Per leggere i Concili occorre capire cosa sono le ERESIE

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Caterina63
00giovedì 27 novembre 2008 22:52
Dal sito Totus Tuus

LE ERESIE DALLE ORIGINI



Perché le eresie.



In quella preghiera sublime, che gli esegeti la sua preghiera sacerdotale, Cristo ha chiesto al Padre, con una specie di angoscia, che i suoi discepoli conservino per sempre l'unità:

"Padre santo", diceva, "custodisci nel nome tuo quelli che mi hai affidati, acciocché siano una cosa sola come noi... Né soltanto per questi prego; ma prego ma anche per quelli che crederanno in me, per la loro parola che siano tutti una sola cosa come tu sei in me, o Padre, ed io in te; che siano anch'essi una sola cosa in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato" (Giov. 17, 11. 20-24).

Egli conosceva quindi il valore e insieme la difficoltà dell'unità. Questa sarebbe stata la caratteristica principale della vera Chiesa. Ma vi sarebbero state divisioni, rotture, divergenze di opinione, in una parola eresie. E' infatti questo il significato di tale termine, derivato dal greco, passato nel latino e che, poco conosciuto nella lingua classica, doveva essere tanto spesso usato in quella dei Padri della Chiesa.

Donde provengono dunque le eresie? Dalla diversità degli animi, dei caratteri, dei temperamenti, e in definitiva dal fatto della libertà umana. La fede nella parola di Dio è libera. Dio non forza nessuno. Ma è inevitabile che la fede esiga da parte dell'uomo uno sforzo di sottomissione e di obbedienza. Questa obbedienza è una scelta. E il compito dell'eresia è di mettere in rilievo tale scelta. Perciò S. Paolo ha potuto dire: "E' necessario che ci siano anche delle eresie, affinché tra voi si possa conoscere quelli di virtù provata" (1 Cor. 11, 19).

E Tertulliano, 150 anni più tardi, scriveva: "La condizione del nostro tempo ci costringe ad avvertire che non ci si deve stupire, a proposito delle eresie, né della loro esistenza che è stata predetta, né dal fatto che esse guastino la fede in parecchi, poiché hanno come ragion d'essere quella di provare la fede con il tentarla".

Se si cerca di considerare questa legge della prova necessaria della fede, si costata che essa fa parte delle leggi essenziali che reggono gli spiriti. Gli angeli erano stati sottoposti ad una prova, di cui non conosciamo le modalità, ma di cui costatiamo il fatto nell'esistenza dei demoni. Erano angeli come gli altri. Soccombettero alla prova. Anche gli uomini, a loro volta, devono essere " tentati ", cioè " provati ". Si possono distinguere nel fatto dell'eresia tre aspetti diversi: l'aspetto filosofico, l'aspetto paradossale e l'aspetto positivo. Dal punto di vista filosofico, l'eresia nasce dal conflitto o dal contrasto tra la verità rivelata e i vari sistemi filosofici già radicati nelle menti sulle quali cade tale rivelazione. La fede infatti non cade mai su menti perfettamente preparate a riceverlo. Cristo aveva scelto degli apostoli senza istruzione. Ma quegli apostoli stessi avevano le loro idee, le loro tradizioni, le loro concezioni del regno messianico. Gli scribi e i farisei, da parte loro, si ritenevano molto più illuminati degli umili pescatori del lago di Galilea. In tutti la fede incontrava ostacoli, in tutti aveva pregiudizi da superare. E passando dai giudei ai pagani, i conflitti di carattere filosofico tra la fede e i sistemi in voga saranno ancora più aspri. E così sarà alla fine dei tempi. Tra le filosofie umane e la verità rivelata non è stato sempre facile l'accordo. I pensatori cristiani dovranno sempre compiere un immenso lavoro di adattamento tra la ragione e la fede.

Da questo aspetto filosofico delle eresie si passa inevitabilmente al loro aspetto paradossale. Intendiamo dire con ciò che la verità rivelata, per il fatto stesso della sua origine divina, non può fare a meno di presentare alla ragione ombre che essa non riuscirà a penetrare. E' quanto esprimiamo dicendo che la fede comporta dei misteri. Riflettendovi, si comprende come una religione senza misteri non possa essere una religione divina. Di fronte alla fede venuta da Dio, bisogna che la ragione confessi la propria impotenza. Ed è appunto questo che dà all'eresia il suo aspetto paradossale. Essa fa apparire la realtà antinomica e paradossale del mistero della fede.

Infine, nell'eresia va considerato ancora il suo aspetto positivo. Non tutto è falso infatti nell'eresia. Essa contiene sempre una intuizione giusta, ma che si trova falsata dall'interferenza di un sistema filosofico che è in contraddizione con la fede, o dal rifiuto esplicito o implicito del mistero della fede. In ogni eresia appare dunque una ribellione contro la verità rivelata, ed è qui che si manifesta il senso profondamente anticristiano di ogni eresia.

Questo modo di intendere l'eresia è tradizionale nella Chiesa. Ma si è sempre insistito anche sul bene che può derivare da quel gran male che essa è; ciascuna eresia è stata l'occasione di un progresso nell'intelligenza della fede e di un rafforzamento dell'unità in seno alla Chiesa.



ERESIA DEI GIUDAIZZANTI

La più antica eresia conosciuta nella storia della Chiesa fu quella dei giudaizzanti. Fu l'errore ostinato di coloro che, fin dal principio, si opposero all'allargamento dei quadri della Chiesa perché vi potessero entrare m massa i pagani. Il dogma respinto da questi eretici era quello della cattolicità della Chiesa. Gesù aveva detto: " Andate, insegnate a tutte le genti ". I giudaizzanti esigevano il mantenimento della legge di Mosé e di tutte le sue prescrizioni. Dopo una sorda opposizione manifestata soprattutto contro le sante audacie di S. Paolo, l'apostolo dei gentili, i giudeo-cristiani formarono delle sette separate, la principale delle quali si chiamò Chiesa dei poveri - gli ebioniti o poveri Si è tentato talvolta di ricollegarli agli Esseni che i manoscritti del Mar Morto ci hanno recentemente fatto meglio conoscere. Gli ebioniti pare siano sopravvissuti fino al V secolo, e li si può paragonare alla " Piccola Chiesa " degli inizi del XIX secolo.


LO GNOSTICISMO


All'opposto degli ebioniti, che rimanevano troppo attaccati alle loro tradizioni giudaiche, gli gnostici furono in genere dei pagani che, accettando la fede cristiana, pretendevano mischiarvi le loro concezioni personali, le loro teorie filosofiche, le loro chimere precedenti.

Il termine gnosi, derivato dal greco, significa " conoscenza " o " scienza ". Gli gnostici si consideravano pensatori originali, che non potevano piegarsi alla fede dei semplici fedeli. E vi fu, nei primi secoli della Chiesa, un vero pullulare di eresie d'ispirazione gnostica.

Sarebbe del tutto inutile riferire qui in particolare le fantasticherie di queste antiche sette. Limitiamoci quindi ad offrirne un'idea generale.

Due problemi sembrano aver attirato l'attenzione degli gnostici: il problema della creazione e il problema del male. Due problemi del resto strettamente collegati, poiché se Dio ha creato il mondo, donde proviene il male? E se non ha creato il male, come lo si può considerare unico Creatore delle cose?

Su questo tema, gli gnostici costruiranno sistemi quanto mai fantastici. A prestar loro fede, si deve distinguere accanto al regno della luce, che è quello di Dio, il regno delle tenebre, che è quello della Materia eterna. Tra il Dio-Abisso, come amavano dire, e l'organizzatore della Materia chiamato Demiurgo, vi dovrebbe essere un gran numero di gradini o esseri intermedi, che chiamavano eoni, e la maggior parte delle sette accoppiavano un Eone maschile e un Eone femminile. Il Demiurgo, o autore del nostro mondo materiale, era l'ultimo degli eoni, il più lontano dal Dio-Abisso, o un Demone che aveva rapito una scintilla della Pienezza divina - il Pleroma - onde animarne la materia.

Per gli gnostici, questa origine del mondo spiega la diversità degli spiriti umani: essi distinguono infatti gli gnostici o spirituali, cioè loro stessi, le persone istruite e nelle quali la materia e dominata dallo Spirito di Dio; i cristiani ordinari, nei quali Materia e Spirito sono presso a poco equilibrati e i pagani o materiali (ilici), nei quali la Materia domina decisamente lo Spirito.

Applicando i loro sistemi alla fede cristiana, usavano fare di Cristo un eone inviato da Dio. Questo eone si impadronì dell'uomo Gesù al momento del suo battesimo nel Giordano. Da quel momento ebbe la missione di guidare gli uomini alla vera gnosi, che è il puro Vangelo, onde distaccarli dalla Materia. E' così che si operò, grazie a lui, la Redenzione. Quando il Vangelo avrà compiuto la sua opera sulla terra, tutte le particelle dello Spirito divino, che sono prigioniere nella Materia, rientreranno nella Pienezza di Dio – il Pleroma divino. E il regno delle tenebre resterà per sempre nelle tenebre.

In ciò che abbiamo esposto vi è un certo numero di idee che sono riapparse ai giorni nostri, sia nei teosofi sia negli spiritisti.

Fu necessaria alla Chiesa primitiva una miracolosa assistenza da parte dello Spirito Santo perché non fosse sommersa fin dal principio in queste speculazioni fantastiche e pretenziose. Lo gnosticismo le rese un servizio provvidenziale costringendo i fedeli a stringersi attorno ai loro pastori, e specialmente attorno al vescovo, rappresentante di Cristo e successore degli apostoli, in ciascuna Chiesa particolare.


PRINCIPALI CAPI GNOSTICI

E' usanza comune far risalire lo gnosticismo a quel Simon Mago di cui si parla negli Atti e che voleva acquistare dagli Apostoli il potere di far discendere lo Spirito Santo sui fedeli, come aveva visto fare da loro. Dopo di lui, si fa il nome di un certo Cerinto, che fu combattuto dagli Apostoli e specialmente da san Giovanni evangelista.

Ma sono figure di cui conosciamo ben poco con certezza. In seguito, si svilupparono due correnti gnostiche: una in Siria, più positiva e pratica; l'altra ad Alessandria d'Egitto, più speculativa e fantastica. La prima conta solo pochi nomi conosciuti. La seconda ha invece alcuni capi di talento, i quali sono stati confutati dai Padri, ciò che ci è valso a conoscere i loro sistemi. Ricordiamo qui soltanto Valentino, Carpocrate e Marcione.

Valentino, di origine egiziana, sembra abbia predicato le sue idee a Roma, fra il 135 e il 160. Fu più volte scomunicato e cacciato dalla Chiesa. Finì per ritirarsi a Cipro e vi creò una setta abbastanza fiorente.

Con Carpocrate, è il problema morale che sembra prendere il primo posto. Fra gli gnostici, infatti, alcuni consideravano la materia come la sede di ogni male e di conseguenza pretendevano di proibire il matrimonio come cosa impura. Furono chiamati eucratiti o continenti. Al contrario, Carpocrate e i suoi discepoli assicuravano che quanto avviene nella materia è insignificante dal punto di vista dell'anima, Preludendo al quietismo da cui non sarà esente Lutero, ma che vedremo affermarsi con Molinos nel XVII secolo, egli riteneva come indifferenti tutti i disordini della sensualità. Aveva un figlio, Epifanio, che morì giovane e consumato dai vizi. Lo fece onorare come un dio nella sua setta. Carpocrate ed Epifanio, contemporanei di Valentino, sono anche un poco gli antenati del comunismo. Marcione, occupa un posto a parte nella schiera degli gnostici. Originario di Sinope, nel Ponto, venne a Roma verso il 135-140 e si fece ricevere nella Chiesa. Dieci anni più tardi, se ne staccava rumorosamente e fondava una setta perniciosa, che riuscì a tenersi a lungo in vita. La sua dottrina essenziale era ciò che

egli chiamava l'Antitesi. Egli opponeva infatti, un po' come più tardi Lutero, l'Antico Testamento, opera del Dio giusto, al Nuovo Testamento, opera del Dio buono. Parimenti Lutero inciterà in opposizione fra loro la Legge e il Vangelo, la Legge che condanna e il Vangelo che salva.


GLI OFITI

Tra le sette gnostiche, ve ne furono alcune che resero un culto al Serpente del Paradiso terrestre, così come ai giorni nostri ve ne sono alcune che rendono un culto a Satana, Principe di questo mondo. Gli adepti di tale setta sono conosciuti sotto il nome di ofiti, o adoratori del Serpente. Essi giustificavano così il culto di Satana: secondo la Scrittura, il Serpente fu il primo a ribellarsi contro il Demiurgo, che aveva creato il mondo di miseria in cui ci troviamo, e a proporre agli esseri umani la " scienza del bene e del male ". E' interessante notare come in sette di questo genere siano stati maggiormente in onore i Libri apocrifi, i quali non sono altro che caricature dei Libri Sacri che formano la nostra Bibbia.


IL MONTANISMO

Questo pullulare di eresie diverse, e che non possiamo enumerare completamente, testimonia il grande interesse che il messaggio cristiano sollevava nel mondo greco-romano del II secolo. Il montanismo è un'altra prova di tale interesse.

Montano era nato in un villaggio asiatico ai confini della Misia e della Frigia. Era rimasto colpito dai passi del Vangelo di san Giovanni in cui si parla dell'invio dello Spirito Santo da parte di Gesù. E la sua mente si era esaltata al punto che egli si presentava come l'organo stesso dello Spirito Santo promesso da Cristo. Un'era nuova e una nuova rivelazione dovevano - diceva - cominciare con lui. Parlava con una sicumera da demente: " Sono venuto " - diceva - " non come un angelo o un messaggero, ma come lo stesso Dio Padre ". - "Io sono il Padre, il Figlio e il Paraclito". - "Ecco, l'uomo è come una lira ed io vi scorro sopra come un archetto; l'uomo dorme, ed io veglio; ecco, è il Signore che immerge i cuori degli uomini nell'estasi e che dà un cuore agli uomini".

Egli stesso sembrava trovarsi sempre in una specie di estasi. Ben presto due donne, Prisca e Massimilla, furono conquistate alla sua dottrina ed ebbero al pari di lui delle estasi, durante le quali profetizzavano. I vescovi dei dintorni cercarono di riportarle al buon senso, per mezzo degli esorcismi canonici. Fatica inutile.

La setta allora fu scomunicata, perché tendeva a sostituire all'autorità della gerarchia cristiana l'ispirazione diretta.

I montanisti professavano in particolare il millenarismo, errore secondo il quale il Cristo trionfante avrebbe stabilito sulla terra, per mille anni, il regno predetto nell'Apocalisse. La setta, in previsione di questo avvento, predicava un grande rigorismo morale, che sedusse perfino un Tertulliano, il solo grande nome di cui abbia potuto gloriarsi il Montanismo, benché la setta abbia resistito fino all'VIII secolo, soprattutto in Oriente.


ERESIE ANTITRINITARIE

Uno dei dogmi più sublimi della religione cristiana è quello della Santissima Trinità - Un solo Dio in tre persone. Era inevitabile che desse luogo a molte speculazioni e di conseguenza a più d'un errore.

Gli apologisti del II secolo sostenevano energicamente i due termini della dottrina: unita di essenza - trinità delle persone divine. Proprio nel corso di queste esposizioni era apparso, verso l'anno 180, il termine Triade o Trinità, nello scrittore cattolico Teofilo di Antiochia.

Ma verso la stessa epoca aveva origine una gravissima eresia: l'adozianismo. Essa consisteva nello spiegare l'attributo di " Figlio di Dio" dato a Cristo con il fatto della sua adozione da parte di Dio. Vi era qui una duplice eresia: 1) si rigettava la Trinità; 2) si negava la divinità di Cristo e l'incarnazione del Verbo.

Il promotore dell'adozianismo fu un ricco conciatore di Bisanzio, di nome Toedoto, che fu condannato da papa Vittore I verso il 190. Un secondo Teodoto, che faceva il banchiere, e un certo Artemone furono i più illustri seguaci di questa eresia.

Ma un errore più grave, più sottile e più pericoloso si propagava nella stessa epoca. Ne fu iniziatore, a quanto sembra, un certo Nocto, la cui opera fu tuttavia oscurata da quella di Prassea. Il più insigne teologo di questa tendenza fu comunque, dopo il 210, Sabellio. Cosicché questa eresia viene spesso chiamata sabellianismo, o anche monarchianismo. Questo secondo nome deriva dal fatto che i sabelliani proclamavano ad alta voce: "Noi non ammettiamo che la monarchia", cioè l'unità di persona come pure l'unità di natura in Dio.

Ma allora, che significavano dunque i nomi di Padre, Figlio e Spirito Santo, usati fin dal principio nella Chiesa, e in particolare nella liturgia del battesimo? Per i sabelliani, i tre nomi non erano altro che tre aspetti, tre attributi diversi, ma niente affatto persone distinte.

E' quindi il Padre che si è incarnato nel seno della Vergine e che, alla sua nascita, ha preso il nome di Figlio, senza cessare di essere il Padre. E' il Padre, sotto il nome di Figlio, che ha predicato, ha sofferto ed è risuscitato. I cristiani ortodossi diedero per questo motivo ai sabelliani il soprannome di patripassiani - quelli che credono che il Padre abbia sofferto sulla croce per noi. Furono anche soprannominati modalisti, perché le tre persone della Trinità sono da essi ridotte a semplici modi di espressione.

In genere, i sabelliani rigettavano l'adozianismo. Tuttavia, un vescovo del III secolo, Paolo di Samosata, trovò il modo di professare simultaneamente queste due eresie e fu condannato nel concilio di Antiochia, verso il 268.


PRINCIPALI CONFUTAZIONI

Tutte le eresie che abbiamo indicato furono oggetto di vigorose confutazioni da parte dei migliori scrittori della Chiesa. Mentre gli Apologisti si rivolgevano soprattutto ai pagani, i Padri antignostici o antisabelliani descrivevano e rigettavano energicamente gli errori che minacciavano di sommergere la Chiesa. Limitiamoci a nominare: sant'Ireneo, secondo vescovo di Lione, Tertulliano, Origene, sant'Epifanio, sant'Ippolito.

Non si potrà mai esagerare l'importanza e la fecondità per la Chiesa di queste controversie spesso ardenti. Per una religione, qualunque cosa è più vantaggiosa dell'immobilismo e dell'inerzia. Le dispute sollevate da un Valentino, un Marcione, un Prassea, un Sabellio ed altri eretici determinarono un approfondimento e un consolidamento della dottrina cristiana.

Questa dovette continuamente muoversi e progredire fra errori opposti, tanto dal punto di vista dogmatico che sul terreno morale. Non cadde né nell'encratismo, né nel lassismo quietista. E il dogma trinitario, così profondo e così misterioso, fu sostenuto e confermato con una forza decisiva. Senza dubbio, accadde che, per meglio confondere i patripassiani, si giungesse a distinguere il Figlio dal Padre al punto da dichiararlo inferiore a1 Padre e subordinato al Padre. Lo stesso grande Origene cadde un poco in questo errore, che è noto sotto il nome di subordinazianismo e che avrebbe dato origine nel secolo seguente all'arianesimo, ma fu appunto nel corso di queste ricerche teologiche che si formò una lingua nuova, la quale avrebbe permesso più tardi di confutare errori pericolosi.

Soprattutto Tertulliano è considerato come il creatore di tale lingua in Occidente. Fu lui a trovare la formula fondamentale: Tre persone in un sola sostanza. Si vedrà nel capitolo seguente l'uso che la Chiesa fece di questa preziosa formula che il suo stesso autore non aveva sempe ben compreso e applicato.

continua..........
Caterina63
00giovedì 27 novembre 2008 22:54
CAPITOLO II. LE ERESIE DEL IV SECOLO


ARIO E LA SUA DOTTRINA


Le controversie provocate nel III secolo dagli errori antitrinitari avevano portato ad una recisa condanna dei patripassiani. Ma gli scrittori cattolici non avevano sempre saputo evitare il subordinazionismo. I papi senza dubbio non avevano mai accettato questa dottrina così poco logica. Paolo di Samosata era stato condannato dal Concilio di Antiochia verso il 268 per avere fatto di Cristo un semplice, figlio adottivo di Dio. Sembra che il prete Luciano di Antiochia abbia tuttavia conservato qualcosa di questa dottrina sotto la forma seguente: in Gesù l'anima che vivifica il corpo dell'uomo era sostituita dal Verbo, che si può chiamare Dio poiché è il primogenito di Dio, ma che è inferiore a Dio, poiché è stato creato e da lui tratto dal nulla. E' probabilmente questo Luciano di Antiochia che si deve considerare come il vero padre dell'arianesimo.

Ario era nato in Egitto verso il 256. Era prete e aveva ricevuto l'incarico di reggere una importante chiesa della metropoli di Alessandria, una delle più splendide dell'Impero romano.

Era un uomo austero, distinto, alto e magro, eloquente e abile, molto popolare nella sua parrocchia, quella di Baucalis. Era però ambizioso, pieno di sé e molto ostinato nelle proprie idee. Verso il 318 si verificò un conflitto dottrinale tra lui e il suo vescovo, Alessandro. Quest'ultimo, dopo aver tentato invano metodi di persuasione e di dolcezza, riunì, verso il 320-321 lui concilio, che contò un centinaio di vescovi dell'Egitto e della Libia. Ario vi fu condannato e dovette lasciare la parrocchia. Ma si rifugiò in Palestina e quindi in Asia, dove si procurò dei seguaci. Aveva composto una raccolta di canti popolari, intitolata Thalia, per propagare le sue idee. Ad Alessandria aveva conservato amici devoti. Si cantavano i suoi cantici contro i cattolici. Questi rispondevano energicamente, e i pagani si divertivano a quelle dispute incresciose.

Proprio in quel tempo, l'imperatore Costantino aveva sconfitto il suo rivale Licinio e ricostituito, sotto la sua autorità, l'unità dell'Impero romano. Le dispute che avevano luogo ad Alessandria, a Nicomedia, in Palestina e in Siria erano troppo scottanti per non attrarre la sua attenzione. Dietro il consiglio del vescovo Osio di Cordova, decise di riunire un concilio generale perché si pronunciasse definitivamente sulla dottrina di Ario.

Questa dottrina era la seguente: Dio è uno e eterno; il Verbo o Logos è la sua prima creatura ed è stato da lui tratto dal nulla; egli se ne è servito per creare il nostro mondo. Il Verbo è quindi superiore e anteriore a tutte le altre creature, ma non lo si può chiamare Dio se non in quanto creatore, del mondo. In realtà, non è che un Figlio adottivo di Dio. Lo Spirito Santo a sua volta è la prima creatura del Figlio e perciò stesso è a lui inferiore. Fu il Verbo che venne ad animare il corpo di Gesù nato dalla Vergine Maria. Per questo si legge in san Giovanni: " Il Verbo, si è fatto carne" e non già "si è fatto uomo". Il Verbo sostituisce, in Gesù, l'anima umana e ne tiene il posto.

Il Concilio di Nicea, riunito nel 325 ad opera dell'imperatore Costantino, adottò, sotto l'influsso del diacono Atanasio, il più insigne teologo del vescovo di Alessandria dove era sorta l'eresia di Ario, il termine consostanziale per affermare categoricamente la perfetta uguaglianza del Verbo e del Padre. Due soli vescovi rifiutarono di sottoscrivere il Simbolo di fede votato nel Concilio, e che noi chiamiamo Simbolo di Nicea.

Tutti i seguaci di Ario furono deposti e deportati.


L'ARIANESIMO SOTTO COSTANTINO

Ma Costantino non seppe mantenere con fermezza la dottrina definita a Nicea. La sorella Costanza, più o meno guadagnata all'arianesimo, lo spinse a richiamare dall'esilio il vescovo Eusebio di Nicomedia, che acquistò la sua piena fiducia. Eusebio riuscì a fargli credere che il termine consostanziale aveva un sapore di sabellianismo e che cancellava ogni distinzione reale tra il Padre e il Figlio. Grazie a questi equivoci, Ario fu richiamato dall'esilio verso il 329-330, dopo aver emesso una confessione di fede del tutto insufficiente. L'arianesimo puro trovò il modo di rivestirsi di forme mitigate e la polemica si trascinerà ancora a lungo, di simbolo in simbolo, senza giungere ad una soluzione precisa.

Un nome tuttavia incarnava l'ortodossia: quello di Atanasio che, nel 328, era succeduto al proprio vescovo in Alessandria. Fu dunque contro Atanasio che gli amici di Ario e di Eusebio di Nicomedia concentrarono i loro sforzi. Si cercò di perderlo. Avendo Ario sottoscritto una formula imperfetta, ma che si volle ritenere come ortodossa, l'imperatore intimò ad Atanasio di riabilitarlo e di restituirgli la parrocchia. In seguito al suo rifiuto, Atanasio fu tradotto davanti a un concilio a Tiro e, a forza di intrighi, vi fu fatto condannare nel 335. L'anno seguente, Costantino lo esiliava a Trevi all'estremità delle Gallie. Nel frattempo, giunto all'età di 80 anni, Ario moriva - si dice - in mezzo al trionfo che gli amici gli preparavano a Costantinopoli per festeggiare la sua riammissione nella comunione cattolica.


