Ripassiamo i Comandamenti

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(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:18
IL DECALOGO

Il termine Decalogo vuol dire letteralmente "dieci parole". Il libro dell'Esodo narra che attorno al 1200 A.C. "il Signore scrisse sulle tavole le parole dell'Alleanza, le dieci parole" (Es 34,28). Le due tavole "della Testimonianza" sono consegnate a Mosè nella cornice storica della liberazione del popolo d'Israele dalla schiavitù d'Egitto, e rappresentano il centro dell'Alleanza antica stabilita tra Dio e l'umanità. "Per giungere ad una conoscenza completa e certa delle esigenze della legge naturale, l'umanità peccatrice aveva bisogno di questa rivelazione" (CCC 2071). San Bonaventura scriveva: "Una completa esposizione dei comandamenti del Decalogo si rese necessaria nella condizione di peccato, perché la luce della ragione si era ottenebrata e la volontà si era sviata". I comandamenti sono dunque Rivelazione di Dio. Ma le verità che Dio rivela (e questo è da sottolineare) sono verità etiche. Il Decalogo è il primo codice etico donato all'umanità. Tutta quanta la Sacra Scrittura è in realtà una grande guida etica. Come se Dio desiderasse per l'uomo, più che il sapere, il saper essere. Anzi, come se il vero sapere fosse acquisibile solo a seguito di una trasformazione morale della vita. E' importante per l'uomo sapere come comportarsi, altrimenti la vita rischia di apparirgli come una grande offerta di possibilità ma… senza le istruzioni per l'uso. Col Decalogo noi impariamo la nostra vera umanità, conosciamo il valore e la dignità della persona, impariamo a ragionare in termini di doveri e diritti, maturiamo esistenzialmente e spiritualmente. Quando queste norme fondamentali ispirano le regole sociali, le leggi civili, il diritto e la giurisprudenza (come spesso è avvenuto nella storia), le civiltà sono più progredite e gli esseri umani convivono più felicemente. Forse per questo c'è chi ha chiamato i comandamenti "i consigli per essere felici". Il mondo è pieno d'esempi di quanta infelicità è provocata dalla inosservanza delle leggi di Dio. Leggi, si badi bene, accessibili anche alla ragione, eppure misteriosamente e ripetutamente inapplicate nonostante le continue esperienze di dolore. Dinanzi ad un'umanità che ama farsi del male, Dio risponde comunicando fedelmente il suo desiderio di bene. "Tu non ti ami, Io sì. Io amo la tua vita più di quanto l'ami tu che la possiedi". L'uomo non sa liberarsi da solo delle sue catene interiori. Perfino la Legge, rivelata per liberarlo, egli la trasforma in altre catene, in lacci di cuoio avvolti attorno al braccio o cinture dagli infiniti nodi, come quelle con cui i farisei si legavano, e tuttora materialmente si legano. I dieci comandamenti li hanno estesi a seicentotrenta, una gran parte dei quali, su loro stessa ammissione, inosservabili. L'ossessione verso la Legge si traduce per loro in legalismo spietato. Ancora oggi se nella Bibbia leggono "non ti passerai la lama sul viso" si riducono a disquisire se il rasoio elettrico tradisce il precetto; oppure lo smontano per vedere se è costituito da lame. Simili atteggiamenti li ritroviamo talvolta anche tra i cattolici. Ma Gesù ha indicato il modo giusto di osservare la Legge. Senza attenuare i comandamenti, insegnò ad interiorizzarli tramite l'Amore. L'Amore contiene già da solo tutte le leggi, come se trasformasse il cuore dell'uomo a immagine dell'Arca dell'Alleanza, quella contenente le due tavole e che gli israeliti trasportavano nel deserto. Missione d'ogni cristiano è ritrovare l'arca perduta, ritrovare il proprio cuore allineato con la Legge. A questo dedicheremo i prossimi articoli.

Stefano Biavaschi

(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:19
IL PRIMO COMANDAMENTO: NON AVRAI ALTRO DIO

IL PRIMO COMANDAMENTO: NON AVRAI ALTRO DIO

 

