Roma Caput mundi anche nella Carità e nella cultura

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Caterina63
00sabato 25 luglio 2009 13:02
Genesi e natura del tessuto urbano di Roma cristiana

Caput mundi
anche nella carità


Pubblichiamo una sintesi di una delle relazioni tenute al XXXVIII Incontro di studiosi dell'antichità cristiana svoltosi all'Augustinianum e dedicato al tema della diaconìa.


di Margherita Cecchelli
Università di Roma La Sapienza
 

Dopo l'editto di Costantino, l'organizzazione assistenziale della Chiesa può finalmente operare alla luce del sole e usufruire anche del sostegno concreto da parte dello Stato, per portare avanti un'attività caritativa che - è bene precisare - non si rivolgeva ai soli cristiani, ma a quanti potessero averne bisogno.

La Chiesa si è adoperata, fin dalle sue origini, per l'assistenza ai bisognosi, costituendo a tal fine strutture sempre più complesse e specializzate:  dagli ospedali per i poveri, alle case di accoglienza per stranieri e pellegrini, all'assistenza per gli anziani abbandonati. 

roma Quasi sempre però restano ignote le circostanze specifiche che hanno portato a una determinata fondazione assistenziale, o a un suo eventuale mutamento di funzioni nel corso del tempo:  troppi i riscontri archeologici andati perduti, troppe datazioni date finora per scontate dovranno essere sottoposte a una revisione critica alla luce di nuovi studi che approfondiscano soprattutto il contesto storico in cui queste strutture si trovarono via via a operare. È proprio dall'integrazione dei dati archeologici e topografici con quelli forniti dalle fonti storiche, in un dialogo di continui rimandi, che si può giungere a un inquadramento, sia pure approssimativo del problema.

Venendo poi a trattare in modo più specifico dell'organizzazione assistenziale, è a Roma che possiamo contare sul maggior numero di notizie storiche e riscontri archeologici, mentre in altre zone dell'impero, come Costantinopoli e l'Asia Minore in generale, le istituzioni assistenziali hanno lasciato scarse tracce monumentali, come pure abbiamo pochi riscontri delle strutture sicuramente presenti in Italia:  a Pesaro, a Napoli e anche a Ravenna.
Venendo poi a parlare della situazione romana, pur potendo contare su una maggiore abbondanza di notizie e di reperti, essa presenta aspetti unici e particolari, con problematiche complesse ancora da indagare. Roma è la città dei martiri, e numerosi pellegrini si muovono da tutto l'orbe cristiano per visitare le loro tombe:  ecco che lo sviluppo della città cristiana viene concepito diversamente da quello della città imperiale e il suburbio, dove si trovano appunto i sepolcri venerati, assume una valenza del tutto particolare.

A Roma i Papi hanno maggiore libertà di organizzarsi autonomamente, sganciandosi dal potere imperiale, come da eventuali ingerenze dei governatori bizantini. La città è divisa in sette regioni ecclesiastiche, capeggiate ciascuna da un diacono regionario, con compiti di gestione e di controllo. Tenendo presente questa impostazione del territorio urbano si debbono reinquadrare gli studi sull'allestimento della città cristiana. Le informazioni sul sistema regionale adottato provengono in primis dai vari tituli-parrocchie che si trovano in ciascuna regione e che già praticano l'assistenza come parte importante della loro attività. È chiaro comunque che numerose necessità, come per esempio quelle inerenti alla malattia o all'ospitalità, possano travalicare i compiti ordinari di un titolo e che, in relazione a queste esigenze, un certo numero di aree parrocchiali, di alcune regioni richiedano di essere potenziate con specifici esercizi assistenziali. Notiamo ancora come in alcune regioni, maggiormente interessate da importanti snodi viari e dalla interferenza di una popolazione non stanziale, si decida di insediare un numero maggiore o minore di istituzioni di assistenza, scegliendo quelle più utili per le esigenze proprie di ciascuna regione e favorendo anche una interrelazione tra strutture caritative di diverso tipo.

La regio vii, corrispondente a Trastevere, si pone subito come un caso particolare rispetto a tutte le altre:  qui infatti non si reputò di istituire alcun servizio assistenziale di rilievo, ma solo tre importanti titoli:  di Giulio e Callisto (poi Santa Maria in Trastevere), di Crisogono e di Cecilia, dislocati intelligentemente ad abbracciarne tutto il territorio suddiviso in tre aree. A queste tre fondazioni fece capo probabilmente l'intero compito delle problematiche assistenziali. Il motivo di una simile particolarità si deve probabilmente al fatto che la regione fu precocemente annessa alla diocesi di Porto.

