Quando Pio XII aprì la Tomba dell'Apostolo Pietro

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Caterina63
00sabato 31 gennaio 2009 10:05
Papa Pacelli e la storia degli scavi archeologici nella necropoli vaticana

Pio XII e la tomba dell'Apostolo


di Carlo Carletti

La vigilia della festa dei santi Pietro e Paolo, il 28 giugno 1939, Pio XII prese la storica decisione di avviare la sistematica esplorazione dell'area sepolcrale che aveva accolto la memoria petrina. L'immediata premessa di questo progetto non era propriamente il consapevole progetto di un'indagine archeologica strategica, quanto piuttosto l'esigenza di allestire una decorosa e degna sistemazione per la sepoltura del defunto pontefice Pio XI (morto il 10 febbraio 1939), che già in vita aveva manifestato il desiderio di essere deposto nelle Grotte Vaticane. A tal fine, su iniziativa dell'allora segretario-economo della Fabbrica di San Pietro, monsignor Ludwig Kaas, legato da vincoli di amicizia con Pio XII fin dai tempi in cui il futuro Papa era stato nunzio apostolico in Germania, si avviò una serie di interventi strutturali per ampliare e rendere più facilmente praticabile, anche per i fedeli, lo spazio delle Grotte:  fu deciso in prima istanza di abbassare il livello delle Grotte di circa un metro e ciò, come era facilmente prevedibile, consentì di scorgere immediatamente i resti delle fondazioni della basilica voluta da Costantino e una parte del sottostante sepolcreto romano che per edificare la basilica petrina era stato totalmente interrato e in molte sue parti gravemente danneggiato.



Come "responsabile morale" della conduzione dei lavori e suo referente immediato Pio XII indicò la persona di monsignor Kaas, per iniziativa del quale e - come pare - senza un piano preordinato, venne progressivamente costituendosi l'équipe degli studiosi che dal 1939 al 1949 condussero le indagini sotto la Confessione Vaticana:  i padri gesuiti Antonio Ferrua e Engelbert Kirschbaum e i professori Enrico Josi e Bruno Apolloni Ghetti. Il loro ruolo, al di là delle effettive e indiscutibili competenze che venivano riconosciute, rimase sul piano formale sostanzialmente indefinito. Non sorprende pertanto che nella prefazione della relazione ufficiale degli scavi (apparsa nel 1951) i quattro studiosi - con il consenso di monsignor Kaas e di Pio XII - definiscano concordemente il loro ruolo con la singolare formula di "spettatori interessati" e, analogamente, su "La Civiltà Cattolica" del 5 gennaio 1952 (p. 15) il padre Ferrua riferisca che "solo pochissime persone furono ammesse fin quasi da principio a seguire l'andamento ed i risultati [degli scavi] in qualità di osservatori interessati".


Ma il dato rilevante di questa fase iniziale dei lavori è nella decisa determinazione, indubbiamente coraggiosa, di Pio XII di consentire e, di fatto, promuovere l'avvio di una vera e propria indagine archeologica. In questa direzione l'azione del Pontefice si proponeva in netta controtendenza rispetto ai suoi predecessori, che avevano avviato e portato a termine il nuovo edificio rinascimentale. In verità già nel passato, nel corso dei "biblici" centocinquanta anni della costruzione della basilica rinascimentale emersero almeno due circostanze che avrebbero potuto consentire a Paolo V (1605-1621) e a Urbano VIII (1623-1644) di procedere almeno a una osservazione preliminare delle testimonianze archeologiche che si celavano al di sotto del costruendo edificio che andava a sovrapporsi - sostituendolo e distruggendolo - a quello monumentale voluto da Costantino. Inaspettatamente, già nel 1615, era stata intravista l'area petrina e in particolare alcune sepolture, erroneamente ritenute come quelle dei presunti immediati successori di Pietro.


