Pontificio Istituto per l'Archeologia Cristiana - Pontificia Accademia di Archeologia Cristiana

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Caterina63
00sabato 20 dicembre 2008 19:44
Il discorso del Papa al Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana

Una società veramente umana
non smarrisce le radici culturali e spirituali



L'invito a intensificare "la ricerca delle radici cristiane della nostra società" è stato rivolto dal Papa a docenti e studenti del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, ricevuti sabato mattina, 20 dicembre, nella Sala Clementina.


Signor Cardinale,
cari fratelli e sorelle!

Con vero piacere accolgo e saluto ciascuno di voi, che fate parte del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana. Saluto, in primo luogo, il Gran Cancelliere, il Cardinale Zenon Grocholewski, e lo ringrazio per le parole con le quali si è fatto cortese interprete dei comuni sentimenti. Saluto il Rettore, il Corpo docente, i collaboratori e gli studenti.

L'odierno gradito incontro mi offre l'opportunità di manifestare vivo apprezzamento per la preziosa e feconda attività culturale, letteraria ed accademica che svolge il vostro Istituto a servizio della Chiesa e, più in generale, della cultura.

So infatti che, negli ambiti tradizionali dell'archeologia, sono di notevole rilevanza scientifica i corsi ordinari e di specializzazione mediante i quali il vostro Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana si propone di far conoscere i monumenti paleocristiani soprattutto di Roma, con ampi riferimenti alle altre regioni dell'Orbis christianus antiquus. Anche la "Rivista" e l'attività scientifica di docenti ed ex alunni, nonché la promozione di Congressi internazionali mira, nei vostri intendimenti, a venire incontro alle attese di quanti hanno a cuore la conoscenza e lo studio delle ricche memorie storiche della comunità cristiana. Precipuo scopo del vostro Istituto è proprio lo studio delle vestigia della vita ecclesiale lungo i secoli.

Voi offrite l'opportunità, a chi sceglie questa disciplina, di inoltrarsi in una realtà complessa, quella appunto della Chiesa dei primi secoli, per "comprendere" il passato rendendolo presente agli uomini di oggi. "Comprendere" per voi è come immedesimarvi con il passato che emerge attraverso gli ambiti tipici dell'archeologia cristiana:  l'iconografia, l'architettura, l'epigrafia e la topografia. Quando si tratta di descrivere la storia della Chiesa, che è "segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano" (LG 1), la paziente ricerca dell'archeologo non può prescindere dal penetrare pure le realtà soprannaturali, senza tuttavia rinunciare all'analisi rigorosa dei reperti archeologici.

In effetti, come a voi è ben noto, non è possibile una completa visione della realtà di una comunità cristiana, antica o recente che essa sia, se non si tiene conto che la Chiesa è composta di un elemento umano e di un elemento divino. Cristo, il suo Signore, abita in essa e l'ha voluta come "comunità di fede, di speranza, di carità, quale organismo visibile, attraverso il quale diffonde per tutti la verità e la grazia" (LG 8). In questa pre-comprensione teologica, il criterio di fondo non può che essere quello di lasciarsi conquistare dalla verità ricercata nelle sue autentiche fonti, con un animo sgombro da passioni e pregiudizi, essendo l'archeologia cristiana una scienza storica, e come tale basata sullo studio metodico delle fonti.

La diffusione della cultura artistica e storica in tutti i settori della società fornisce agli uomini del nostro tempo i mezzi per ritrovare le proprie radici e per attingervi gli elementi culturali e spirituali che li aiutino ad edificare una società a dimensione veramente umana. Ogni uomo, ogni società, ha bisogno di una cultura aperta alla dimensione antropologica, morale e spirituale dell'esistenza. È pertanto mio fervido auspicio che, grazie anche al lavoro del vostro benemerito Istituto, prosegua ed anzi si intensifichi la ricerca delle radici cristiane della nostra società. L'esperienza del vostro Istituto prova che lo studio dell'archeologia, specialmente dei monumenti paleocristiani, consente di approfondire la conoscenza della verità evangelica che ci è stata trasmessa, ed offre l'opportunità di seguire i maestri e testimoni della fede che ci hanno preceduto.

Conoscere l'eredità delle generazioni cristiane passate permette a quelle successive di mantenersi fedeli al depositum fidei della prima comunità cristiana e, proseguendo sullo stesso cammino, continuare a far risuonare in ogni tempo e in ogni luogo l'immutabile Vangelo di Cristo. Ecco perché, accanto ai pur importanti risultati ottenuti in campo scientifico, il vostro Istituto si preoccupa giustamente di offrire un proficuo contributo alla conoscenza e all'approfondimento della fede cristiana. Accostarsi alle "vestigia del Popolo di Dio" è un modo concreto di constatare come i contenuti dell'identica ed immutabile fede sono stati accolti e tradotti in vita cristiana secondo le mutevoli condizioni storiche, sociali e culturali, lungo l'arco di molti secoli.

Cari fratelli e sorelle, continuate a promuovere la custodia e l'approfondimento della vastissima eredità archeologica di Roma e delle varie regioni del mondo antico, consapevoli della missione propria del vostro Istituto, quella cioè di servire la storia e l'arte valorizzando le numerose testimonianze che la "Città eterna" possiede della civiltà occidentale, della cultura e della spiritualità cattolica. Si tratta di un patrimonio prezioso formatosi nel corso di questi due millenni, un tesoro inestimabile di cui siete amministratori e dal quale occorre, come fa lo scriba del Vangelo, trarre incessantemente del nuovo e dell'antico (cfr. Mt 13, 52). Con questi auspici, nell'imminenza ormai del Santo Natale, formulo fervidi voti augurali  per  voi  e  per  le  persone  a  voi care, mentre di cuore tutti vi benedico.



(©L'Osservatore Romano - 21 dicembre 2008)
Caterina63
00lunedì 5 gennaio 2009 18:21
Il 6 gennaio 1852 per volontà di Papa Pio IX nasceva la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra

Anche le catacombe, a volte, hanno bisogno di riposo



di Carlo Carletti

Il 6 gennaio 1852, con biglietto inviato al cardinale Costantino Patrizi, vicario generale (protocollo n. 32288), Pio IX istituiva ufficialmente la Commissione di Archeologia Sacra "per la più efficace tutela e sorveglianza dei cemeteri e degli antichi edifici cristiani di Roma e del suburbano, per la sistematica e scientifica escavazione ed esplorazione degli stessi cemeteri, per la conservazione e custodia di quanto dagli scavi si venisse ritrovando o si fosse riportato alla luce"; per il suo funzionamento ordinario la nuova istituzione veniva dotata della somma annuale di "scudi milleottocento".

Legittimazione e ratifica di quanto, seppure in via sperimentale, era già esistente e funzionante dal 5 luglio 1851 per iniziativa del gesuita Giuseppe Marchi (1795-1860), già conservatore dei sacri cimiteri, e del "padre fondatore" degli studi sulle catacombe, Giovanni Battista de Rossi (1822-1894), che aveva già suggerito e sollecitato con più di "qualche insistenza" Pio IX ad istituire una stabile commissione con competenze specifiche per le indagini archeologiche nelle catacombe. De Rossi, come di fatto imponevano prassi e circostanze, si era servito dei canali di comunicazione mediata di cui poteva disporre:  "Pregai allora alcuni prelati della chiesa romana e gli eminentissimi cardinali Antonelli Segretario di Stato e Patrizi Vicario di Sua Santità affinché chiamassero l'attenzione del sovrano Pontefice sopra le escavazioni sotterranee, che tanto bene promettevano" (La Roma sotterranea cristiana, i, Roma 1864, pp. 72-73).
 