La vi regio, che corrisponde al Campo Marzio, fa parte del cuore della Roma imperiale, interessata da numerosi e grandiosi edifici pubblici:  una situazione topografica che richiederà molto tempo per subire significative modificazioni. Si spiega quindi con relativa facilità la presenza di un unico titolo, quello di San Lorenzo in Damaso, ubicato, secondo gli ultimi scavi, nel cortile del palazzo della Cancelleria. Tale situazione portò nel corso del tempo all'aumento delle filiali di supporto alla parrocchia principale, ognuna con particolari connotazioni, come quelle rivolte per esempio alle comunità spagnole, ma non lo sviluppo di vere e proprie istituzioni assistenziali.

L'altra parte del Campo Marzio, la quinta regione ecclesiastica, è forse la più dotata di servizi di questo tipo. Ciò si giustifica soprattutto per la presenza di quel grande asse viario di comunicazione che è la via Lata - odierna via del Corso. Vi sono due titoli, molto antichi, quelli di San Marcello e di San Lorenzo in Lucina da una parte e dall'altra della strada e probabilmente può rientrare nella regione anche un terzo, quello costantiniano di San Marco, che alcuni collocano ai limiti della regione sesta e nel cui territorio di afferenza dovrebbero aver trovato sistemazione due diaconie:  quella di San Paolo e l'altra di Sant'Angelo in Pescheria. Almeno altre due diaconie corredavano questa zona:  quella di Santa Maria, posta strategicamente sull'asse della via Lata, che è stata anche messa in relazione con uno dei luoghi che la leggenda ricollega alla presenza di san Paolo a Roma. L'altra diaconia è Santa Maria in Acyro, oggi in Aquiro, in onore del santo medico Ciro che insieme a Giovanni operava gratuitamente in Egitto e fu onorato di culto speciale a Roma. Di questa restaurata, e ingrandita da Gregorio iii (731-741) ma molto più antica, abbiamo sicuramente visto una serie di ambienti collocati sotto il transetto della odierna chiesa rinascimentale e potuto ricostruire le fasi principali, compresa anche quella della chiesa medievale cui fu poi accorpato un orfanotrofio.

Arterie come il vicus Longus, odierna via Nazionale, o il vicus Patricius, odierna via Urbana, o quella dell'Alta Semita (via XX Settembre), caratterizzarono i percorsi della quarta regione ecclesiastica, che probabilmente arrivava a comprendere anche la zona del Foro romano. Nella regione, abitata da una densa e varia popolazione, si preferì istituire un considerevole numero di titoli:  quello di Pudente, di Prassede, di Gaio (poi Santa Susanna), forse di Crescenziana, di Ciriaco alle terme di Diocleziano e di Vestina, odierna San Vitale, perfettamente datato al tempo di Innocenzo I (401- 417). Su di questi probabilmente gravò la maggior parte del servizio assistenziale della popolazione da loro gestita. Una sola diaconia viene dislocata sull'area meridionale dell'Alta Semita, soggetta alla gestione del titolo di Santa Susanna, ed è menzionata come esistente già al tempo di Leone iii. Se questa regione arrivò poi a comprendere anche la zona del Foro romano, è qui che si rileva una consistente concentrazione di fondazioni assistenziali, data anche la vicinanza con il Tevere e la facilità quindi di approvvigionamento. Qui infatti sono collocate tre diaconie:  quella dei santi Sergio e Bacco, di Santa Maria Antiqua, cui nel IX secolo si sostituì l'omonima di Santa Maria Nova e infine quella dei Santi Cosma e Damiano, santi medici, nell'ambito della quale si è voluta riconoscere anche una zona di ricovero per i poveri. 

caput La terza regione ecclesiastica ospita la sede lateranense, dove si segnalano le varie attività caritative espletate dai Pontefici in prima persona, e dove fu per tempo collocato un orfanotrofio di Santo Stefano, fra i cui assistiti si scelsero coloro che avrebbero fatto parte della prestigiosa schola cantorum del Laterano. Alcune emergenze di questo complesso sono state recentemente riconosciute nell'area dell'ospedale di San Giovanni in Laterano, la cui ubicazione potrebbe in qualche modo ricollegarsi alla preesistenza di questa attività assistenziale. Questa regione risulta densamente popolata e conta svariate presenze di milizia barbarica.