Un decennio più tardi, nel 1626 - anno della consacrazione della nuova basilica da parte di Urbano VIII - si arrivò addirittura a "contatto fisico" con l'area stessa della memoria funeraria di Pietro. E infatti nei lavori per la messa in opera del ciborio del Bernini i pilastri di fondazione delle monumentali quattro colonne tortili furono conficcati, con danno irreversibile, nel corpo stesso di tre mausolei pagani, i cui muri esterni costituivano i confini del campo P, quel piccolo rettangolo di terreno all'aperto cielo (metri 4 x 8) nel quale più tardi si riconobbe il luogo della sepoltura di Pietro. Ma l'emergenza di questi dati non sollecitò più di tanto l'interesse degli "spettatori":  anzi emerse una sorta di psicosi collettiva alimentata da eventi, ovviamente del tutto casuali, che riportarono all'attualità gli spaventosi racconti di Gregorio Magno (Epistulae, 7, 23, anno 597) sulle gravi sciagure cui erano andati incontro coloro che avevano osato profanare la intangibile sacralità delle tombe venerate dei martiri romani. Si era rapidamente diffusa la voce, come testimonia il canonico Ubaldi (cfr. M. Armellini - C. Cecchelli, Le chiese di Roma, Roma 1942, pp. 865-868), che il custode della Biblioteca Vaticana (Nicolò Alamanni) cui era stata affidata la direzione dei lavori, si ammalò e morì entro pochi giorni; stessa sorte toccò al cappellano segreto di Urbano VIII, Francesco Schiaderio, e al suo scrivano, tale Bartolomeo.

L'immediata sospensione di qualsiasi tentativo di indagine aveva trovato - se così può dirsi - la sua "giustificazione teologica":  san Pietro stesso, nell'immaginario dell'epoca, attraverso inequivocabili segnali premonitori, aveva posto un insindacabile veto.


Questi timori reverenziali furono evidentemente lasciati da Pio XII alla sfera che li aveva prodotti, quella dell'irrazionale e del magico. Il Pontefice fin dall'inizio dei lavori dimostrò concretamente un vivissimo interesse per le indagini:  ne voleva seguire quasi nel quotidiano l'andamento e i progressi, richiedendo - talvolta con insistenza - per il tramite di monsignor Kaas, relazioni e memoriali che lo aggiornassero sullo stato delle ricerche. A tali aggiornamenti generalmente provvedeva il padre Ferrua e dal suo vivace periodare si ha una immagine molto realistica dell'atmosfera di attesa e di preoccupazione che circondava queste indagini:  "Era un lavoro che si faceva con grande pazienza, ritrovandoci spesso a discorrere delle nostre difficoltà e delle nostre scoperte, in un clima di grande collaborazione (...) Ed eravamo in quel terribile decennio 1940-1950! Qual meraviglia che le cose andarono più in lungo del previsto e negli ultimi tempi Pio XII era verso di noi un poco nervoso, e Kaas ce lo faceva sentire, come pure il conte Galeazzi, il Principe Pacelli e altri" ("La Civiltà Cattolica", 142, 1990, i, pp. 460-467).


Il generale contesto storico-politico dell'epoca non era forse il migliore per una impresa di tal genere e tuttavia già nel 1942 erano venuti maturando i primi importantissimi risultati, che nella sostanza rimasero "i soli" storicamente reali e tuttora largamente condivisi dalla critica storica. Sulla base dei memoriali forniti da monsignor Kaas, se ne fece diretto portavoce Pio XII, il quale era ben consapevole che le indagini della "memoria petrina" anche nell'opinione pubblica, oltre che naturalmente negli ambienti degli studiosi, sempre più andavano suscitando enorme interesse e spasmodiche attese sia sul fronte di chi si aspettava conferme clamorose e decisive sia su quello di chi, viceversa, si attendeva smentite definitive.