IL FOTINIANISMO

Ad accrescere la confusione delle idee, avvenne, verso il 335, la pubblicazione di un libro contro l'arianesimo dovuto al vescovo Marcello d'Ancira. Nel suo zelo contro l'eresia, egli parve ricadere nell'errore di Sabellio, non distinguendo nettamente le tre persone della Trinità. Gli eusebiani, che godevano di grande favore presso Costantino, colsero l'occasione e fecero condannare Marcello. Quest'ultimo protestò e si appellò al papa Giulio I il quale, una prima volta nel 338 e una seconda volta nel 341, lo dichiarò ortodosso. Più tardi. tuttavia, si dovette riconoscere che il linguaggio di Marcello d'Ancira non era del tutto soddisfacente. E, siccome le sue idee erano state riprese da Fotino, vescovo di Sirmio, si diede il nome di fotinianismo a questa eresia che rinnovava in parte il modalismo di Sabellio. Ma tutto ciò aveva contribuito non poco a turbare gli spiriti nelle file dell'ortodossia.


IL SEMI-ARIANESIMO

Si era fatto tuttavia qualche progresso verso la verità. L'arianesimo era costretto a modificare le sue formule, per farle accettare. L'ortodossia, sempre validamente difesa da Atanasio e appoggiata da Roma, guadagnava terreno. Ma essendo morto Costantino nel 337, l'impero fu diviso tra i suoi tre figli, uno dei quali infine ereditò dagli altri due. Quest'ultimo, di nome Costanzo. si piccava di teologia. Come già il padre, si lasciò adescare da Eusebio di Nicomedia, che può essere considerato come il grande capo del semi-arianesimo. Mentre il papa Giulio I prendeva energicamente le difese di Atanasio, prima richiamato dall'esilio e quindi scacciato nuovamente dalla propria sede, Eusebio, in un concilio riunito ad Antiochia nel 341, finse di condannare in Marcello d'Ancira il rinnovato sabellianismo, facendo adottare una formula semi-ariana.

A quell'epoca Costanzo non era ancora unico imperatore. Il fratello Costante regnava in occidente. D'accordo con il papa Giulio I, Costante riunì un concilio a Sardica (l'odierna Sofia, in Bulgaria).

Era presente Atanasio e presiedeva, in nome del papa, il vecchio Osio di Cordova. A dispetto dell'opposizione degli eusebiani, che si ritirarono quasi subito, vi fu riabilitato Atanasio e acclamata l'ortodossia. Atanasio poté rientrare nuovamente ad Alessandria nel 346.

L'anno precedente si era finito, in Occidente, con lo sfatare le dottrine oscure e perniciose di Fotino di Sirmio, e di conseguenza quelle ancor più subdole del suo maestro Marcello d'Ancira. Queste dottrine erano state nettamente condannate nel concilio di Milano nel 345, e tale decisione aveva contribuito a rischiarare l'atmosfera. Grazie all'energico imperatore Costante, si poteva sperare la pace nella Chiesa. Ma egli morì assassinato nel 350, e da quel momento Costanzo rimase unico padrone dell'Impero. Eusebio di Nicomedia era morto. Ma due vescovi, le cui dottrine erano state condannate nel concilio di Sardica del 343, riuscirono ad entrare nelle sue buone grazie: Basilio d'Ancira e Acacio di Cesarea. Sotto l'influsso di Basilio d'Ancira, che era semiariano come lo era stato Eusebio di Nicomedia, fu riunita tutta una serie di concili, con il pretesto di porre fine all'eresia di Fotino di Sirmio (il sabellianesimo).

Ma si mirava a dire che la dottrina di Atanasio, la quale sosteneva che il Verbo è consostanziale al Padre, non era altro se non fotinianismo camuffato. E, siccome la dottrina e la formula di Atanasio erano sostenute soprattutto in Occidente, l'imperatore, dietro la spinta dei suoi consiglieri semi-ariani, moltiplicò in Italia e in Gallia i concili destinati a distruggere quella pretesa d'eresia, l'eresia dei " niceani ", cioè dei sostenitori del Concilio di Nicea del 325.

Tali furono il concilio di Milano del 355, quello di Arles del 353, quello di Beziers del 356, ecc. Dappertutto, ci si limitava a costringere i vescovi a scegliere tra la condanna di Atanasio e l'esilio. Il papa Liberio, succeduto a Giulio I nel 352, si lasciò adescare. Non avendo voluto abbandonare la causa di Atanasio, fu dapprima esiliato da Roma a Berea (fine del 355) e sostituito da un antipapa di nome Felice (355-365), e finì per sottoscrivere una formula equivoca, di cui parleremo tra breve.

Fra i più illustri esiliati di questo periodo così burrascoso si devono segnalare, insieme con il papa Liberio e lo stesso Atanasio, due santi molto venerati in Occidente: s. Eusebio di Vercelli e S. Ilario di Poitiers; e persino il venerando Osio di Cordova, nato nel 258 e vescovo dal 295. Aveva quasi cento anni!


VARIE FORME DI SEMI-ARIANESIMO

Ma che cosa si metteva al posto della dottrina definita a Nicea? Con che si sostituiva il "consostanziale" di Atanasio?

Ciò che caratterizza l'eresia sono le sue incessanti variazioni e fluttuazioni; perché - come ha giustamente rilevato Newman - appena si esce dall'ortodossia si cade nell'inconsistenza. Tale osservazione si adatta egregiamente ai casi di quest'epoca. I semi-arianni non cessavano di costruire formula. Non volevano saperne di consostanziale con il pretesto che vi sentivano odore di sabellianismo. Perciò, cercavano un altro aggettivo. I semi-ariani propriamente detti, con Basilio d'Ancira, si attenevano al termine simile nella sostanza homoiousios in greco - invece di homoousios che era il termine di Atanasio. Furono quindi chiamati omeousiani. All'estremità della scala delle opinioni si trovavano gli ariani puri, i quali sostenevano che il Verbo era dissimile - anomoios - dal Padre. Questi sono conosciuti sotto il nome di anomei. Infine, tra i due opposti si ergeva l'opinione di Acacio di Cesarea, secondo il quale si doveva dire semplicemente che il Verbo è simile - omoios - al Padre, senza precisare che gli è simile nella sostanza. I sostenitori di questa teoria furono perciò detti omei.

Le differenze che si notano in quelle che sono chiamate le quattro formule di Sirmio (varate dal 351 al 359), mostrano chiaramente le divergenze che travagliavano allora gli animi nella Chiesa. Sirmio, che viene identificata con l'attuale Mitrovitza, sulla Sava, in Jugoslavia, era la residenza abituale di Costanzo. E, appunto alla presenza di quest'ultimo si elaborarano, in quella città, le più mutevoli formule di fede. La prima formula di Sirmio, redatta sotto l'influsso di Basilio d'Ancira, è semi-ariana ma potrebbe interpretarsi in maniera ortodossa. La seconda segna l'influsso passeggero degli Anomei e il declino dell'influsso di Basilio d'Ancira. E' dell'anno 357 e posteriore di sei anni alla precedente. Proclama il Figlio inferiore al Padre e 1o Spirito Santo inferiore al Figlio. Mediante le più odiose e colpevoli violenze, non si ebbe vergogna di far sottoscrivere questa formula al vecchio Osio di Cordova, completamente ingannato; ma non gli si poté mai strappare una condanna dell'amico Atanasio. Aveva allora 99 anni! A partire dal 358, Basilio aveva ripreso l'offensiva ed era riuscito a far ammettere dall'imperatore una terza formula, nella quale senza dubbio non si riscontrava il termine ortodosso consostanziale decretato a Nicea, ma che si poteva tuttavia intendere in modo cattolico. Bisogna riconoscere che certi scrittori anche perfettamente ortodossi, come san Cirillo di Gerusalemme, temevano un poco l'espressione "consostanziale ", quasi potesse portare al sabellianismo. Non è quindi da stupire che il papa Liberio, il quale languiva da tre anni a Berea e vedeva la sua chiesa di Roma dilaniata dallo scisma a causa di un antipapa, abbia creduto di poter sottoscrivere quella formula, onde ritrovare la libertà. Cosa più spiacevole, egli acconsentì n condannare Atanasio per l'uso del termine " consostanziale ". Non è tuttavia da credere che il papa sia, in questa circostanza, caduto egli stesso nell'eresia, benché durante le discussioni sull'infallibilità del papa si sia fatto continuamente ricorso al suo caso. Liberio mancò di chiaroveggenza e di fermezza, ma la sua ortodossia sembra rimanere completamente fuori causa.

Il trionfo di Basilio d'Ancira, autore di questa terza formula di Sirmio, non fu d'altronde di lunga durata, poiché i suoi nemici e rivali strapparono a1 debole e pretenzioso imperatore una quarta formula di Sirmio, che dichiarava il Verbo semplicemente simile al Padre, il che significava la vittoria degli omei sugli omeusiani. Eravamo nel 359. La formula fu sottoscritta per prudenza dagli anomei, e dallo stesso Basilio d'Ancira, che la adattò alla sua opinione personale.

Ma allora si produsse nella Chiesa un vero dramma.

L'imperatore ebbe la pretesa di far sottoscrivere questa formula da tutti i vescovi dell'impero, e a tal fine convocò due concili, uno a Selcucia per l'Oriente e l'altro a Rimini per l'Occidente.

A Rimini, si radunarono 400 vescovi, di cui circa 80 erano ostili alla definizione di Nicea. La maggioranza quindi dichiarò di attenersi al concilio di Nicea e respinse la formula di Sirmio. Ma la minoranza agì con tanta astuzia e fece intervenire l'imperatore con tanta rigidità che, dietro le più gravi minacce e con spiegazioni miranti ad addormentare le coscienze, si ottenne dai Padri la sottoscrizione di questa formula di Sirmio, per di più aggravandola, poiché mentre prima il Verbo vi era detto "simile al Padre in ogni cosa ", a Rimini queste ultime tre parole furono soppresse.

Comunque sia, è certo che la formula di Rimini fu infine adottata nel più assoluto equivoco.

Lo stesso avvenne a Seleucia. Basilio d'Ancira si dibatté dapprima come meglio poté; poi l'autorità dell'imperatore fece pendere la bilancia nel senso inverso. Così la formula, detta omeiana, sottoscritta a Rimini, venne imposta anche a Seleucia. Di qui passò ai popoli barbari che nel secolo seguente avrebbero invaso l'impero romano. Quando si afferma, in storia, che questi popoli, o almeno una parte di essi - per esempio i Burgundi e i Goti - erano ariani, si vuole intendere che professavano la Confessione di fede di Rimini-Seleucia. L'anno seguente, nel 360, gli acaciani o omei riportarono un'ultima vittoria al concilio di Costantinopoli, che condannò insieme i termini consostanziale (ortodosso), simile in sostanza (Basilio d'Anciria, semi-ariano) e dissimile (ariani puri).

Sembrava che l'eresia avesse vinto nella Chiesa. San Girolamo, parlando di questo breve periodo, che terminò con la morte dell'imperatore avvenuta nel 361, disse con una frase rimasta celebre:" L'universo gemette nello sbalordimento di vedersi diventato ariano! "

Non era nulla di grave. Gli spiriti ingannati dagli intrighi e vessati dalle minacce della Corte, si risolleveranno ben presto.

Alla morte di Costanzo, fu uno dei suoi nipoti, Giuliano - che in storia è soprannominato l'Apostata - a prendere il potere. Egli aveva segretamente abbracciato il paganesimo. Ed era venuto in urto con lo zio, l'imperatore, in seguito alla rivolta dell'esercito, che proclamava Augusto lui stesso. Costanzo era morto mentre marciava contro di lui. Una volta padrone dell'impero, Giuliano cercò di ristabilire il paganesimo. Il suo primo atto fu quello di rimandare alle proprie diocesi tutti i vescovi esiliati, senza dubbio con l'idea di provocare in tal modo delle divisioni in seno alla Chiesa.

Non starò a descrivervi qui tutti i tentativi da lui fatti per risuscitare il paganesimo ormai sorpassato e sepolto. Del resto non ebbe il tempo di impegnarvisi a lungo, poiché già nel 363 scompariva, all'età di 32 anni durante una spedizione contro i Persiani. I suoi successori Gioviniano, Valentiniano e Graziano e soprattutto Teodosio - o usarono una larga tolleranza, rimanendo fuori delle dispute teologiche, o si mostrarono decisamente favorevoli all'ortodossia cattolica. Uno solo, Valente, fratello di Valentiniano I e da lui associato all'impero, si fece, al pari di Costanzo, difensore dell'arianesimo, senza portare d'altronde gravi disordini in seno alla Chiesa d'Oriente, in cui risplendevano allora autentici geni, come Basilio di Cesarea e il suo grande amico Gregorio Nazianzeno.

Atanasio ebbe l'onore di contribuire, prima della sua morte, alla riconciliazione e alla pacificazione degli animi. Rientrato al pari degli altri, nel 362, nella sua chiesa di Alessandria, radunò un concilio e in esso dette prova di una grande larghezza d'animo per porre fine a tutte le dispute dogmatiche. Fece semplicemente rivivere i decreti del concilio di Nicea del 325 rifuggendo da qualunque discussione di termini. Quando morì - nel proprio letto, lui che era stato così spesso scacciato dalla sua sede - aveva adempiuto - uno dei più nobili compiti che possano incombere a un pastore di anime, poiché aveva ristabilito dovunque intorno a sé la pace nell'unità della fede. Era il 2 maggio del 373.

Fra coloro che seguirono il suo esempio è da segnalare sant'Ilario di Poitiers nelle Gallie, sant'Eusebio di Vercelli in Italia, e i cosiddetti tre Cappadoci: Basilio di Cesarea, già ricordato, Gregorio Nazianzeno e Gregorio Nisseno, fratello di Basilio - forse il più profondo dei tre.


GLI PNEUMATOMACHI

Per quasi tutto il IV secolo - uno dei più splendidi della storia della Chiesa - si discusse animatamente sulla divinità del Verbo, ma si perdette un poco di vista quella dello Spirito Santo. E' chiaro tuttavia che coloro i quali rigettavano la divinità consostanziale del Figlio respingevano a maggior ragione quello dello Spirito Santo, da tutti ritenuto al terzo posto tra le "persone divine ". Solo verso il 360 si pose chiaramente la questione su questo punto. La persona dello Spirito Santo era infatti sempre associata alle altre due, particolarmente nella liturgia battesimale. La maggior parte dei semi-ariani e soprattutto degli ariani puri si dichiararono contro la divinità dello Spirito Santo. Per questo motivo furono chiamati pneumatomachi, cioè avversari dello Spirito, ed anche macedoniani, dal nome di Macedonio, vescovo intruso di Costantinopoli, che fu uno dei loro capi più eminenti, e venne deposto nel 360. Questa nuova disputa aveva il vantaggio di costringere le menti a considerare il dogma della Trinità in tutta la sua ampiezza. Fu vanto del grande imperatore Teodosio mettere un punto finale a quelle interminabili controversie, attraverso le quali, tuttavia, la teologia della Trinità aveva preso una mirabile consistenza. Fin dal battesimo, ricevuto nell'età adulta, Teodosio aveva dichiarato di volersi attenere in tutto, ma specialmente in materia trinitaria, al pensiero del vescovo di Roma e alla fede professata in comune dal papa e dal vescovo Atanasio di Alessandria. Ma, una volta divenuto imperatore, comprese che gli Orientali conservavano una certa suscettibilità riguardo al papa e al successore di Atanasio. Ebbe quindi l'accortezza, di radunare a Costantinopoli un concilio di soli orientali. Era da poco tempo vescovo della città Gregorio Nazianzeno, grande oratore, grande teologo e autentico santo. L'imperatore cominciò col far restituire ai cattolici tutte le chiese della città che erano state occupate dagli ariani. Quindi, d'accordo con Gregorio Nazianzeno, convocò i vescovi orientali. Ne vennero 186, di cui 36 erano pnematomachi. Il concilio fu presieduto successivamente da Melezio di Antiochia, da san Gregorio Nazianzeno e, dopo le dimissioni di quest'ultimo, dal suo successore Nettario. Esso consacrò definitivamente la dottrina di Nicea, scagliò l'anatema contro l'arianesimo e il semi-arianesimo, specialmente contro l'eresia degli anomei e degli omei, come pure degli omeusiani. Infine, il concilio proclamò la divinità dello Spirito Santo pari a quella del Verbo e del Padre. Gli pneumatomachi furono quindi respinti dalla Chiesa, e in questo senso fu completato il Simbolo di Nicea. L'arianesimo continuò a vivere sol più presso i " barbari " fino al secolo VII.

continua..........
Caterina63
00giovedì 27 novembre 2008 22:56
CAPITOLO III.

LE ERESIE IN OCCIDENTE
CARATTERI GENERALI


Passando dall'Oriente all'Occidente, è impossibile non rilevare una profonda differenza tra le eresie che sono sorte da una parte e dall'altra. Le grandi eresie del IV secolo si erano sviluppate soprattutto in Oriente ma avevano avuto indubbiamente una ripercussione anche in Occidente. In particolare, la sede di Roma aveva sempre avuto la sua parola da dire nella determinazione del dogma cattolico di fronte a ciascuna di esse. Però tutti i capi di sette erano stati orientali. Le eresie di cui dovremo parlare nel presente capitolo nacquero invece in Occidente. E avranno un carattere del tutto diverso. Il genio orientale indugiava con ardore soprattutto sui grandi problemi metafisici: la Trinità, la divinità del Verbo e quella dello Spirito Santo, la creazione del mondo e l'origine del male. E' sarà quasi sempre così anche in seguito. Si tratterà della unione ipostatica delle due nature di Gesù Cristo, dell'unione in lui della volontà divina e di quella umana, ecc. Si potrebbe dire che il genio greco è attratto maggiormente verso gli oggetti, mentre l'animo occidentale si rivolge di preferenza verso il soggetto: l'uomo, la libertà umana, la grazia, la predestinazione, la fede e le opere, il male in noi.

I greci si sono mostrati sempre amanti dell'alta metafisica e i latini della psicologia. Non si deve tuttavia spingere troppo oltre questa distinzione. I latini infatti non hanno esitato a seguire i greci nelle loro alte speculazioni, e i trattati sulla Trinità o sulla Incarnazione non sono stati minori in Occidente che in Oriente. Ma l'iniziativa non partiva da loro. In senso inverso, il problema della grazia e del suo legame con la libertà umana è stato approfondito con maggior vigore in Occidente che in Oriente.

Tenendo conto di queste premesse, passeremo in rassegna le eresie occidentali.


LO SCISMA DONATISTA

Se si parla di uno scisma a proposito del donatismo africano, non significa che non vi sia stata, nel fondo della questione, una precisa eresia. Lo scisma ebbe origine in occasione della elezione di Ceciliano ad arcivescovo di Cartagine. Si formò un partito contro di lui. Si pretese che la sua consacrazione per mano del vescovo Felice di Aptonga fosse invalida. Si diceva infatti che Felice, al tempo della prescrizione, avesse consegnato i Libri sacri alla polizia. Essere stato, come si diceva, un traditor, gli toglieva per sempre il potere di consacrare validamente. Questa teoria si riaccostava alquanto all'errore dello stesso san Cipriano, vescovo di Cartagine. quando aveva affermato, contro il pensiero di Roma, che il battesimo conferito dagli eretici era invalido. E gli avversari di Ceciliano si appellavano alla autorità di Cipriano. Il loro capo fu un certo Donato, detto delle Capanne Nere dalla località africana di cui era vescovo, e il loro più insigne teologo fu un altro Donato, che chiamarono il Grande. Di qui il nome di donatisti. Essi trovarono facilmente dei seguaci in un paese dalle accese passioni come l'Africa e dove abbondavano gli scontenti contro la dominazione romana. I donatisti ebbero anche delle pattuglie d'assalto, come diremmo oggi, sotto forma di bande fanatiche, composte di uomini che si attribuivano il nome di soldati di Cristo, ma che i cattolici soprannominarono circoncellioni o vagabondi.

Dal punto di vista dottrinale, i donatisti, non senza varianti, professavano due princìpi ugualmente eretici:

1) i peccatori pubblici e manifesti, specialmente i vescovi e i preti prevaricatori, non appartengono più alla Chiesa: 2) fuori della vera Chiesa, tutti i sacramenti sono invalidi.

Cosa ancor più grave, i donatisti pretendevano scacciare dalla Chiesa non solo i vescovi e i preti che essi accusavano di prevaricazione, ma anche tutti i fedeli che restavano in comunione con loro. Giungevano quindi a considerarsi come la sola vera Chiesa! Tutto il resto della Chiesa, a sentir loro, era fuori della verità cristiana. Si era ben lontani dallo spirito di misericordia che regna nel vangelo!

Una eresia così radicale e perniciosa doveva essere vigorosamente combattuta dai cattolici. Il donatismo fu infatti condannato nel Concilio I Lateranense a Roma nel 313, e quindi, nel 314, in quello di Arles, presieduto dall'imperatore Costantino. Gli imperatori furono fin da allora tutti senza eccezione - salvo Giuliano l'Apostata - decisi avversari del donatismo, ma senza riuscire a sradicarlo. Ragioni politiche, e un nazionalismo africano analogo a quello che costatiamo ai nostri giorni, agivano sugli animi in favore della setta.

Il grande avversario dottrinale del donatismo fu, nel V secolo, sant'Agostino, vescovo di Ippona. Nel 411 si tenne a Cartagine un grande concilio a forma di contradittorio. Erano presenti 286 vescovi cattolici africani, contro 279 donatisti. Vi erano quindi quasi dovunque, nei paesi africani, due vescovi; uno cattolico e uno donatista. Il concilio, grazie all'eloquenza e alla scienza biblica di Agostino, tornò a confusione degli scismatici.

Lo Stato prese severe misure contro di essi. Le conversioni si moltiplicarono e l'eresia scomparve a poco a poco.

Queste dispute, talvolta così accese, ebbero un buon risultato. Si stabilì infatti: 1) che non si esce dalla Chiesa con il peccato, anche mortale e pubblico, ma solo con l'apostasia dalla fede; 2) che non si richiede nel ministro di un sacramento lo stato di grazia perché quel sacramento sia valido.


IL PRISCILLIANISMO

L'eresia priscilliana deve la sua origine a un certo Priscilliano, vescovo di Avila (il futuro luogo di nascita di santa Teresa). Priscilliano apparteneva a una nobile famiglia spagnola ed era versato nell'arte allora molto popolare della divinazione, che confinava il più delle volte con la magia. Aveva cominciato, verso il 370, a diffondere idee di origine gnostica e manichea, per mezzo delle quali si vantava di condurre i suoi discepoli alla perfezione. Aveva così acquistato la fiducia di parecchi vescovi spagnoli ed era diventato lui stesso vescovo. Le sue dottrine furono tuttavia validamente combattute dai vescovi ortodossi. Sant'Ambrogio in Italia e san Martino nella Gallia presero parte alle controversie che esse suscitavano. Priscilliano fu condannato da parecchi concili e consegnato alla giustizia civile, con gran dispiacere di San Martino di Tours, il quale pensava che si dovessero convertire gli eretici e non condannarli a morte! La morte di Priscillinno si colloca intorno al 385. Ma egli lasciava dei seguaci che prolungarono e anzi aggravarono i suoi errori. Essi si possono considerare come lontani antenati degli albigesi. Praticavano una certa magia, credevano nel destino scritto, secondo loro, negli astri.

Due secoli dopo, il papa Gregorio Magno si vedeva ancora costretto a confutarli.

" Occorre sapere - scriveva - che gli eretici priscillianisti pensano che ogni uomo nasca sotto una combinazione di stelle. E chiamano in aiuto del proprio errore il fatto che una nuova stella apparve quando Nostro Signore si mostrò nella carne ".

Il concilio lusitano di Braga aveva condannato solennemente i priscillianisti nel 565.


ERRORI SULLO STATO DI VERGINITÀ

Se citiamo qui i nomi di Elvidio, Bonosa, Gioviniano e Vigilanzio non è perché essi abbiano prodotto gravi dissidi nella Chiesa. Questi personaggi sono noti solo attraverso le vigorose confutazioni di san Girolamo e di alcuni altri Padri. Furono tutti più o meno avversari dell'ascetismo cristiano e specialmente della pratica, antica quanto la Chiesa, della verginità consacrata a Dio. Ciò che la Chiesa, attraverso la voce di san Girolamo e le decisioni dei concili, volle stabilire contro di essi è: 1) La superiorità dello stato di verginità consacrata a Dio, nella vita religiosa, sullo stato di matrimonio; 2) la perpetua verginità di Maria, madre del Salvatore; 3) l'utilità e il merito dell'ascetismo cristiano, della pratica dei digiuni, delle astinenze o della vita monastica; 4) la legittimità del culto dei santi e delle reliquie.

Le negazioni di quegli eretici su tutti questi punti si ritroveranno, dodici secoli dopo, in seno al protestantesimo. Il più noto di essi, Gioviniano, un italiano, a quanto sembra, fu condannato nel 390 dal papa Siricio in un concilio tenuto a Roma e da sant'Ambrogio nel 391 in un concilio tenuto a Milano.