I titoli sono numerosi e alcuni tra i più antichi:  Equizio - scomparso almeno nel VI secolo - e Silvestro (odierni San Martino ai Monti), Apostoli (San Pietro in Vincoli), se non rientra nella quarta regione e poi Clemente, Eusebio e Marcellino e Pietro. Due altre diaconie furono poi sistemate sul clivus Suburanus, quella di San Martino e quella di Santa Lucia in Orfea, probabilmente con "specializzazioni" diverse in relazione ai bisogni della comunità locale. La seconda regione che comprese anche l'area del Palatino, ebbe pure essa titoli antichi, forse anche costantiniani come quello di Santa Anastasia, ma comprese anche le fondazioni di Emiliana, forse da identificarsi con i Santi Quattro Coronati, di Bizante e di Pammachio, di Sisto. Specie presso il Tevere le diaconie ancor oggi sono testimoniate in gran numero, basti citare quelle di San Teodoro e di San Giorgio al Velabro, Santa Maria in Cosmedin, Santa Lucia in septem vias, Santa Maria in Domnica. Per quest'ultima in particolare, va segnalata la vicina postazione dello xenodochio dei Valeri, già esistente al tempo di Gregorio Magno e ulteriore esempio di cooperazione tra enti assistenziali.


Siamo all'ultima regione da citare, ovvero la prima ecclesiastica che comporta, oltre l'area del Testaccio, i due colli del piccolo e del grande Aventino. Nel grande Aventino viene a svilupparsi una vocazione sempre più decisamente monastica, che affonda le sue radici nelle postazioni delle residenze delle pie donne seguaci di Girolamo e che prende il sopravvento nonostante la fondazione di due titoli quali Santa Sabina e Santa Prisca e quella di una diaconia, soppiantata alla fine del X secolo dal monastero dei Santi Bonifacio e Alessio, cui non si riferisce alcuna attività assistenziale determinata. Nel piccolo Aventino, invece, la situazione sembra alquanto diversa:  è segnalata da Gregorio Magno la presenza di uno xenodochio - la cui collocazione topografica è tuttora oggetto di discussione - ed è documentata l'attività di due tituli:  quello di Balbina e quello dei Santi Nereo e Achilleo presso l'importante arteria della via Nova. Quest'ultimo rappresenta anche un caso unico di trasformazione di titolo in diaconia:  analizzando la storia dei Santi Nereo e Achilleo, si può verosimilmente ipotizzare che almeno a partire dalla fine del VI secolo possa aver subito questa trasformazione e che ancora al tempo di Leone iii, che la ricostruì, funzionava come diaconia. Quanto tale istituzione possa aver coadiuvato nei compiti l'attività dello xenodochio della via Nova non saprei, certo erano vicini, come pure è indubbio che la trasformazione è indizio di specifiche necessità in un territorio così densamente trafficato.

C'è poi il caso unico nel suburbio romano del centro martiriale petrino, insieme a quello di Gerusalemme il santuario per eccellenza, che deve considerarsi a parte per una formulazione e peculiarità veramente tutte proprie che si vengono man mano definendo e arricchendo. I primi compiti assistenziali, considerate le prime fondazioni di corredo al martyrium vaticano, dovettero rientrare tra quelli dei cinque monasteri che qui si istituirono a partire dalla metà del V secolo. Per alcuni di essi sono segnalate specificità assistenziali come quella della cura degli zoppi. Per tempo Simmaco vi sistema habitacula pauperibus, che sono stati di recente interpretati come postazione xenodochiale. Almeno due ospedali vennero qui sistemati:  quello di San Gregorio e l'altro di San Pellegrino.
Le due diaconie riallestite da Adriano i, quelle di Santa Maria in caput Portici e quella di San Silvestro presso l'ospedale di San Gregorio, ricevettero al tempo di Stefano ii (752-757) il supporto dell'accorpamento di due xenodochi. Con l'aggiunta dell'allestimento delle Scholae, il Vaticano diviene la zona del suburbio romano più intensamente attrezzata per i servizi assistenziali e forse meglio coordinata.



(©L'Osservatore Romano - 25 luglio 2009)
Caterina63
00martedì 11 agosto 2009 17:59
La basilica di San Pietro e Roma, città dell'Apocalisse

Con gli occhi puntati
dove confluisce la storia


di Timothy Verdon

Città eterna, Roma è anche la città dell'Apocalisse che - nello sfarzo delle sue chiese - s'identifica evidentemente con colui che, immolato, è ora "degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione" (Apocalisse, 5, 12). Sin dai primi secoli cristiani, ha occupato, trasformandoli, gli spazi architettonici e concettuali dell'antico impero, riconoscendo in questo stesso processo una forma di rivelazione divina - come se Dio, oltre a manifestarsi nella grandezza morale d'Israele, si fosse manifestato anche nello splendore materiale di Roma.