Papa Mastai Ferretti valutò questa fase sperimentale come un esame positivamente superato, anche perché aveva potuto osservare direttamente le straordinarie evidenze che stavano emergendo negli scavi delle catacombe di Domitilla e di Callisto - come riportato con dovizia di particolari in un cronaca sul "Giornale di Roma" del 5 giugno 1852 - e nel contempo prendere atto sul campo delle non comuni capacità che caratterizzavano la già matura personalità scientifica di de Rossi il quale fin dall'inizio si andò configurando come anima e mente della Commissione di cui fu ininterrottamente Segretario dal 1874 fino alla morte (1894). Tutti o quasi i risultati delle indagini nelle catacombe passarono attraverso la sua penna, come si può leggere nei numerosissimi articoli scritti per il "Bullettino di archeologia cristiana" - da lui fondato nel 1864 - nonché nei tre monumentali volumi de La Roma sotterranea, la prima sintesi scientifica sul "fenomeno catacomba" dalle origini al loro definitivo abbandono (VIII-IX secolo).

La collaborazione tra la sensibilità e la preveggenza di Pio IX e la non comune statura scientifica di de Rossi - "genio italico" lo definì un grandissimo suo contemporaneo come Theodore Mommsen - costituì una svolta storica non solo per la ricerca archeologica in senso stretto ma anche, e soprattutto, per l'evoluzione del concetto stesso di catacomba:  non più o non più soltanto il luogo che aveva accolto corpi di martiri, ma un monumento complesso che nella molteplicità dei suoi elementi documentari si proponeva agli occhi dello storico come un archivio originale - non mediato né selettivo - della vita della Chiesa antica.
La nascita della Commissione pose definitivamente fine ad una pratica che, avviatasi all'indomani delle prime grandi scoperte di Antonio Bosio (1575-1629), fin dalle sue prime manifestazioni per il vigore e la determinazione con cui venne perseguita e per i protagonisti che direttamente o indirettamente ne furono partecipi poteva far presagire un percorso senza ritorno:  il riferimento è al fenomeno della "estrazione dei corpi santi", una sinistra denominazione che, giudicata con il senno del poi, esprime eloquentemente il concetto di una operazione traumatica subita dalle catacombe e dalle povere salme in esse conservate. L'insensibilità e la non adeguata preparazione degli archeologi dei secoli XVII e XVIII congiunta alla crescente polemica contro la Riforma, avevano fatto emergere la convinzione che nei cimiteri sotterranei cristiani si conservassero migliaia e migliaia di corpi santi.
 
Nessuna attenzione fu rivolta ad un dato storico ineccepibile che quantomeno avrebbe dovuto consigliare maggiore cautela e rispetto. Infatti, l'abbandono definitivo delle catacombe avviatosi nel corso dei secoli VIII e IX per l'insicurezza sempre crescente delle aree suburbicarie, aveva già indotto alcuni pontefici a procedere alla traslazione delle reliquie venerate:  i martiri lasciarono le sedi originarie - cymeteria seu cryptae - per essere accolti nelle chiese urbane. A sigillo reale e simbolico di questo passaggio epocale può essere assunta l'iscrizione di Papa Pasquale I (817-824) esposta nella chiesa di Santa Prassede, che certifica la traslazione di 2300 corpi santi:  temporibus s(an)cti ac ter beatissimi et apostolici d(omini) n(ostri) Paschalis | papae, infraducta sunt veneranda s(an)c(t)orum cor|pora in hanc s(an)c(t)am et venerabilem basilicam | beatae Chr(isti) virginis Praxedis - segue per quarantaquatto righe l'elenco dei resti mortali traslati (Monumenta epigraphica Christiana, i, In Civitate Vaticana 1943, tavola XXIX, 1).

La convinzione che tutte le catacombe, quasi di necessità, conservassero una turba piorum - come avrebbe detto Damaso - rimase inalterata e anzi si andò rafforzando ed estendendo:  bisognava soltanto ricercare criteri identificativi almeno formalmente plausibili. Furono individuati già all'inizio del XVII nei cristogrammi, nelle sagittae, nelle palmulae spesso tracciate sulle iscrizioni e, soprattutto, nella presenza dei cosiddetti "vasi di sangue", in realtà null'altro che vasetti o fiale contenenti essenze odorose. L'elaborazione di questo armamentario e l'uso concreto che se ne fece indica con il massimo dell'evidenza "in quale ambiente, con quali idee e con che pratica si procedeva a quelle ricognizioni" (G. B. de Rossi, Sulla questione del vaso di sangue. Memoria inedita con introduzione storica e Appendici di documenti inediti per cura del padre Antonio Ferrua S. I., Città del Vaticano 1944, p. XV). In questo orizzonte, come deriva estrema si segnala il singolare trattatello (De coemeteriis ad Eminent.m et R.m. D. Card.m Ginettum S. D. N. Urbani viii Vic.m Hieronymi Bruni Commentarius) scritto nel 1632 dall'oratoriano Girolamo Bruni su espressa committenza del cardinale Marzio Ginetti di Velletri (1590-1670):  secondo i calcoli del Bruni il numero complessivo dei martiri deposti a Roma raggiungeva l'incredibile cifra di 64.000.000, "resultabit num. 64.000.000 idest sex centies quadragies centina milia, quod vulgo dicimus sexaginta quattuor milione" da questa moltitudine - aggiungeva con serietà - tolto il numero dei confessori, "adhuc remanebit martyrum poene infinitus exercitus".

I criteri per il riconoscimento dei corpi santi, seppure attenuati negli aspetti più deteriori, trovarono ratifica e ufficiale legittimazione nel celebre decreto del 10 aprile 1668 (Sacra Congregatio indulgentiis sacrisque reliquis praeposita) nel quale si stabiliva che la palma e il vaso con il sangue dei martiri "pro signis certissimis habenda esse" (Decreta authentica Sacrae Congretationis Indulgentiis sacrisque reliquiis pareposita, edita iussu et auctoritate sanctissimi D. N. Leonis PP. XIII, Ratisbonae 1883).

Il vaso di sangue, fino al tempo del de Rossi e della costituzione della Commissione di Archeologia Sacra, fu considerato come primario e indiscutibile criterio identificativo e a nulla erano valsi i dubbi sollevati da studiosi di alto livello come il padre bollandista Daniel Papenbroch (1628-1714), Thierry Ruinart (editore degli Acta martyrum sincera, Parigi 1689), Jean Mabillon (1632-1707) nonché il grande Louis-Sébastien Lenain de Tillemont che con il suo giudizio anticipò alcune delle acquisizioni cui poi pervenne de Rossi, rilevando che la realtà storica - la vraie marque - di un martire, in termini monumentali, può trovare autorevole conferma soprattutto attraverso la testimonianza delle antiche iscrizioni (Mémoires pour servir à l'histoire écclesiastique, V, 1698, art. II):  queste autorevoli cautele, alle quali non fu riservato ascolto alcuno, furono anzi stigmatizzate come malevole e sospette.