Nel Radiomessaggio del 13 maggio 1942 Pio XII comunicò urbi et orbi i risultati acquisiti, con un asciutto linguaggio quasi da addetto ai lavori e poco o nulla concedendo alla tentazione di una compiaciuta apologia ("Acta Apostolicae Sedis", 34, 1942, pp. 162-164): 


1) la riapertura della Confessione del tempo di Gregorio Magno (590-604) sulle cui strutture si potevano osservare numerosi segni di croce tracciati dai pellegrini;
2) il rinvenimento di 1.500 monete antiche e medievali che testimoniavano uno dei tanti indotti devozionali relativi al culto dei martiri, cioè l'offerta dell'obolo;
3) la sequenza di tre altari inclusi l'uno nell'altro voluti da Gregorio Magno (590-604), Callisto II (1119-1124), Clemente VIII (1592-1605), in rigoroso asse con la memoria petrina, a testimonianza di una ininterrotta tradizione devozionale e liturgica secolare;
4) il riconoscimento del cosiddetto "trofeo di Gaio" (un'edicola marmorea con colonnine frontali), dato fondamentale per la storia del culto di san Pietro e in assoluto la prima monumentalizzazione realizzata nel campo P al tempo di Papa Zefirino, della quale già parlava alla fine del ii secolo il presbitero romano Gaio, come riportato da Eusebio nella sua Storia ecclesiastica (2, 25, 5-7);
5) la scoperta del cosiddetto muro G, cioè dei Graffiti, che documenta concretamente, attraverso iscrizioni devozionali tracciate su intonaco, di una frequentazione del campo P già tra la fine del III secolo e l'inizio della costruzione della basilica di Costantino.


A Pio XII naturalmente non era sfuggita la portata storica del trofeo di Gaio e dei graffiti del muro G e infatti, nel suo messaggio, non mancò di sottolineare con giustificato compiacimento che "lo zelo indefesso degli indagatori ha rinvenuto, semplice nella sua forma, un monumento, a cui però, molto prima dell'età costantiniana, la devozione dei fedeli aveva dato il carattere di venerando luogo di culto. Ciò testimoniano i graffiti, che si scorgono nell'interno del monumento su una parete, mostranti la stessa forma di quelli che presentano le tombe dei martiri nei cimiteri cristiani".


Le indagini e le opere di sistemazione nelle Grotte Vaticane proseguirono fino al 1949, né in questo periodo intervennero altre scoperte di rilievo. Ma alla conclusione delle indagini si imponeva impellente una risposta da molti legittimamente attesa:  se cioè, oltre a quanto era stato già divulgato nel 1942, si fosse materialmente individuato il sepolcro originario dell'apostolo e le relative reliquie. Su questo aspetto, evidentemente di non secondario rilievo, il primo annuncio ufficiale fu quello di Pio XII. Il mezzo fu ancora un radiomessaggio (23 dicembre 1950) e la circostanza - solennissima - la fine dell'Anno santo.

Queste le parole conclusive del Pontefice:  "La gigantesca Cupola s'inarca esattamente sul sepolcro del primo Vescovo di Roma, del primo Papa:  sepolcro in origine umilissimo, ma sul quale la venerazione dei secoli posteriori, con meravigliosa successione di opere, eresse il massimo Tempio della Cristianità" ("Acta Apostolicae Sedis", 43, 1951, pp. 51-52); in questo stesso contesto Pio XII riconosceva con obiettività che i resti di ossa umane ritrovati nella zona della tomba non potevano essere identificati con sicurezza con le reliquie dell'Apostolo. Non diversa nella sostanza, ma più sfumata, la sintesi ultima esposta nelle Esplorazioni (i, p. 144 b):  "La tomba stessa dimostrava, con la sua consistenza strutturale, la sua età veneranda e la sua lunga esistenza:  dall'umile avello, che doveva una volta occupare il misterioso quadrato stretto tra le tombe circostanti, al monumentale "trofeo" a doppio piano additato da Gaio". Ma - va rilevato - sia le Esplorazioni sia il Radiomessaggio pontificio del 1950 tacciono del più importante reperto epigrafico rinvenuto durante gli scavi:  l'esiguo frammento di intonaco proveniente dal cosiddetto muro Rosso (la struttura cui si addossa il trofeo di Gaio) che reca la scritta greca Petr[os] en i[ - - - ]:  l'unica testimonianza epigrafica rinvenuta nel campo P con la esplicita menzione del nome dell'Apostolo, certamente circoscrivibile tra la seconda metà del ii secolo (data di erezione del muro Rosso) e la seconda metà del III secolo, quando fu realizzato il muro dei graffiti:  ne curò l'edizione - con inspiegabile ritardo - Ferrua soltanto nel 1969 (Saecularia Petri et Pauli, Città del Vaticano, 1969, pp. 131-135).