PELAGIO E IL PELAGIANESIMO

Molto più grave fu l'eresia che si ricollega al nome di Pelagio. Questi era nato in Inghilterra intorno al 354, data della nascita di s.Agostino che doveva essere il suo grande avversario. Pare che sia venuto a Roma verso il 384. Era un uomo di grande talento e di insigne virtù. Oratore, scrittore, esegeta, rimase " dottore laico e indipendente" ma si riallacciava forse alle dottrine dello pseudo-Ambrogio - l'Ambrosiaster - che si ispirava alla scuola di Antiochia. Pelagio era certamente in assoluta buona fede. Non sembra che abbia mai pensato ano fare uno scisma o a fondare una setta. Suo scopo era di reagire contro una religione superficiale e tutta esteriore, come quella che vedeva propagarsi nel mondo pagano convertito in massa al cristianesimo. Scrisse molto, ma la maggior parte delle sue opere sono andate perdute. Si conservano alcuni lavori di esegesi, e soprattutto una lettera a Demetriade che è come un trattato di spiritualità.

Pelagio era anzitutto un moralista severo e intransigente, un rigorista alla sua maniera, che era all'opposto di quella dei giansenisti di cui dovremo parlare più avanti. Predicava il distacco dalle ricchezze, la pratica dei consigli evangelici di povertà e di castità, in tutto il loro rigore. Combatté con forza qualunque rilassamento, insistendo sulle sanzioni eterne dei nostri atti: il paradiso e l'inferno.

In che cosa consiste dunque l'eresia di un direttore di anime così zelante e degno di rispetto? Nel fatto che egli deforma la grazia. Propone alle anime un alto ideale di " giustizia ", cioè di santità, ma per questo conta soprattutto sulla volontà individuale, sulla libertà umana interamente protesa verso Dio. Senza dubbio, Pelagio non può fare a meno di parlare della grazia, di cui si tratta così spesso negli scritti di san Paolo. Ma per lui la grazia è semplicemente la natura stessa, così splendidamente dotata da Dio, nella creazione.

Anche noi, certo, ringraziamo Dio dei suoi doni, ma crediamo che il peccato originale ci ha fatto perdere gran parte di questi doni. Ora, Pelagio nega il peccato originale. E' impossibile, secondo lui, che l'anima immediatamente creata da Dio sia caricata di un peccato che non ha commesso. Gli si obbietta il fatto del battesimo dei bambini, in uso nella Chiesa fin dalle origini. Pelagio si rifiuta di ammettere che tale battesimo cancelli un peccato originale nell'anima di coloro che lo ricevono. Negli adulti, senza dubbio, il battesimo cancella i peccati commessi in precedenza, ma non si può dire che esso venga conferito ai bambini " in remissione dei peccati ". Non ha altro scopo che quello di aprire loro il " regno dei cieli ", ma questo regno è solo un aspetto della vita eterna. Anche i bambini molti senza battesimo vanno in paradiso, ma non nel " regno dei cieli ", che è soltanto una parte di esso.

Pelagio tuttavia evita di spiegarsi su questo punto oscuro. Ciò che egli soprattutto prediligeva era magnificare l'attitudine della nostra libertà a scegliere a suo arbitrio fra il bene e il male e ad adempiere, con le proprie forze, tutta la legge divina. Il suo discepolo più insigne, il vescovo italiano Giuliano di Eclano, dirà in termini giuridici: "Mediante il libero arbitrio l'uomo si e sentito emancipato da Dio". Voleva intendere che noi non siamo degli scliiavi. grazie alla nostra libertà. Possiamo dire a Dio " sì " o " no " a nostro piacere e a nostro rischio e pericolo. Il primo dovere dell'uomo è dunque prendere coscienza di questa sublime autonomia e di usarne per la propria completa santificazione.

La dottrina di Pelagio aveva sembianze di grandezza. E questo appunto spiega il gran numero di vittime che riuscì a fare. Egli esaltava la volontà umana. In certi ambienti romani, in cui sopravviveva lo stoicismo, non si poteva fare a meno di applaudire a queste rivendicazioni dell'energia umana. Pelagio pare abbia predicato liberamente e senza trovare ostilità in Italia fino al 410. Ma a quest'epoca, si verificò una catastrofe spaventosa. Le frontiere romane cedevano da tutte le parti sotto la pressione delle invasioni barbariche. Bande di Visigoti, guidate da Alarico, si diffusero attraverso il nord nell'Italia, e presto raggiunsero Roma. La città " eterna ", come già era chiamata fu presa e orribilmente saccheggiata. Si pensò alla fine del mondo! Le popolazioni sgomente fuggivano nella direzione opposta a quella dei barbari. Pelagio e il suo più eminente discepolo romano, il giovane avvocato Celestio, furono nel numero dei profughi. Passarono dapprima in Africa, ma mentre Pelagio si recava in Palestina dove riceveva un'accoglienza abbastanza favorevole, Celestio sollevava intorno a sé obiezioni, critiche e opposizioni ben motivate. Nel 411 si radunò un concilio a Cartagine. Vi furono condannate le sue dottrine e lui stesso fu scomunicato. Fece appello a Roma, ma invece di recarsi dal papa, per patrocinale la propria causa, fuggì a Efeso dove si fece ordinare prete. In Africa, frattanto, continuava la lotta contro le sue dottrine. Sant'Agostino ne fu 1'animatore. Scrisse l'uno dopo l'altro parecchi libri contro il pelagianesimo: De spiritu et littera (Lo spirito e la lettera) nel 412; De natura et gratia (La natura e 1a grazia) nel 415 e altre ancora. Appunto allora meritò di diventare quello che è rimasto per noi, il " dottore della grazia ". Nessuno meglio di lui seppe ricavare dalla Scrittura e dalla Tradizione la dottrina della Chiesa: 1) sul peccato originale; 2) sulla necessità del battesimo per la salvezza; 3) sull'azione preveniente e adiuvante della grazia nell'opera della nostra salvezza. Il pelagianesimo, dapprima mal compreso dagli orientali, e dichiarato ortodosso nel concilio di Gerusalemme e in quello di Diospolis nel 415, fu senza tregua condannato dai concili africani, approvati da Roma. A dispetto delle astuzie tattiche dei pelagiani i quali si difendevano con ogni sorta di cavilli, il papa Zosimo, ingannato per qualche istante, finì per colpire di anatema questa eresia perniciosa e sottile, in una Enciclica intitolala Epistola tractoria (estate del 418). Vi furono tuttavia 18 vescovi italiani, il più noto dei quali è Giuliano di Eclano, che rifiutarono di sottoscrivere la dottrina definita dal papa. Ma furono vigorosamente confutati, e l'eresia scomparve con discreta rapidità.


IL SEMI-PELAGIANESIMO

Sant'Agostino aveva tratto dal Vangelo e dalle Epistole di san Paolo tutti gli argomenti che opponeva al pelagianesimo. Non aveva fatto fatica a dimostrare che si intaccavano le fondamenta stesse della fede cristiana. Il pelagianesimo tendeva per se stesso a dimostrare l'inutilità del Cristo. Sarà più tardi il grande argomento del giansenismo. Se non vi è stato peccato originale, non c'era bisogno di un Redentore. E' inutile la preghiera se bastiamo a noi stessi.

"Nessuno viene a me se il Padre mio non lo attrae", aveva detto Gesù'. " Che cosa hai che non hai ricevuto, e se l'hai ricevuto, perché gloriarti come se non l'avessi ricevuto? ", aveva dichiarato san Paolo.

Vi è in questi testi una tale forza dimostrativa che il pelagianesimo non avrebbe potuto opporvisi. Ma vi furono mezzogiorno della Francia dei monaci che rimasero turbati dal vigore delle espressioni di sant'Agostino sulla necessità della grazia. Pensarono che non si desse al libero arbitrio la parte che gli spettava nelle opere della salvezza, Loro interprete fu il celebre autore delle Conferenze spirituali, Giovanni Cassiano, fondatore del monastero di San Vittore di Marsiglia. Giovanni Cassiano ammetteva la necessità della grazia. Raccomandava la preghiera, anzi la preghiera incessante.

Ma, nella sua Conferenza XIII, propose sotto l'etichetta degli asceti e dei pii autori spirituali del deserto egiziano che egli aveva conosciuto e consultato, la seguente dottrina: 1) è in potere dell'uomo volgersi per primo verso Dio, cosi come è in potere del malato andare per primo a chiamare in aiuto il medico; 2) allo stesso modo la predestinazione eterna dipende in ultima analisi dalla volontà umana, poiché spetta ad essa perseverare sino alla fine. In altri termini, Cassiano rigettava la grazia preveniente e la grazia di perseveranza finale.

Messo al corrente da mio dei suoi discepoli – san Prospero di Aquitania - Agostino scrisse subito due libri sull'argomento, nei quali confutava ciò che fu chiamato per secoli "l'errore dei marsigliesi " ma che noi chiamiamo, a partire dal secolo XVII, il semi-pelagianesimo. Egli insisteva sulle parole di Cristo: "Senza di me non potete far nulla ", e sugli altri testi citati più sopra. Dopo la morte di Agostino (28 agosto del 430), la sua dottrina fu confermata da una Enciclica del papa Celestino I ai vescovi delle Gallie. Non vi fu condanna di persone. Le idee di Cassiano furono sostenute da uno scrittore degno di nota, san Vincenzo di Lerins, e da un vescovo zelante, Fausto di Riez. Ma nella Gallia si sviluppò parallelamente l'agostinismo, e infine furono due grandi vescovi della regione, san Cesario di Arles e sant'Avito di Vienna, che assicurarono la definitiva condanna del semi-pelagianesimo nel concilio di Orange del 529. Il papa Bonifacio II approvò solennemente i decreti di questo concilio nel 532. Fu stabilito che l'uomo decaduto per il peccato originale non può né ottenere la fede né desiderarla senza una grazia preveniente. Tanto meno può perseverare nel bene senza una sequela di grazie adiuvanti, né perseverare sino alla fine senza un dono speciale collegato alla sua predestinazione.

Erano gravi e difficili problemi. Ci si può chiedere se talora sant'Agostino, nel suo zelo di riferire tutto a Dio nell'opera della salvezza, e nel suo impegno di stabilire la necessità della predestinazione, non abbia aperto la via a dottrine confinanti con il fatalismo. Quel che è incontestabile è il fatto che egli sarà continuamente invocato dai predestinaziani. Era stato già necessario condannare il prete Lucido, per le sue dottrine a questo proposito, Parimcnti Lutero, Calvino, Baio e Giansenio pretenderanno di porsi sotto il patrocinio di Agostino, e la Chiesa dovrà dare del pensiero agostiniano una interpretazione capace di conciliare i diritti della libertà umana e l'azione della grazia divina. Come sempre, sarà fra i due estremi, ugualmente falsi, che la dottrina cattolica dovrà tracciare e mantenere la sua via. Ma nasceranno su questo punto gravi controversie che certo non saranno mai definitivamente risolte (soprattutto tomismo e molinismo). Il detto di Bossuet: " Teniamo saldi i due capi della catena.." rimarrà una parola di saggezza per tutti.

continua............
Caterina63
00giovedì 27 novembre 2008 23:00
GLI ERRORI CRISTOLOGICI DAL IV AL VII SECOLO


L'APOLLINARISMO


Se lasciamo l'Occidente per tornare in Oriente, vi troveremo ancora delle controversie di ordine speculativo. Si discute meno sulla grazia e sulla libertà umana che sulla natura di Cristo, e sulla unione, in lui, della natura umana e della natura divina. Ed è sempre in stretto legame con le eresie ariane e semi-ariane che si producono nuove deviazioni dottrinali.

Si è visto ad esempio che, per Ario, l'anima di Cristo non era altro che il Verbo, la prima creatura tratta dal nulla da Dio. Troveremo qualcosa di simile con il vescovo Apollinare di Laodicea. Questi era un uomo di virtù e di scienza. Si era mostrato avversario risoluto dell'arianesimo, sostenendo la divinità del Verbo o Logos. Ma non seppe difendersi dall'errore dello stesso Ario in ciò che riguarda l'anima di Cristo. Per lui, come per Ario, è il Verbo che tiene il posto di quest'anima. E interpreta in tal senso, al pari di Ario, le parole del Vangelo: " E il Verbo si fece carne " (Giov.1, 14). Credeva con ciò di salvaguardare meglio l'unità di persona in Cristo e soprattutto la sua perfetta santità, poiché - diceva - "dal momento che esiste l'uomo completo esiste anche il peccato ".

L'apollinarismo fu tuttavia rigettato in parecchi concili e particolarmente nel grande concilio di Costantinopoli del 381.


NESTORIO E IL NESTORIANESIMO

Per meglio combattere l'apollinarismo, il più insigne dottore della scuola di Antiochia, Diodoro, vescovo di Tarso dal 378, aveva manifestato una certa tendenza ad opporre il Figlio di Dio, consostanziale al Padre, al Figlio di David, nato dalla Vergine. Il Figlio di David, secondo lui, era stato solo il tempio del Figlio di Dio. Maria non meritava quindi per alcun motivo l'attributo di Madre di Dio. Diodoro, illustre vescovo e teologo, intendeva bensì salvaguardare l'unità morale di Cristo, ma non si accorgeva di salvaguardarla solo a parole: in realtà sembrava ammettere due persone nello stesso Cristo: una persona divina e una persona umana. Dopo Diodoro. che era morto nel 394, il suo migliore discepolo, Teodoro, vescovo di Mopsuestia dal 392, si dedica a penetrare quella che noi chiameremmo oggi la psicologia umana del Cristo. Egli lo vede svilupparsi, come ogni altro uomo: o lottare, al pari degli altri, contro le tentazioni, ma finire col meritare la sua unione con il Verbo.

Teodoro aveva tuttavia avuto cura di rivestire il suo pensiero di forme così tradizionali da non sollevare alcuna protesta. Però nell'anno stesso della sua morte, avvenuta nel 428, uno dei suoi discepoli, il prete Anastasio, condotto da Antiochia a Costantinopoli dal nuovo vescovo di questa città, Nestorio, si ispirò alle sue idee nella propria predicazione. Dovendo parlare in pubblico della Vergine Maria, contestò al popolo cristiano il diritto di chiamarla Madre di Dio - Theotocos - come si usava fare ormai da lungo tempo. Questa opinione del prete Anastasio produsse sbigottimento nella città. Davanti allo stupore dei fedeli, Nestorio, che condivideva la convinzione di Anastasio dietro le orme di Diodoro di Tarso e di Teodoro Mopsuesteno, prese decisamente posizione in suo favore. Un laico di nome Eusebio, che diverrà più tardi vescovo di Dorilea, protestò ad alta voce contro il linguaggio del vescovo.

Tutta la città e la Corte si trovarono interdette. La Corte imperiale si schierò con il vescovo, ma i monaci e il popolo erano per la tradizione mariana. Presto il rumore di queste controversie giunse ad Alessandria, sede episcopale in rivalità secolare con la scuola di Antiochia e con la sede di Costantinopoli. Il vescovo di Alessandria era appunto un teologo di primissimo piano, Cirillo. Egli intervenne senza indugi, dapprima con cortesia, rivolgendosi direttamente a Nestorio; poi quando vide che le sue osservazioni non erano accettate, si rivolse a Roma. Nestorio aveva già fatto altrettanto.

Da una parte e dall'altra, si comprendeva benissimo che il nodo della questione risiedeva nell'uso dell'attributo Madre di Dio applicato a Maria. Se glielo si rifiutava, si veniva a rompere l'unità di persona in Gesù Cristo. Invece di una persona se ne ammettevano due: la persona umana di Cristo di cui Maria era madre - Christotokos - e la persona divina del Verbo, aggiunta a quella di Cristo, in una unione puramente morale. Se invece si ammetteva in Cristo una sola persona, quella del Verbo, come aveva sempre fatto la tradizione cristiana, ne seguiva che la relazione di maternità, in quanto riguardava la persona, attraverso la natura generata, doveva avere come termine il Verbo. Maria doveva essere detta, in quanto fonte della natura umana di Cristo, Madre di Dio. Maternità e filiazione si dicono infatti da persona a persona.

A Roma, così si intendevano le cose. Il papa Celestino diede ragione a Cirillo contro Nestorio. Il suo primo diacono, Leone, il futuro papa. scrisse subito a Giovanni Cassiano, che conosceva da lungo tempo, per chiedergli di scrivere un trattato sull'argomento. Cassiano obbedì a questo desiderio, e noi possediamo il suo trattato in cui egli dimostra attraverso la Scrittura e la Tradizione, che Maria non deve essere chiamata solo Madre di Cristo, a meno che non si specifichi subito che ciò significa Madre di Dio.

Se Nestorio rifiutava di ammettere questa conclusione, era impossibile non trattarlo come eretico. E la cosa era così grave che si doveva radunare al più presto un concilio generale. Cirillo, nel frattempo, aveva riassunto il suo pensiero in dodici anatemi. Nestorio vi aveva risposto con dodici contro-anatemi. E accusava Cirillo di ricadere nell'apollinarismo, facendo del Verbo il sostituto della personalità umana di Cristo.


IL CONCILIO DI EFESO (431)

I due imperatori Teodosio II (Orienle) e Valentiniano III (Occidente) avevano convocato i vescovi a Efeso per il 7 giugno. In tale data, si trovò presente Cirillo con un certo numero di vescovi, ma non erano giunti né i legati del papa né i vescovi antiocheni. Cirillo, il personaggio più illustre di quelli che erano riuniti, pazientò per quindici giorni, non senza trattare abilmente con la Corte. Quindi il 22 giugno, senza attendere oltre, aprì il concilio, che in un giorno risolse la controversia, condannò Nestorio e lo depose. I vescovi (in numero di 198) e il popolo acclamarono queste decisioni.

Quattro giorni dopo, giunse Giovanni d'Antiochia con i suoi vescovi, tutti favorevoli a Nestorio che era, come si è detto, della scuola antiochena. Essi opposero quindi subito un controconcilio a quello del 22 giugno, condannarono e scomunicarono Cirillo, e annullarono quanto era stato fatto in loro assenza. Fu il secondo atto del dramma. Ma seguì immediatamente il terzo. Giunsero infatti presto i legati del papa. Portavano una condanna formale di Nestorio pronunciata dal papa Celestino I in un sinodo romano. Avevano ricevuto dal papa l'incarico di chiedere a Cirillo e all'intero concilio una semplice promulgazione del giudizio inappellabile già pronunciato dal pontefice romano. Essi approvarono quindi, l'11 luglio del 431, tutte le decisioni prese da Cirillo e dal concilio il 22 giugno precedente.

Nestorio tuttavia contava sempre sull'appoggio della corte imperiale. Fra questa e Cirillo si impegnò una lotta diplomatica, nella quale il vescovo di Alessandria deve essere ricorso a procedimenti che erano anche troppo in uso in quel tempo, colmando di doni i consiglieri più influenti dell'imperatore. In fondo, aveva buoni motivi per farlo. Teodosio II si lasciò convincere. Fece rinchiudere Ncstorio in un monastero e lasciò rientrare Cirillo come vincitore ad Alessandria, mentre Giovanni di Antiochia tornava, molto scontento, in Siria. Cirillo da parte sua dovette provare di non ammettere in alcun modo l'apollinarismo perché fosse finalmente ristabilita la pace fra lui e i vescovi antiocheni (433).

Nestorio, mandato più tardi in esilio, vi compose un'opera intitolala: Il libro di Eraclide di Damasco.

Questo scritto, rinvenuto nel 1910, è una accorta apologia. Ma l'eresia di Nestorio, per quanto velata, vi rimane abbastanza visibile. Anche dopo che gli scritti di Nestorio erano stati condannati alle fiamme, la sua eresia sopravvisse nelle opere di Diodoro di Tarso e di Teodoro Mopsuesteno.

Conservò quindi degli adepti, e ne conserva ancora ai nostri giorni. Si formò una scuola teologica a Edessa, e quindi a Nisibi in Persia. Il nestorianesimo si propagò di qui nell'Arabia, nelle Indie, e perfino nella Cina e nella Mongolia. Tuttavia, la maggior parte dei nestoriani tornarono, a partire dal secolo XVI, all'unità cattolica. Alcuni caddero sotto l'influsso di missionari protestanti, americani e anglicani; altri passarono alla " ortodossia russa " a partire dal 1897. Durante la prima guerra mondiale, molti furono massacrati dai Turchi.

Altri fuggirono sui monti del Kurdistan, o in Mesopotamia. Vi sono attualmente dei nestoriani nell'Iraq, nella Siria, nella Persia e nell'India. Si calcolano a 30.000 quelli dell'Iraq, ad alcune migliaia quelli della Siria, a 9.000 quelli della Persia e infine a 2.000 quelli che restano nell'India sotto il nome di mellusiani. In totale, certamente meno di 100.000 nestoriani autentici.


L'EUTICHIANESIMO

Come il nestorianesimo era stato una reazione contro l'apollinarismo, così l'eutichianesimo fu una reazione contro il nestorianesimo, ma così eccessiva da cadere nell'errore opposto.

Si è visto come Cirillo Alessandrino si fosse dovuto difendere dal sospetto di apollinarismo. Per meglio esprimere l'utilità di persona in Cristo, egli aveva usato poco opportunamente l'espressione " unità fisica " dell'umanità e della divinità nella sola persona del Verbo. Ai nostri giorni diciamo unione ipostatica, che significa unione delle due nature distinte in una sola persona; ma prima che fossero raggiunte queste precisazioni, vi fu un monaco di Costantinopoli, di nome Eutiche, archimandrita di un grande monastero della città, che, convinto di essere fedele al pensiero di Cirillo, si fece notare per il suo zelo nel parlar dell'unione fisica dell'umano e del divino in Gesù Cristo. Cirillo era morto nel 444. Il suo pensiero personale era certamente ortodosso. Ma Eutiche lo traduceva male. Egli sembra aver ammesso che in Gesù Cristo l'umanità è assorbita dalla divinità e fusa in essa, come una goccia d'acqua nell'oceano. Lo stesso Eusebio di Dorilea, che aveva denunciato Nestorio, denunciò Eutiche al suo vescovo, Flaviano di Costantinopoli, che lo fece condannare in un sinodo fin dal 448. Eutiche, come era allora usanza comune, fece subito ricorso a Roma. Governava allora la Chiesa, dal 440, san Leone Magno.

Nello stesso tempo, Eutiche chiese aiuto al vescovo di Alessandria, Dioscoro, che riuscì a convincere subito, come pure l'appoggio dell'imperatore, che era sempre Teodosio II. Dietro le sue istanze, quest'ultimo radunò un concilio, ancora nella città di Efeso.


IL CONCILIO DI CALCEDONIA (451)

Il concilio che si radunò a Efeso nel 449 fu contrassegnato da spiacevoli violenze. Era presieduto da Dioscoro di Alessandria. Al legato del papa fu negato i1 primo posto, che pure gli spettava. I 135 vescovi presenti furono costretti, sotto la minaccia delle anni di bande di monaci, guadagnate alla causa di Eutiche, a sottoscrivere per così dire in bianco la condanna della dottrina ortodossa stigmatizzata con il nome di diofisismo (due nature in Gesù Cristo). Flaviano di Costantinopoli fu maltrattato, e l'imperatore, tratto in errore, confermò la sentenza che lo deponeva e lo mandava in esilio, dove morì. Per fortuna, i legali del papa erano riusciti a fuggire. Il papa san Leone, informato da essi di quanto era accaduto, non perdette tempo per stroncare i progressi del male. Radunò un sinodo a Roma, secondo l'uso pontificio del tempo. Questo sinodo romano, tenuto nel 449, annullò tutta la procedura di Efeso e il papa chiamò quel vergognoso concilio un latrocinium e il nome gli è rimasto: il latrocinio di Efeso.

La morte dell'imperatore Teodosio li precipitò la soluzione di questo doloroso conflitto. Egli ebbe come successore, il 28 luglio del 450, la sorella Pulcheria. D'accordo con Marciano, suo sposo, essa convocò un concilio generale che si aprì a Calcedonia - l'attuale Kadi-Keui, dirimpetto a Costantinopoli, nel territorio asiatico. -

Questa volta, tutto si svolse correttamente. La presidenza fu data ai legati del papa. Dioscoro di Alessandria era presente, ma aveva con sé solo una ventina di vescovi egiziani, sperduti nella moltitudine di 500 o 600 vescovi accorsi al concilio. Egli fu giudicato e condannato alla deposizione, per la condotta tenuta al concilio di Efeso. La vera dottrina era stata magistralmente esposta, due anni prima, dal papa san Leone, in una lettera rimasta famosa, indirizzata al patriarca Flaviano.

Essa verteva sui seguenti punti, che costituiscono un vero compendio della fede cattolica: 1. In Gesù Cristo vi è un'unica persona, la persona del Verbo incarnato nella nostra natura; 2. nell'unica persona del Verbo si trovano dopo l'incarnazione due nature, la natura divina e la natura umana, senza fusione o confusione possibile; 3. ciascuna di queste due nature conserva la propria operazione che esplica in comunione con 1'altra 4. in virtù della unione sostanziale delle due nature, si deve attribuire unicamente al Verbo tutto ciò che, in Cristo, spetta al Figlio di Dio e al Figlio dell'Uomo, In questo senso si può appunto dire che " Dio è morto per noi ".