Con queste premesse non era evidentemente difficile trovare reliquie di martiri e farne circolare nell'ecumene cristiano una quantità innumerevole. La altrimenti ignota Aurelia Theodosia nati(one) Ambiana - cioè originaria della zona dell'attuale Amiens - ricordata in un'iscrizione - non anteriore al IV secolo avanzato - trovata il primo aprile (sic) 1842 nel cimitero di Sant'Ermete (Inscriptiones Christianae Urbis Romae, X, 27032), fu elevata alla dignità del martirio:  i cittadini di Amiens ne accolsero trionfalmente le reliquie e la relativa iscrizione, che furono deposte in una sontuosa cappella della cattedrale. Allo stesso modo una sepoltura ancora intatta ritrovata nel maggio del 1802 nel cimitero di Priscilla fece nascere il culto di una santa Filomena:  i segni (frecce e palme) tracciati sui margini dell'iscrizione che copriva la sepoltura (ibidem, VIII, 23243), insieme a un vaso di sangue rinvenuto all'interno della tomba, erano "indicatori" più che probanti per ampliare il martirologio:  reliquie e iscrizione furono recapitate in gradito omaggio alla chiesa di Mugnano del Cardinale a Nola.

In questa atmosfera quasi naturalmente si sviluppò un'ulteriore deriva:  quella della creazione ex novo di iscrizioni, funzionali a incrementare la schiera - già foltissima - degli eroi della fede. La palma di campione in questa attività va certo assegnata all'abate Giacomo Crescenzi che nel corso della metà del XVII secolo, produsse una serie di iscrizioni false tanto ingenue e banali da apparire ridicole:  quelle ad esempio - anacronisticamente scritte in latino - che avrebbero testimoniato la dignità del martirio per i papi Felice i (269-274) e Gaio (283-296) (ibidem, I, supplemento, 1915, editore Gatti, p. 3), il cui epitaffio autentico, redatto in greco, fu peraltro ritrovato da de Rossi intorno al 1870 nel suo originario contesto monumentale, il cimitero di Callisto (ibidem, IV, 10584). Al Crescenzi, tra l'altro, era anche sfuggito che nella seconda metà del terzo secolo la lingua ufficiale della Chiesa di Roma era ancora il greco. La gestione materiale di tutte le operazioni connesse alla "estrazione dei corpi santi", dopo un primo periodo di sostanziale assenza di regole definite, dal 1737 al 1850 fu affidata al custode della lipsanoteca del Vicariato e collateralmente (ma con minore incidenza operativa) al sagrista pontificio.

I due uffici agivano di fatto in concorrenza, disponendo ciascuno di una propria squadra di "cavatori":  "Il lavoro consisteva essenzialmente nella ricerca di corpi santi(...) che poi venivano distribuiti in tutto il mondo come oggetti di culto. Se ne trovavano tanti e se ne distribuivano ancor di più, perché grande era la fame di siffatte reliquie e c'era sempre modo di compensare bene la "domanda"" (Antonio Ferrua, I primordi della Commissione di Archeologia Sacra, in "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 91, 1968, p. 252).

Al custode della lipsanoteca e al sagrista pontificio può almeno essere riconosciuto il merito della redazione dei verbali - che servivano come base per le autentiche - in cui venivano registrati luogo e data delle "estrazioni" nonché i testi delle iscrizioni:  questi dati (Acta custodiae sanctorum martyrum ab a. 1737 ad a. 1850, exstant in Lipsanotheca card. Vicarii Urbis; Regestum Sacrarii pontificii ab a. 1780 ad a. 1814) in mancanza di meglio si sono infatti rivelati un importante sussidio documentario per gli editori delle Inscriptiones christianae urbis Romae.
Questa collettiva infatuazione, se fosse rimasta nella sfera della teoria e del libero confronto, non avrebbe provocato gran danno se non quello della memoria storica di una sfrenata e in fondo irrispettosa deriva devozionale. Ma nella realtà si rivelò foriera di gravi e irreversibili alterazioni per le catacombe e naturalmente per la stessa conoscenza storica del culto dei martiri.

Era venuta meno anche la tradizione secolare - profondamente radicata nella cultura sia pagana sia cristiana - della intangibilità della sepoltura, recepita nella teoria e nella prassi legislativa come res sacra:  un principio che era stato "religiosamente" osservato da Costantino e Damaso, come dire dai fondatori della ricognizione e della monumentalizzazione delle tombe dei martiri. Di fronte alla irreversibilità dei danni prodotti dai cercatori di corpi santi de Rossi non seppe trattenere una sdegnata reazione:  "Non trovo parole bastanti a lamentare tanta negligenza, e la jattura inestimabile di monumenti, di memorie e di osservazioni, che a veruno mai non sarà dato di compensare. Imperocché in que primi lavori di sterramento le vie sotterranee coi loro sepolcri cadevano vergini e intattissime sotto le mani devastatrici degli escavatori(...) Io confesso, che mi freme l'animo al pensare come la cripta di Damaso, quella di Balbina, la cripta del martire Ippolito sono state all'età denostri avi rinvenute, frugate dai fossori e forse irreparabilmente devastate; e che un Gaetano Marini lo seppe e non stimò doverne cercare pur una superficiale notizia.

In tanto oblio erano caduti la grande impresa del Bosio e i suoi dotti insegnamenti" (La Roma sotterranea i, pp. 49, 61).
Con la creazione della Commissione di Archeologia Sacra iniziava un'epoca nuova che, in virtù dell'opera di de Rossi e dei suoi successori, poteva ormai agire come un'istituzione specificamente deputata alla tutela, alla conservazione e alla indagine archeologica nelle catacombe.
Questo profondo mutamento di rotta fu lucidamente percepito da Pio XI, quando nel motu proprio dell'11 dicembre 1925, dopo aver premesso che "nei primi mesi del Nostro Pontificato ricorrevano il settantesimo anniversario della Istituzione della Commissione ed il centesimo della nascita del de Rossi, vero innovatore della scienza archeologica cristiana" (p. 2), attribuì alla Commissione il significativo titolo di "pontificia" dotandola di un nuovo regolamento che ne fissava in termini più definiti competenze e funzioni.

L'intervento di Pio XI precede di quattro anni un ulteriore mutamento, questa volta relativo allo statuto del monumento-catacomba nei riguardi dei rapporti tra la Santa Sede e l'Italia:  come qualsiasi altro monumento esistenti nel sottosuolo del territorio nazionale, anche le catacombe venivano rivendicate al patrimonio archeologico dello Stato, ma nondimeno venivano concesse in "disponibilità" alla Santa Sede che si impegnava a curarne conservazione e tutela. È quanto definito nell'articolo 33 del concordato tra la Santa Sede e l'Italia l'11 febbraio del 1929 (legge n. 810 del 27 maggio 1929), poi ripreso e parzialmente modificato nell'articolo 12 comma bis delle Inter Sanctam Sedem et Italiam Conventiones initae diebus 18 februarii et 15 Novembris 1984 ("Acta Apostolicae Sedis" 87, 1985, p. 530) che reca testualmente:  "La Santa Sede conserva la disponibilità delle catacombe cristiane esistenti nel suolo di Roma e nelle altri parti del territorio italiano con l'onere conseguente della custodia, della manutenzione e della conservazione, rinunziando alla disponibilità delle altre catacombe.