I primi tre comandamenti riguardano il rapporto con Dio, cinque riguardano il rapporto con gli altri, e gli ultimi due quello con se stessi. E' evidente che questi tre rapporti sono strettamente legati fra di loro, ma non a caso il rapporto con Dio viene comandato per primo, perché contiene inevitabilmente ogni altro comportamento. Tutti quanti i comandamenti sono necessari per vivere nella santità ed entrare nella vita eterna; quando il giovane ricco chiese a Gesù come si fa ad entrare nella vita eterna questi rispose: "Se vuoi entrare nella Vita osserva i comandamenti" (Mt 19,17). Ma il primo comandamento viene da Cristo chiamato "il massimo" perché chi lo osserva amando Dio con tutta l'anima, osserva certamente anche tutti gli altri. La Chiesa sintetizza il primo comandamento nella nota formula catechistica "Io sono il Signore Dio tuo: non avrai altro Dio all'infuori di me", mentre la Bibbia ci aiuta a collocarlo nel contesto del popolo d'Israele appena liberato tramite Mosè ma ancora a rischio di contaminazioni idolatriche: "Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione di schiavitù; non avrai altri dei di fronte a me; non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo né di quanto è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque, sotto terra; non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai; perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi " (Es 20 2,6; Dt 5,6-10). La sovranità e la signoria di Dio, creatore di tutto, è quindi per il credente indiscussa. E' anche ciò che Cristo oppone a Satana durante le tentazioni nel deserto: "Vattene Satana! Sta scritto: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto" (Mt 4,10). Il cristiano deve costruire dentro di sé una gerarchia dei valori in cui Dio è sempre e solo al primo posto. Non si tratta solo di un ordine morale o di un ideale; ma di un amore fermo, totale, assoluto e incondizionato. Dio deve essere istante per istante il mio punto di riferimento nelle mie scelte, nelle mie azioni, nei miei pensieri, nei miei desideri, nei miei programmi, nell'organizzazione della giornata. Gesù è molto chiaro su questo punto: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente" (Mt 22, 37). Certo solo la Grazia può operare questo, ma per fare posto alla Grazia occorre sgombrare il cuore da una moltitudine di pietre che continuamente minacciano di intasarlo. Ecco alcuni esempi di trasgressione al primo comandamento: essere egocentrici; condurre un'esistenza senza Dio o senza preghiera; essere idolatrici verso un'ideologia, verso uno stile di vita non cristiano, verso il desiderio di potere, di sesso, di denaro, verso un qualsiasi idolo umano (che può anche essere il proprio partner se lo si sostituisce a Dio); ma si può anche essere idolatrici verso se stessi, quando ci si tributa ozio, vizi, lusso, spese ingiustificate. Si tradisce Dio anche con le varie forme di superstizione, credendo nella fortuna, nella magia, ricorrendo a medium o indovini. Ed anche con l'ateismo, il satanismo, il torpore spirituale, l'agnosticismo (inclusa ogni mancata ricerca di Dio o delle sue verità), o l'autoreferenzialismo, cioè la pretesa di costruire da sé la propria visione religiosa, senza riferirsi alla Sacra Scrittura o al Magistero, o attingendo dalle altre religioni secondo i propri gusti. In senso ampio tutto può essere peccato se esclude Dio dal primo posto nei pensieri, nella vita, nel cuore.
(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:19

NON NOMINARE IL NOME DI DIO INVANO

 

Qual è il nome di Dio? Dio si è rivelato all'umanità progressivamente e sotto diversi nomi, ma "la rivelazione del Nome divino fatta a Mosè nella teofania del roveto ardente, alle soglie dell'Esodo e dell'Alleanza del Sinai, si è mostrata come la rivelazione fondamentale per l'Antica e la Nuova Alleanza" (CCC 204). Dio ha un nome, non è una forza anonima. Il nome esprime l'essenza, l'identità della persona, il senso della sua vita. Svelare il proprio nome è farsi conoscere agli altri, è consegnare se stesso rendendosi in qualche modo accessibile, disponibile ad essere conosciuto più intimamente, e di essere chiamato personalmente. Rivelando il suo nome misterioso di YHWH, "Io sono colui che E'", oppure "Io sono colui che Sono", o anche "Io sono chi Io sono", Dio fa capire con quale nome lo si deve chiamare: "Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi…Questo è il mio nome per sempre, questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione" (Es 3,13-15, CCC 203,206). Questo Nome divino è misterioso come Dio è Mistero, è al tempo stesso un nome ma anche rifiuto di un nome, perché Dio è al di sopra di tutto e non è racchiudibile in una parola. E' appunto questa la Rivelazione: Dio non è una delle tante divinità che la mente umana può partorire, né un elemento della natura, né panteisticamente il cosmo stesso; Dio è l'Assoluto, l'Essere per eccellenza, in quanto increato e sussistente di per sé, senza origine e senza fine, da cui deriva l'essere di tutte le cose. Se gli uomini possono dire anch'essi io sono, è perché hanno ricevuto questo dal loro creatore, mentre Dio è da se stesso tutto ciò che Egli è. YHWH è la pienezza dell'Essere, mentre noi creature pur dicendo io sono non abbiamo nemmeno consapevolezza di ciò che siamo. Però l'acquistiamo man mano che collochiamo il nostro buio io sono nella luce della totalità dell'Io Sono divino, pronunciando il nostro essere come lo pronuncia Lui. Il popolo d'Israele aveva tale timore e rispetto del Nome di Dio che quando leggeva le scritture sostituiva il tetragramma sacro YHWH con il titolo divino "Signore" (Adonai, in greco Kyrios). Ed è con questo titolo che i cristiani proclameranno la divinità di Gesù, indicandolo come il Kyrios, il Signore. Dopo la teofania del roveto ardente e la rivelazione del nome di Dio, Mosè riceve sul Sinai anche la rivelazione dei comandamenti: uno di questi, il secondo, riguardava quello stesso nome: "Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncerà il suo nome invano" (Es 20,7). Non è un divieto a pronunciare il nome di Dio, ma ad abusarne. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci indica alcuni esempi d'abuso: la bestemmia, l'imprecazione, il falso giuramento chiamando Dio a testimone (Gesù consigliava anzi di non giurare affatto), la promessa fatta in nome di Dio e poi non mantenuta, perché così facendo s'impegna ignominiosamente la Verità di Dio (CCC 2146-2155). Anche abusare del nome del Signore per ordinare una guerra o un'esecuzione significa coinvolgere irresponsabilmente la sua Autorità con la pretesa, fosse anche in buona fede, di conoscere la volontà di Dio. Ma il secondo comandamento, come del resto avviene per tutti gli altri, non va visto solo in funzione del divieto che esprime, ma come rivelazione positiva mirante a educare il cuore dell'uomo alla santità, acquisibile solo se vi è rispetto del sacro, piena avvertenza della diversità di Dio rispetto alla nostra realtà creaturale, maturata consapevolezza della sua autorità e signoria che solo per grazia ha deciso di donarsi a chi con umiltà sa pronunciare il suo Nome. Il credente, pieno d'amorosa adorazione, non lo inserirà fra le sue parole se non per benedirlo, lodarlo e glorificarlo.
(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:20