A un anno di distanza dal Radiomessaggio pontificio, il 19 dicembre 1951, veniva finalmente presentato a Pio XII il primo esemplare della relazione degli scavi che lo stesso Pontefice, con motivata insistenza aveva in più circostanze sollecitato:  una monumentale pubblicazione in due tomi curata dai quattro "osservatori interessati" B. M. Apolloni Ghetti, A. Ferrua s. i., E. Josi, E. Kirschbaum s. i. con prefazione di monsignor L. Kaas e appendice numismatica di C. Serafini (Esplorazioni sotto la Confessione di s. Pietro in Vaticano, i-ii, Città del Vaticano 1951). Nel corso dell'udienza Pio XII poteva prendeva atto con soddisfazione della versione integrale dei risultati conseguiti i quali, come si legge nel servizio de "L'Osservatore Romano" (20 dicembre 1951), si erano rivelati "superiori a quanto scientificamente si poteva attendere in un'impresa che, fin dai primi giorni del suo pontificato, Egli promosse e costantemente volle attuare, nonostante le gravi difficoltà tecniche di ogni genere e gli ostacoli derivanti dagli anni tormentati del conflitto mondiale".


Con la pubblicazione delle Esplorazioni si era concluso il primo fondamentale capitolo delle indagini, ma di lì a poco se ne aprì un altro. Vi era almeno un aspetto problematico non compiutamente risolto, quello dell'assenza o del non riconoscimento da parte degli archeologi del nome di Pietro tra i graffiti del muro G ai quali era stato dato sufficiente spazio nelle Esplorazioni (i, pp. 129-130; II, tav. LVII a, b; LVIII a, b), senza però provvedere - come forse si sarebbe dovuto - alla elaborazione di una adeguata edizione critica. Tale aspetto - è ovvio - si andava direttamente a connettere con l'altro implicito nelle conclusioni sopra ricordate delle Esplorazioni, laddove i quattro incaricati delle indagini per definire cronologia e morfologia della tomba petrina usano le espressioni - in realtà cautelative - di "età veneranda" e di "misterioso quadrato stretto tra le tombe".

E non a caso già nel 1952 Ferrua in una breve memoria su La storia del sepolcro di san Pietro ("La Civiltà Cattolica", 103, 1952, i, pp. 15-29) prendeva nella sostanza le distanze dalle conclusioni delle Esplorazioni, circoscrivendo nella seconda metà del ii secolo, e più precisamente nell'età di Marco Aurelio (161-180), il riferimento cronologico più alto individuabile nell'area della memoria petrina:  una indicazione - non a caso - che si rivelava perfettamente sincronica sia con il trofeo di Gaio sia - significativamente - con l'emergenza a Roma dell'episcopato monarchico nella persona del vescovo Vittore (189-199). Quanto poi alla struttura e alla morfologia del primitivo locus che avrebbe accolto le spoglie apostoliche, Ferrua, fotografando con ineccepibile onestà intellettuale la realtà per quella che era - e della quale chiunque oggi può prendere atto - affermava:  "Come fosse questa primitiva sepoltura del Principe degli Apostoli più non possiamo dirlo con esattezza.

 Ma un buon numero di circostanze concorrono nel farci pensare che non fosse una tomba appariscente, neanche munita di un cippo di travertino con la sua iscrizione, cosa che solo si poteva fare in un terreno di proprietà ben dichiarata". Quello vaticano era infatti ager publicus, cioè terreno demaniale, lasciato sostanzialmente incolto e praticamente terra di tutti e di nessuno; in linea di principio per erigervi qualsiasi struttura occorreva una regolare concessione dello Stato; "ma è facile - osserva ancora Ferrua - che qualsiasi poveraccio vi poteva nascondere sotterra un cadavere senza troppi rigiri negli uffici dei curatores operum publicorum".