Con l'osservanza delle leggi dello Stato e fatti salvi gli eventuali diritti di terzi, la Santa può procedere agli scavi occorrenti e al trasferimento delle sacre reliquie".

L'elemento nuovo, rispetto all'articolo 33 del concordato del 1929, è nella definizione di "catacombe cristiane" attribuita ai monumenti dati in disponibilità alla Santa Sede; ciò evidentemente ha comportato l'espunzione dalla "disponibilità" delle tre catacombe ebraiche della via Appia e di Villa Torlonia che, di conseguenza, a partire dal 1984 rientrano nella tutela e nelle competenze della Soprintendenza ai beni archeologici di Roma. In ragione di queste premesse, la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra opera con il ruolo e tutte le prerogative di un organo di tutela statale e, in questa direzione, osserva le relative disposizioni di legge, sia nell'ambito della indagine archeologica sia, soprattutto, in relazione a tutti quegli interventi, spesso molto complessi nella progettazione e nella esecuzione, relativi alle operazioni di conservazione, di consolidamento, di restauro.

Il filo conduttore, istituzionale e culturale, che unisce il motu proprio del 1924 al concordato del 1929 e alla sua revisione del 1984, aveva posto tutte le premesse per l'avvio di una fase di forte rilancio, nel corso del quale la Commissione viene progressivamente proponendosi come soggetto dialogante con il mondo della ricerca archeologica e con le esigenze che venivano sempre più maturando dalla progressiva richiesta di fruizione da parte di un pubblico sempre più vasto.

I decenni che intercorrono tra gli anni Venti e gli anni Novanta possono senz'altro definirsi come la stagione d'oro nella storia della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, non inferiore a quella delle origini dominata dalla grande personalità di Giovanni Battista de Rossi. Chiunque oggi può prendere atto, dalla diretta osservazione dei contesti monumentali e dalle pubblicazioni specialistiche e divulgative, dell'enorme rilevanza dei risultati acquisiti nella tutela e conservazione e, soprattutto, nell'indagine archeologica. Tra i moltissimi risultati possono ricordarsi le scoperte di complessi catacombali prima del tutto ignoti, e dunque miracolosamente sfuggiti alla rapace attività dei cercatori dei corpi santi:  le catacombe di Panfilo (sulla Salaria Vetus), Novaziano (via Tiburtina), Calepodio sulla via Aurelia con la scoperta del luogo di deposizione di Papa Callisto, Aproniano e santi Gordiano ed Epimaco sulla via Latina, Anonima di via Anapo - la prima delle catacombe venuta alla luce a Roma il 31 maggio 1578, di cui poi si smarrì l'ubicazione - e ancora nuove regioni cimiteriali di complessi in parti già noti come quelle del cubicolo di Leone nella catacomba di Commodilla, delle "Agapi nuove" nel cimitero dei santi Marcellino e Pietro - importantissima anche per la sua cronologia proto costantiniana - della regio IV nel coemeterium Maius, dell'area di sant'Eutichio nel cimitero di san Sebastiano che conferma clamorosamente con dati monumentali ed epigrafici quanto fino ad allora documentato solo dal damasiano elogium Eutychi.

Di importanza epocale rimane la scoperta - peraltro del tutto casuale - della catacomba anonima della via Latina:  un piccolo insediamento funerario che, con le sue oltre 150 pitture ad affresco, oltre a costituire un caposaldo nella storia della pittura tardoromana, documenta uno dei tratti culturali tipici della tarda antichità, quello della dialettica tra cultura antica e cristianesimo, come rappresentato dalla compresenza in un medesimo contesto monumentale di soggetti biblici e della mitologia classica.

In tutti questi complessi sono stati innumerevoli gli interventi di conservazione, consolidamento e restauro eseguiti sia sulla plastica funeraria - sarcofagi e elementi architettonici - come per i circa mille esemplari del Museo di Pretestato, sia sulle testimonianze costituzionalmente più fragili come le pitture ad affresco che, come nel caso dei 150 esemplari della catacomba della via Latina, comportò un impegno pluriennale di altissimo impegno, con esiti di cui ognuno può oggi prendere atto.

A monte di questi risultati vi era anche il valore aggiunto - fin dal tempo di Pio IX - costituito dalla presenza nell'ambito stesso della Commissione, appunto di una "commissione" - non è una tautologia - cioè di un insieme di specialisti specifici nel campo dell'archeologia, della topografia, della storia dell'arte, che agivano in qualità di esperti e di consultori e collaboravano con il segretario, il direttore tecnico e gli ispettori.

Vi era poi un altro aspetto che si andò affermando soprattutto a partire dagli anni Sessanta e che contribuì non poco, particolarmente nell'ambito delle tecniche e delle metodologie, alla crescita qualitativa dei progetti di indagine archeologica e della loro realizzazione:  la collaborazione strategica con istituzioni culturali e università italiane e straniere che, solo per ricordare gli interventi più rilevanti, operarono nel complesso dei santi Marcellino e Pietro sulla Labicana - équipe francese - di Sant'Agnese sulla Nomentana - équipe tedesca - nell'area di Papa Cornelio e di Gaio ed Eusebio nella catacomba di Callisto - équipe belga - e, nelle catacombe fuori di Roma, a Massa Martana (Università di Perugia), Cava d'Ossuna (Università di Palermo), Castelvecchio Subequo (Università di Chieti), Ponte della Lama (Università di Bari). Ma la collaborazione più assidua e continuativa nel tempo si instaurò con la più giovane istituzione "sorella" - fondata nel 1924 da Pio XI - del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, cioè con la scuola di specializzazione che preparava e formava i futuri addetti ai lavori.

Non è difficile intuire che queste molteplici forme di progetti condivisi, tra gli altri risultati, ebbero come ulteriore valore aggiunto quello di contribuire alla formazione di almeno due generazioni di specialisti in archeologia, epigrafica e antichità cristiane:  non a caso sono numerosi i titolari di cattedre universitarie in Italia e in Europa che hanno maturato la loro professionalità anche con la partecipazione ai cantieri di scavo nelle catacombe.

Allo stato attuale, soltanto a Roma, la Santa Sede conserva la disponibilità, e quindi la custodia e la cura, di 67 catacombe distribuite lungo le antiche vie consolari che si dipartivano dalla città:  sei sulla via Aurelia, due sulla Portuense, cinque sulla Ostiense, quattro sull'Ardeatina, quattordici sull'Appia, quattro sulla Latina, cinque sulla Labicana, sei sulla Tiburtina, cinque sulla Nomentana, cinque sulla Salaria nuova, tre sulla Salaria vecchia, una sulla Flaminia.

L'estensione lineare complessiva delle gallerie di questi insediamenti sotterranei supera i 150 chilometri:  una città sepolta che ha finora restituito oltre trentamila iscrizioni latine e greche, 400 contesti pittorici ad affresco, oltre 10.000 esemplari di scultura funerari nonché circa 50.000 oggetti di corredo:  ma, è ovvio, si tratta di dati provvisori suscettibili di continuo incremento, e per le scoperte occasionali - sempre numerose - e per il prossimo rilancio di una progettualità archeologica strategica. Fuori Roma sono in disponibilità della Pontificia Commissione trentaquattro insediamenti catacombali distribuiti tra Toscana, Umbria, Lazio, Abruzzo, Sicilia, Sardegna.