RICORDATI DI SANTIFICARE LE FESTE

 

Il terzo comandamento è riportato nel libro dell'Esodo come segue: "Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio. Tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro" (Es 20,8-11, cfr Dt 5,12-15). Questo comandamento chiede in primo luogo di fare memoria della creazione, e in secondo luogo di fare memoria della liberazione d'Israele dalla schiavitù d'Egitto. Inoltre il Signore chiede al suo popolo che il settimo giorno diventi segno dell'alleanza perenne tra Dio e l'umanità. Da allora, per secoli e millenni, il tempo dell'uomo è stato scandito in sette giorni. Tutt'oggi in quasi tutto il mondo esiste la settimana, anche se molti ignorano che essa proviene dalle prescrizioni del Sinai. Nel mondo cristiano il settimo giorno viene liturgicamente celebrato di domenica perché Gesù è risorto "il primo giorno della settimana", e cioè il giorno dopo il sabato (Mt 28,1; Mc 16,2; Lc 24,1; Gv 20,1). Il Catechismo ricorda che "in quanto primo giorno il giorno della Risurrezione di Cristo richiama la prima creazione" ma "in quanto ottavo giorno, che segue il sabato, esso significa la nuova creazione inaugurata con la Risurrezione di Cristo" (CCC 2174). Per questo la domenica è diventata per i cristiani il più importante fra tutti i giorni, la più importante fra tutte le feste, il giorno del Signore (dies dominica). Alcuni movimenti cristiani (per esempio gli Avventisti del Settimo Giorno) si dichiarano contrari alla domenica e favorevoli al ripristino del sabato ebraico, definendo addirittura la domenica "il marchio della bestia". Ma la tradizione di celebrare la domenica risale fino ai tempi apostolici: già nel libro degli Atti leggiamo: "Il primo giorno della settimana c'eravamo riuniti a spezzare il pane…c'era un buon numero di lampade nella stanza superiore, dove eravamo riuniti…(e Paolo) spezzò il pane e ne mangiò" (At 20,7-11). Anche la Didachè, di poco successiva, chiama il primo giorno della settimana "la domenica del Signore". Del resto già nel primo secolo la Chiesa primitiva, a seguito d'alcuni attriti con l'autorità giudaica, manifestò subito la propria autonomia da essa, tanto che nel concilio di Gerusalemme del 49 fu dichiarata ufficialmente l'indipendenza del culto cristiano da quello ebraico (cfr anche Il Culto Cristiano in Occidente, di Enrico Cattaneo, p.32ss). Anche San Giustino, agli inizi del secondo secolo, scriveva: "Ci raduniamo tutti insieme nel giorno del sole, poiché questo è il primo giorno nel quale Dio, trasformate le tenebre e la materia, creò il mondo; sempre in questo giorno Gesù Cristo, il nostro Salvatore, risuscitò dai morti" (Apologie 1,67). La domenica è dunque a pieno titolo giorno della Risurrezione, della nuova creazione. Ma è anche giorno della comunità perché il Signore vuole che la gioia di questa festa sia condivisa con tutti i fratelli (Suggeriamo la lettura della bella Lettera Apostolica Dies Domini). L'agape fraterna è sigillata dalla liturgia sacrificale per cui la domenica diventa anche giorno dell'Eucarestia, e prefigurazione del banchetto celeste. Il valore escatologico del settimo giorno illumina però tutta quanta la settimana terrena: attraverso la domenica anche tutti gli altri giorni possono diventare tempo sacro da vivere con Dio. Già la semplice astensione dal lavoro ci ricorda che non dobbiamo restare sottomessi alla schiavitù del lavoro e al culto del denaro, ma anzi dobbiamo evitare il pericolo che tutta la nostra esistenza perda la sua vera direzione. La mancata osservanza del terzo comandamento porta gradualmente alla perdita di significato dell'intera esistenza. I cristiani guardano con sospetto tutti quei tentativi per rendere lavorativi anche i giorni domenicali, perché in essi si cela l'insidia di una visione del tempo non più scandita dal sacro, non più storia di salvezza, ma piatto e ripetitivo scorrere delle ore prive di dignità e di senso.
(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:20

ONORA IL PADRE E LA MADRE

 