Anzi, la marmorea magnificenza della capitale dell'impero è finita per sembrare adombramento della Gerusalemme celeste, le cui mura saranno rivestite di pietre rare e preziose (Isaia, 54, 11-12; Apocalisse, 21, 18-21) - come se Cristo, venuto non per abolire ma adempire la legge ebraica (Matteo, 5, 17-19), avesse inteso similmente portare a compimento la gloria di Roma, purificandone il senso morale, completandone la missione culturale.

Roma è la città dello svelamento del senso nascosto della storia e dal v secolo in avanti i programmi iconografici delle più importanti chiese romane hanno collocato messaggi apocalittici davanti agli occhi dei credenti. Cristo nella toga dorata rivelato come Dominus dominantium, Signore dei signori, seduto sul trono o in piedi col rescritto del suo potere divino in mano e, davanti a lui, i ventiquattro vegliardi che giorno e notte l'adorano, versando incensi che simboleggiano le preghiere dei santi:  sono queste le immagini dominanti. In diverse delle basiliche, poi, queste scene rivelatrici dell'eternità completavano grandiosi cicli storici sulle pareti laterali, con episodi dell'Antico e del Nuovo Testamento, insistendo così sulla gloria celeste come risoluzione della storia terrestre.

A San Pietro, nel medioevo, questo messaggio venne anticipato anche all'esterno, con un monumentale mosaico che ricopriva la parte superiore della facciata della basilica, mettendo davanti agli occhi di fedeli e pellegrini l'Agnello, i vegliardi e la moltitudine senza numero di coloro che stanno "in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in vesti candide" (Apocalisse, 7, 9).

Pure questa caratteristica dell'antica capitale, la moltitudine, assumerà connotati apocalittici nella Roma cristiana. La città i cui teatri ed anfiteatri avevano accolto folle immense diventa la Roma papale che regolarmente accoglie moltitudini di uomini e donne "di ogni nazione, razza, popolo e lingua" (Apocalisse, 7, 9). Fenomeno, questo, che spiega la creazione - prima in Laterano e poi in Vaticano - di spazi adeguati ad accogliere le folle di pellegrini provenienti da tutto il mondo:  uno sforzo plurisecolare che si risolve dal XVI secolo in poi con la nuova basilica Vaticana, la piazza del Bernini e, nel Novecento, la Sala Nervi; anche questo rientra nel senso di continuità con l'antico impero e ne costituisce l'elemento forse più impressionante.

Oggi come in passato, chiunque visiti Roma, contemplando prima la maestosità degli spazi di vita collettiva della città antica - i fori, gli anfiteatri, le terme - e poi piazza San Pietro gremita nell'occasione di qualche celebrazione liturgica, non può sfuggire dall'impressione di qualcosa d'eterno:  qualcosa che, nonostante epocali mutamenti di cultura e fede religiosa, in questo luogo continui nel tempo.

Tale impressione viene poi rafforzata da altri fattori che condizionano l'esperienza dei visitatori in Vaticano. Il primo deriva dal carattere stesso della moltitudine che occupa la basilica e la piazza in determinate occasioni:  è un fattore liturgico, e più che di moltitudine dovremmo parlare di assemblea. Migliaia di fedeli che, attorno al Papa, possono trovare posto nella basilica o in piazza. Una tale confluenza di autonomie personali, un tale convergere di aspirazioni individuali eleva lo spirito oltre il presente, perché i partecipanti hanno così tante provenienze e tante storie distinte che l'assemblea sembra affondare le sue radici nel passato del mondo intero. Il fatto poi che l'assemblea qui radunata celebri un rito, e specificamente un rito liturgico cristiano, rafforza al massimo tale senso di continuità.

Sul piano meramente antropologico, le azioni rituali per loro stessa natura portano fuori dal tempo per introdurre nell'ambito dell'eterno. Sul piano teologico, poi, la liturgia cattolica - in cui Cristo è creduto realmente presente ed operante - abolisce il limite temporale, aprendo il presente al remoto passato come al futuro ultimo. E sul piano della traditio, la liturgia specificamente papale - il cui celebrante è considerato lineare successore dell'apostolo Pietro - mette quasi tangibilmente a contatto con il passato in cui Pietro ricevette potere da Cristo, come anche con il futuro che tale potere di legare o sciogliere dal peccato determina.

Simili intuizioni, che al non credente possono sembrare laboriose ed astruse, ai fedeli appaiono semplici e chiare. Come successe il giorno della prima Pentecoste, quando, ascoltando la predicazione di San Pietro sul perdono dei peccati, molti si sentirono trafiggere il cuore (Atti, 2, 37), così i cattolici davanti al successore di Pietro:  la ricerca di perdono schiarisce lo sguardo di chi partecipa con fede alle grandi liturgie nella basilica Vaticana e nella piazza.