L'attribuzione alla sola persona del Verbo di tutto l'umano e di tutto il divino in Gesù Cristo ha ricevuto il nome di comunicazione degli idiomi, cioè scambio delle proprietà di ciascuna natura.

Quando al concilio fu riletta con entusiasmo la lettera di san Leone, i Padri esclamarono: " Pietro ha parlato per bocca di Leone ". E nella seguente professione di fede il dogma cristologico venne espresso in questi precisi termini: " Noi insegniamo tutti unanimemente un unico e stesso Figlio, Nostro Signore, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, veramente Dio e veramente uomo, composto di un'anima ragionevole e di un corpo, consostanziale al Padre secondo la divinità e consostanziale a noi secondo l'umanità, simile a noi in tutto fuorché nel peccato ". Questa confessione fu sottoscritta da 355 vescovi.

Dopo che il concilio ebbe terminato la sua opera dogmatica, i Padri, a dispetto dell'opposizione dei legati, dichiararono con il famoso canone 28 che il patriarca di Costantinopoli avrebbe avuto nella Chiesa il secondo posto dopo il papa di Roma; ma, ratificando gli atti del concilio, il papa dichiarò espressamente, nel 453, di non approvare e di non confermare che le decisioni riguardanti la fede, e non già le altre.

Purtroppo, i vescovi egiziani non si erano sottomessi.

Essi consideravano l'eutichianesimo come la dottrina personale del loro grande dottore san Cirillo, il che era falso. Il monofìsismo (una sola natura in Gesù Cristo) continuò ad essere professato in Egitto e il clero di questo paese passò ben presto allo scisma dichiarato. Senza riferire qui in particolare gli innumerevoli incidenti che segnarono le controversie tra monofìsiti e cattolici ortodossi, basti notare che i primi riuscirono a costituirsi in Chiesa separata. Le divisioni che nacquero tra essi nel VI secolo, come accade sempre quando si sia perduta l'unita romana, non impedirono loro di organizzarsi e di resistere. La Chiesa monofisita esiste ancora in Armenia, in Siria, Mesopotamia e in Egitto. I gruppi sono indipendenti gli uni dagli altri. Il più importante è quello che si trova in Egitto, dove costituisce la cosiddetta Chiesa copta.



I TRE CAPITOLI

Non si deve credere che la Chiesa perdesse il senso profondo della unità che aveva ricevuto dal suo fondatore. Al contrario, furono fatti tutti i tentativi per riconciliare le varie frazioni cristiane che la polemica monofisita aveva messe l'una contro l'altra. Tutto quello che dobbiamo dire ora rientra nell'ambito di questa più grave preoccupazione. Non dimentichiamo, del resto, che alla preoccupazione religiosa si univa una preoccupazione politica. La rottura dell'unità cattolica era resa più pericolosa, come era accaduto per il donatismo, dalle passioni nazionalistiche locali, che tendevano a dividere l'impero. Era stato un usurpatore egiziano, Basilisco, che aveva consolidato l'eutichianesimo o monofisismo ad Alessandria, verso il 475. Dopo la sua sconfitta l'imperatore Zenone, mal consigliato dal patriarca Acacio di Costantinopoli, pubblicò una formula di conciliazione chiamata enotica o di Unificazione (484). Ma il papa Felice II ritenne insufficiente e inammissibile questa formula. Acacio tenne duro e si separò dalla comunione romana. Fu lo scisma acaciano che durò per 35 anni (484-519). Questo scisma era fortunatamente terminato quando salì al trono il celebre imperatore Giustiniano (527-565). Questi fece come buona parte dei suoi predecessori. Considerò le questioni teologiche di attinenza del suo governo. Si lasciò guidare il più delle volte dalla sua colta e raffinata moglie, Teodora, che era stata danzatrice ma si piccava di alta scienza religiosa. Al fine di placare i monofisiti egiziani, Giustiniano radunò nel 553 un concilio a Costantinopoli, che è considerato come il V concilio ecumenico. Vi si condannarono, come inquinati di nestorianesimo, tre gruppi di scritti, noti da allora sotto il nome di Tre Capitoli: 1. gli scritti di Teodoro Mopsuesteno, morto nel 428; 2. quelli di Teodoreto di Ciro, contro san Cirillo di Alessandria nel V secolo; 3. una lettera di Iba, vescovo di Edessa, capo dei nestoriani, indirizzata al persiano Mari.

Questi tre gruppi di scritti erano esecrati dai monofisiti. Condannandoli solennemente, si dava loro piena soddisfazione. Ma essi esigevano di più. Sarebbe stato necessario, secondo loro, annullare le decisioni del concilio di Calcedonia, e professare insieme con essi il monofisismo. Era impossibile ammettere ciò. Perciò il papa Vigilio si rese chiaramente conto che le decisioni del concilio non avrebbero prodotto alcun frutto di bene. Ma siccome queste decisioni erano giustificate, finì per approvarle, non senza esitazione.


LA QUESTIONE ORIGENISTA

Nel concilio del 553 furono condannale anche le dottrine origeniste. Origene era stato, agli inizi del III secolo, il capo della scuola catechetica di Alessandria.

Era dotato di un genio incomparabile e aveva scritto moltissimo. Era inevitabile che, in quella moltitudine di opere uscite dalla sua mano e che numerosi copisti scrivevano sotto sua dettatura, si trovassero dottrine più o meno arrischiate. Vi sono infatti, nelle opere che conosciamo di lui, pagine magnifiche, idee splendide, e anche teorie piuttosto azzardate, che l'ortodossia non ha potuto accettare. Sono le teorie che formano l'origenismo: 1. la creazione eterna e il numero infinito dei mondi successivi; 2. la preesistenza (platonica) delle anime e la loro caduta nei corpi, a modo di castigo per le colpe passate; 3. La corporeità degli angeli (eterea); 4. la negazione dell'eternità dell'inferno, detta anche restaurazione universale, mediante una riabilitazione generale dei dannati, compresa, a quanto sembra, quella di Satana; 5. la negazione della resurrezione della carne come è espressa nel Simbolo degli apostoli; 6. la subordinazione del Verbo al Padre; 7. quella dello Spirito Santo rispetto al Verbo.

Si attribuiva a Origene la dottrina secondo la quale il Verbo agisce unicamente negli esseri ragionevoli, e lo Spirito unicamente nei santi. Infine si rimproverava a Origene, e gli si rimprovera anche ai nostri giorni, il suo allegorismo generalizzato ed eccessivo in materia biblica.

Le teorie origeniste furono oggetto di accese discussioni in seno alla Chiesa dopo la morte del grande scrittore. I monaci antropomorfiti egiziani, turbati da questo allegorismo, erano i più accaniti. Furono approvati da uno scrittore di valore, sant'Epifanio. vescovo di Salamina nell'isola di Cipro, che denunciò con vigore quella che egli non esitava a chiamare l'eresia origenista.

Aspre controversie - alle quali furono mischiati san Girolamo, ritiratosi in Palestina, e il suo amico Rufino, grande ammiratore di Origene e traduttore della sua opera principale, il De principiis - nacquero e turbarono tutto l'Oriente. Girolamo si mise in contrasto, in questa occasione, con Rufino, e impegnò contro di lui una disputa spesso accompagnata da spiacevoli invettive. Si può dire che tutti i grandi dottori d'Oriente - Cirillo, Basilio e Crisostomo - dovettero prendere posizione prò o contro Origene. Agli inizi del VI secolo, si era formata una scuola origenista in Palestina. Si trattava di monaci amanti del grande dottore alessandrino. Dietro pressione di Efrem, vescovo di Antiochia, e di Pietro, vescovo di Gerusalemme, Giustiniano li fece condannare in un sinodo tenuto nel 543. Origene e l'origenismo furono colpiti con 10 anatemi particolareggiati che il papa Vigilio confermò. Nel 553, prima del concilio ecumenico, fu ripresa tale condanna, questa volta in 15 anatemi. Sembra che il papa Vigilio, allora presente a Costantinopoli, li abbia ancora una volta approvati. Infine, lo stesso concilio generale, senza tornare sugli anatemi pronunciati, pose Origene nel numero degli eretici. Si ammette ai nostri giorni che Origene non avesse detto tutto ciò che gli si attribuiva e che il suo allegorismo non è necessariamente dovunque erroneo. Affermazioni sicuramente sue sono la preesistenza delle anime, la loro caduta nei corpi, la restaurazione universale e la teoria che certi astri siano esseri animati.

Meno certo è il fatto che egli abbia sostenuto le seguenti idee: Cristo si è fatto successivamente simile a ogni ordine di creature celesti; il corpo di Cristo fu formato prima che si unisse colla sua anima; Cristo, in in un altro mondo sarà crocifisso per i demoni; Dio ha creato tutto ciò che era in suo potere di creare, ecc.

E' assolutamente dubbio che egli abbia sostenuto che tutta la creazione materiale e tutti i corpi finiranno per essere annientati; che tutti gli spiriti saranno finalmente uniti a Dio come l'anima di Cristo; e che allora avrà fine il Regno di Cristo. Origene è rimasto per noi un soggetto di grande curiosità, mista di ammirazione e anche di venerazione, poiché i suoi errori, siccome la dottrina non era ancora fissata, possono essere considerati solo come eresie materiali e non formali. Sembra certo che egli fosse troppo "uomo della Chiesa" per non sottomettersi alle sue decisioni qualora ve ne fossero state, ai suoi tempi, sugli argomenti da lui trattati.


IL MONOTELISMO

Le concessioni fatte ai monofisiti, e in particolare la condanna dei Tre Capitoli, non avevano tatto che incoraggiarli. Non si erano sottomessi. Agli inizi del VII secolo il patriarca di Costantinopoli, Sergio, mente duttile e astuta, progettò nn nuovo sistema di conciliazione.

Si era in lotta contro i Persiani. L'unità dell'impero si imponeva con maggior forza che mai. Sergio propose quindi di insegnare che l'unione delle due nature in Gesù Cristo era così intima che non vi era mai stata in lui se non una sola volontà e una sola azione. E' ciò che venne chiamato il monotelismo o teoria della unica volontà. Nel frattempo, nel 631, un certo Ciro di Faside divenne patriarca di Alessandria. E' noto che questa città era la capitale del monofisismo. Ciro si associò alla dottrina di Sergio. I monofisiti poterono cantare vittoria: " E' stato il concilio di Calcedonia a venire a noi ",

dicevano, "e non noi ad esso! ". Si elevarono tuttavia delle proteste. Il più insigne avversario della nuova teoria fu san Sofronio, vescovo di Gerusalemme dal 634. Sergio, per avere il sopravvento, cercò di conquistarsi il papa Onorio, chiedendogli di dichiarare inopportuna questa distinzione di una o due energie, di una o due volontà in Cristo. Onorio, pro bono pacis, entrò nelle sue vedute e, per quanto approvasse in fondo la dottrina di Sofronio che era ortodossa, si pronunciò per Sergio.

L'imperatore Eraclio, prese la palla al balzo e pubblicò un formulario dottrinale chiamato Ectesi (638). In Gesù Cristo, diceva questo documento, non vi è che una volontà, e non si deve distinguere in lui fra una o due energie. Era l'eresia, poiché la natura umana in Cristo, priva di volontà e di energia propria, non era più la natura umana come la possediamo noi.

Essendo morto il papa Onorio, i suoi successori - Severino e quindi Giovanni IV - rigettarono l'Ectesi.

Morendo nel 641, Eraclio dichiarò di sottomettersi al papa e fece ricadere su Sergio la responsabilità del suo formulario del 638. Ma il suo successore Costante II (642-668) 1o riprese. Roma e l'Occidente lo combatterono. Costante II, scosso, sostituì l'Ectesi con un nuovo decreto, il Tipo (648), che si limitava ad imporre il silenzio sulla controversa questione. Fin dal 649, il papa Martino I riuniva un concilio in Laterano e vi faceva condannare da 105 vescovi tanto l'Ectesi che il Tipo. Irritato, l'imperatore fece arrestare il papa, che fu maltrattato, mandato in esilio, e morì nel Chersoneso nel 655. Noi lo onoriamo come martire il 12 novembre.

Dopo la morte di Costante II, il suo successore Costantino IV Pogonato (il Barbuto), si accordò con il papa per convocare un concilio generale a Costantinopoli - il VI ecumenico - (2 novembre 680 - 16 settembre 681). Vi fu condannato solennemente il monotelismo, e lo stesso papa Onorio fu colpito da anatema per aver accettato gli " empi dogmi di Sergio ". Ma, confermando il concilio, il papa Leone II, successore di Agatone, precisò il senso di questa condanna, spesso invocata contro l'infallibilità dei papi: " Egli non ha saputo purificare questa Chiesa apostolica professando la tradizione apostolica, e ha invece permesso che la fede immacolata fosse macchiata di un deplorevole tradimento ". Gli si rimproverava quindi una mancanza di vigilanza, una debolezza, piuttosto che una adesione all'errore. Ai nostri giorni si ritiene che il pensiero di Onorio, qualunque cosa ne abbiano detto i gallicani, sia rimasto sempre ortodosso e che egli non sia mai stato eretico nel significato preciso del termine.


LA QUESTIONE DELLE IMMAGINI

Dall'arianesimo in poi, si è visto che tutti gli errori o la maggior parte di essi, si collegavano gli uni agli altri. Anche l'origenismo, anteriore all'arianesimo, ne era stato un preludio con la teoria della subordinazione del Figlio al Padre. Con la gravissima Questione delle immagini usciamo da questo cerchio.

Dal 717 regnava a Costantinopoli un rozzo generale, diventato imperatore con il nome di Leone Isaurico. Non comprendeva naturalmente nulla delle cose di teologia, ma era consuetudine dell'impero legiferare in queste materie come in tutte le altre. Imitando forse il califfo arabo Isid II, che aveva proscritto le immagini nelle moschee, e forse dietro i consigli del vescovo frigio Costantino di Nacolia, egli prese nel 725 una serie di misure contro il culto delle immagini. Charles Dichl e Louis Brehier hanno dimostrato come il suo scopo fosse soprattutto quello di lottare contro l'eccessivo influsso dei monaci. Gli editti si succedettero aggravandosi senza tregua. Dapprima si erano condannate le immagini dei santi, degli angeli e dei martiri. Si giunse quindi a proscrivere anche le immagini di Cristo e della Vergine.

Si può immaginare il turbamento dei fedeli, soprattutto in Oriente, dove le basiliche erano splendidamente ornate di mosaici policromi in onore di Cristo, della Vergine e dei santi. Mani empie si diedero a distruggere tutto quel patrimonio artistico del passato. Il patriarca di Costantinopoli, san Germano, protestò energicamente, ma fu deposto e sostituito con un prelato ligio alla Corte, Anastasio. I papi Gregorio II e Gregorio III condannarono a loro volta l'iconoclastia o distruzione delle immagini, nel 727 e nel 731. Un teologo di primo piano, san Giovanni Damasceno, entrò in campo per difendere la legittimità del culto reso alle immagini. Ma l'imperatore, che era molto autoritario, non cedette.

Vi furono deplorevoli sottomissioni nel clero, ma anche eroiche resistenze tra i monaci e i fedeli. Si segnalano in particolare come martiri della persecuzione alcune donne che avevano rovesciato la scala di un operaio iconoclasta. Il figlio e successore di Leone Isaurico, Costantino Copronimo (il sudicio), che regnò dal 741 al 775, proseguì la detestabile politica del padre. Soltanto sotto l'imperatore Leone IV (775-780), e soprattutto sotto la sua vedova Irene, fu ristabilita la pace e riportato in onore il culto delle immagini. Irene, in pieno accordo con il papa Adriano I (772-795) e il patriarca di Costantinopoli san Tarasio, radunò, nonostante l'opposizione del partito militare, il concilio di Nicea (VII ecumenico), nel 787. Questo concilio definì chiaramente in quale senso sia legittimo onorare le immagini. Si tratta di un culto relativo, che si rivolge cioè alla Persona rappresentata e non all'immagine stessa. Il papa Adriano fece tutti i tentativi per far ammettere questa dottrina in Occidente, ma Carlomagno, tratto in errore da una cattiva traduzione degli atti del concilio, pensò che si trattasse di onorare le immagini di un culto assoluto. In un trattato noto sotto il nome di Libri Carolingi si criticava aspramente il cullo delle immagini cosi male interpretato, e il concilio di Francoforte condannò tale culto nel 794. A poco a poco tuttavia il malinteso fu chiarito, e non vi sarà crisi iconoclastica in Occidente se non sotto l'influsso di alcune sette protestanti, come il calvinismo che ancor oggi bandisce le immagini dai suoi templi.

Una seconda crisi iconoclasta si verificò in Oriente nel IX secolo, sotto gli imperatori Leone l'Armeno (813-820), Michele il Balbuziente (820-829) e Teofilo (829-842). Il primo e il terzo si mostrarono particolarmente accaniti. Il grande difensore delle immagini fu allora san Teodoro Studita (+ 826). E fu ancora una volta una donna, l'imperatrice Teodora, vedova di Teofilo e madre di Michele III, che ebbe la gioia di ristabilire la pace restaurando il culto delle immagini. Appena salita al potere, nel 842, si intese con il patriarca di Costantinopoli san Metodio, che radunò un concilio per confermarvi definitivamente i decreti di Nicea riguardo alle immagini.

continua......
Caterina63
00giovedì 27 novembre 2008 23:04
LE ERESIE MEDIOEVALI


CARATTERI GENERALI


Si è avuta per molto tempo l'abitudine di considerare i lunghi secoli del " medioevo ", come secoli di ristagno intellettuale. Il presente capitolo ci mostrerà come non siano tuttavia mancate le eresie: eresie individuali o eresie collettive. E tutte hanno rivestito caratteri comuni. Esse furono non soltanto manifestazioni dello straordinario fermento intellettuale e sociale che ha segnato quel periodo, ma anche proteste incessantemente rinnovate contro il regime feudale e clericale del tempo. Le eresie, senza dubbio, pretendono di collocarsi unicamente e principalmente sul piano teologico o religioso. Ma in realtà esse rientrano nell'antifeudalesimo, nell'anticlericalismo, nelle aspirazioni verso la libertà dei borghesi delle città. Esistevano già allora gli stessi problemi sociali che si pongono ai nostri giorni, ma si traducevano nel linguaggio del tempo, che era il linguaggio teologico. L'emancipazione comunale, in specie, fu in stretta relazione con le eresie medioevali. I conflitti sociali fornirono in ogni caso alle eresie un " ambiente " favorevole per il loro sviluppo. E questo è un fatto che non si deve mai perdere di vista.

ERESIE INDIVIDUALI

Tra le eresie medioevali, in Occidente, se ne distinguono alcune che furono soprattutto individuali, mentre altre nacquero e si costituirono in gruppi dissidenti.

Ricorderemo solo sommariamente le prime.

Nel secolo XI, un certo Berengario, già canonico di Tours, e quindi arcidiacono di Angers, fu il primo avversario, a noi noto, della presenza reale nell'eucaristia.

Secondo lui, la consacrazione del pane e del vino aveva lo scopo di santificare gli elementi, sottraendoli all'uso profano e dando loro un certo potere santificante. In sostanza, l'ostia consacrata era, secondo lui, solo pane benedetto, e solo per una pia convenzione la si poteva chiamare Corpo di Gesù Cristo.

Berengario fu immediatamente confutato da Adelmanno di Liegi, da Ugo di Langres e da Lanfranco di Bee, che erano fra i più illustri teologi del tempo. La dottrina dell'innovatore fu condannata nel concilio di Vercelli del 1051, in quello di Parigi dello stesso anno, in quel di Tours del 1054, ed in altri dieci sinodi. Egli finì per ritrattarsi, ma ricadde nell'errore, si ritrattò nuovamente e morì nel 1088, dopo una sincera conversione.

Al contrario di Berengario, che fu una specie di razionalista, altri eretici del medioevo caddero in falsi misticismi. Cosi, ad esempio, Amalrico di Bena, verso la fine del secolo XII. Egli parve ispirarsi alle opere del filosofo Scoto Eringena, un platonico abbastanza arrischiato, ma di grande ingegno. Amalrico ricavò dalla sua dottrina una specie di panteismo. Secondo lui, Dio e l'essenza intima di tutto ciò che esiste. I suoi discepoli giunsero alla conclusione che " tutto è divino ", che " tutto è buono ", che non vi è più differenza tra il bene e il male. Gli amalriciani giungevano a considerarsi come gli strumenti dello Spirito Santo, preconizzavano il libero amore, si irritavano delle condanne della Chiesa e finivano per trattare il papa come Anticristo. Gli errori di Amalrico furono condannati poco dopo la sua morte, avvenuta fra il 1205 e il 1207, da un sinodo di Parigi del 1210, che ordinò di dissotterrare il suo corpo perché indegno di riposare in terreno consacrato. Il concilio lateranense del 1215 condannò nuovamente la dottrina amalriciana, dichiarandola " più assurda che eretica ". Idee abbastanza simili si ritrovano comunque per tutto il medioevo, specialmente nei beguardi e nei fraticelli. Ma questi ultimi hanno potuto ispirarsi ancor di più ad un personaggio misterioso come Gioacchino da Fiore, di cui si è potuto supporre l'influsso sulla maggior parte dei gruppi sedicenti mistici dell'Italia e di altri paesi cristiani.

Questo Gioacchino, di origine italiana, morì mentre era abate dell'abbazia di Fiore, in Calabria, il 20 marzo 1202. La sua dottrina, strana quanto la sua persona, si riassume nei seguenti punti: 1. come vi sono tre persone in Dio, così vi sono tre ere del mondo: l'era della Legge, l'era di Cristo e l'era dello Spirito Santo; 2. l'era del Padre o della Legge fu quella dell'Antico Testamento, era di servitù e di timore, epoca della gente sposata e dei laici; 3. l'era di Cristo è quella del Nuovo Testamento, era mista di gente sposata e di chierici non sposati, ma che vivono nel mondo; 4. la Pienezza dei tempi che deve cominciare intorno al 1260, sarà l'era dei monaci, l'era dell'avvento dello Spirito Santo, l'era della Libertà, nella quale dominerà il Vangelo eterno. Questo Vangelo non sarà scritto, ma sarà una interpretazione tutta spirituale dell'Antico e del Nuovo Testamento.

Queste idee non impedivano a Gioacchino da Fiore, dolce sognatore, di rimanere un fedele figlio della Chiesa. Solo dopo la sua morte alcuni francescani esaltati, alla testa dei quali si è soliti porre il famoso Gerardo da Borgo san Donnino, riprenderanno i suoi scritti, ne faranno l'espressione del Vangelo eterno e si crederanno chiamati a riformare la Chiesa da cima a fondo. Pretenderanno di imporre a tutti la povertà apostolica cosi bene imitata dal loro maestro Francesco d'Assisi. Ma, cadendo nella ribellione, e rifiutando di sottomettersi all'autorità della Chiesa, saranno infine condannati come eretici durante il secolo XIV.

Tutto ciò non era altro che falso misticismo.

I PETROBRUSSIANI

Ecco ora alcune eresie che hanno la forma di sette dissidenti. In primo luogo, i petrobrussiani. Sono così chiamati dal nome del loro fondatore, un certo Pietro di Bruys, prete deposto e ribelle. A partire dal 1104, egli avrebbe cominciato a predicare nella Linguadoca e in Provenza. Che cosa insegnava? Che non si devono battezzare i bambini, i quali non capiscono nulla; che è inutile pregare nelle chiese, poiché Dio è dovunque, che si deve sopprimere l'uso del crocifisso, come pure le preghiere per i defunti, la fede nella presenza reale e soprattutto l'obbedienza al clero. Incitava le popolazioni contro i parroci e i monaci. Ma una forte reazione si scaleno contro di lui; nel Venerdì Santo del 1124 pretese di far cuocere della carne su un fuoco di crocifissi accatastati, ma fu assalito dalla folla scandalizzata e ucciso. Dopo di lui prese la direzione della setta un benedettino apostata, Enrico di Losanna. Fu condannato nel concilio di Pisa del 1135 e pare sia morto in carcere verso il 1145.

Il grande avversario di questa setta anticlericale fu san Bernardo di Chiaravalle, che predicò spesso negli ambienti dove si era propagato il male.

Una setta di tendenze analoghe si propagò nel Brabante, nella zona di Anversa, capeggiata da una specie di avventuriero di nome Tanchelmo di Brabante, che si spacciava per Figlio di Dio; egli riuscì a trascinare al suo seguito una folla di ignoranti fanatici. Fu confutato da un emulo di san Bernardo, il grande oratore san Norberto, fondatore dei Premostratensi. Tanchelmo morì verso il 1115, per un colpo infertogli al capo durante un viaggio in barca.