I primi tre comandamenti riguardano l'amore verso Dio, mentre dal quarto comandamento in poi le prescrizioni divine riguardano l'amore verso il prossimo. Il nostro Catechismo dice: "Il quarto comandamento apre la seconda tavola della Legge. Indica l'ordine della carità" (CCC 2197). E le prime persone cui è dedicata l'attenzione sono i propri genitori: "Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio" (Es 20,12). Dio ha voluto che, dopo di lui, onoriamo i nostri genitori ai quali dobbiamo il dono della vita e che ci hanno trasmesso la conoscenza di Dio. Anzi, promette un "prolungamento di vita" per chi li onora. Oggi i nuovi modelli educativi hanno portato i figli a vedere i genitori come dei fratelli maggiori, in una forma di relazione in cui il valore dell'autorità è andato progressivamente calando. A loro volta il padre e la madre tendono a voler apparire come "amici" dei loro figli. Tutta questa è stata forse una reazione agli schemi autoritaristici non fondati sull'amore, ma è indubbio che tale mal interpretata confidenza indebolisce nei figli il riconoscimento di un'autorità che è immagine dell'autorità di Dio. I genitori la ricevono da Dio e devono esercitarla nell'amore, ma ad essa non si può abdicare se non si vuole privare i figli di preziose certezze, se non si vuole impedire loro di consolidare il proprio io in formazione su un modello di genitore saldo che rimanda i propri valori all'autorità di Dio. Un grave campanello d'allarme di cui la pedagogia si sta tardivamente accorgendo è la progressiva mancanza di rispetto che le giovani generazioni hanno spesso verso i genitori, gli educatori, gli insegnanti. Il quarto comandamento può essere letto anche come rispetto di quelle autorità che i genitori ci pongono amorevolmente accanto per la nostra crescita, e che sono, oltre ai parenti, i nostri maestri ed insegnanti, i nostri educatori e sacerdoti. E infine il papa, che è anch'egli un "papà" da onorare, così come la Chiesa che è nostra madre. L'onore è una caratteristica inseparabile dell'amore. Se a volte svalutiamo questa virtù è perché viene spesso scorporata dall'amore. Quando noi diciamo: "Ho il mio onore da difendere" possiamo rischiare di apparire ridicoli se non abbiamo nel cuore tutti gli altri valori. Quelle mamme e quei papà che danno cattivo esempio fanno fatica ad esigere l'onore. Ma Dio ci ha dato il dono della vita attraverso i nostri genitori, e chiede che attraverso i nostri genitori lo onoriamo. La Provvidenza del Padre agisce in primo luogo attraverso nostro padre e nostra madre; chi ci ha cresciuto con sacrifici merita sempre tutto l'onore e l'amore possibile, sia durante gli anni della convivenza, sia durante gli anni della sua vecchiaia, quando l'onore si traduce in concreto servizio e amorevole assistenza; e sia dopo la morte, quando i genitori vanno ricordati nella preghiera assieme ai nonni e agli antenati. Il quarto comandamento "annunzia i comandamenti successivi, concernenti un rispetto particolare della vita, del matrimonio, dei beni terreni, della parola. Costituisce uno dei fondamenti della dottrina sociale della Chiesa" (CCC 2198). Questo comandamento, infatti, implica a sua volta i doveri di tutti quelli che esercitano l'autorità, che sono, oltre ai genitori, i docenti, i datori di lavoro, i magistrati, i governanti, e tutti coloro che hanno responsabilità su una comunità di persone (cfr CCC 2199). Il rispetto di questo comandamento procura frutti temporali di pace e di prosperità, mentre la sua trasgressione arreca gravi danni alla comunità e alle persone.
(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:20

Il quinto comandamento: NON UCCIDERE

 