Questo patrimonio - com'è naturale - non è dominio dei soli addetti ai lavori ma, seppure parzialmente - cinque a Roma le catacombe aperte al pubblico - è anche fruibile per il più vasto pubblico dei visitatori che, soltanto a Roma, raggiungono mediamente la non trascurabile cifra di un milione e mezzo all'anno. Un dato che rimanda implicitamente al delicatissimo problema dell'equilibrio tra le due esigenze, ambedue inalienabili, della fruizione e della conservazione:  basti pensare che oltre mezzo milione di persone all'anno percorrono l'Area i di Callisto e la Cripta dei Papi, la più antica delle catacombe romane istituita da Papa Zefirino (199-217) e affidata al futuro successore Callisto.

Un flusso di visitatori di queste dimensioni, specialmente per un insediamento sotterraneo, non può essere indolore:  sarebbe ingenuo e forse irresponsabile negarlo. Aprire al pubblico un'area catacombale impone - è ovvio - impianti elettrici fissi, possibilità di ricambio d'aria e via di fuga, sistemi di sicurezza e di allarme, nonché corrimano, transenne, scale artificiali, pedane:  tutti elementi che, insieme alla presenza dei visitatori, concorrono a modificare l'integrità degli assetti originari e del sempre instabile livello di conservazione.

La Commissione si era già posta nel passato recente questo problema ed aveva iniziato ad elaborare un preliminare progetto di osservazione delle zone più frequentate:  non chiusure indiscriminate, ma turnazioni tra diverse aree cimiteriali strutturalmente idonee alla pubblica fruizione, per consentire - come avviene per i campi di grano - di far "riposare" periodicamente gli ambienti e le strutture più logorate dal passaggio dei visitatori, restituendo loro quel "buio" e quel naturale microclima interno, che rimangono i soli veri antidoti non traumatici contro tutti i fenomeni esterni ed interni che, con diversa incidenza, possono potenzialmente compromettere salvaguardia e conservazione.

Questa complessità di problemi, direttamente o indirettamente connessi alla gestione del monumento-catacomba, era già stata intuita e, in qualche caso, implicitamente prefigurata, da Pio XI che nel motu proprio del 1924 (p. 3) sottolineava, senza reticenze, come la rinnovata Pontificia Commissione dovesse autoimporsi una "delicata e piena responsabilità(...) ben più difficile e gravosa rispetto a quella dei primi esploratori" (p. 3).



(©L'Osservatore Romano - 5-6 gennaio 2009)
Caterina63
00lunedì 2 novembre 2009 19:42
Epigrafi e storia nella Galleria lapidaria dei Musei Vaticani

Finestre sul passato per ritrovare il presente


di Ivan Di Stefano Manzella

La storia è "grande" solo perché si compone di tante storie "piccole", e la conoscenza che dell'una e delle altre possediamo è legata a quella rete di relazioni che il tempo è pronto a disfare, a meno che qualcuno - a esempio un contadino o un epigrafista - non faccia opposizione ricordando tutto, caparbiamente.
 
Fra le maglie di questa rete c'è, dunque, anche l'epigrafia:  una disciplina che studia le iscrizioni da vari punti di vista. L'archeologico-topografico guarda alla classe del manufatto, alla sua funzione, allo stato di conservazione, al contesto originario di appartenenza, alle manipolazioni subite; l'artistico esamina le figure abbinate all'iscrizione in un rapporto di mutuo completamento narrativo; il linguistico traccia il profilo dei committenti e degli scriventi; il grafico investiga materie e modalità scrittorie, tecniche, esiti formali:  alla ricercatezza della scrittura "capitale" su marmo, geometricamente solenne, si contrappongono il gusto anarchico e la secchezza che agitano il corsivo della vita quotidiana, per non parlare delle molli sinuosità partorite dal pennello degli scriptores pompeiani, annuncianti spettacoli gladiatorii, come Aemilius Celer che "scrisse da solo al lume della Luna"; lo storico-antiquario impiega i dati del testo per ricostruire il panorama di un'epoca; il collezionistico-museografico e umanistico non solo indaga l'apporto che gli studiosi europei dal XV secolo hanno recato, trascrivendo e commentando iscrizioni, ma ricostruisce le raccolte private e pubbliche e i passaggi di proprietà, puntando, con un percorso inverso, alla provenienza archeologica; lo storico-culturale accerta il ruolo che nel mondo moderno taluni documenti antichi hanno avuto in relazione al clima politico dell'epoca; infine il bibliografico-archivistico impiega e ordina la produzione manoscritta e a stampa in relazione alla storia degli studi.

L'epigrafia è dunque un universo vario, denso di sfide, provocazioni, curiosità:  pone davanti i suoi rigidi formalismi, i suoi sottintesi, le sue sintesi, le sue lacune defatiganti, gli enigmi, le abbreviature irrisolvibili, le ambiguità lessicali, gli inganni delle falsificazioni. Mette spesso in imbarazzo proponendo argomenti sconosciuti, costringendo a ricominciare daccapo. Il più delle volte non è lo studioso a scegliere di cosa occuparsi, ma è l'epigrafe che, offrendosi casualmente, condiziona il percorso di approfondimento, seducendo la fantasia.

Se si è fortunati si lavora sugli originali ancora in situ, ma quasi sempre si trovano fuori contesto, nei luoghi più diversi. Spesso l'originale è perduto, sicché si deve ricostruirne le vicende e verificare l'esattezza del testo confrontando le trascrizioni note.

Negli anni della rivoluzione francese, dell'impero napoleonico, dei sofferti papati di Pio VI (1775-1799) e Pio VII (1800-1823), Gaetano Marini (1742-1815), prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana dal 1798, fra le tante imprese compiute, che attendono ancora un narratore (l'ha rilevato Marco Buonocore nel 2004), trovò il tempo di salvare alcune migliaia di antiche "piccole" storie, facendone murare il pietrificato ricordo nella Galleria Lapidaria dei Musei Vaticani, nota come Ambulacrum Iulianum (da Papa Giulio ii) o come "corridore bramantesco" dall'architetto che la costruì.

Salvare la storia, mentre se ne viene travolti, è impresa coraggiosa, esemplare, generosa, lungimirante, benefica e, a suo modo, anche poetica.

In quelle lapidi divise per argomenti Marini ci si specchiava come degno rappresentante di una posterità non immemore; per lui ogni epigrafe era la finestra di un passato da ricomporre per ritrovarvi il senso del presente coi suoi traguardi e i suoi orrori.
Marini ci ha consegnato il frutto del proprio lavoro e regalato l'opportunità di compiere gli stessi viaggi che egli fece tante volte quanti furono i testi decifrati, letti, analizzati, contestualizzati, spiegati, datati.

La sfida di allora era e rimane quella di ricostituire i legami che il tempo ha sciolto, magari partendo dalla storia di un marinaio della flotta di Capo Miseno, originario della provincia Aegyptus, passando per un ex voto, sino a scendere nel quotidiano, col tempo dedicato al lavoro, con una sosta alla trattoria del "cuoco sobrio" o nelle terme private di Aurelia Faustiniana, la cui insegna vantava in Ficulea servizi ed efficienza paragonabili a quelli offerti nell'Urbe.