I VALDESI

Le piccole sette precedenti non furono mai molto pericolose. Non si può dire altrettanto di quella dei Valdesi. Essa ebbe come autore un mercante di Lione di nome Pietro Valdo o Valdes. Desideroso di camminare nella via della perfezione, Valdo si immerse nello studio della Bibbia. Distribuì tutte le sue ricchezze ai poveri e si mise a predicare la penitenza. Si unirono a lui alcuni discepoli, in piena buona fede. Furono chiamati dapprima i "poveri di Lione". Si credettero autorizzati a predicare il Vangelo al popolo, ma, impreparati come erano, misero presto in allarme l'autorità ecclesiastica e il vescovo di Lione proibì loro di predicare. Valdo si recò a Roma, al tempo del Concilio lateranense, nel 1179. Il papa Alessandro III approvò il loro modo di vivere, ma li sottopose, per quanto riguardava la predicazione, alle autorità episcopali del luogo. La stessa linea di condotta fu imposta agli Umiliati o "poveri lombardi", che erano una formazione analoga. Se i "poveri di Lione" e i "poveri lombardi" avessero osservato la regola loro imposta, come farà più tardi Francesco d'Assisi con i suoi autentici "poveri", non vi sarebbe stato lo scisma. Ma Valdo e i suoi ricominciarono a predicare senza alcuna autorizzazione, dandosi quindi alla rapina, al saccheggio, alle stragi di cattolici, a violenze gratuite di ogni genere. Invano il vescovo Bellesmaius li richiamò all'ordine. Il papa Lucio III (finì per condannarli, insieme agli Umiliati, nel concilio di Verona e nella Bolla Ad abolendam, del 4 novembre 1184. In seguito i valdesi si divisero dagli Umiliati della Lombardia, e si organizzarono come setta separata dalla Chiesa. Dallo scisma passarono presto all'eresia. Adottarono una dottrina abbastanza analoga a quella dei donatisti del IV secolo, facendo dipendere la validità dei sacramenti dalla santità di colui che li conferisce. Ma andando ancora oltre, attribuirono a se stessi, a motivo della loro santità derivante dalla povertà, il diritto di conferire i sacramenti del battesimo, della cresima e dell'eucarestia, senza aver ricevuto l'ordine. Valdo pretese di esercitare tutti i poteri del sacerdote e perfino del vescovo, senza essere stato né ordinato né consacrato.

Per sottrarsi alla repressione da parte delle autorità ecclesiastiche e civili, i valdesi rinunciarono alla violenza e si stabilirono nelle vallate delle Alpi Cozie, nella zona di Frassinere, nella Valle Argentera, nella Val Luisa, nella Valle della Dora Riparia e nell'Angrona; il loro centro preferito fu la città di Pinerolo e la zona di Torre Pellice. Alcuni gruppi sorsero anche nelle Puglie e nella Calabria. Molto più tardi, verso il 1533, adottarono le principali dottrine della Riforma protestante: giustificazione mediante la sola fede, riduzione dei sacramenti a due, interpretazione dell'eucaristia in senso calvinista, dottrina della predestinazione. Il movimento valdese finì per non essere altro che un'appendice del calvinismo. Fu questo ad attirare su di essi le repressioni legali sotto Francesco I. Essi furono allora, per ordine del Parlamento di Aix-en-Provence, le vittime di una tremenda spedizione punitiva, durante la quale vi furono migliaia di morti (le cifre variano fra 800 e 4.000 per 22 villaggi distrutti). Liberati dalle leggi piemontesi di tolleranza religiosa, nel 1848, i valdesi, dietro la spinta del generale inglese John-Charles Meckwith, si credettero chiamati a rigenerare l'Italia, distruggendo il cattolicesimo. Ma la loro "evangelizzazione dell'Italia" non ottenne il successo sperato. Attualmente, i valdesi si dividono il mondo in cinque settori: Valli Alpine; Piemonte - Lombardia - Veneto; Nizza - Liguria - Toscana - Roma; Italia del sud e Sicilia; Rio de la Plata e zone circostanti. Ma il loro numero non supera i 30.000 adepti. Molti di essi, liberatisi dai pregiudizi nei confronti della Chiesa di Roma, aderiscono fervidamente al movimento ecumenico dell'unità delle Chiese.

GLI ALBIGESI

Molto meno duratura, ma assai più pericolosa fu l'eresia degli albigesi, che prende il nome della città di Albi dove ebbe il centro più importante.

Sono anche detti catari, da una parola greca che significa " i puri ". Questo solo nome suggerisce un'origine orientale. E così, procedendo secondo il metodo usato in paleontologia per stabilire una filiazione tra i fossili di età diverse, si è pensato di poter ricollegare l'eresia dei catari dell'Italia e della Francia al manicheismo, passando per i bogomili bulgari del IX secolo e i pauliciani asiatici del VII. E' quindi il caso di parlare di quel manicheismo al quale rimase più o meno legato Agostino per nove anni della sua gioventù.

Il manicheismo prende il nome dal fondatore, Mani, oriundo di Babilonia e appartenente per via del padre, Patck, alla famiglia reale degli Arsacidi della Persia. Mani era nato il 14 aprile del 216. Si crede che il padre appartenesse ad una setta eucratica i cui membri già si chiamavano " i puri " e portavano vesti bianche. Non c'è dubbio che Mani, fin dalla giovinezza, sia stato educato nelle idee di una ansiosa ricerca della purezza, mediante la fuga della materia ritenuta la fonte di ogni male o di ogni impurità. Ma presto Mani si credette chiamato a una missione profetica. La sua dottrina si basa sul concetto di un continuo profetismo divino. Egli si identifica quindi al Paraclito e si pone per ciò stesso in una atmosfera cristiana, ma al margine del cristianesimo ortodosso. Ha attinto la propria dottrina a quattro fonti diverse: l'antica religione naturistica di Babilonia; la religione di Zarathustra o persismo; il buddismo per quanto riguarda la morale e l'ascetismo; il cristianesimo per quanto riguarda il profetismo e la teoria della salvezza, ma un cristianesimo alimentato più dagli Apocrifi che dai Vangeli autentici. In sostanza, Mani è una specie di Maometto ante litteram, un Maometto non riuscito.

Al punto di partenza: il dualismo, cioè un duplice principio eterno, quello del bene e quello del male.

Tra l'uomo primitivo che Dio aveva creato buono, e Satana principe delle tenebre, si è impegnata la lotta. E l'uomo porta le tracce della propria sconfitta; la donna ancora di più. Il dualismo è in noi, è la lotta della carne e dello spirito. Gesù rivestì un corpo apparente (docetismo) per salvare l'uomo. La salvezza consiste nel liberare le particelle di luce che sono in noi smarrite nelle tenebre del corpo. Non tutti giungono in modo uguale a questa liberazione. I discepoli perfetti di Mani sono quelli che osservano i tre sigilli; il sigillo della bocca (astinenza perpetua dal vino, dalla carne e da ogni pensiero impuro); il sigillo della mano (avversione per qualunque lavoro servile); il sigillo del ventre (continenza assoluta). Quelli che applicano tale programma sono gli eletti. I discepoli di grado inferiore sono chiamati auditori. Agostino, in gioventù, appartenne a questa categoria e non superò mai tale grado.

Si trovano idee simili sia nei priscillianisti spagnoli del V e VI secolo, sia nei vari raggruppamenti che abbiamo ricordati sopra. In Francia, il catarismo si manifesta nel XII secolo, tanto nello Champagne come nella Linguadoca e nella Provenza. Il nome di albigesi fu dato un po' dappertutto a gruppi molto distanti da Albi. In questi eretici rimane visibile il manicheismo iniziale. Strada facendo, tuttavia, il manicheismo si è arricchito di elementi nuovi: anticlericalismo, antimilitarismo, anarchia, comunismo. La distinzione fra eletti o perfetti e semplici credenti o auditori restava alla base dell'organizzazione della setta. I perfetti praticavano un rigoroso ascetismo, che faceva profonda impressione sul basso popolo. Una nobildonna della Linguadoca raccontava di essere andata a far visita a uno di questi perfetti: " Egli le apparve - diceva - come la più strana delle meraviglie. Da molto tempo era seduto su una sedia, immobile come un tronco d'albero e insensibile a tutto ciò che lo circondava ". Ai nostri giorni diremmo: come un fakiro indiano. I perfetti avevano orrore del matrimonio che perpetua la vita terrena, questa illusione satanica. Praticavano la continenza assoluta ed incoraggiavano i credenti a non far uso de1 matrimonio. Condannavano il giuramento e il servizio militarem ma in numerose occasioni venivano esortati allo sterminio dei cattolici. Consideravano il suicidio volontario come l'ideale della santità. Alcuni si facevano tagliare le vene per morire in un bagno, o prendevano il veleno. Ma la maniera di suicidio più diffusa consisteva nel mettersi in endura, cioè nel lasciarsi morire di fame.

Per entrare nello stato di perfezione, gli eletti ricevevano una specie di battesimo tutto spirituale - poiché l'acqua è maledetta come ogni altra materia - chiamato consolamentum. I semplici credenti non avevano altro obbligo che quello di adorare gli eletti e di nutrirli, cosicché potessero condurre, senza preoccupazioni materiali, la loro vita. Ricevevano tuttavia anch'essi il consolamentum, ma sul letto di morte, quando non vi era più alcuna possibilità di guarigione, e per evitare qualunque pericolo che riacquistassero la salute, venivano messi o si mettevano essi stessi in endura, facendo cioè lo sciopero della fame, per non perdere il frutto della loro rigenerazione.

Una simile dottrina si opponeva in modo così manifesto alla religione cristiana e all'intera società fondata su questa religione, come pure alla civiltà che il cristianesimo aveva portato, che non è da stupire se si impegnò una accesa lotta contro di essa. Da parte cattolica questa lotta fu condotta con una carità e uno zelo veramente apostolici. San Bernardo aveva predicato ripetutamente contro i catari. Il papa Innocenzo III. cinquant'anni dopo, fu spaventato per i progressi dell'eresia e sollecitò i prelati e i nobili del mezzogiorno della Francia ad unire i propri sforzi per combatterli. Mandò legati, per dirigere l'evangelizzazione dei paesi contaminati e prescrisse formalmente l'uso di mezzi pacifici: "Vi ordiniamo - scriveva ai legati. il 19-11-1206, - di scegliere nomini di provata virtù... Prendendo a modello la povertà di Cristo, vestiti dimessamente, essi andranno a trovare gli eretici e con l'esempio della loro vita come con l'insegnamento, cercheranno con la grazia di Dio, di strapparli all'errore". Fra i più ardenti di questi apostoli cattolici troviamo, a partire dal 1206, un vescovo spagnolo, Diego de Azevedo, e uno dei suoi canonici di Osma, Domenico di Guzman che, per meglio combattere l'eresia , fonderà l'Ordine dei frati predicatori dei domenicani.

Purtroppo, nella contesa fece subito apparizione la violenza. Numerosissimi legati – ma anche semplici cattolici - erano già stati massacrati quando, il 15 gennaio 1208, il legato del papa, Pietro di Castelnau, veniva assassinato da alcuni fanatici. Il papa Innocenzo III invitò allora i nobili cristiani a una crociata contro i dissidenti. Ma era più facile scatenare i rozzi guerrieri feudali di quel tempo che mantenerli nella moderazione cristiana. Vi furono, da una parte e dall'altra, eccessi deplorevoli. La crociata fu diretta dal conte Simone di Montfort. Fra i nobili del Nord e quelli del Sud vi erano inconscie animosità, che esercitarono un notevole influsso. I crociati non desideravano che una cosa: privare gli eretici dei loro beni, per impadronirsene! La conquista di Beziers fu segnata da una sanguinosa carneficina. La battaglia di Muret del 12 settembre 1213, fu decisiva. In fin dei conti fu il regno francese a trarre vantaggio dallo sconvolgimento della proprietà feudale causato dalla tremenda guerra degli albigesi. Si deve ricollegare in gran parte alle dolorose esperienze di questa guerra l'aggravarsi della repressione dell'eresia per mezzo del tribunale della Inquisizione, creato nel 1184, nel concilio di Verona, affidato dapprima ai vescovi, fin quasi al 1233, e quindi ai delegati della Santa Sede, che furono il più delle volte domenicani. A partire dal 1224, la legge civile prescrisse la pena di morte contro gli eretici ostinati.

L'ERESIA DI WYCLEFF

Sotto forme anarchiche, le eresie dei valdesi e dei catari potevano essere considerate già come tentativi di riforma della Chiesa contaminata da tanti abusi.

Questo stesso carattere si riscontrerà in Wyclef e in Giovanni Huss, prima di rivelarsi in Lutero e negli innovatori del secolo XVI. Ma, invece di pressioni oscure venute dalle profondità del popolo, è la scienza universitaria che tenterà di procedere al rifacimento dei dogmi e alla repressione di disordini morali in seno alla Chiesa.

Wyclef o innanzitutto "un uomo di Oxford", nasce nel castello di Wycliffe-on-Tees, nel Yorkshire, tra il 1324 e il 1328. Giunge ad Oxford nel 1345. La peste nera interrompe i suoi studi dal 1349 al 1353. Diventa allora maestro al collegio di Balliol e parroco di Fillingham, e infine dottore in teologia nel 1372. Come tanti altri, egli accumula benefici, abuso questo tra i più spiacevoli del tempo. A partire dal 1374, scrive tutta una serie di opere, che gli procurano il favore della Corona. Sarà d'ora in poi l'avvocato dei diritti dello Stato contro il Papato. Le sue opere principali sono: II Dominio divino (1375), il Dominio civile (1375), La Verità della Scrittura (1378), La Chiesa (1378), (largamente sfruttata più tardi da Giovanni Huss), L'Ordine cristiano (1379), L'Apostasia (1379), L'Eucaristia (1379), il Trialogus (autunno 1382) la più importante di tutte. Accanto a queste e ad alcune altre opere meno importanti in lingua Ialina, Wyclef pubblica anche dei tracts riformisti in inglese e favorisce una traduzione della Bibbia nella lingua nazionale. Quindi raduna dei predicatori popolari e, con il nome di " poveri preti ", li lancia per il paese.

L'opinione pubblica soprannominò questi predicatori lollardi, che sembra significhi cantori di cantici.

Fin dal febbraio 1377 egli era stato messo sotto accusa dal vescovo Guglielmo di Courtenay, ma la Corte. l'aveva difeso. Il papa Grcgorio X invece lo condannò intimandogli di comparire dinanzi al tribunale ecclesiastico. Egli protestò contro la citazione, in nome delle libertà anglicane, e paragonò il papa all'Anticristo II nome di Wyclef e da questo punto legato a tutte le agitazioni sociali: i contadini invocano la sua autorità contro le esazioni di cui sono vittime.

Il vescovo Guglielmo di Courtenay, appoggiato questa volta dalla Corte, mise nuovamente mano alla repressione. Il Sinodo dei Blackfriars (17-21 maggio 1382 riunito a Cantorbery, condannò tutte le dottrine di Wyclef ed epurò i suoi partigiani dall'Università di Oxford. Egli si ritirò nella sua parrocchia, a Lutterworth, a sud di Leicester, dove continuò a scrivere molto fino alla morte, avvenuta il 31 dicembre 1384. Ricevette funerali religiosi, poiché non era mai stato scomunicato formalmente. Ma dopo la condanna delle sue dottrine al Concilio di Costanza, il 4 maggio 1415 il vescovo di Lincoln da cui dipendeva Lutterworth ricevette l'ordine di esumare i resti, di farli bruciare e di gettare le ceneri nel fiume. L'ordine venne eseguito solo nel 1428.

La dottrina di Wyclef e condensata nelle 45 proposizioni, tratte dai suoi scritti, che furono condannate nel concilio di Costanza, condanna ribadita da due Bolle di Martino V nel 1418. Il suo sistema è una specie di panteismo fatalista. Secondo lui, Dio è Tutto e tutto è Dio. Tutto ciò che avviene è necessario. Dio predestina gli uni al cielo, gli altri all'inferno. La Chiesa non è altro che una società invisibile dei predestinati. Non vi è altra autorità divina al di fuori di quella della Bibbia. La Chiesa romana è la sinagoga di Satana. Gli ordini religiosi sono istituzioni diaboliche. Il dogma della transustanziazione è un'eresia. Cristo è sì presente nell'eucaristia, ma insieme con il pane e il vino, che non vengono trasformati.

Una delle teorie più antisociali di Wyelcf era quella della Sovranità o del Dominio divino e civile. Questo era appunto il titolo dei suoi due primi libri. .Secondo lui Dio solo è Sovrano. Egli solo ha il dominio su tute le cose. Il re non presiede il proprio stato se non sotto l'autorità di Dio, e può esercitare il proprio potere solo se è sottomesso a Dio, vale a dire se e in stato di grazia. L'uomo in stato di peccato mortale non può esercitare né la sovranità, né il diritto di proprietà. Al contrario, l'uomo in stato di grazia è realmente in Dio sovrano di tutto l'universo. Il papato non ha alcun potere nel campo civile, né diretto né indiretto.

Tuttavia, siccome soltanto Dio conosce quelli che sono in stato di grazia, Wyclef era costretto a negare ogni efficacia pratica alle idee rivoluzionarie da lui professate in teoria. Vi era comunque in esse una forza esplosiva che spiega la ribellione dei Lollardi, duramente repressa da Enrico IV di Lancastcr a partire dal 1400, tanto che i wycleffiti, braccati senza pietà, scomparvero completamente.

GIOVANNI HUSS E GLI HUSSITI

Uno stretto legame unisce l'eresia di Giovanni Huss a quella di Wyclef. Giovanni Huss era nato verso il 1369 a Husinecz. da famiglia contadina. Compì gli studi a Praga, e vi divenne predicatore nella cappella di Bethleem, di cui fece un centro di riformismo ecclesiastico e di patriottismo ceko.

Era un asceta: la sua eloquenza ardente, la sua vita esemplare, il suo volto grave, emaciato, pallido e austero entusiasmavano gli uditori. L'odio per lo straniero, lo zelo per la Riforma, il sincero culto del Vangelo, erano altrettanti aspetti che gli procuravano una crescente popolarità. Uno dei suoi ultimi biografi, Ernest Denis, ha potuto parlare della sua " inflessibile umiltà". Una umiltà che celava forse un orgoglio indomabile. La coscienza del suo zelo riformista e della sua missione politica sostituiva in lui la teologia, la filosofia e l'ortodossia. Egli non era affatto un pensatore originale. Ma le dottrine di Wyclef, importate da Oxford, attraverso alcuni studenti ceki, erano vivacemente discusse a Praga. Uno dei più accesi wycleffiti boemi era un giovane di nome Gerolamo da Praga. A cuasa del mancato appoggio alla causa nazionalista da parte della Chiesa, Giovanni Huss si lanciò con entusiasmo su questa strada. Al pari di Wyclef, ammise che la Scrittura è la sola fonte di ogni verità divina, che Cristo è il solo capo della Chiesa, che il papato non è se non una istituzione di fatto nella quale Cristo non ha avuto parte alcuna, che qualunque superiore perde la propria autorità cadendo nel peccalo mortale, che la Chiesa è formata di soli predestinati, e che ogni predestinato è infallibile. Parecchie di queste idee si riscontreranno in Lutero, il quale tuttavia non fu influenzato da Giovanni Huss nella rivoluzione religiosa che operò un secolo dopo.

Alle controversie suscitate da quanto andava predicando, venne a mischiarsi una questione di razze. Huss ottenne dal re Venceslao che la nazione ceka beneficiasse di tre voti nell'Università di Praga, mentre le altre tre nazioni - Baviera, Sassonia e Polonia - avrebbero avuto un solo voto. Si dice che 2.000 studenti e professori lasciarono immediatamente Praga e andarono a fondare l'Università di Lipsia (1409). Ma Giovanni Huss, vittorioso su questo punto, fu combattuto dal suo vescovo per le dottrine wycleffite da lui professate. Come in ogni eresia, da tempo avevano avuto inizio le violenze: i seguaci di Huss si diedero alla rapina, allo stupro, alla strage di cattolici. Pare che lo stesso Huss vi fosse implicato.

Nell'estate del 1412 una bolla pontificia lo scomunicò e lanciò l'interdetto sulla cappella in cui predicava. Huss si appellò da una parte a Cristo, ma d'altra parte - come avrebbe fallo un secolo più tardi Lutero - anche alla nobiltà e al popolo. Ritenendosi basato sulla Scrittura, poteva mettere al sicuro la sua "inflessibile umiltà" dietro la coscienza della sua infallibilità biblica. Tutti gli eresiarchi del resto avevano fatto altrettanto, e continuano a farlo tuttora. In queste condizioni, fu una vera incongruenza da parte sua il presentarsi dinanzi al concilio di Costanza. Forse sperava di convincere il Concilio! Munito d'un salvacondotto dell'imperatore Sigismondo, comparve a Costanza il 28 novembre 1414. Si dichiarò pronto a morire piuttosto che ammettere l'errore. E si può credere che fosse sincero. L'esame delle sue dottrine mostrò come esse fossero connesse con quelle di Wyclef, ch'egli aveva ricopiato talvolta alla lettera. Orbene, come abbiamo accennato sopra, le 45 proposizioni estratte dalle opere di Wyclef furono condannate, il 4 maggio 1415, come notoriamente eretiche, o erronee, sediziose e infine scandalose.

Le discussioni erano dirette da un prelato francese, Pietro d'Ailly. Giovanni Huss pretese di passare all'opposizione difendendo quelle idee di Wyclef che aveva fatte proprie. Ma la facoltà e l'ardore della parola non potevano sostituire in alcun modo l'ortodossia. I Padri furono irremovibili con Huss che si limitò infine ad appellarsi a Cristo, protestando che non si sarebbe mai riusciti a farlo cedere. I suoi scritti furono condannati alle fiamme il 24 giugno 1415. Il 6 luglio gli fu rivolta una ultima esortazione. Non gli si poté strappare una sola parola di ritrattazione. Allora fu pronunciata la sentenza: "II santo Concilio ha la prova che Giovanni rimane ostinato e incorreggibile... L'assemblea decreta quindi che il colpevole sia deposto e degradato, e che dopo essere stato scacciato dalla Chiesa sia consegnato al braccio secolare".

E così fu fatto. Lo stesso giorno, l'infelice Giovanni fu mandato al rogo, senza che consentisse ad abiurare. Si è accusato a questo proposito l'imperatore Sigismondo di aver violato il salvacondotto che aveva concesso a Huss. L'accusa sembra si possa contestare, poiché il salvacondotto non aveva lo scopo di sottrarlo alla giustizia legale del tempo, ma di proteggerlo lungo la strada. L'amico di Giovanni Huss, Gerolamo da Praga, incolpato a sua volta, fuggì, ma fu ripreso; acconsentì dapprima a sottomettersi, poi ritrattò la sua abiura e fu condannato a morte il 30 maggio 1416, in qualità di recidivo.

Questo non bastò a placare la causa nazionalista, ormai confusa con la setta hussita: non si calcola quante stragi e assassinii l’esercito nato da Huss abbia compiuto nei decenni in cui operò.

continua..........
Caterina63
00giovedì 27 novembre 2008 23:06
IL GIANSENISMO O LA TERZA RIFORMA

MICHELE BAIO PRECURSORE DEL GIANSENISMO


Il doloroso esempio della scissione protestante ci ha fatto intendere una cosa soprattutto: per "riformare " la Chiesa non si deve cominciare con il lasciarla. Il caso dei giansenisti è interessante, sotto questo punto di vista: pur intendendo riformare vigorosamente il dogma e le istituzioni della Chiesa essi si accaniranno, con pari ardore, a rimanere in seno ad essa.

Prima di descrivere la genesi di questa insidiosa eresia, occorre ricordare brevemente il tentativo presto fallito di Michele di Bay, detto Baio. Si è creduto a lungo che vi fosse stata filiazione diretta dal baianesimo al giansenismo. La cosa non è più altrettanto chiara, oggi. Ma una certa parentela ed un parallelismo fra i due movimenti è indiscutibile.

Michele di Bay, originario di Hainaut, era nato nel 1513. Lo troviamo nel 1542 professore di filosofia a Lovanio e, nel 1552, professore di esegesi. Gli si rimproverarono presto dottrine sospette sullo stato primitivo dell'uomo, sulla grazia e sulla libertà. A partire dal 1563, egli pubblica una serie di piccoli trattati su tali questioni. Infine, una Bolla del papa Pio V in data 10 ottobre 1567, condannava 79 proposizioni ricavate dalle sue opere. Dopo vari tentativi per trarre a suo profitto questa condanna, egli fu nuovamente condannato nel 1579 dal papa Gregorio XIII. Si sottomise, e divenne cancelliere dell'Università di Lovanio, carica che mantenne fino alla sua morte, avvenuta nel 1589. Che cosa dicevano dunque le proposizioni censurate dalla Chiesa? Secondo Baio, l'uomo non è stato creato in uno stato soprannaturale. Tutti i doni che noi chiamiamo soprannaturali e preternaturali in Adamo - diritto alla visione beatifica di Dio, filiazione adottiva dell'uomo mediante la grazia santificante, esenzione dal dolore e dalla morte, scienza infusa - erano doni dovuti alla natura. Ne consegue che il peccato originale è stato una corruzione della natura stessa e non la privazione dei doni soprannaturali e preternaturali. Da allora l'uomo è incapace di qualunque bene senza la grazia, ed è schiavo del peccato. La sua libertà è puramente esteriore, poiché interiormente egli è tiranneggiato da una irresistibile concupiscenza, ciò che del resto - secondo Baio - non gli toglie la sua responsabilità. Tutto ciò - senza che Baio se ne rendesse conto - era un puro e semplice ritorno all'eresia di Lutero e di Calvino. Cosicché il baianesimo è considerato come un semiprotestantesimo.

