebbe confermare pienamente la dottrina tradizionale: il velo manifesta l'umiltà davanti a Dio di cui ci si riconosce umili serve; umiliazione dell'orgoglio femminile, foriero oggi di tanti peccati e gravi scandali. Più una notizia al fulmicotone: con questo gesto si distruggono alcune delle opere di Satana! 
Il che non mi sembra poco.

Alle figlie di Dio coraggiose, aperte alla verità e docili, che leggeranno questo articolo, rivolgo solo una esortazione: FORZA E ONORE! 
Siate coraggiose per Gesù e per Maria, contro i nemici della Chiesa, oggi scatenati e furiosi più che mai, ma che nulla possono contro chi, in tutto - anche in questo! - fa la volontà di Dio e della Sua Santissima Madre! 

Viva Cristo Re e la Signora di tutti i popoli, Avvocata, Mediatrice e Corredentrice dell'Umanità. 
Ave Maria! 






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