L'epigrafia delle carriere può stupire, giovando alla ricostruzione della mappa dei poteri distribuiti nel tempo e nei luoghi, svelando la complessa struttura della macchina imperiale e il profilo della sua classe dirigente, che fu caparbiamente conservatrice nella forma e pragmaticamente innovatrice nella sostanza (vedi la storia del diritto romano).

La "scrittura esposta" mostra ancora oggi, come nell'antichità, la metamorfosi della lingua, del formulario, dei contenuti, passa da un'avara età repubblicana al ricco alto impero (I-II secolo) e poi, attraverso un periodo di crisi che culmina con l'editto dioclezianeo sui prezzi (III), al basso impero (iv-vi), con un'epigrafia anarchica e povera di informazioni (nel 1997 fu dedicata una mostra a Le iscrizioni dei cristiani in Vaticano).

Il profilo appena tracciato contiene tutti gli elementi che sono alla base di quella passione di ricerca nota come "mal d'epigrafia":  chi la volesse contrarre dovrà - studio a parte - trovare dentro di sé il giusto equilibrio tra fantasia e realismo, tra impulso all'azzardo e autocontrollo critico, fra desiderio di certezza e necessità di approssimazione. Schiere di "ammaliati" ci tengono buona compagnia, anche se ad alcuni, come a Gaetano Marini, è andata via la voce.


(©L'Osservatore Romano - 2- novembre 2009)
Caterina63
00lunedì 31 maggio 2010 19:11
Si è riunita la plenaria della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra

Con il laser tra i tesori degli antichi cimiteri


Roma, 31. La Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, l'istituzione pontificia che, secondo le convenzioni tra la Santa Sede e lo Stato italiano, tutela, conserva e valorizza le catacombe cristiane di Roma e d'Italia, ha ripreso l'antica consuetudine di riunirsi periodicamente.

L'iniziativa, voluta dall'arcivescovo presidente, Gianfranco Ravasi, e dal segretario, monsignor Giovanni Carrù, si inquadra in una ristrutturazione globale dell'istituzione, che ha meglio definito la mappa degli ispettorati locali e che ha previsto anche la figura di un sovrintendente archeologico, Fabrizio Bisconti, per potenziare il ruolo scientifico dell'organismo, che si affianca a quello spirituale, nel senso che la commissione si occupa simultaneamente degli aspetti tecnici, archeologici, conservativi, ma anche di quelli più propriamente di catechesi e di apostolato.

A quest'ultimo riguardo, sono diventati più stretti i rapporti con la direzione delle catacombe aperte al pubblico, che si occupano della gestione del pellegrinaggio nelle cinque catacombe  romane  - Domitilla, Priscilla, Sant'Agnese, San Callisto, San  Sebastiano  - ma anche di quelle di San Gennaro a Napoli, di San Giovanni a Siracusa, di Santa Mustiola a Chiusi, di Santa Cristina a  Bolsena  e  di  San  Senatore  ad Albano.

La commissione è stata completamente rinnovata e i membri, nominati dal Papa, metteranno a disposizione la loro esperienza per meglio definire le attività dal punto di vista storico, letterario, teologico, archeologico e conservativo.

D'altra parte, gli interventi di scavo e di restauro nelle catacombe cristiane d'Italia, durante questi ultimi anni, hanno mostrato un'accelerazione e una specializzazione nelle tecniche e nella metodologia degli studi, sia per quanto riguarda le indagini propriamente archeologiche, sia per quanto attiene quelle relative al restauro delle pitture, dei sarcofagi e degli altri materiali emergenti dai cantieri di indagine.

Tra gli interventi più recenti e più fortunati, dobbiamo ricordare quelli che hanno messo in luce un nuovo santuario  nelle catacombe romane dei Santi Marcellino e Pietro, e in quelle di Santa Tecla, dove, come si è  anticipato lo scorso anno nelle pagine  di  questo giornale, stanno emergendo nuove pitture di straordinaria importanza, con le effigi di san Paolo e di altri apostoli, che si propongono come le più antiche sinora scoperte. Di questa fortunata acquisizione, ottenuta con lo strumento del laser, si darà conto ben presto in una conferenza stampa.

Anche nelle catacombe d'Italia non sono mancati scavi fruttuosi, come nel caso dell'indagine sistematica della catacomba di Villagrazia di Carini (Palermo), che ha riportato alla luce, tra l'altro, due splendide rappresentazioni pittoriche con l'adorazione dei Magi e un numero considerevole di sepolture intatte.

Ma scavi e restauri sono stati effettuati un po' in tutto il suolo italico e, precisamente, a Formello, a Sant'Alessandro sulla Nomentana, a Bolsena, a Grottaferrata, a Chiusi, a Massa Martana, nell'isola di Pianosa, a Napoli e a Siracusa.

Tornando a Roma, progetti di grande impegno stanno per essere varati ancora nelle catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, che, in accordo con la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, verrà aperta al pubblico nei prossimi anni, dopo un meticoloso intervento preparatorio. Nello stesso senso, si sta lavorando per aprire il complesso di Pretestato, dove sono musealizzati oltre mille frammenti di sarcofagi pagani e cristiani, mentre è in avanzato stato di allestimento la nuova copertura dell'antico ipogeo degli Aureli in viale Manzoni. Proprio fra qualche giorno, continueranno le indagini nella basilica circiforme sulla via Ardeatina, dove, da alcuni anni sta riemergendo il complesso basilicale di fondazione costantiniana, destinato a ospitare le spoglie di Papa Marco, rinvenuto nel comprensorio callistiano.

Tutte queste attività, oltre a rispondere a delle precise esigenze che ci manifestano continuamente questi preziosi e fragili monumenti del cristianesimo della prima ora, dall'altro, su un piano più spirituale e di attenta ricostruzione storica, ci restituiscono l'immagine di una comunità ricca e vivace culturalmente e artisticamente, che esprimeva tale vivacità anche nei propri cimiteri, che appaiono sempre più - come vuole l'etimologia greca della parola "cimitero" - quali dei sereni dormitori in cui il cristiano riposa in attesa del risveglio eterno.


(©L'Osservatore Romano - 31 maggio 1 giugno 2010)
Caterina63
00venerdì 10 settembre 2010 18:10
In Calabria il decimo Congresso nazionale di archeologia cristiana

Le pietre parlano come i libri
(a volte anche di più)


di Carlo Carletti


"Martiri, santi, patroni:  per una archeologia della devozione":  è il tema del x Congresso nazionale di archeologia cristiana, che si terrà presso il Campus dell'università della Calabria (ad Arcavacata di Rende) dal 15 al 18 settembre.

Il fenomeno della santità, nei suoi molteplici esiti, continua tuttora a proporsi come un produttivo terreno di indagine storica, sollecitata non soltanto dalla acquisizione di nuovi dati archeologici o dall'approfondimento di fonti scritte precedentemente trascurate, ma anche dalla avvertita esigenza di una rilettura critica della storiografia del passato,  legata essenzialmente agli indirizzi di ricerca maturati nell'ambito dell'illuminismo inglese del XVIii secolo.