SAINT-CYRAN

Quando Giansenio morì, il 6 maggio 1638, il suo amico Saint-Cynin a Parigi stava per essere gettato in prigione dal terribile " Purpuratus " Richelieu. Fu arrestato e rinchiuso nella fortezza di Vincennes esattamente il 14 maggio 1635. Per quale delitto? A dire il vero, unicamente per ragioni di Stato. Richelieu vedeva in lui una persona retta, un erudito di prim'ordine, ma un uomo pericoloso e capace di turbare lo Stato, turbando la Chiesa.

Duvergier de Hauranne è infatti uno dei personaggi più curiosi della storia, San Francesco di Sales e san Vincenzo de' Paoli l'avevano molto stimato, I suoi primi scritti non avevano dato, a dire il vero, impressione di squilibri dottrinali. Ma in seguito egli aveva pubblicato, nascondendosi nell'anonimo - subito scoperto dalle persone ben informate - due libri nei quali fustigava acerbamente i gesuiti, suoi antichi maestri. E soprattutto aveva difeso le religiose di Port-Royal per una certa loro pratica devota, detta il Rosario segreto, in una circostanza assai delicata in cui questa pratica era stata criticata e messa in ridicolo. Al principio della quaresima del 1635, Saint-Cyran, difensore del Rosario segreto, era già diventato ufficialmente direttore e confessore del celebre monastero di Port-Royal, che in seguito sarebbe divenuto per lui - grazie alla famiglia Arnauld, una vera tribù i cui membri erano strettamente uniti - una fortezza inespugnabile. A Port-Royal il successo di Saint-Cyran era stato immediato e completo. La più docile, la più avida, la più "convinta " delle idee del nuovo direttore fu la Madre badessa Maria Angelica Arnauld. E subito, il grande nome di sant'Agostino venne ad aleggiare sul monastero.

In questo stato di cose, la decisione di Richelicu del 1638, contro Saint-Cyran, lungi dal diminuire il prestigio di quest'ultimo, aggiunse alla sua reputazione l'aureola di confessore della fede.

L' AUGUSTINUS

Saint-Cyran si trovava da due anni a Vincennes, donde continuava a dirigere le anime dei suoi ammiratori e delle sue ammiratrici, quando apparve il voluminoso libro del suo amico Giansenio. Ancor prima di averlo letto, Saint-Cyran lo prese sotto la sua protezione, e tutto il suo partito lo seguì immediatamente.

Il libro fu sottoposto al giudizio della Santa Sede. Saint-Cyran affermò, prima di qualsiasi intervento di Roma, che quel libro sarebbe stato il "libro di devozione degli ultimi tempi". Quando gli si parlò di una probabile opposizione della Sorbona, egli replicò dicendo con slancio che " era un libro che sarebbe durato quanto la Chiesa ". E aggiungeva, con una sicumera che colmò di stupore chiunque avesse un'idea anche vaga dell'assistenza della Chiesa da parte dello Spirito Santo, che " quand'anche il Re e il Papa si fossero associati per mandarlo in rovina, era fatto in modo tale che essi non vi sarebbero mai riusciti ".

Saint-Cyran andava dunque più in là dello stesso Giansenio, che perlomeno si era sottoposto sempre al giudizio del papa. Non si può più negare che Saint-Cyran sia stato il principale autore dell'eresia giansenista, poiché senza di lui l'Augustinus poteva essere un libro nato morto di cui le censure di Roma avrebbero arrestato la diffusione fin dal giorno successivo alla pubblicazione. Invece, esso si diffuse prodigiosamente, fu divorato, nonostante la sua aridità poco invitante; e fu ristampato in Francia, ancor prima che Roma potesse intervenire.

Quando Saint-Cyran (uscito di prigione alcuni mesi dopo la morte di Richelieu) morì - munito dei sacramenti e assistito dal suo parroco - l'11 ottobre 1643, aveva avuto il tempo di " consegnare la fiaccola " a un sacerdote di grande talento, a un fratello della Madre Angelica Arnauld, al più brillante dottore dell'agostinismo inteso alla maniera di Giansenio: Antonio Arnauld.

ANTONIO ARNAULD E LA COMUNIONE FREQUENTE

Con Arnauld, il giansenismo entra in una nuova fase. Teniamo presente che fino a questo momento esso non è ancora un'eresia denunciata e condannata. Giansenio e Saint-Cyran erano morti in pace con la Chiesa. Di questa essi si sono creduti non solo figli sottomessi e fedeli", ma benefattori e quasi restauratori. Ma avendo Roma proibito di trattare le questioni controverse della grazia senza una speciale autorizzazione, l'Augustinus era stato condannato prima di qualunque esame approfondito. Saint-Cyran mise il suo discepolo prediletto, Antonio Arnauid, su una strada del tutto diversa, che non era vietata come la questione della grazia. E prima di morire ebbe il tempo di approvare il libro che era stato frutto dei suoi consigli e dei suoi esempi: La Comunione frequente (1643).

Questo libro avrebbe dato al giansenismo il suo secondo carattere dominante. Si vedrà più avanti che il primo carattere era quello di un rigorismo dottrinale spietato, che toglieva ogni forza alla libertà umana per rimettere tutto all'azione della grazia divina. Il secondo Carattere, molto vicino al primo, sarebbe stato un rigorismo morale accompagnato da esigenze implacabili. Sotto questi due aspetti congiunti e convergenti, il giansenismo avrebbe meritato il nome che gli è stato talvolta inflitto: un calvinismo rimpastato. Il rigorismo giansenistico è infatti l'altro volto del puritanesimo calvinista, così come la sua dottrina della grazia irresistibile è l'altro volto del dogma della predestinazione. I calvinisti se ne erano ben resi conto poiché si erano gettati con avidità sull'Augustinus.

Particolare interessante: il libro dell'Arnauld sulla Comunione, raccomandava caldamente la Comunione frequente, ma circondandola di tali ammonimenti, condizioni e precauzioni che, alla fine dei conti ne distoglieva più di quanto vi avvicinasse i fedeli. Ma non fu tutta qui la parte di Antonio Arnauid, né il lato più importante della sua azione in favore del giansenismo e della sua sopravvivenza. Egli mise in realtà a servizio dell'eresia prodigiose doti di sottigliezza, di abilità, di tenacia e si può dire anche di furbizia e di astuzia non comuni. Grazie a lui, l'eresia resterà sempre sfuggente, inafferrabile. E siccome egli avrà dietro di sé tutto il monastero di Port-Royal popolato dai Suoi parenti ed amici, e tutto un mondo di nobili personaggi, pieni di virtù e di talenti, che la solitudine di Port-Royal aveva attratti, fin dal tempo di Saint-Cyran, il giansenismo sarà praticamente una fortezza inespugnabile che non si sa da qual parte attaccare. I giudizi della Chiesa lo sfioreranno appena, senza colpirlo, anzi senza nemmeno intaccarlo seriamente. E scomparirà infine solo sotto l'influsso della evoluzione delle idee e delle reazioni che il suo duplice rigorismo ha finito col provocare nella maggior parte dei nostri contemporanei.

LE CINQUE PROPOSIZIONI

II rumore fatto intorno al libro dell'Arnauld aveva avuto la conseguenza di costringerlo a rifugiarsi per un certo tempo " sotto le ali di Dio " cioè presso amici sicuri. Nel frattempo, la Sorbona aveva finito con lo spulciare il voluminoso Augustinus. In una assemblea del 1 luglio 1649 il sindaco della Sorbona, Nicola Cornet denunciò 7 proposizioni che aveva tratte dal libro di Giansenio. Dopo varie discussioni, queste 7 proposizioni, che si riteneva riassumessero lo spirito dell'opera, furono ridotte a 5 e deferite a Roma. E' importante notare come, sul principio, nessuno contestasse che le 5 proposizioni fossero un preciso compendio della nuova dottrina. Lo prova il fatto che il partito giansenista mandò subito i suoi più illustri dottori - quelli che si ornavano orgogliosamente dell'attributo di " agostiniani " - per difenderle presso la Santa Sede. L'esame alla Corte di Roma fu lungo e minuzioso, secondo la tradizione. E si ebbe tutto il tempo di sapere se le 5 proposizioni si trovassero o meno nell'Augustinus. Se si insiste su questo punto è perché, con una diatriba inaudita, di cui vedremo le conseguenze, si getterà un dubbio su questo medesimo punto.

A dispetto di tutte le perorazioni degli " agostiniani ", le cinque proposizioni furono condannate con la Bolla Cum occasione in data 31 maggio 1653, affissa a Roma, il 9 giugno, sotto l'alta autorità del papa Innocenzo X. Questa condanna sarà nuovamente pronunciata sotto Alessandro VII il 16 ottobre 1656, con la Bolla ad Sanctam beati Petri Sedem, e più tardi con la Bolla Vineam Domini di Clemente XI, il 15 luglio 1705. Il numero stesso di queste reiterate condanne sottolinea i continui tentativi dei giansenisti per sottrarsi all'autorità della Chiesa.

Quali sono dunque queste Cinque proposizioni, così famose e così controverse?

1. " Certi precetti di Dio sono impossibili ad osservarsi da parte delle anime giuste, malgrado i loro desideri e i loro sforzi, e manca a queste anime la grazia che ne renderebbe possibile l'osservanza ".

2. " Nello stato di natura decaduta non si resiste mai alla grazia interiore ".

3. " Per meritare e demeritare, nello stato di natura decaduta, non si richiede di avere la libertà interiore; è sufficiente la libertà esteriore o assenza di costrizione ".

4. " I semi-pelagiani ammettevano la necessità di una grazia interiore preveniente per tutti gli atti, anche per l'inizio della fede; la loro eresia consisteva nel credere che questa grazia fosse di natura tale che la volontà potesse a suo arbitrio resistervi o obbedirvi "

5. "E' semi-pelagiano affermare clic Cristo è morto e ha versato il suo sangue per tutti gli uomini.

Le note teologiche con cui venivano colpite queste proposizioni erano le seguenti: 1. temeraria, empia, blasfema, eretica; 2. eretica; 3. eretica; 4. Storicamente falsa ed eretica; 5. storicamente falsa, temeraria, scandalosa e - intesa nel senso che Cristo sarebbe morto solo per i predestinati - empia, blasfema, ingiuriosa verso Dio ed eretica.

Il partito giansenista, e particolarmente Port-Royal furono costernati e cercarono di far ricadere tale condanna sugli intrighi e le macchinazioni dei gesuiti - alla " Corte " di Roma. Invece di piegarsi e di sottomettersi, si prendeva la questione dal lato meno importante. Da una eresia sulla grazia si passava in tal modo, forse senza rendersene conto, ad una eresia sulla Chiesa.

IL DIRITTO E IL FATTO

Due anni dopo - solo due anni dopo - Arnauld ebbe una "trovata geniale", se così la possiamo chiamare, una trovata che nessun eretico aveva fatta prima di lui. Né Wyclef, né Huss, né Lutero, né Baio avevano mai avuto l'idea di dichiarare: " Io condanno ciò che la Chiesa condanna, ma non è questa la mia dottrina ". Arnauld, nella sua Seconda lettera a un Du...

Pari del 1655 (10 luglio) metteva in dubbio che le cinque proposizioni si trovassero in Giansenio e giustificava pienamente l'Augustinus. Immediatamente attaccato alla Sorbona per questa lettera, si ritrattò, ma fu egualmente escluso dalla Facoltà. La censura definita contro di lui fu pronunciata il 31 gennaio 1656, e gli fece perdere tutti i privilegi di socius sorbonicus. Per evitare questa condanna, egli aveva tuttavia testimoniato per iscritto che " condannava le Cinque proposizioni, in qualunque libro si trovassero, senza eccezione, compreso quello di Giansenio ". Si ebbe il torto di non accontentarsi di tale dichiarazione, il che fece tornare a galla con maggior vigore la questione. Arnauld non cesserà più di sostenere i due seguenti punti: noi condanniamo le Cinque proposizioni - era la questione di diritto - ma esse non si trovano in Giansenio - era la questione di fatto.

Inoltre, Arnauld sosteneva che la Chiesa può pronunciarsi sulla questione di diritto, e vi esercita la sua infallibilità, ma non può pronunciarsi sulla questione di fatto, sicché in questa materia le si deve soltanto il silenzio ossequioso.

LE PROVINCIALI

La confusione giunse al colmo con la pubblicazione - iniziata fin dal 23 gennaio 1656, otto giorni prima che l'Arnauld fosse escluso dalla Sorbona - di alcune lettere scritte da un misterioso " Provinciale " su un tono cosi nuovo, cosi agile, vivace ed elevato che il gran pubblico si sentì subito portato nuovamente a favorire il giansenismo. Queste lettere, in numero di 18, sono tra le pagine più belle della prosa francese; ed erano di un giovane matematico, Biagio Pascal. Sono soltanto una collezione di opuscoli, nei quali la verità non è pienamente rispettata né nelle citazioni, né nei giudizi, né nella dottrina. Ma essi ebbero pieno successo. Sembra che Pascal se ne sia in seguito pentito, e abbia compreso che i suoi amici gli avevano fatto sostenere una parte indegna del suo genio. Morì infatti pochi anni dopo, pienamente riconciliato con la Chiesa dalla quale nell'animo non si era mai separato. Ma egli produsse ferite che non si sono ancora completamente rimarginate: egli si burlò allegramente e senza alcuna pietà delle discussioni della Sorbona e del pesante apparato scolastico che si usava in teologia e sferrò contro la casistica - che definì a torto, una specie di monopolio dei gesuiti - una offensiva così efficace, così irresistibile da far entrare nell'uso comune l'espressione di " gesuitismo " come sinonimo di doppiezza e di fariseismo. Le Provinciali - come furono chiamate le lettere di Pascal - sono un libro immortale ma partigiano, e costituiscono un episodio doloroso nella storia di una delle più sottili eresie che abbiano mai sconvolto la cristianità.

IL FORMULARIO

Per porre fine a queste controversie divenute stranamente fastidiose, l'Assemblea del Clero di Francia ebbe l'idea di compilare un Formulario che si sarebbe dovuto imporre a tutti i membri del clero, dei monasteri e dei conventi del regno. Ma, senza alcun esame del documento e senza conoscere a fondo la questione, le religiose di Port-Royal, basandosi sulla distinzione del diritto e del fatto che il Formulario aveva precisamente lo scopo di rovesciare, si prepararono ad una resistenza disperata, come ci si prepara al martirio in tempo di persecuzione. Invano l'arcivescovo di Parigi, Arduino di Beaumont di Pérèfixe, si recò di persona ad intimare alle religiose di sottoscrivere il Formulario, come aveva fatto tutto il regno. Invano fece loro dare degli schiarimenti dall'abate Bossuet, ancor giovane a quel tempo, ma già ritenuto una delle menti più acute del clero di Francia. Esse rifiutarono ostinatamente qualsiasi obbedienza e si lasciarono scomunicare, come per una specie di " obiezione di coscienza " il 9 giugno 1664. Rimasero chiuse nella loro ostinazione, fino ad un accomodamento noto nella storia con il nome di pace clementina, dal nome di papa Clemente IX che la concesse, e che fu applicato alle religiose nel febbraio del 1669. Le firmatarie, questa volta, "condannavano le Cinque proposizioni, con tutta sincerità, senza eccezione né restrizione alcuna, in tutti i sensi in cui le ha condannate la Chiesa ". Ma, con una nuova applicazione del " gesuitismo " nel senso pascaliano, sottintendevano che nessuno di tali sensi condannati dalla Chiesa si trovava in Giansenio, che esse in verità non avevano letto, ma che era stato l'amico del loro grande e venerato eroe Saint-Cyran!

Per finire, diciamo ancora che queste religiose furono riprese nel vortice delle controversie giansenistiche e che Port-Royal fini con l'essere demolito, per ordine di Luigi XIV il 29 ottobre 1709, e tutte le religiose furono disperse. Arnauld, detto dai suoi "il grande Arnauld ", era intanto morto 1'8 agosto 1694, e il giansenismo si era eletto un terzo capo nella persona del Padre Pascasio Quesnel, dell'Oratorio.


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Caterina63
00giovedì 18 dicembre 2008 23:38
L'eresia di Rudolf Steiner
Non tutti, anzi pochi hanno sentito parlare di Rudolf Steiner.

E se ne parlo qui è semplicemente per poter rendere preparati eventuali fratelli che si imbattono con i suoi insegnamenti per la prima volta.

Non di rado viene riportato l'assunto di R. Steiner, secondo il quale Gesù non avrebbe affatto ripreso il suo corpo fisico.
Dunque ho ritenuto di accennare a questa personalità di Steiner, almeno per non essere presi alla sprovvista.

Steiner, vissuto nel secolo XX, ha fondato un movimento chiamato ANTROPOSOFIA, che aveva secondo l'intenzione del fondatore, il compito di riunire tutte le religioni, basandosi su una pretesa capacità di vedere direttamente il mondo spirituale, è stato anche un filoso esoterista, e sicuramente non tutta la sua pedagogia è da scartare, ma qui ci soffermiamo esclusivamente sull'interpretazione delle Scritture, senza alcun altra pretesa.

Le Scritture secondo la sua tesi vengono interpretate a partire da questa cosiddetta "scienza dello spirito" e non secondo la trasmissione dagli apostoli fino ai nostri giorni.

Nel suo commento al Vangelo di Luca, pag. 185, R. Steiner, afferma:


La scienza dello spirito ha per compito di restituire al mondo i documenti evangelici quali sono realmente. Infatti, il mondo oggi non possiede i vangeli; e non può perciò farsene alcuna idea. Si potrebbe persino chiedersi se quelli che abbiamo oggi siano proprio i veri vangeli.

No, nelle loro parti essenziali non lo sono.


Con questa dichiarazione Steiner porta il lettore a delle conclusioni alquanto gravi.


1) Egli pone i vangeli completamente fuori gioco, in quanto li ritiene inattendibili nelle parti essenziali.


2) Pone, quella che definisce "la scienza dello spirito" ad unica interprete della verità, in quanto i vangeli non li avremmo come "sono realmente".


3) Il mondo non possederebbe i vangeli e quindi chi li possiede sarebbe Steiner e i suoi discepoli.


Da queste estreme e gravi premesse ne deduco, mi si corregga se sbaglio, che:


1) Dio ha ispirato male gli scrittori sacri oppure non è stato capace di farci pervenire i testi originali nel loro senso generalmente valido.


2) Non avendo i veri vangeli, gli uomini non avrebbero potuto orientarsi verso la salvezza, "non avendone alcuna idea".


3) La Chiesa sarebbe a questo punto inutile o peggio, una realtà al di fuori di Dio...

Questa affermazione di Steiner deve farci molto temere e riflettere....


A mio modesto parere, si tratta di un tentativo (non isolato nel corso della storia) di sostituirsi all'autorità delle Scritture e di chi ha avuto il mandato di custodirle e di interpretarle, senza interruzione nel tempo, al fine di offrire a tutti la possibilità di salvarsi e rispondendo così a quanto Paolo esprimeva dicendo:

2 TIM.1,12 …SONO CONVINTO CHE (IL SIGNORE) HA IL POTERE DI CUSTODIRE IL DEPOSITO FINO A QUEL GIORNO. (il suo ritorno).




Caterina63
00sabato 27 dicembre 2008 16:08

In che modo vanno combattuti gli errori


7. 1. Aprendo il Concilio Ecumenico Vaticano II, è evidente come non mai che la verità del Signore rimane in eterno. Vediamo infatti, nel succedersi di un’età all’altra, che le incerte opinioni degli uomini si contrastano a vicenda e spesso gli errori svaniscono appena sorti, come nebbia dissipata dal sole.


2.
Non c’è nessun tempo in cui la Chiesa non si sia opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati, e talvolta con la massima severità. Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando.


Non perché manchino dottrine false, opinioni, pericoli da cui premunirsi e da avversare; ma perché tutte quante contrastano così apertamente con i retti principi dell’onestà, ed hanno prodotto frutti così letali che oggi gli uomini sembrano cominciare spontaneamente a riprovarle, soprattutto quelle forme di esistenza che ignorano Dio e le sue leggi, riponendo troppa fiducia nel progressi della tecnica, fondando il benessere unicamente sulle comodità della vita. Essi sono sempre più consapevoli che la dignità della persona umana e la sua naturale perfezione è questione di grande importanza e difficilissima da realizzare. Quel che conta soprattutto è che essi hanno imparato con l’esperienza che la violenza esterna esercitata sugli altri, la potenza delle armi, il predominio politico non bastano assolutamente a risolvere per il meglio i problemi gravissimi che li tormentano.


8. 1. Questa sollecitudine della Chiesa nel promuovere e tutelare la verità deriva dal fatto che, secondo il piano di Dio, "il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità" (1Tm 2,4), senza l’aiuto dell’intera dottrina rivelata gli uomini non possono pervenire ad una assoluta e saldissima unità degli animi, cui sono collegate la vera pace e l’eterna salvezza.


2.
Purtroppo tutta la comunità dei cristiani non ha ancora pienamente e perfettamente raggiunto questa visibile unità nella verità. La Chiesa Cattolica ritiene suo dovere adoperarsi attivamente perché si compia il grande mistero di quell’unità che Cristo Gesù con ardentissime preghiere ha chiesto al Padre Celeste nell’imminenza del suo sacrificio; essa gode di pace soavissima, sapendo di essere intimamente unita a Cristo in quelle preghiere; di più, si rallegra sinceramente quando vede che queste invocazioni moltiplicano i loro frutti più generosi anche tra coloro che stanno al di fuori della sua compagine.


3.
A questo proposito - per quanto tutti gli uomini che nascono siano stati anch’essi redenti nel sangue di Cristo - c’è veramente da dolersi che tuttora gran parte del genere umano non partecipi ancora di quelle fonti di grazia soprannaturale che ci sono nella Chiesa Cattolica.

Ne deriva che alla Chiesa Cattolica, la cui luce illumina tutte le cose e la cui forza di unità soprannaturale ridonda a vantaggio di tutta la comunità umana, si applicano perfettamente queste belle parole di San Cipriano:

 "Perfusa di luce, la Chiesa del Signore diffonde i suoi raggi sul mondo intero; è però un’unica luce che viene irradiata dovunque, né viene scissa l’unità del corpo. Estende i suoi rami su tutta la terra per il copioso rigoglio, espande a profusione i rivoli che scaturiscono con abbondanza; ma è unico il capo e unica l’origine e unica la madre fertile per le fortunate fecondità: da lei siamo partoriti, siamo nutriti dal suo latte, siamo vivificati dal suo spirito (De Catholicae Ecclesiae unitate, 5).


Il resto del testo integrale lo trovate qui:


Discorso per la solenne apertura del SS. Concilio (11 ottobre 1962)

[Italiano]

Caterina63
00mercoledì 18 maggio 2011 21:48
Le eresie del primo millennio e i dogmi cristologici nei primi sette concili ecumenici, dal Catechismo della Chiesa Cattolica e dal Catechismo degli adulti della CEI

Dal Catechismo della Chiesa Cattolica

Concilio di Nicea (325)
CCC 465
Le prime eresie più che la divinità di Cristo hanno negato la sua vera umanità (docetismo gnostico). Fin dall'epoca apostolica la fede cristiana ha insistito sulla vera Incarnazione del Figlio di Dio “venuto nella carne” (Cf 1Gv 4,2-3; 2Gv 1,7). Ma nel terzo secolo, la Chiesa ha dovuto affermare contro Paolo di Samosata, in un Concilio riunito ad Antiochia, che Gesù Cristo è Figlio di Dio per natura e non per adozione.
Il primo Concilio Ecumenico di Nicea nel 325 professò nel suo Credo che il Figlio di Dio è “generato, non creato, della stessa sostanza ("homousios") del Padre”, e condannò Ario, il quale sosteneva che “il Figlio di Dio veniva dal nulla” [Concilio di Nicea I: Denz. -Schönm., 130] e che sarebbe “di un'altra sostanza o di un'altra essenza rispetto al Padre” [Concilio di Nicea I: Denz. -Schönm., 130].

Concilio di Costantinopoli I (381)
CCC 242
[...] Seguendo la Tradizione Apostolica, la Chiesa nel 325, nel primo Concilio Ecumenico di Nicea, ha confessato che il Figlio è “consustanziale” al Padre, cioè un solo Dio con lui. Il secondo Concilio Ecumenico, riunito a Costantinopoli nel 381, ha conservato tale espressione nella sua formulazione del Credo di Nicea ed ha confessato “il Figlio unigenito di Dio, generato dal Padre prima di tutti i secoli, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre” [Denz. -Schönm., 150].

CCC 243
Prima della sua Pasqua, Gesù annunzia l'invio di un “altro Paraclito” (Difensore), lo Spirito Santo. Lo Spirito che opera fin dalla creazione, [Cf Gen 1,2] che già aveva “parlato per mezzo dei profeti” (Simbolo di Nicea-Costantinopoli), dimorerà presso i discepoli e sarà in loro, (Cf Gv 14,17) per insegnare loro ogni cosa (Cf Gv 14,26) e guidarli “alla verità tutta intera” (Gv 16,13). Lo Spirito Santo è in tal modo rivelato come un'altra Persona divina in rapporto a Gesù e al Padre.