Questo complesso di problemi, in parte rimasti aperti, indusse la professoressa Margherita Guarducci, per il tramite dell'allora sostituto della Segreteria di Stato monsignor Giovanni Battista Montini, a richiedere nel 1952 a Pio XII un supplemento di indagini:  si trattava di riprendere lo studio dei graffiti e di collazionare dati e conclusioni esposte nella Relazione con le evidenze materiali venuti alla luce nel decennio 1939-1949. Da queste nuove ricerche, affidate per le competenze archeologiche ai professori Adriano Prandi e Domenico Mustilli, furono esclusi - come era logico attendersi - i quattro "osservatori interessati". I risultati uscirono - sotto mentite spoglie - nel 1963 con un titolo sostanzialmente "criptato" che nulla faceva trasparire né del suo effettivo contenuto né delle conclusioni cui s'era pervenuti:  La tomba di san Pietro nei pellegrinaggi dell'età medioevale (Todi 1963). É lecito supporre che le risultanze cui pervenne Prandi suscitassero qualche delusione, poiché, sulla base di una rigorosa rilettura dei dati archeologici, si era chiarito che nulla di quanto era emerso nel campo P poteva anticiparsi all'età di Marco Aurelio:  era quanto già plausibilmente sospettato da molti autorevoli studiosi sia laici, sia cattolici, sia protestanti (Antonio Ferrua, Alfons Maria Schneider, Armin von Gerkan, Paul Lemerle, Erik Peterson, Henri-Irénée Marrou, Oscar Cullmann, Theodor Klauser). Questo dato - è superfluo sottolinearlo - rendeva ancor più solida la storicità del "trofeo di Gaio" nella sua reale valenza di prototipica memoria petrina, esito non già di una "memoria culturale" - mitica - ma consapevole e immediato indotto di una "memoria storica", veicolata cioè attraverso non più di tre generazioni rispetto al periodo della presenza di Pietro a Roma e della sua morte (circa 64-68) epì tòn Batikanòn (in Vaticano), come aveva affermato il presbitero Gaio.


Quanto allo studio dei graffiti del muro G, le quinquennali indagini di Margherita Guarducci rivolte all'individuazione del nome di Pietro, giunsero alla conclusione che il nome dell'Apostolo c'era ma non si vedeva; o meglio, poteva essere percepito soltanto da una ristretta cerchia di "iniziati", in possesso di speciali "chiavi di accesso" che, attivate attraverso trasfigurazioni letterali, sovrapposizioni e tangenze tra elementi alfabetici appartenenti a iscrizioni e mani diverse, potevano disvelare il nome di Pietro, peraltro non menzionato per esteso ma solo evocato in forma "abbreviata", vale a dire nel monogramma PE.

Questa ipotesi di lettura veniva a proporsi in totale e clamorosa controtendenza con quanto documentato nella Memoria Apostolorum sulla via Appia, dove, tra il 258 e la prima età costantiniana - e dunque in parte contemporaneamente a quanto si andava manifestando nel muro G del Vaticano - furono tracciati 640 graffiti con la esplicita menzione di Pietro e Paolo. In realtà nelle iscrizioni devozionali del muro G i visitatori null'altro invocano che il nome di Cristo attraverso la ripetizione del modulo formulare vivas / vivite in Chr(isto), riferito al nome dello scrivente o della persona che si voleva ricordare, viva o morta che fosse:  per esempio Simplici vivas in Chr(isto).