Si deve infatti a David Hume e Eduard Gibbon la prima compiuta analisi storica sulle problematiche connesse all'emergenza di un culto riservato a "defunti eccellenti" (i martiri), interpretato - però unilateralmente - come deriva incolta e irriflessa dell'originario monoteismo cristiano verso forme che, almeno sul piano formale, si proponevano come una ricaduta verso il politeismo pagano. La causa remota di tale deriva veniva individuata nell'insanabile conflitto tra un ideale "superiore", che tendeva alla purezza monoteistica e l'incapacità o la difficoltà di penetrare una concezione così alta, che, soprattutto nel "volgo" - per usare un termine tipicamente illuministico - poteva condurre a uno squilibrio percettivo nei confronti del sacro e delle sue forme devozionali e cultuali.

Di qui una persistente e irreversibile tensione tra le istanze più elevate di una minoranza elitaria e le "credenze" di un volgo massificato e impersonale incapace di penetrare e accogliere l'ideale monoteista:  una dinamica teorizzata nella teoria dei "due piani" e nel concetto di "religiosità popolare".

Ma le indagini successive, e soprattutto la revisione del bollandista Hyppolite Delehaye, condussero a un sensibile ridimensionamento di questo impianto interpretativo:  con argomenti decisivi - e questa è la grande eredità lasciata da Delehaye - fu riconsciuta la diretta ascendenza del culto dei santi da quello dei martiri e l'assoluta specificità del concetto del martirio, proprio della tradizione cristiana dei primi secoli, non sempre peraltro rimasta immune da contaminazioni e discrasie di diversa natura, come già indicato dalla critica illuministica.

Gli sviluppi successivi, anche sulla scorta dei metodi e dei modelli elaborati nell'ambito delle cosidette "scienze umane" (sociologia, psicologia, antropologia culturale, semiologia), hanno contribuito a definire più lucidamente la storia del culto dei martiri anche in rapporto al succedersi dei mutamenti e delle trasformazioni intervenute nella società tardoantica e medioevale.
Nell'ambito di questi nuovi indirizzi un ruolo centrale e indubbiamente propulsivo occupano le indagini condotte da Peter Brown, che per la comprensione del culto dei santi - rapidissimo e quasi tumultuoso a partire soprattutto dalla metà del iv secolo - attribuisce un ruolo determinante alla emergenza degli scompensi culturali, materiali e spirituali, che cominciarono a intervenire nel mondo romano all'inizio della tarda antichità.

Oggi, in seguito a un positivo processo di sintesi critica e di ulteriore approfondimento della diversa natura e della variabilità dei fattori che agiscono nella formazione e nella affermazione (o nella rarefazione) del culto dei santi, quando si parla del variegato universo della santità si preferisce usare la significativa definizione di "discorso agiografico".

Un vero e proprio concetto storiografico che bene esprime la molteplicità degli aspetti e dei momenti dialettici (si tratta sempre e comunque di una relazione - variamente percepita - tra umano e divino), che in tutte le loro forme caratterizzano e definiscono un fenomeno ultramillenario tuttora vitale e radicato:  si tratta pur sempre di un processo relazionale che, in un definito contesto storico-culturale, coinvolge e condensa la duplice dimensione verticale (umano-divino) e orizzontale (individuo-gruppo-istituzione). In queste indagini, indubbiamente migliorative, non sempre però - va riconosciuto - è stata riservata la giusta attenzione alle numerosissime e spesso macroscopiche testimonianze della "cultura materiale".

Affiora ancora oggi in non pochi settori dell'indagine storica una sorta di inconscia gerarchia delle fonti di conoscenza, che induce a considerare le testimonianze archeologiche come "ancellari" o di puro "supporto", rispetto a una presunta maggiore autorità implicitamente attribuita alla documentazione scritta letteraria e documentaria. Evidentemente non scontata - come sarebbe legittimo pensare - è la ovvia presa d'atto che tutte o quasi le forme esterne di un culto si collocano in un luogo fisico, in un ambiente determinato, in un contesto monumentale, all'interno del quale poi la dimensione devozionale si traduce in scritture esposte, in immagini, nell'oggettistica devozionale e votiva, nei dispositivi per le pratiche cultuali.

Non è così casuale che gli studiosi di archeologia cristiana si siano proposti di rileggere, approfondire (anche sulla scorta di nuove scoperte) e valorizzare sul piano della ricostruzione storica, un patrimonio sterminato quale quello che si è andato sedimentando in Italia, nel periodo della genesi e del primo sviluppo del culto dei martyres, sancti, boni, benedicti, come recita un'antica iscrizione del v secolo (Inscriptiones christianae urbis Romae, x, 26350).

Gli esiti derivati direttamente o indirettamente dall'esercizio di questa pratica cultuale coinvolgono in Italia ambiti diversi di aggregazione umana, lasciando tracce indelebili e spesso di lunghissima durata, tuttora visibili nelle città e nelle campagne, nella topografia, nella toponomastica, nella urbanistica, nelle strutture architettoniche, nella produzione figurativa ed epigrafica, nei manufatti mobili come gli ex voto o gli oggetti di devozione. Dall'attenzione e dall'approfondimento riservato a queste non residuali testimonianze, quasi spontaneamente scaturisce il concetto progettuale di una "archeologia della devozione" che, nell'ambito della cultura materiale tardo antica e altomedievale, vuole anche significare un definito - ma non autoreferenziale - indirizzo di ricerca.

I lavori del congresso saranno introdotti da tre relazioni di carattere storiografico, che tracciano il diagramma delle ricerche sul fenomeno della santità, attraverso le confluenti ma non omologhe esperienze maturate nell'ambito della ricerca storica e archeologica:  "Loca sanctorum:  la costruzione di una geografia sacra tra tardoantico e altomedioevo", "Martiri e santi nell'area meridionale tardoantica", "Forme di devozione tra tarda antichità e altomedioevo:  bilancio storiografico sulle indagini archeologiche in Italia".

La parte centrale e specifica dei lavori del convegno si articolerà in una serie di relazioni di base - integrate da comunicazioni di supporto - che entrano nello specifico di temi e problemi, che riguardano le diverse e molteplici testimonianze monumentali e archeologiche, che nella loro complessità già nel 1930 Delehaye aveva efficacemente definito come loca sanctorum.

Lo spettro tematico è ampio e tocca sostanzialmente tutte le manifestazioni materiali connesse al culto dei santi e dei martiri:  la dislocazione sul territorio delle aree cultuali (città e campagna) anche in relazione al fenomeno della circolazione delle reliquie; l'eredità del passato e nel contempo gli elementi di novità funzionali - in termini di strutture e organismi monumentali - alle esigenze della pubblica fruizione e della pratica cultuale che, in breve tempo, consolidandosi in vera e propria prassi liturgica, sviluppa specifici dispositivi, arredi, manufatti; i processi di formazione e di sviluppo di una "iconografia agiografica", nel cui ambito si elaborano e si consolidano modelli e stereotipi figurativi, proponendosi nel tempo come veri e propri "traccianti" di indirizzi devozionali.