CCC 245
La fede apostolica riguardante lo Spirito è stata confessata dal secondo Concilio Ecumenico nel 381 a Costantinopoli: “Crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dà vita; che procede dal Padre” [Denz. -Schönm., 150]. Così la Chiesa riconosce il Padre come “la fonte e l'origine di tutta la divinità” [Concilio di Toledo VI (638): Denz. -Schönm., 490]. L'origine eterna dello Spirito Santo non è tuttavia senza legame con quella del Figlio: “Lo Spirito Santo, che è la Terza Persona della Trinità, è Dio, uno e uguale al Padre e al Figlio, della stessa sostanza e anche della stessa natura... Tuttavia, non si dice che Egli è soltanto lo Spirito del Padre, ma che è, ad un tempo, lo Spirito del Padre e del Figlio” [Concilio di Toledo XI (675): Denz. -Schönm., 527]. Il Credo del Concilio di Costantinopoli della Chiesa confessa: “Con il Padre e con il Figlio è adorato e glorificato” [Denz.-Schönm., 150].

CCC 251
Per la formulazione del dogma della Trinità, la Chiesa ha dovuto sviluppare una terminologia propria ricorrendo a nozioni di origine filosofica: “sostanza”, “persona” o “ipostasi”, “relazione”, ecc. Così facendo, non ha sottoposto la fede ad una sapienza umana, ma ha dato un significato nuovo, insolito a questi termini assunti ora a significare anche un Mistero inesprimibile, “infinitamente al di là di tutto ciò che possiamo concepire a misura d'uomo” [Paolo VI, Credo del popolo di Dio, 2].

CCC 252
La Chiesa adopera il termine “sostanza” (reso talvolta anche con “essenza” o “natura”) per designare l'Essere divino nella sua unità, il termine “persona” o “ipostasi” per designare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo nella loro reale distinzione reciproca, il termine “relazione” per designare il fatto che la distinzione tra le Persone divine sta nel riferimento delle une alle altre.

Concilio di Efeso (431)
CCC 466
L'eresia nestoriana vedeva in Cristo una persona umana congiunta alla Persona divina del Figlio di Dio. In contrapposizione ad essa san Cirillo di Alessandria e il terzo Concilio Ecumenico riunito a Efeso nel 431 hanno confessato che “il Verbo, unendo a se stesso ipostaticamente una carne animata da un'anima razionale, si fece uomo” [Concilio di Efeso: Denz. -Schönm., 250]. L'umanità di Cristo non ha altro soggetto che la Persona divina del Figlio di Dio, che l'ha assunta e fatta sua al momento del suo concepimento. Per questo il Concilio di Efeso ha proclamato nel 431 che Maria in tutta verità è divenuta Madre di Dio per il concepimento umano del Figlio di Dio nel suo seno; “Madre di Dio. . . non certo perché la natura del Verbo o la sua divinità avesse avuto origine dalla santa Vergine, ma, poiché nacque da lei il santo corpo dotato di anima razionale a cui il Verbo è unito sostanzialmente, si dice che il Verbo è nato secondo la carne” [Concilio di Efeso: Denz. -Schönm., 250].

Concilio di Calcedonia (451)
CCC 467
I monofisiti affermavano che la natura umana come tale aveva cessato di esistere in Cristo, essendo stata assunta dalla Persona divina del Figlio di Dio. Opponendosi a questa eresia, il quarto Concilio Ecumenico, a Calcedonia, nel 451, ha confessato:

«Seguendo i santi Padri, all'unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l'umanità, “simile in tutto a noi, fuorché nel peccato” (Eb 4,15), generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi, per noi e per la nostra salvezza, nato da Maria Vergine e Madre di Dio, secondo l'umanità.
Un solo e medesimo Cristo, Signore, Figlio unigenito, che noi dobbiamo riconoscere in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione. La differenza delle nature non è affatto negata dalla loro unione, ma piuttosto le proprietà di ciascuna sono salvaguardate e riunite in una sola persona e una sola ipostasi» [Concilio di Calcedonia: Denz. -Schönm., 301-302].

Concilio di Costantinopoli II (553)
CCC 468
Dopo il Concilio di Calcedonia, alcuni fecero della natura umana di Cristo una sorta di soggetto personale. Contro costoro, il quinto Concilio Ecumenico, a Costantinopoli, nel 553, ha confessato riguardo a Cristo: vi è “una sola ipostasi [o Persona].. ., cioè il Signore nostro Gesù Cristo, Uno della Trinità ” [Concilio di Costantinopoli II: Denz. -Schönm., 424]. Tutto, quindi, nell'umanità di Cristo deve essere attribuito alla sua Persona divina come al suo soggetto proprio, [Cf già Concilio di Efeso: Denz. -Schönm., 255] non soltanto i miracoli ma anche le sofferenze [Cf Concilio di Costantinopoli II: Denz. -Schönm., 424] e così pure la morte: “Il Signore nostro Gesù Cristo, crocifisso nella sua carne, è vero Dio, Signore della gloria e Uno della Santa Trinità” [Cf Concilio di Costantinopoli II: Denz.- Schönm., 424].

Concilio di Costantinopoli III (680-681)
CCC 475
Parallelamente, la Chiesa nel sesto Concilio Ecumenico [Concilio di Costantinopoli III (681)] ha dichiarato che Cristo ha due volontà e due operazioni naturali, divine e umane, non opposte, ma cooperanti, in modo che il Verbo fatto carne ha umanamente voluto, in obbedienza al Padre, tutto ciò che ha divinamente deciso con il Padre e con lo Spirito Santo per la nostra salvezza [Cf Concilio di Costantinopoli III (681): Denz. -Schönm., 556-559]. La volontà umana di Cristo “segue, senza opposizione o riluttanza, o meglio, è sottoposta alla sua volontà divina e onnipotente” [Cf Concilio di Costantinopoli III (681): Denz. -Schönm., 556-559].

Concilio di Nicea II (787)
CCC 476
Poiché il Verbo si è fatto carne assumendo una vera umanità, il Corpo di Cristo era delimitato [Cf Concilio Lateranense (649): Denz. -Schönm., 504]. Perciò l'aspetto umano di Cristo può essere “rappresentato” (Gal 3,1). Nel settimo Concilio Ecumenico la Chiesa ha riconosciuto legittimo che venga raffigurato mediante “venerande e sante immagini” [Concilio di Nicea II (787): Denz.-Schönm., 600-603].

CCC 477
Al tempo stesso la Chiesa ha sempre riconosciuto che nel Corpo di Gesù il “Verbo invisibile apparve visibilmente nella nostra carne” [Messale Romano, Prefazio di Natale II]. In realtà, le caratteristiche individuali del Corpo di Cristo esprimono la Persona divina del Figlio di Dio. Questi ha fatto a tal punto suoi i lineamenti del suo Corpo umano che, dipinti in una santa immagine, possono essere venerati, perché il credente che venera “l'immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto” [Concilio di Nicea II (787): Denz. -Schönm., 601].



Caterina63
00domenica 23 ottobre 2011 18:39
[SM=g1740722] Dal Catechismo di san Roberto Bellarmino....http://3.bp.blogspot.com/_4E-3yOUDy-U/SeppyIraiEI/AAAAAAAAISA/536zY7NGVnM/s400/san+roberto.jpg

     Chi fu il primo di tutti gli eretici? Se crediamo ad Egesippo e ad Eusebio, fu Tebulo. Ma questi, come riferisce Eusebio da Egesippo, immaginò un'eresia, e tentò di corrompere la Chiesa, fino a quel tempo vergine, per la ragione, che ebbe una ripulsa nel chiedere il vescovato. Dunque la superbia e l'ambizione diedero il principio alle eresie (Euseb. c. 4. Hist. c. 22).
     Chi fu il secondo? Simon Mago. Ma costui avrebbe voluto comperare a denari l'autorità Pontificia di comunicare lo Spirito Santo. Ciò non gli riuscì, e fabbricò un'eresia.
     Chi fu il terzo? Valentino. Ma Tertulliano, nel libro che scrisse contro l'eresia di questo Valentino, attesta, che egli uscì dalla Chiesa e divenne eresiarca, perché vide, che un altro aveva conseguito il vescovato, che egli stesso ambiva.
     Chi è il quarto? Marcione del Ponto. Ma questi fu escluso dalla comunione della Chiesa; perché s'era offerto a violare l'innocenza di una vergine. Andò a Roma, e non solo domandò l'assoluzione, ma anche ambì una prelatura ecclesiastica. Non l'ottenne. Sdegnato, disse ai preti Romani: «Me ne andrò dunque; e lacererò la vostra chiesa». Da quel tempo cominciò a disseminare la sua eresia tanto pestilenziale e dannosa. Che il fatto sia vero. si può verificare facilmente. parte dalle Prescrizioni di Tertulliano contro gli eretici, parte da Epifanio nella eresia di Marcione.
     E il quinto chi è? Montano. Di lui riferisce Teodoreto nel libro terzo delle «favole degli eretici», che fondò la sua eresia per la sola voglia di ottenere il primo posto.
     Il sesto fu Novaziano. Eusebio, nel libro sesto delle Storie Ecclesiastiche, riferisce da una lettera di S. Cornelio, che Novaziano s'era sentito ardere di un grandissimo desiderio del vescovato Romano. Non lo poté conseguire. Introdusse nella Chiesa un'eresia e insieme lo scisma.
     Anche Ario, che è il settimo, si staccò dalla Chiesa, agitato dagli stimoli dell'invidia. Colse l'occasione a far ciò dall'essere stato preferito a Lui e innalzato al vescovato il sacerdote Alessandro, suo collega.
     Macedonio viene all'ottavo posto. Egli, chi non sa?, inventò una nuova eresia, per vendicarsi dell'ingiuria, d'essere stato dagli stessi Ariani privato del vescovato di Costantinopoli.
     Nestorio. Eccovi il nono. Tutti sanno, con quanta ipocrita finzione ambisse il vescovato di Costantinopoli. Sentite ciò che ne riferisce Teodoreto nel libro quarto delle «Favole degli eretici». Per molti anni e col colore del vestito, e col pallore del volto, e coll'artifizio delle parole manierate, e con ogni finzione di santità, si insinuò nell'animo e nella benevolenza del volgo a quello scopo. 

    Chi sarà il decimo? Martin Lutero, ideatore e padre di tutti gli eretici del nostro tempo. Ma egli nella disputa di Lipsia, gettò fuori questo motto: «Né per Dio ho cominciato, né per Dio cesserò». Occorre altro di più chiaro, più aperto, più luminoso? Ancora, Nella lettera, conosciutissima a quelli di Strabudgo non afferma forse espressamente, che egli aveva eccitato quella scena spaventosa non per amore a Cristo, ma infiammato d'odio contro il Papa? A tutti poi è noto, che concepì da prima quell'odio per ambizione e per avarizia. L'impegno di pubblicare le indulgenze era stato trasferito dal suo monastero, che ne traeva onore e guadagno ai frati Predicatori. Lutero, insofferente di quello smacco e di quella perdita, cominciò a scrivere, insegnare e predicare prima contro le indulgenze, poi contro il Pontefice, in fine contro tutti i dogmi cristiani.

     Questo, rispetto agli inizi delle eresie. Quanto al proseguimento della vita degli eresiarchi, se altri volesse enumerare tutte le scelleraggini di tutti essi, non finirebbe più. Toccherò solo poche cose di alcuni di loro, e facilmente si potrà giudicare del resto. Deh quanta fu la vanteria di tutti gli eresiarchi, e principalmente di Lutero e di Calvino! Simon Mago si vantava Dio. Ne è testimonio S. Ireneo nel libro primo «Contro le eresie». Menandro, scolaro di Simone, asseriva di essere stato mandato quale salvatore del mondo. Lo attesta Eusebio al libro quinto delle storie. Teodoreto testifica, che alcuni dei Carpocraziani si vantavano uguali al Signore Gesù, altri anche maggiori e più potenti. Montano strombazzava di essere lo Spirito Santo Paracleto. N'è testimonio S. Basilio Magno nel libro secondo contro Eunomio. Noeto si faceva Mosè e suo fratello Aronne. Ce ne assicura Epifanio nella eresia del medesimo. Manicheo faceva anche se stesso Spirito Santo, come tempo addietro Montano. Di ciò fa fede Sant'Agostino nel libro delle eresie. Nestorio spacciava, che egli solo aveva capito bene le scritture, e che prima di lui avevano sbagliato tutti i Padri, i Martiri e i Confessori e tutta la Chiesa. Lo sappiamo da Vincenzo Lirinese nel Commonitorio. Dalla Azione prima del settimo concilio si può vedere, come Aria, Discoro ed Eutiche con incredibile superbia, disprezzarono i Padri. E, per venire, ai nostri, forse che si vergognarono di vantarsi apertamente Lutero bocca di Cristo e un terzo Elia, Osiandro un secondo Enoch, Tomaso Muncero un secondo Gedeone, Serveto l'unico profeta del mondo. David Giorgio il vero Messia, ed altri nuovi profeti, apostoli, evangelisti? Non dice Lutero spesso nel libro contro Enrico re d'Inghilterra e altrove: «La divina Maestà sta dalla parte mia; sicché io non mi curo affatto, se stessero contro di me mille Agostini, mille Cipriani. mille chiese Enrichiane? Agostino e Cipriano, come tutti gli eletti poterono sbagliare, ed hanno sbagliato».


 E novamente: «Io per me pongo contro i detti dei Padri, degli uomini e degli angeli non l'uso antico della Chiesa, ma la parola e il Vangelo della sola eterna Maestà» (Tt. 1, 12). O ventre pigro, cattiva bestia! Come se i Santi Padri, i Santi, Angeli e l'antico uso della Chiesa si opponessero alla parola di Dio e al Vangelo. E tali parole tumide, roboanti, superbe si trovano ad ogni pagina dei suoi libri. Calvino poi, nel libro della Cena del Signore, non confessa egli forse apertamente, che tutti gli antichi hanno chiamato la messa sacrificio? Eppure dice: «Io non l'approvo affatto!».

E nelle Istituzioni non dice per ventura: «Questa favola del limbo dei Padri, per liberare i quali si dice che Cristo vi discendesse, sebbene abbia grandi patroni; con tutto ciò non è niente altro che una favola?». E ivi stesso uscì in tanta superbia, da chiamare asino San Girolamo. O uomo sapientissimo, Calvino, che poté veder solo più, che tutti i Padri e tutta insieme la Chiesa: e, in cui confronto, S. Girolamo, che pure è il Dottore Massimo e santissimo, non è altro, che un asino! O singolare amico di Dio, a cui finalmente fu rivelato, che sono favole quelli, che fin qui la chiesa ha tenuto per veri dogmi!


[SM=g1740771]
Caterina63
00giovedì 28 novembre 2013 20:22

San Pio X - Le Eresie ed i Concili

 

San Pio X

125. Mentre usciva vittoriosa della guerra esterna del paganesimo, e vinceva la prova delle sue feroci persecuzioni, la Chiesa di Gesù Cristo, assalita da nemici interni, già combatteva una guerra intestina ben più terribile. Guerra lunga e dolorosa che, ingaggiata e tenuta accesa da cattivi cristiani, suoi figli degeneri, non ha veduto ancora il suo termine; ma dalla quale la Chiesa uscirà trionfante secondo la infallibile parola del suo divin Fondatore al primo suo Vicario in terra, l'apostolo Pietro: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell'inferno non prevarranno contro di lei. (S. Matteo XVI, 18.).

126. Già dai tempi apostolici erano sorti uomini perversi, che per lucro e per ambizione turbavano e corrompevano nel popolo la purità della fede con turpi errori. A questi si opposero gli Apostoli colla predicazione, cogli scritti, e colle infallibili sentenze del primo concilio che essi celebrarono in Gerusalemme.

127. D'allora in poi, lo spirito delle tenebre non cessò da' suoi velenosi attacchi contro la Chiesa e contro le divine verità delle quali ella è custode indefettibile; e suscitandole contro sempre nuove eresie, attentò man mano a tutti i dogmi della cristiana religione.

128. Fra le altre, vanno tristemente famose le eresie: di Sabellio, che impugnò il dogma della SS. Trinità; di Manete, che negò l'Unità di Dio, ed ammise nell'uomo due anime; di Ario, che non volle riconoscere la Divinità di N. S. Gesù Cristo; di Nestorio, che negò a Maria SSma la sua eccelsa qualità di Madre di Dio, e distinse in Gesù Cristo due persone; di Eutiche, il quale in Gesù Cristo non ammise che una sola natura; di Macedon io, che combattè la divinità dello Spirito Santo; di Pelagio, che intaccò il dogma del peccato originale e della necessità della grazia; degli Iconoclasti, che ripudiarono il culto delle Sacre Imagini e delle Reliquie dei Santi; di Berengario, che disdisse la presenza reale di N. S. Gesù Cristo nel SS. Sacramento; di Giovanni Hus, che negò il primato di S. Pietro e del Romano Pontefice; e finalmente la grande eresia del Protestantesimo (sec. XVI), prodotta e divulgata principalmente da Lutero e da Calvino. Questi novatori, col respingere la Tradizione divina riducendo tutta la rivelazione alla S. Scrittura, e col sottrarre la S. Scrittura medesima al legittimo magistero della Chiesa, per darla insensatamente alla libera interpretazione dello spirito privato di ciascheduno, demolirono tutti i fondamenti della fede, esposero i Libri Santi alla profanazione della presunzione e dell'ignoranza, ed aprirono l'adito a tutti gli errori.

129. Il protestantesimo o religione riformata, come orgogliosamente la chiamarono i suoi fondatori, è la somma di tutte le eresie, che furono prima di esso, che sono state dopo, e che potranno nascere ancora a fare strage delle anime.

130. Con una lotta, che dura senza tregua da 20 secoli, la Chiesa cattolica non cessò di difendere il sacro deposito della verità che Iddio le ha affidato, e di proteggere i fedeli contro il veleno delle eretiche dottrine.

131. Ad imitazione degli Apostoli, ogni volta che lo ha richiesto il pubblico bisogno, la Chiesa radunata in concilio ecumenico o generale, ha definito con limpida chiarezza la verità cattolica; l'ha proposta qual domma di fede ai suoi figli; ed ha respinto dal suo seno gli eretici, colpendoli di scomunica e condannandone gli errori.

Il concilio ecumenico o generale, è un augusto consesso a cui sono, dal Romano Pontefice, chiamati tutti i Vescovi dell'universo, ed altri prelati della Chiesa, e che è presieduto dal Papa medesimo, ora in persona, ora per mezzo dei suoi Legati. A tale consesso, che rappresenta tutta la Chiesa docente, è promessa l'assistenza dello Spirito Santo; e le sue decisioni in materia di fede e di costumi, dopo la conferma del Sommo Pontefice, sono sicure ed infallibili come la parola di Dio.

132. Il concilio che condannò il protestantesimo è stato il Sacro Concilio di Trento, così denominato dalla città, dove tenne sua sede.

133. Colpito da questa condanna il protestantesimo vide svilupparsi i germi di dissoluzione che portava nel suo viziato organismo: le dissenzioni lo lacerarono, si moltiplicarono le sétte, che dividendosi e suddividendosi lo ridussero in frammenti. Al presente il nome di protestantesimo non significa più una credenza uniforme e diffusa, ma nasconde la più mostruosa congerie di errori privati ed individuali, raccoglie tutte le eresie, e rappresenta tutte le forme di ribellione contro la santa Chiesa cattolica.

134. Lo spirito protestante tuttavia, cioè lo spirito di sconfinata libertà e di opposizione ad ogni autorità, non lasciò di diffondersi; e molti uomini sorsero che gonfiati da una scienza vana e superba, ovvero dominati dall'ambizione e dall'interesse non dubitarono di creare o dar favore a teorie sovvertitrici della fede, della morale, e di ogni autorità divina ed umana.

135. Il Sommo Pontefice Pio IX, dopo di avere in un Sillabo, condannato molte delle più essenziali proposizioni di questi temerari cristiani, per portare la scure alla radice del male aveva convocato in Roma un nuovo concilio ecumenico. Questo aveva felicemente incominciato l'opera sua illustre e benefica nelle prime sessioni tenute nella basilica di S. Pietro in Vaticano (onde ebbe il nome di Concilio Vaticano), quando nel 1870 per le vicende dei tempi dovette sospendere le sue sedute.

136. Giova sperare che, quietata la burrasca la quale agita momentaneamente la Chiesa, il Romano Pontefice potrà ripigliare e condurre a termine l'opera provvidenziale del santo concilio; e che sconfitti gli errori, i quali ora travagliano la Chiesa e la società civile, sarà dato presto di vedere la verità cattolica brillare di nuova luce ed illuminare il mondo de' suoi eterni splendori.




 
Caterina63
00martedì 3 dicembre 2013 23:26
Don Ariel S. Levi di Gualdo ci propone la versione italiana di un articolo che offre un interessante contributo al dibattito in corso sul Concilio Vaticano II e sul nuovo pontificato. Il testo sarà tra poco pubblicato su una rivista teologica francese, mantenendo i contenuti teologici ed ecclesiologici, ma omettendo i riferimenti legati a nostre specifiche realtà locali nazionali.


 
Buona parte del mio tempo la trascorro tra il confessionale e gli spazi privati in cui si svolgono gli incontri di direzione spirituale, dove con frequenza sempre più crescente mi capita di sanare le ferite sanguinanti di confratelli sacerdoti, ma anche di seminaristi partiti con tutta la purezza generata delle migliori speranze cristiane, spesso disilluse, peggio a volte tradite.         
Affermare: “Mi accade di sanare” è un modo di dire improprio. Sappiamo bene infatti che a sanare è solo la grazia di Dio, che si serve all’occorrenza di tanti strumenti diversi, incluso un utile somaro come me.
Un seminarista, studente di teologia presso una pontificia università romana, mi ha rivolto una domanda interessante ma anche complessa; a dire il vero anche insidiosa. Per questo ho deciso di rendere partecipi i lettori di questa Rivista teologica del dialogo che si è svolto tra questo giovane appena trentenne e me, giunto ormai alle soglie dei cinquant’anni. Questa la domanda rivolta: «Il periodo del post-concilio è stato celebrato come l’era della “nuova pentecoste” annunciata da Giovanni XXIII. In realtà ha visto manifestarsi una crisi come forse mai prima la Chiesa dovette affrontare. Come spiegare una così radicale devastazione e un così lungo periodo di cecità e di silenzio da parte di chi avrebbe il dovere di custodire la fede e di guidare il gregge?».                                   

Ho risposto con delle considerazioni teologico-pastorali incentrate sulla “ermeneutica della continuità” e sulla “ermeneutica della discontinuità” …
… negli anni del post Concilio presero vita due ermeneutiche contrarie, a tratti antitetiche. L’ermeneutica della discontinuità e della rottura, che ha fatto ampia breccia sui mass-media grazie alla prolifica opera di molti esponenti della teologia moderna; e l’ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità. L’ermeneutica della discontinuità porta a una rottura inevitabile tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare, con tutto ciò che di pericoloso ne consegue.

Credo che il Signore Gesù sia stato chiaro nell’affermare «Io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo»[1]. E spiega anche come mai  fosse «utile per voi che io me ne vada; perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore. Ma, se me ne vado, io ve lo manderò»[2]. E ci rassicura: «Il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto»[3].                                                                                 L’evento della Pentecoste cominciato nel cenacolo dello Spirito Santo non ha mai avuto fine e da allora fermenta in un processo di ininterrotta continuità, con buona pace dei padri della Scuola di Bologna: Giuseppe Dossetti e Giuseppe Alberigo e della cosiddetta ermeneutica della discontinuità prodotta a loro dire dal Vaticano II. Teoria sulla quale suonano — mi si passi il termine affatto insolente ma solo giocondo — flautini e controfagotti come certi nostri laici cattolici italiani, da Alberto Melloni a Enzo Bianchi, circondati da un riverente coro secolare d’atei devoti assisi dentro e fuori dal Cortile dei Gentili del Cardinale Gianfranco Ravasi; e che da troppo tempo pontificano senza possibilità d’ortodosso contraddittorio dottrinale alcuno. Presenze a tratti assolute sulle televisioni pubbliche e private, promossi dalla stampa anticattolica e dalla grande editoria italiana, incluse purtroppo stampa ed editoria cattolica, a partire da quella gestita da congregazioni religiose come la Società San Paolo, o persino dalla Conferenza Episcopale Italiana, come nel caso di Avvenire, organo ufficiale dei Vescovi d’Italia, da sempre vetrina e tribuna per svariati di questi personaggi noti per la loro discutibile dottrina.
 