Vi sono molte persone che si sentono la coscienza a posto affermando: "Io non sono un gran cattolico, ma in fondo Dio sa che non ho ammazzato nessuno". Premesso che per la propria salvezza eterna non è sufficiente l'essersi semplicemente astenuti dall'omicidio, siamo proprio sicuri che si uccide solo con un colpo di pistola o di pugnale? Vorrei elencare qui alcuni comportamenti che provocano o possono provocare il doloroso effetto di togliere il dono della vita a una persona, direttamente o indirettamente: l'omissione di soccorso, evitare cioè di prestare o richiedere aiuto per una persona in pericolo di vita; la guida pericolosa: l'incidente stradale mortale spesso non è affatto un "incidente", ma è stato provocato da un comportamento incosciente; l'uso e la commercializzazione di sostanze dannose per la salute, di cui si conosce la pericolosità nell'impiego domestico o alimentare (per esempio i cancerogeni); la pratica del fumo, specie in ambienti affollati o in presenza di bambini, malati, anziani (oltre, naturalmente, al normale danno per se stessi); lo spaccio di droghe, sia quelle che possono avere pericolosi effetti immediati, sia quelle che uccidono lentamente; la prescrizione irresponsabile di farmaci, senza considerazione per il possibile abuso o senza accertamento adeguato dello stato di salute del paziente; come anche l'esercizio sconsiderato della terapia medica o chirurgica, compresa la sperimentazione sui pazienti di tecniche pericolose senza effettiva necessità, e compreso l'espianto di organi da persone ancora vive; ogni informazione distorta riguardo notizie la cui completa e corretta conoscenza consentirebbe di salvare vite umane (non solo in campo medico e farmaceutico, bensì anche in ambito giornalistico o anche semplicemente a voce, nascondendo, omettendo, deformando in mala fede); la costruzione e la vendita di abitazioni costruite in zone pericolose, come quelle a rischio di frana o alluvione, od anche la realizzazione di edifici insicuri (insufficienza di cemento armato, mancata prevenzione anti-sismica…); l'interruzione di gravidanza od ogni consenso ad essa, attivo o passivo che sia, così come ogni incoraggiamento verso la stessa tramite la professione medica, giornalistica, politica, od altra; la sperimentazione o commercializzazione di embrioni umani, così come ogni tecnica che ne toglie la vita, compresi i metodi di fecondazione artificiale; l'eutanasia, attiva o passiva che sia, in tutte le sue varie forme (salvo la cessazione di accanimento terapeutico); il suicidio o l'istigazione allo stesso, anche tramite la stampa o i mezzi mediatici; l'uso pericoloso di armi, anche da caccia e sportive se utilizzate in modo inappropriato; la guerra ingiusta, cioè senza motivazione di difesa, così come ogni sostegno o incitamento ad essa, comprese le forme di protesta sociale armata, di terrorismo e di guerriglia urbana; la falsa testimonianza o il silenzio, soprattutto in sede processuale, quando a causa di essi si provoca o non si evita la morte di una persona; la pena di morte: pur essendo stata tollerata quando si presentava come unica via praticabile di difesa dall'aggressore, oggi gli Stati hanno quasi sempre mezzi incruenti di difesa e di sicurezza, per cui "i casi di assoluta necessità di soppressione del reo sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti" (Cfr Evangelium Vitae n.56 e Catechismo n.2267). Abbiamo qui indicato solo alcuni esempi dei modi in cui, anche senza rendersene conto, s'infrange il quinto comandamento. Oltre che privazione assoluta di amore e di grazia, si tratta di una trasgressione mortalmente grave della Legge di Dio. Ogni vita umana, dal concepimento alla morte, è sacra, in quanto Dio "ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio di ogni carne umana" (Gb 12,10).
(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:21

IL SESTO COMANDAMENTO

 

Il sesto comandamento ci viene presentato in una duplice formula: "Non commettere adulterio" e "Non commettere atti impuri". La prima è la versione biblica (Es 20,14; Dt 5,18) e la seconda è la versione catechistica. Perché questo cambiamento? Può la Chiesa modificare il testo di un comandamento divino? Potremmo rispondere: sì, se Gesù stesso nella sostanza lo ha modificato. Nel vangelo di Matteo si legge: "Avete udito che fu detto: non commettere adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,27-28). In realtà Gesù non modifica per nulla la Legge del Sinai, ma ne completa la comprensione. Da grande conoscitore del genere umano ci ricorda che l'atto compiuto è solo l'ultima fase di una disobbedienza che è cominciata nel cuore, e che se coltivata nel tempo può diventare anche irrefrenabile. L'infedeltà incomincia dai pensieri, il tradimento è preceduto da una serie di atti preparatori che per loro natura sono già anch'essi adulterini. L'acquisizione del dominio di sé è pedagogia per la libertà umana. Ma non è solo questione di imparare a gestire la propria sessualità: è che "la sessualità esercita un'influenza su tutti gli aspetti della persona umana, nell'unità del suo corpo e della sua anima" (CCC 2332). Esercita perfino un influsso sulle relazioni sociali e sullo sviluppo della società. Il Catechismo della Chiesa Cattolica non si limita a fare un elenco dei possibili atti impuri (l'adulterio, il divorzio, la poligamia, l'incesto, la pedofilia, l'omosessualità, la lussuria, la fornicazione, la pornografia, la masturbazione, la prostituzione, lo stupro…) ma rimarca che la sessualità va positivamente integrata nella persona, al fine di ottenere l'unità interiore dell'uomo, nel suo essere corporeo e spirituale (CCC 2337). La sessualità diventa pienamente autentica se fa tutt'uno con le relazioni "da persona a persona, nel dono reciproco, totale e illimitato nel tempo, dell'uomo e della donna". Comprende fino a fondo la dimensione della sessualità solo chi comprende fino a fondo la dimensione e la missione dell'uomo. Se l'essere umano ha escluso dalla propria vita ogni riferimento a Dio, ogni discorso valoriale sulla sessualità diventa automaticamente inutile ed inaccettabile. L'uomo non liberato è troppo avvinghiato a una serie di dinamiche psicologiche che affondano le radici nell'inconscio, negli impulsi fisiologici, nelle suggestioni dei mass media, nei condizionamenti sociali, nelle deformazioni derivanti da esperienze sbagliate, per cui diventa davvero tempo perso cercare di recuperare la sessualità senza aver recuperato l'uomo. La sessualità è redenta solo quando l'uomo è redento. Le parole non possono combattere contro meccanismi chimici e irrazionali se non è operante, in chi ascolta, l'azione luminosa e trasformatrice della Grazia. Solo la preghiera può capovolgere la psicologia del peccato. Per certi versi è addirittura impossibile un controllo totale della propria natura senza un sostegno di tipo soprannaturale. Senza l'azione redentrice dello Spirito l'uomo non liberato è talmente vincolato e determinato che dinanzi a ogni indicazione di vita morale oppone un muro di rifiuti e di obiezioni, sentendosi irremovibilmente dalla parte della ragione. Solo quando si coglie il senso della propria vita in Dio e non si brama che di raggiungerlo vivendo nell'amore diventa chiaro ogni impegno morale e si è disposti a compiere quegli sforzi che pure non mancano.
(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:21