Un'ultima appendice alle indagini iniziate nel 1939 si deve ancora alla iniziativa della professoressa Margherita Guarducci che, con zelo e indefesso pluriennale impegno, volse la sua attenzione alla "autentica" - per usare un termine tecnico - delle reliquie di Pietro. L'istanza in sé aveva tutti i crismi della legittimità, ma andava a scontrarsi con una grave inadempienza metodologica:  la mancata stesura di quello che con linguaggio tecnico si definisce "giornale di scavo":  la minuziosa registrazione di tutto quanto emerge e accade nel corso di una indagine archeologica, giorno per giorno, ora per ora. Di questa lacuna, certo in buona fede e fidandosi con eccessiva disinvoltura della "memoria" individuale, si erano resi responsabili tutti coloro che direttamente e con ruoli diversi avevano partecipato alle indagini archeologiche sotto la Confessione Vaticana e in particolare monsignor Ludwig Kaas che da Pio XII aveva ricevuto il mandato di "responsabile morale" dell'intero progetto.

Il risultato fu che un insieme di frammenti di "povere ossa", forse rinvenute in una cavità del muro G ma non si sa quando, come e alla presenza di chi, trasferite poi in una cassetta di legno, finirono in un oscuro corridoio delle Grotte Vaticane dove giacquero inosservate per dodici anni. Tutto questo avrebbe dovuto sconsigliare qualsiasi tentativo di analisi antropologica che, come era facile attendersi, condusse a un risultato del tutto generico oltre che - se si vuole - irrispettoso della memoria di san Pietro (Margherita Guarducci, Le reliquie di Pietro sotto la Confessione della basilica Vaticana, Città del Vaticano 1965).

 Affermare che in quell'insieme osteologico si erano rinvenute parti di ossa probabilmente appartenenti a una persona di sesso maschile, robusta, di circa 60-70 anni, non era molto significativo, dal momento che nel campo P di fronte e a fianco del trofeo di Gaio vi erano alcune sepolture terragne, che prevedono la deposizione delle salme nella nuda terra, e che a diretto contatto "fisico" con l'area petrina vi erano almeno tre recinti funerari (denominati R, R', Q nelle Esplorazioni) con numerosissime sepolture (a incinerazione e a inumazione), svuotate o gravemente danneggiate durante la costruzione del tabernacolo del Bernini e della Cappella Clementina nelle Grotte Vaticane.

Il tutto poi era reso ancora più complicato dalla credenza che riconosceva come reliquia apostolica la testa custodita nella basilica Lateranense e dalla tradizione secondo cui una parte delle reliquie di Pietro, insieme a quelle di Paolo, a partire dal 258, per quadraginta annos, sarebbero state deposte presso la memoria Apostolorum sulla via Appia. In questi anni di fervida attenzione alle reliquie petrine, sarebbe stato forse utile rileggere e rimeditare quanto già Pio XII aveva dichiarato con responsabile lealtà nel già ricordato radiomessaggio del 1950 e cioè che i resti di ossa umane ritrovati nel campo P non potevano essere identificati con sicurezza con le reliquie di Pietro. Allo stesso modo Paolo VI, che pure aveva seguito con partecipe attenzione le vicende connesse alle reliquie, deluse le attese della Guarducci e di coloro che si attendevano dal Papa la più solenne delle "autentiche", e cioè l'autorizzazione alla pubblica venerazione.

Il Pontefice, che pure prelevò nove frammenti di quelle reliquie a Lui presentate come quelle di san Pietro, non mancò di far trasparire qualche cautela, che volle consegnare alla epigrafe fatta incidere sul reliquiario custodito nella sua cappella privata:  vi si leggeva B(eati) Petri ap(ostoli) esse putantur.


Ma a contrassegnare la storia delle ricerche sulle testimonianze archeologiche della memoria petrina, già nel 1950 era stata esposta un'altra iscrizione, questa volta commemorativa, collocata sull'architrave della porta d'ingresso alle Grotte Vaticane, aperta sul fianco meridionale della basilica:  vi si celebra a futura memoria, nello stile delle dediche imperiali, l'impegno profuso per dieci anni da Pio XII nell'ampliamento e nella esplorazione delle cripte vaticane:  Pius XII Pont(ifex) Max(imus) | per decem annorum spatium | hypogea vaticana exploranda cryptasque amplificandas | munifice curavit an. Jub. mcml.



(©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2008)

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