 
2. QUELLA DITTATURA DISTRUTTIVA DEI MAESTRI DEL «PIÙ DIALOGO, PIÙ COLLEGIALITÀ PIÙ DEMOCRAZIA NELLA CHIESA»
 
 
Nel senso più squisitamente gramsciano del termine, flautini e controfagotti hanno da troppo tempo egemonizzato l’intera scena pubblica sul piano storico, teologico e pastorale, ponendo in atto un pericoloso processo che de facto esclude ogni voce contraria, ma soprattutto ogni voce autenticamente cattolica[4]. Un fenomeno giunto ormai al tumore con metastasi diffuse nelle nostre chiese del Nord Europa, dove da decenni s’ha persino l’ardire di chiamare il tutto: “Più dialogo … più collegialità … più democrazia”[5], mentre sempre più numerose sono le chiese antiche dei grandi centri storici urbani ormai vuote da alcuni decenni e per questo messe in vendita dalle diocesi, per essere acquistate da privati o da società e dalle stesse trasformate in eleganti ristoranti o in negozi di lusso. Credo che affiggere su questi stabili lapidi alla memoria del Padre Edward Cornelis Florentius Alfonsus Schillebeeckx O.P. o del Padre Karl Rahner S.J, per celebrare e tramandare ai posteri i concreti risultati della loro evidente opera e di quella ancora peggiore dei loro “nipotini” socio-politici camuffati da teologi, più che ironia sarebbe solo pura e semplice onestà intellettuale ed ecclesiale, proprio ciò che oggi pare mancare più che mai, in basso e in alto.
 
3.  LE PERLE: BRUNO FORTE E IL “PAPATO COLLEGIALE”, IL PORTAVOCE DELLA SALA STAMPA VATICANA ED ENZO BIANCHI CHE “REINVENTA LA CHIESA”
 
Di recente, poco dopo l’elezione del nuovo Romano Pontefice, S.E. Mons. Bruno Forte, responsabile della dottrina della fede della Conferenza Episcopale Italiana — di cui s’è occupato in recente passato il presbitero e teologo Brunero Gherardini, senza che ciò producesse i frutti da pochi o da molti sperati[6] — è tornato a deliziarci coniando un nuovo istituto ecclesiale in un’intervista rilasciata nel marzo 2013 a uno Speciale di Rai Uno: il «Papato collegiale». Nei giorni successivi, a noi presbiteri che viviamo a contatto con le membra vive del Popolo di Dio, non è stato facile rispondere a quanti hanno domandato spiegazioni a tal riguardo. Ciò non tanto per la perla ecclesiologica in sé, ma per l’autorevole bocca che via etere l’ha fatta giungere alle orecchie di milioni di telespettatori.                                                                                                                      
Simile modo mi piacerebbe sorvolare — ma per cattolica onestà pastorale e teologica non lo posso fare — sul pubblico discorso fatto dal portavoce ufficiale della Sala Stampa Vaticana in occasione del 70° genetliaco del “priore” di Bose, ossia quella deliziosa persona di Enzo Bianchi che «ci aiuta a reinventare la Chiesa»[7]. Un termine, quello di «reinventare la Chiesa» o di «reinventare la fede»[8], olezzante vecchia naftalina anni Settanta, tra fumosi comitati di base dove si giocava a fare sul serio quando si discuteva su “la sintesi dialettica dell’alternanza ideologica” e nei quali l’effige di nostro Signore Gesù Cristo veniva rischiosamente confusa con quella di Ernesto Guevara, noto comeel Che. E se nel 2013, al riverbero delle candeline poste sulla torta di compleanno di un settantenne, presente come illustre relatore anche il portavoce ufficiale di Sua Santità, ci si trastulla ancora su questo «reinventare», francamente non ci resta che implorare: miserere nostri, Domine, miserere nostri.In te, Domine, speravi: non confundar in aeternum[9]. E infine confidare: quoniam in aeternum misericordia eius[10].
 
 
4.  NON SI GIOCA CON LE PAROLE: L’EVENTO DELLA PENTECOSTE
È NEGAZIONE DELLA ERMENEUTICA DELLA ROTTURA
 
L’evento storico e reale della Pentecoste[11] è la negazione cristologica e pneumatologia dell’ermeneutica della rottura, per non parlare di certe ricostruzioni che nascono dopo devastanti decostruzioni sulle ceneri delle quali si cerca poi di reinventare la Chiesa di Cristo. Nell’esperienza cristologica noi siamo chiamati a scoprire e accogliere il Verbo Incarnato e a viverlo in unione di mutua trasformazione[12], non certo a porlo sul tavolo delle autopsie esegetiche per smembrarlo e per poi ricucirlo a nostro modernistico piacimento, prendendo del corpo di Cristo ciò che ci piace e nel modo in cui ci piace. O per meglio dire: «Si è affermato un cattolicesimo à la carte, in cui ciascuno sceglie la porzione che preferisce e respinge il piatto che ritiene indigesto[13]».
L’invito a essere «perfetti nell’unità»[14] implica come suffisso l’armonica continuità, affinché «il mondo creda che tu mi ha mandato»[15]. Affermazioni, quelle giovannee, che delineano un inizio e una continuità incessante, sino alla parusia.                                                                            
Dalla Pentecoste nasce e prende avvio la storia della Chiesa e cominciano gli “Atti degli apostoli[16]. La Chiesa è dunque frutto vivo di un inizio che non ha mai avuto fine e da sempre è missionaria e pellegrina sulla terra.                                                                                                    

Forse, con l’espressione «nuova Pentecoste», s’intendeva riferirsi in modo più accattivante che teologico, o forse meglio poetico-mediatico, non tanto a una nuova discesa dello Spirito Santo sul Cenacolo, quanto all’opera incessante sulla Chiesa del Donum Dei altissimi che Gesù ci ha promesso sino alla fine dei tempi. Perché se la Chiesa non fosse di fatto governata dallo Spirito Santo di Dio, al presente noi non saremo qua; saremo solo oggetto di studi antropologici, alla stessa stregua in cui oggi sono studiate le antiche ed estinte credenze religiose di egizi, etruschi, greci …           
La teologia ha però un proprio linguaggio, diretto e preciso, basti pensare al problema teologico della Persona di Gesù che scuote i primi otto secoli di storia della Chiesa, tra eresie e problemi semantici a non finire tra Oriente e Occidente. E oggi, mentre ci avviamo sul finire di questo anno 2013, la mancanza di chiarezza e le affermazioni ambigue sembrano spesso farla da padrone in seno alla Chiesa, con uno smarrimento da parte dei fedeli cattolici che non s’era mai visto prima, tanto quanto mai, prima d’oggi, s’erano viste orde di anti-cattolici militanti e di atei devoti celebrare la liquida simpatia mediatica della persona umana in sé e fine a sé, anziché il solido ministero petrino edificato su una roccia che per mistero di grazia non dovrebbe mai essere scissa dalla persona che la incarna, posto che il Principe degli Apostoli cessa di essere Simone per diventare Pietro, la pietra sulla quale il Cristo ha edificato la sua Chiesa.
Oggi, in che misura al pescatore Simone è chiaro di essere l’universale pastore Pietro e in che misura all’universale pastore Pietro è chiaro che non può proseguire a essere il pescatore Simone perso per le periferie esistenziali dei villaggi dei pescatori della Giudea?

La buona e sana teologia e per logica conseguenza il migliore e sano ministero pastorale, non contempla espressioni estemporanee o cosiddette comunicazioni “a braccio”, stile “mozioni” da carismatici-animisti o “risonanze” da neocatecumenali-pentecostali, ma parole chiare e precise, non circonlocuzioni che possono voler dire tutto ma volendo anche l’esatto contrario, secondo la logica delle “parole nuove” rivelatasi nel corso dell’ultimo mezzo secolo tragicamente fallimentare.
A tal proposito è sufficiente ricordare che il mistero di quel «Verbo che si fece carne» che «era in principio ed era presso Dio»[17], era a tal punto grande che non esistevano neppure parole sul vocabolario per poterlo definire. Per questo abbiamo dovuto creare anzitutto le parole, prese perlopiù a prestito e modulate dal pensiero filosofico greco, basti pensare al concetto di ipostasi che indica la natura umana e la natura divina del Verbo fatto carne che abitano la stessa persona.                        

Siamo di fronte a un’architettura teologica, a un impianto di ingegneria costruito al millimetro nel corso dei secoli[18]. E, proprio da questo, nascono certi problemi: taluni filoni dell’ultimo concilio hanno insinuato diverse ambiguità nell’assisa, poi esplose in modo virulento nel post concilio, fino a creare l’idea di per sé ecclesialmente aberrante di ermeneutica della discontinuità, sfociata infine — e ciò con tutte le più drammatiche ed evidenti conseguenze — nella vera e propria dittatura del relativismo[19] di coloro che per alcuni decenni hanno giocano con “parole nuove”. E oggi, da una cattedra teologica all’altra, alcuni insegnano come superdogmatica “verità” di “fede” che il Concilio avrebbe rotto con la precedente tradizione[20]. Quel che poi è peggio e che costoro parlino della “precedente” Chiesa come se, in tutto e per tutto, fosse veramente un’altra Chiesa …
 
 
5.  LE ERESIE PEGGIORI COMINCIANO SEMPRE
GIOCANDO SULLE PAROLE
 
… asserire in modo aperto o ambiguo che la Chiesa del post concilio Vaticano II è un’altra Chiesa rispetto alla precedente è pura contraddizione teologica in termini, oltre che letale su altri delicati versanti ecclesiologici, pastorali e formativi. Procedendo a questo modo si opera una vera e propria corruzione delle menti dei nostri giovani e dei futuri sacerdoti, prima costretti ad assimilare queste dottrine ingannevoli e poi obbligati a ripeterle con le identiche parole attraverso le quali molti dialoganti docenti “liberal collegiali” esigono sentirsele ripetere in molte università e atenei pontifici romani e non solo. Salvo recidere di netto le gambe — in modo naturalmente dialogante e liberal collegiale, s’intende! — a chi osa non omologarsi alle loro fraseologie ereticheggianti, o peggio a chi osa non pensarla come loro. 

Non è certo storia nuova, anzi è noto da sempre in che misura ultra liberisti o eretici siano per loro intima natura sprezzanti, aggressivi e coercitivi; in modo particolare quelli mascherati dietro le velette da sposa del “più dialogo … più collegialità … più democrazia”. Né mai si dimentichi che le eresie peggiori cominciano sempre giocando sulle parole[21], per giungere infine a decostruire o distruggere la fede nelle membra vive del Popolo di Dio, dopo avere svuotato le parole del loro significato e averle riempite d’altro.           
E il parlare ambiguo, oltre ad essere un non-parlare-teologico, sortisce sempre l’effetto di un parlare pericoloso, tanto più grave quanto più autorevoli sono le labbra dalle quali le ambiguità fuoriescono.        

Facciamo un chiaro esempio a tal proposito: eliminare dal lessico eucaristico la parola transubstantiatione e sostituirla col termine più socio-accattivante di transignificazione e transfinalizzazione, come insegnano certi pericolosi e mediocri nipotini della Nouvelle Théologie alla Pontificia Università Gregoriana o presso quel covo di filo-protestanti che tale notoriamente è il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, non è un semplice svecchiamento della metafisica tomista, ma qualche cosa che porta alla inevitabile allegorizzazione, all’Eucaristia come mero simbolo, non più al divino mistero della presenza reale del Cristo vivo e vero.
Chi pretende di oltrepassare la metafisica deve farlo producendo un altro pensiero che sia di rigore superiore. San Tommaso d’Aquino può essere anche superato, volendo pure sostituito, in fondo è solo un santo dottore della Chiesa, non è certo la parola incarnata di Dio, oltre a non essere esente, come tutti i mortali, da svariate imperfezioni. Dubito però che questo superamento e questa sostituzione possano avvenire attraverso l’equivoca filosofia religiosa[22] dell’Aquinate dei gesuiti degli anni Sessanta, Karl Rahner, che pretende di oltrepassare la metafisica classica rischiando nella maggior parte dei casi di riassumerne, a volte senza averne alcuna coscienza e profonda preparazione, la confusa caratteristica di fondo, tendente com’è ad articolare certe sue speculazioni muovendo dalla neo scolastica decadente con l’uso del metro di Francisco Suarez, che partendo dall’aristotelismo scolastico tomista elaborò dottrine teologiche e filosofiche per così dire originali. 

Di fatto Karl Rahner, geniale, lo è senza dubbio, sicuro! È il genio della tuttologia-confuso-teologico-filosofica-sociologica, che come tale spazia dalla dogmatica alla patrologia alla ecclesiologia alla scolastica, senza conoscere bene e a fondo le une e le altre, riducendo tutto a una socio-filosofia religiosa che alcuni si ostinano tutt’oggi a chiamare: scuola teologica rahneriana.  È mezzo secolo che nelle nostre bocche spesso ricolme d’aria rimestiamo il concetto di “parole nuove”, dimenticando sempre più e sempre con maggiore pericolosità quella Parola viva, eterna e senza tempo che nasce dal mistero del Verbo Incarnato. È Dio ch’è parola vivente, ed è solo Dio che può dare un «cuore nuovo»[23] a noi, non siamo certo noi che possiamo dare un cuore nuovo a Dio con certe nostre frivole “parole nuove”.                                                                                  

Quella che taluni chiamano o che peggio bollano come “precedente tradizione”, parte dal Concilio di Gerusalemme e si sviluppa attraverso i secoli fino al Vaticano II, un concilio pastorale[24] frutto della continuità teologico-ecclesiale di tutte le esperienze precedenti. La Chiesa non nasce dalla pastoralità del Vaticano II, meno che mai dal post concilio dei teologi interpreti che hanno mutato le proprie elucubrazioni in un vero e proprio super dogma sfociato oggi in vera e propria dittatura. Dichiarare la rottura e la discontinuità con la precedente tradizione vuol dire mutare la Chiesa in altro e rompere l’unione con la continuità ininterrotta del Cenacolo. Come se d’improvviso lo Spirito Santo discendesse nella sua Chiesa per la prima volta attorno alla metà del XX secolo, pel sommo gaudio di tutti gli alti notabili della Nouvelle Théologie, o della New Theology, della Teologia della Liberazione, della Teologia Sincretista, infine della Teologia Indigenista che ha mutato la “precedente Chiesa” in una via di mezzo tra una serva al soldo dei colonizzatori e una pericolosa nemica.
 
6  LA TRADIZIONE SONO I PILONI CHE REGGONO L’ANTICO PONTE CHE
UNISCE L’UMANO E IL DIVINO, IL DIVINO E L’UMANO.
I VESCOVI CHE HANNO PARTECIPATO AL SINODO, SI RICONOSCONO
NEL DOCUMENTO FINALE DELLA EVANGELII GAUDIUM?
 
La “radicale devastazione” che oggi abbiamo sotto gli occhi nasce dal fatto che invece di “rinnovare” la Chiesa nel rispetto e nel rafforzamento della tradizione e del dogma, molti sono andati a intaccarne i delicati equilibri che hanno preso vita e che si sono poi solidificati a partire dalla prima epoca apostolica, rafforzandosi attraverso i grandi concili dogmatici e l’opera dei grandi padri della Chiesa. Con la stagione del post concilio si è aperta la grande crisi del dogma, ed alle verità divine ed eterne hanno finito col sostituirsi le dogmatizzazioni dei pensieri umani, perché quando l’uomo non crede più alle verità fondamentali, finisce per credere in tutto, lanciandosi allo sbaraglio attraverso parole ambigue nascoste dietro alle immancabili “parole nuove” dei peggiori arruffapopoli: i falsi profeti.
La tradizione sono i piloni che reggono l’antico ponte che unisce l’umano e il divino, il divino e l’umano. All’epoca che quel ponte fu costruito, appresso ampliato e rafforzato nel tempo, non esistevano le automobili, si viaggiava a piedi o coi cavalli. È chiaro che a un certo punto l’antico ponte doveva essere reso idoneo anche per il transito delle automobili. Purtroppo però, alcuni “teologi ragazzini”, quelli che discutevano nei bar e nelle osterie di Roma coi giornalisti sulle strategie da portare nell’assemblea conciliare, sono andati a intaccare proprio i piloni. E oggi ci ritroviamo con un ponte pericolante e inagibile, grazie ai vari Giuseppe Ruggieri e ai vari Andrea Grillo lasciati incoscientemente dai nostri vescovi a insegnare negli studi teologici, per avvelenare alla radice le menti dei nostri futuri sacerdoti preposti poi a confondere e scandalizzare il Popolo di Dio nella dottrina della fede e nella sacra liturgia, giudicando impietosamente e aggressivamente coloro che si dichiarano scandalizzati dalle loro parole, dei “cattolici infantili” e “immaturi” non divenuti ancora dei veri “cristiani adulti” sotto il vento della nuova Pentecoste grazie alla quale nel XX secolo è nata finalmente la Chiesa, dopo che per XIX secoli abbiamo solo scherzato.

Non so che cosa intenda fare chi per alto e ineffabile ministero è chiamato a custodire la fede e a guidare il gregge, ciò che so è che egli è il ponte, anzi secondo l’etimo di pontem facere, un costruttore di ponti. Il termine di pontefice prende vita nella prima epoca romana dall’antico Pons Sublicius. Così era infatti chiamato il gran sacerdote dell’antica religio[25]pontifex maximus, che assiso su quel ponte vigilava sui movimenti delle acque e sul volo degli uccelli, oltre a compiere vari altri riti. Oggi, il nostro Sommo Pontefice, rischia di ritrovarsi coi cieli sovrastanti il ponte coperti da stormi d’avvoltoi, ai quali speriamo di tutto cuore che non funga da involontario e inconsapevole richiamo.
A maggior ragione confidiamo in lui per vedere di nuovo le rondini volare nei cieli e riportare la primavera di sempre, quella del cenacolo degli apostoli.
La sola e vera primavera nata dallo Spirito Santo di Dio, cominciata in quel cenacolo apostolico e da allora mai tramontata, malgrado l’impegno, forte e incessante nei secoli di molti uomini, di far calare il sipario delle tenebre, ora attraverso “parole nuove” pronunciate sul cadavere disteso sopra al lettino delle autopsie dell’anatomopatologo, ora con la “ermeneutica della discontinuità” … Per questo ritengo ragionevole affermare che dal cenacolo dello Spirito Santo sino alla parusia non è possibile giungere al «Suo regno che non avrà fine» attraverso la discontinuità e le ambigue “parole nuove”, specie quelle dei falsi profeti che “reinventano la Chiesa”, ma solo attraverso quella continuità perfetta e di quelle parole precise di cui l’uomo, per quanto fallibile e imperfetto, è chiamato a essere fedele strumento, perché tempio privilegiato dell’azione di grazia di Dio sin dall’alba dei tempi.

Questo il motivo per il quale, letta l’esortazione post sinodale Evangelii Gaudium mi sono rinchiuso nel silenzio, consapevole di quanto in certi momenti, l’efficacia della preghiera cristiana che nasce dalla vera fede, giovi molto più alla Chiesa di quanto non le giovi invece il prendere la rincorsa per andare a battere la testa sopra a un muro di gomma, mossi da una disperazione tutta quanta umana e forse anche poco cristiana.

La risposta a questo documento non posso certo darla io che sono l’ultimo presbitero dell’orbe cattolica, dovrebbero darla però i vescovi, in particolare coloro che a quel sinodo hanno partecipato, rispondendo a quesito semplice e ovvio: si riconoscono, in modo libero e collegiale, nella liquida mancanza di chiarezza delle parole a tratti ambigue che caratterizzano quel documento conclusivo che pare ora dire tutto e poco dopo forse il suo esatto contrario?

Con dolore e smarrimento posso solo dire che quel documento sembra un assurdo: non si sa a chi parla né che cosa vuole. Non è né teologia né omiletica ma retorica con non poche punte di ambiguità. Non si dice “si” e non si dice “no”, si dice che forse potrebbe essere un po’ no e  forse un po’ si. Sembra tutto quanto dettato da quei teologi progressisti ormai al potere che mirano a “reinventare la Chiesa” con le loro rovinose “parole nuove”.

E che lo Spirito Santo di Dio assista la sua Chiesa e assista tutti noi suoi servi fedeli e devoti.

Ariel S. Levi di Gualdo  [26]

 
pubblicato anche su  Conciliovaticanosecondo

 

 
 

[1] Mt. 28, 20.

[2] Gv. 16, 7-15.

[3] Gv. 14, 26.

[4] Merita ricordare che quando il teologo e filosofo metafisico Antonio Livi contestò con pastorale e teologico garbo il pensiero di Enzo Bianchi confutandone punto per punto gli errori dottrinari, fu duramente attaccato in modo livoroso e scomposto dal direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, che non gli consentì di replicare su quel giornale cattolico, come peraltro contempla in certi specifici casi il civile e democratico diritto al contraddittorio, che dovrebbe essere particolarmente sentito e praticato da quei filoni che invocano “più collegialità” e “più dialogo”. Antonio Livi replicherà sul quotidiano cattolico on-line La Nuova Bussola Quotidiana nel mese di dicembre 2012. Nessun intervento e provvedimento da parte delle competenti autorità della Conferenza Episcopale Italiana fu preso nei riguardi del direttore e dell’editorialista che seguita a scrivere ambiguità teologiche ed ecclesiologiche su quel quotidiano così particolare.

[5]  Nella mia opera E Satana si fece TrinoRelativismo, individualismo, disubbidienza. Analisi sulla Chiesa del terzo millennio, ho dedicato a questo delicato argomento un articolato paragrafo  titolato: «La Germania tra secolarizzazione radicale e scisma di fatto». Pagg. 157-169. Bonanno Editore, Roma 2011.

[6]  Cf. Disputationes Theologicae, Il Dio di Gesù Cristo. 29 gennaio 2010.

[7] «È stato presentato ieri a Torino alla presenza di Padre Federico Lombardi S.J, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, e di Massimo Cacciari, “La sapienza del cuore”, il libro con cui Einaudi festeggia i 70 anni di fr. Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose, nato a Castel Boglione (AT) il 3 marzo 1943. Nel volume (760 pagine, 28 euro), definito nella presentazione “un autentico liber amicorum”, si trovano più di centotrenta interventi di personalità quali: card. Gianfranco Ravasi, mons. Bruno Forte, mons. Mariano Crociata, Alberto Melloni, ma anche Roberto Bolle, Claudio Magris, Guido Ceronetti, Giovanni Bazoli, Guido Martinetti, Federico Grom, Ferruccio de Bortoli, Ezio Mauro,  Michele Serra, Barbara Spinelli. «Il tema del reinventare la Chiesa, letto attraverso queste pagine» ha affermato Padre Lombardi nel suo discorso, «ha evocato in me una forte sintonia con ciò che mi sembra avvenire sotto i nostri occhi ogni giorno in quest’ultimo periodo, in modo inaspettato e sorprendente, in questo inizio di pontificato». [Fonte: Domenico Agasso Jr. Vatican InsiderLa Stampa It, 3 maggio 2013].

[8] I termini «reinventare la Chiesa» e «reinventare la fede» sono espressioni molto comuni nelle cosiddette “chiese di base”, o del celebre movimento “Noi siamo Chiesa”. Termine letteralmente abusato e soprattutto ideologizzato nella Teologia della Liberazione. A tal proposito si può consultare: Leonard Boff, Ecclesiogenesi. Le comunità di base reinventano la Chiesa.Borla Editore, Roma 1978. Si segnala inoltre un interessante articolo del Padre Giuseppe De Rosa S.J.  Le «Comunità di base» in Italia.  Pagg. 221-235. La Civiltà Cattolica, vol. I, quaderno 3133 – 3 gennaio 1981.

[9]   Te Deum laudamus.

[10]  Sal. 135.

[11] At. 2,1-13.

[12] «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» [II, Gal. 2, 20].

[13] S.E. Adriano Bernardini, all’epoca nunzio apostolico in Argentina. Da un’omelia pronunciata il 27 febbraio 2011 a Buenos Aires poco prima del suo rientro in Italia per prendere possesso della sede della nunziatura italiana (CNA / EWTN News).

[14] Gv. 17, 23.

[15] Gv. 17, 21.

[16] Decreto conciliare Ad Gentes, 4.

[17] Gv. 1,1.

[18] Rimando alla mia opera E Satana si fece Trino. Relativismoindividualismo, disubbidienza, analisi sulla Chiesa del terzo millennio. Bonanno Editore, Roma 2011. Cit. pag. 102.

[19] Cf. Locuzioni varie di S.S. Benedetto XVI.

[20] Cf. Bunero Gherardini, Quod et tradidi vobis. La Tradizione, vita e giovinezza della Chiesa, Casa Mariana Editrice, Frigento, 2010.

[21] Cf. Leonardo Grazzi, Arianesimo. Una tentazione antica e presente. Bonanno Editore, Roma 2013.

[22] Cf. Antonio Livi, Vera e falsa teologia. Come distinguere l’autentica «scienza della fede» da un’equivoca «filosofia religiosa». Edizioni Leonardo da Vinci, Roma 2012.

Giovanni Cavalcoli O.P. Karl Rahner. Il concilio tradito. Ed. Fede&Cultura, 2009.

[23] Cf. Ez. 26.

[24] Cf. Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare. Casa Mariana Editrice, Frigento, 2009.

Roberto de Mattei, Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta. Edizioni Lindau, 2010.

[25] Cf. Duodecim Tabularum Leges, 451-450 a.C. antica raccolta di regole di diritto romano privato e pubblico.

[26] Ariel Stefano Levi di Gualdo nasce nella Maremma Toscana il 19.08.1963. È consacrato sacerdote a Roma. Dirige la Collana teologica Fides Quaerens Intellectum delle Edizioni Bonanno. Svolge il ministero sacerdotale principalmente come confessore, direttore spirituale e predicatore. È autore di diversi saggi editi dalla Casa Editrice Bonanno e di vari articoli pubblicati su varie riviste teologiche internazionali italiane e straniere.


 

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