IL SETTIMO COMANDAMENTO

 

Proviamo un attimo ad immaginare un mondo in cui viene rispettato anche solo questo comandamento, quello di non rubare: la mattina usciremmo da casa accompagnando semplicemente la porta con la mano, perché non esisterebbero serrature; non impazziremmo per cercare di capire in quale tasca abbiamo lasciato le chiavi della macchina perché non esisterebbero ovviamente nemmeno le chiavi, e saliremmo in vettura facendo comodamente partire il motore con la pressione di un pulsante. Il nostro veicolo funzionerebbe naturalmente in modo perfetto perché nessun meccanico disonesto ci avrebbe preso in giro durante l'ultima riparazione, ed in ogni caso coi soldi risparmiati in sistemi d'allarme e in assicurazioni per il furto (oltre che nel furto delle assicurazioni) non avremmo nessun problema a comprarci una macchina nuova. Lungo il percorso faremmo benzina ben certi che la quantità di carburante corrisponda esattamente alla quantità indicata dalla pompa, ed anzi il carburante costerebbe assai poco senza la rapina delle compagnie petrolifere associate in cartello (e quella dello Stato). Ai semafori non saremmo fermati da nessun lavavetri perché nella sua terra nessuno sarebbe sfruttato ingiustamente, nessuno applicherebbe ai prestiti tassi d'interesse usurai, nessuno adotterebbe forme di neocolonialismo. Arriveremmo a lavoro, felici di trovare tutta la contabilità semplificata, in quanto ogni controllo fiscale non avrebbe senso in un mondo di onesti. La nostra stessa busta paga sarebbe più gonfia, sia perché ci verrebbe corrisposto il giusto salario, e sia perché le tasse sarebbero molto più basse essendo pagate da tutti; ma sarebbero più basse anche per tutto quello che il sistema risparmierebbe in carceri e poliziotti, in furgoni blindati e depositi corazzati, in impianti antifurto e costosi processi. In sostanza saremmo tutti più ricchi, per cui non vi sarebbe neanche la necessità del furto. Già per un solo comandamento non rispettato ci siamo guastati la vita. Del resto le tavole della Legge erano state date proprio per una nostra maggiore felicità sulla terra, e non certo perché Dio ci guadagnasse qualcosa.

Inoltre dobbiamo capire che il vero danno del furto non è quello materiale, ma quello spirituale. Il vero danno per chi ruba è nell'uscire dalla visione d'amore con cui andrebbe guardata la realtà. Nel rubare compio innanzi tutto un furto a me stesso, perché mi privo della visione di Dio già in questa vita (col rischio di perderla anche nella prossima). Per un piccolo beneficio materiale perdo la serenità e la gioia, e non riesco più a gustarmi la vita essendomi assai più difficile se non impossibile conservare quell'ottica d'amore per gli altri che è alla base d'ogni felicità terrena, prima ancora che celeste. In secondo luogo derubo anche l'altro di una parte di questa visione, danneggiando, oltre che il suo bene materiale, anche la sua fiducia nel prossimo, il suo ottimismo, la sua gioia di vivere in un mondo di fratelli; lo costringo verso la diffidenza, la circospezione, l'insicurezza. Il furto più grande che gli faccio è che lo derubo di me: non avverte più la mia presenza come una continuità. Gli impedisco parte della visione di Dio perché non vede più Dio in me. Frantumo il regno di Dio sotto i suoi occhi. Questo pericolo è tanto grave che il Vangelo invita il derubato della tunica ad inseguire il ladro per donargli anche il mantello; affinché, pur restando una perdita materiale, si eviti almeno di perdere un fratello. La fratellanza può ancora salvare. Veramente in pochi deruberebbero un loro fratello: in realtà il furto inizia quando ho smesso di vedere l'altro come un fratello. Siamo tutti ladri nel medesimo istante in cui smettiamo di amare. Ma in fondo al cuore dell'uomo, anche di quello più incallito nel furto, rimane il desiderio ideale di una società d'amore. Utopia che viene respinta solo fino al giorno in cui non avviene l'incontro con Chi, sacrificandosi sulla croce, riuscì a restituire anche al ladro il suo cielo dicendogli: "Oggi stesso sarai in Paradiso con Me".
(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:22

L’OTTAVO COMANDAMENTO

 

 

 

Dio è Verità. Ogni distacco dalla Verità è distacco da Dio. L’ottavo comandamento ammonisce a non escludere Dio nel rapporto con gli altri: “Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo” (Es 20,16). Esiste una comunione tra gli spiriti che si esprime in atti d’amore e parole. Questa comunione è tanto più santa quanto più questi atti e queste parole sono gli atti e le parole di Dio. Il regno di Dio non è altro che questo. Il danno della menzogna non sta tanto nel fatto che viene detta una cosa al posto di un’altra, ma nel fatto che tramite essa escludo Dio e il suo regno dal rapporto con le persone. E questo comporta una privazione di luce, momentanea o permanente, nella comunicazione tra me e gli altri, con tutte le conseguenze che ne derivano.