Infine lo sviluppo precoce - già dalla metà del iii secolo - di una vera e propria epigrafia martiriale, che si muove sul duplice piano delle committenze alte - laiche ed ecclesiastiche (titoli dedicatori e votivi) - e delle manifestazioni grafiche estemporanee e spesso autografe (i graffiti), che conservano intatta una cospicua campionatura della fruizione individuale del "patrimonio" di santità sedimentato nei santuari tardoantichi e altomedievali, appunto nei loca sanctorum.

Un'intera giornata del congresso sarà poi dedicata alle comunicazioni e alla presentazione di poster che proporranno aspetti particolari connessi al tema generale e, soprattutto, le sintesi di nuove scoperte archeologiche intervenute nell'ultimo decennio, con particolare attenzione naturalmente al territorio della Calabria.

Il progetto di questo decimo Congresso nazionale di archeologia cristiana è stato congiuntamente concepito e organizzato dal Dipartimento di Archeologia e storia delle arti dell'università della Calabria e dal Dipartimento di Studi classici e cristiani dell'università di Bari "Aldo Moro", in piena sintonia e collaborazione con i docenti delle università italiane, della Scuola di specializzazione del Pontificio Istituto di archeologia cristiana e con gli specialisti della Pontificia Commissione di archeologia sacra, l'istituzione - allo stato attuale - depositaria della tutela e della conservazione del più grande deposito in assoluto di memorie archeologiche e monumentali connesse al culto dei martiri.

La concreta realizzazione di questa iniziativa congressuale non sarebbe stata possibile se non fosse intervenuta la disponibilità dell'università della Calabria, che con spirito di generosa ospitalità e di alta sensibilità culturale ha voluto mettere a disposizione dei partecipanti al congresso l'intero spazio universitario:  la sede di Arcavacata di Rende - una realtà senza uguali in Italia - che, con i suoi grandi spazi e le sue articolate e funzionali infrastrutture, consentirà di svolgere al meglio un incontro di studio residenziale. Analoghe sensibilità e accoglienza sono state poi concretamente dimostrate dalla regione Calabria, dalla Provincia di Cosenza, dalla Amministrazione comunale di Rende, dalla Fondazione Carical. Ai lavori (il programma in dettaglio è disponibile sul sito www.xcnac.it) parteciperanno circa centoventi studiosi, con la presentazione di ottanta interventi.



(©L'Osservatore Romano - 11 settembre 2010)
Caterina63
00martedì 7 dicembre 2010 22:01

La Pontificia Accademia di Archeologia compie 200 anni


Cerimonia commemorativa questo giovedì a Roma


di Anita S. Bourdin


ROMA, martedì, 7 dicembre 2010 (ZENIT.org).- La Pontificia Accademia Romana di Archeologia celebra 200 anni.

Per l'occasione, il Palazzo della Cancelleria di Roma accoglierà questo giovedì, 9 dicembre, una cerimonia commemorativa alla presenza dei Cardinali Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, e Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura.

L'incontro includerà gli interventi dei professori Fausto Zevi, Silvia Lusuardi Siena e Leandro Polverini, e terminerà con il contributo del Presidente dell'Accademia, Letizia Pani Ermini.

Il Cardinal Ravasi presiederà poi una celebrazione eucaristica nella Basilica di San Lorenzo in Damaso.

L'Accademia è stata fondata nel 1810 con il titolo di Accademia Romana di Archeologia. Era stata preceduta dall'Accademia delle Romane Antichità, creata da Pomponio Leto nel XV secolo. Papa Pio VIII decise di chiamarla pontificia nel 1829.

L'Accademia ha la missione di promuovere l'archeologia e la storia dell'arte antica e medievale. E' posta sotto la direzione del Cardinale Segretario di Stato ed è costituita da 140 membri (20 onorari, 40 effettivi, 80 corrispondenti), che vengono invitati a partecipare alla sessione annuale delle Pontificie Accademie, organizzata dal Pontificio Consiglio della Cultura.

http://www.piac.it/chi_siamo/chi_siamo.htm 




L’archeologia come veicolo del patrimonio di fede dei santi protomartiri romani


Iniziativa della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra



 CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 22 giugno 2007 (ZENIT.org).- In vista della memoria liturgica dei santi protomartiri romani – il 30 giugno –, la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra ha voluto organizzare degli eventi per avvicinare il grande pubblico al prezioso patrimonio di memorie del cristianesimo della prima ora.

Il suddetto Dicastero della Curia Romana – preposto alla custodia delle catacombe cristiane di Roma e di tutta Italia – ha programmato la diffusione, con tutta la sua attualità, del valore della testimonianza dei primi martiri anche per il cristiano del terzo millennio.

Infatti – ha sottolineato l’organo informativo “Fides” della Congregazione vaticana per l’Evangelizzazione dei Popoli –, il cristiano di oggi spesso è “disorientato” dalle tante suggestioni contemporanee, che “tendono alla svalutazione di quelle scelte di vita ispirate al dono di sé, al sacrificio, alla difesa dei deboli”.

Due iniziative parallele, gratuite, sono state preparate in questo contesto, nella dinamica intrapresa due anni fa.

“In suo nome” è la prima, concepita come un piccolo percorso delle vicissitudini dei martiri a partire dai primi cristiani fino a quelli più vicini al nostro tempo. Verrà interpretata come una lettura scenica all’aria aperta, nelle catacombe romane di San Callisto martedì prossimo.

Il contesto vedrà la successione di scene del martirio di San Tarcisio, San Tommaso Moro e del Servo di Dio Rolando Rivi. Di ciascuno verrà ricordata la vita, soffermandosi soprattutto sui processi dei martiri.

Lo stesso giorno, verranno aperte ai visitatori quindici catacombe cristiane – a Roma, nel Lazio (Bolsena, Nepi, Albano), in Toscana, Umbria, Campania e Sicilia –, per la maggior parte chiuse al pubblico.

Per l’occasione verrà messo a disposizione un servizio di guide gratuite – nei complessi scelti –. Il numero di visite e di pubblico è limitato. Ulteriori informazioni e prenotazioni all’indirizzo www.fides.org/ita/comunicati/0062.html.

I santi protomartiri romani sono i primi martiri della città che l’imperatore Nerone fece legare a dei pali e poi bruciare negli orti di sua madre Agrippina.

Gli “orti di Agrippina” corrispondono esattamente all’attuale piazza dei protomartiri romani, che si estende fino ai giardini vaticani. Si tratta di uno dei primi luoghi del martirio cristiano a Roma.

Istituita nel 1852 da Pio IX – per custodire i sacri cimiteri, curare la loro conservazione, le esplorazioni, le ricerche, lo studio e tutelare la memoria dei primi secoli cristiani, i monumenti insigni e le venerabili Basiliche di Roma –, la Commissione di Archeologia Sacra è stata dichiarata Pontificia da Pio IX, il quale ne ha successivamente ampliato le funzioni.

I Patti Lateranensi hanno riconosciuto la sua autorità e il suo ambito di azione e studio per tutte le catacombe esistenti sul territorio italiano. Il nuovo Concordato ha confermato queste attribuzioni.

Nei luoghi affidati alla Pontificia Commissione è necessario il suo permesso per realizzare qualunque modifica; dirige i lavori che si devono svolgere e ne pubblica i risultati; allo stesso modo, tra le altre cose, stabilisce le norme di accesso al pubblico e agli studiosi.






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