 Non si può essere in comunione con quel Cristo che disse Io sono la Verità e al tempo stesso operare la menzogna. Serve a poco cercare le circostanze attenuanti che possono giustificare una bugia; Gesù, perfino davanti a Pilato che lo minaccia di morte, non si sottrae dal proclamare di essere “venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità” (Gv 18,37). Nella menzogna il Signore denuncia un’opera diabolica: “Voi…avete per padre il diavolo… non vi è verità in lui. Quando dice il falso parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44). Se Satana è dunque padre della menzogna, colui che la pratica esce dalla paternità di Dio per passare sotto quella del diavolo: ha scelto, a volte inconsapevolmente, un altro padre. Ecco perché la Chiesa indica come unico rimedio il ritorno al Padre, la confessione. Certo non tutte le menzogne hanno identico peso morale. Il Catechismo perfeziona il nostro discernimento affermando che “la gravità della menzogna si commisura alla natura della verità che essa deforma, alle circostanze, alle intenzioni del mentitore, ai danni subiti da coloro che ne sono le vittime” (CCC 2484). S. Agostino, nel suo trattato sulla menzogna, precisa che “la menzogna consiste nel dire il falso con l’intenzione d’ingannare” (De Mendacio, 4,5: PL 40,491). Ma esistono diversi modi di tradire la verità: l’ironia malevola, la millanteria, la lusinga, l’insinuazione, e finanche la verità stessa ma detta con lo scopo di fare del male. La menzogna, che in sé può essere anche un peccato veniale, diventa un peccato mortale “quando lede in modo grave le virtù della giustizia e della carità” (CCC 2484). Oltre alla necessità del pentimento emerge dunque il dovere di riparazione. Se poi la menzogna è esercitata pubblicamente riveste una gravità particolare. Attuata dinanzi a un tribunale diventa falsa testimonianza e spergiuro.

 L’ottavo comandamento talvolta si aggrava combinandosi con il settimo: vale a dire quando la mia menzogna deruba il prossimo di qualcosa, per esempio della libertà, o d’ingiusti risarcimenti, o della sua reputazione. Si parla di giudizio temerario quando si sostiene come vera, ma senza sufficiente fondamento, una colpa morale nel prossimo. La maldicenza invece consiste nel rivelare senza motivo i difetti e le mancanze altrui a persone che le ignorano. Peggiore ancora è la calunnia, che distrugge, a volte dolorosissimamente, l’immagine di una persona. E’ triste notare come tutte queste diaboliche arti siano sempre più adoperate da certuni come strumento di concorrenza sleale verso un avversario, per esempio nella propaganda politica. In questo senso emerge in modo particolare l’enorme responsabilità dei mass media, che spesso funzionano da micidiali moltiplicatori del falso.
(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:22

I COMANDAMENTI DEL DESIDERIO

 

 

 

Il nono e il decimo comandamento si presentano nel libro dell’Esodo in forma quasi unificata: “Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo” (Es 20,17). La tradizione catechistica cattolica distingue però la concupiscenza carnale (“Non desiderare la donna d’altri”, nono comandamento) dalla concupiscenza dei beni (“Non desiderare la roba d’altri”, decimo comandamento). Del resto già l’apostolo S. Giovanni distingueva nella sua prima lettera tra la concupiscenza della carne e la concupiscenza degli occhi (1Giov 2,16). Ma cosa s’intende esattamente per concupiscenza? Questo termine indica ogni forma veemente di desiderio umano disordinato, non conforme alla legge di Dio ed ai dettami della ragione umana, coltivato e perseguito volontariamente. Provare semplicemente un desiderio di per sé non è peccato, così come non sono peccato le semplici tentazioni. Il peccato subentra quando tentazioni e desideri sbagliati sono assecondati e perseguiti. Si può obiettare che certe volte la fragilità umana sottopone la psiche a desideri che sembrano ineliminabili, talvolta perfino ossessivi. Queste situazioni (al di là di possibili patologie o vessazioni) sono però provocate da quello che potremmo chiamare …volo a bassa quota. Molte tentazioni e molti desideri, infatti, non sarebbero percepiti a quote più alte, a livelli di vita più elevati spiritualmente; la preghiera, la vigilanza, l’esercizio interiore, il sostegno della grazia, hanno davvero il potere di sottrarci da quel sottobosco di desideri abitudinari innalzandoci in cieli molto più vivibili per noi. Invece di lottare faticosamente contro continue tentazioni è più saggio sottrarsi ad esse con un colpo d’ala. Anzi, il mancato decollo spirituale quando questo è possibile (e vi sono volte in cui davvero non lo è?) comporta già di per sé peccato, perché rendiamo la caduta prima o poi inevitabile. Ecco perché Dio comanda di non desiderare. Desiderare ciò che è negativo è inclinazione congenita del peccato originale, ma questo non deve diventare alibi per tenerci lontani dalla originaria integrità. Il nono e il decimo comandamento, additando più il campo del desiderio che quello dell’azione, sono un’indicazione anticipatrice del Cristo, che con la sua grazia santificante opera quella trasformazione dei cuori che abilita pienamente gli uomini a desiderare come Dio. Il nostro catechismo affronta con chiarezza il tema della purificazione del cuore e quello della lotta per la purezza (CCC 2517-2527). Esso ci indica quattro preziosi strumenti per irrobustire quella che San Paolo definiva la nostra armatura: la virtù della castità (perché ci permette di amare con cuore retto e indiviso), la purezza d’intenzione (che consiste nel tenere sempre presente il vero fine dell’uomo, e nel desiderare solo i desideri di Dio), la purezza dello sguardo (esteriore ed interiore, mediante il rifiuto d’ogni compiacenza nei pensieri impuri, e la disciplina dei sentimenti e dell’immaginazione), la preghiera (personale o comunitaria, con la Sacra Scrittura o il Santo Rosario, nutrita della forza dei sacramenti). S. Agostino nelle sue Confessioni diceva: “Pensavo che la continenza si ottenesse con le proprie forze, e delle mie non ero sicuro. Ero stolto a tal punto da ignorare che, come sta scritto, nessuno può essere continente se Tu non lo concedi. E Tu l’avresti concesso, se avessi bussato alle tue orecchie col gemito del mio cuore, e se avessi lanciato in te la mia pena con fede salda” (Confessiones 6,11,20).

 

(Gino61)
00giovedì 27 agosto 2009 12:22

L’UNDICESIMO COMANDAMENTO

 

 

 

  La vera natura della persona sta nell’essere un atto d’amore di Dio. Le relazioni fra le persone non possono quindi che esprimere questo amore. Dio ama attraverso di noi, e questo ci rende come canali di luce e di amore, ci trasforma nell’intimo, ci santifica, ci rende compartecipi della redenzione. Il “comandamento nuovo” di Gesù rivela agli uomini questa condizione soprannaturale: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Già il libro del Levitico aveva comandato di amare il prossimo “come te stesso” (Lv 19,18), ma qui viene chiesto di amare “come Gesù ama”. Amare gli altri come io sono capace di amare me stesso rientra fra le mie capacità naturali, anche se fra quelle più elevate. Ma amare come solo Dio è capace di amare, è facoltà soprannaturale. E se Gesù ce lo comanda, vuol dire che questo è, nella nuova alleanza, diventato possibile. Il comandamento nasconde in realtà un dono, un dono soprannaturale della Grazia: amare con l’amore di Dio, e quindi in mondo infinito, amare gli altri non come amerei me stesso, ma anche più di me stesso, fino a dare anche la mia vita per i fratelli, come Gesù ha dato la sua per noi. E’ un invito ad amare senza limiti, a lanciarsi in un’avventura senza confini in cui l’io si dilata verso l’infinito. I santi e i mistici della storia del cristianesimo sono stati colti dalle vertigini dinanzi a quest’abisso d’amore sperimentato dentro di loro. Spesso si lamentavano di non riuscire a reggerlo. A volte affermavano che se non li avesse sostenuti la Grazia il cuore sarebbe scoppiato. I dieci comandamenti, alla luce di tutto questo, diventano un legaccio inconsistente: l’idea di uccidere o di rubare non è neanche più concepita. In questo stato di santità introdotto dall’Amore ogni legge è del tutto spontanea. Il decalogo è completamente interiorizzato. La distanza tra legge esterna centrata sulle tavole e legge interna centrata sulla coscienza è annullata. Con la nuova alleanza è Dio che vive nell’uomo, ed unica legge è la legge dell’amore. Sant’Agostino s’arrischiò fino a dire: “Ama Dio e fa’ ciò che vuoi”. E’ la libertà di chi ha ricevuto in dono di vivere nella Grazia, di vedere il proprio cuore cambiato in quello di Cristo.

Il nostro Catechismo afferma: “Dio, che ha creato l’uomo per amore, lo ha anche chiamato all’amore, vocazione fondamentale e innata di ogni essere umano” (CCC 1604). L’amore fra gli uomini realizza il Regno di Dio sulla Terra, crea somiglianza fra l’umanità e il volto di Dio, anticipa le bellezze della condizione celeste. La vera natura della Chiesa è nell’essere una comunità d’amore che a sua volta è al servizio degli altri. L’amore non può essere disgiunto dalle opere, perché è irrefrenabile impulso di missionarietà. Il cuore è il motore delle braccia. La carità con cui si esprime la Chiesa è continuazione dei gesti e dell’amore di Cristo nel mondo. E non vi sono limiti all’amore: tutto dipende dalla misura in cui si è disposti a donare ad esso il proprio cuore. Nei mistici la dilatazione all’amore assume vertici per noi impensabili, fino alla perfetta compartecipazione interiore della passione. Il cuore è così aperto da essere squarciato, e l’amore si trasforma in ferita per gli uomini. Vi è l’ansia costante di salvare le anime e si è in pena se non si patisce per loro. L’offerta della propria sofferenza diventa necessità, e attraverso di essa viene operata misteriosamente un’azione di redenzione straordinaria. Questi spiriti, uniti nel corpo mistico di Cristo, portano sulle loro spalle la croce dei nostri peccati e sorreggono invisibilmente il mondo soffrendo per noi. In realtà è Cristo che perpetua la sua passione attraverso di loro.

Tutti i cristiani possono unirsi alla Sua azione di salvezza offrendo la propria preghiera e la propria sofferenza in unione al Sacrificio che si celebra sull’altare.
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