Solo Dio può perdonare, ma in Cristo Dio ha fatto entrare il suo perdono nella storia, e in Pietro Cristo ha esteso tale potere, che perdura nei suoi successori, i vescovi di Roma. Prendere parte ai riti celebrati dal successore di Pietro, nel luogo dove l'impero che l'aveva messo a morte ha essa stessa trovato perdono, ha pertanto un impatto profondo sulle persone - come se fossero le stesse pietre dell'antica capitale a confermare ai credenti:  "La conversione è possibile, morendo si rinasce a vita nuova, la sconfitta del peccato prepara il trionfo di Cristo".

Molti sarebbero gli esempi di questa eloquente sovrapposizione di periodi e di messaggi. Quando il fedele cattolico è presente a una liturgia papale in San Pietro e vede il Pontefice sotto il baldacchino di Gianlorenzo Bernini, ad esempio, tutta la storia dell'Occidente gli sembra confluire in quell'unico punto. La forma tortile delle colonne deriva da colonne marmoree già presenti nella basilica nel medioevo e piamente credute provenire dall'antico Tempio gerosolimitano, mentre il bronzo del baldacchino è quello che Urbano viii Barberini autorizzò il Bernini a togliere dal portico del Pantheon (donde la pasquinata Quod non fecerunt barbari, fecerunt Barberini).

La Gerusalemme ebraica e la Roma pagana si sovrappongono e s'intrecciano, cioè, prolungandosi nel tempo, mutandosi nella forma, in analogia col mistero celebrato sotto il baldacchino:  Cristo morto duemila anni fa ma presente oggi nel pane transustanziato tra le mani del successore di Pietro e vicario in terra dell'eterno Cristo.
O ancora:  quando il Papa pronuncia sulla folla in piazza le parole Urbi et orbi - la benedizione papale "Alla città e al mondo" - i vari filoni s'intrecciano e si sovrappongono:  è benedetta la città nell'intera gamma della sua vita pagana e cristiana, da una vocazione unificatrice a servizio di tutte le razze e tutti i popoli; ed è benedetto il mondo - non solo quello fisico un tempo retto dai Cesari, ma il mondo interiore d'ogni uomo che col perdono rinasce alla speranza.

La maestosa antichità della cornice in cui questa benedizione viene impartita suggerisce poi un progetto immutabile, iscritto nell'identità profonda del papato, come nella miniatura medievale del Vangelo di Echternach, dove la chiave affidata da Cristo a Cefa ha la forma del nome nuovo petrus; un progetto poi che continua nei successori di Pietro, come si vede sulla porta maggiore della basilica, quella eseguita dal Filarete nel xv secolo, dove Papa Eugenio iv riceve le chiavi direttamente dal Principe degli Apostoli.



(©L'Osservatore Romano - 12 agosto)
Caterina63
00mercoledì 14 dicembre 2011 22:51
Papa Mastai Ferretti avviò un imponente programma di restauri e committenze che non si limitò
al Vaticano e alle chiese di Roma ma arrivò a coinvolgere le più remote regioni del mondo

Il mecenatismo globale di Pio IX


All'Esposizione universale di Parigi del 1867, accanto al padiglione dedicato a Firenze capitale d'Italia,
lo Stato pontificio ripropose il fascino arcaico delle catacombe cristiane

 

di STEFANO CRACOLICI
Università di Durham

Con lo scadere del 2011, volge al termine l'anno delle celebrazioni per il centocinquantenario dell'unità d'Italia. Caso unico, nel panorama delle nazioni europee, quello della commemorazione per la nascita dell'Italia unita si presenta forzatamente scisso: dovremo attendere il 2021, infatti, per accorpare alla serie di eventi e manifestazioni appena trascorse, quella che si preannuncia altrettanto imponente sull'anniversario di Roma capitale (1871).


Roma, centocinquanta anni fa, non faceva parte del Regno d'Italia, ma restava ancora il centro politico oltreché spirituale dell'universalità cattolica. Vale ricordarlo. Nel breve decennio che ci attende - di riflessione storica su quanto accaduto e di incubazione culturale su quanto dovrà accadere - ribaltare l'ottica tra vincitori e vinti può servire, quantomeno euristicamente, a stemperare il clima ideologico delle polemiche più recenti e a valutare con più avvedutezza l'impatto storico e culturale che le previste celebrazioni potranno avere. Tra tutti, un punto merita di essere vagliato con attenzione: se è vero che il 1870 segna la fine del millenario potere temporale della Chiesa, cessa in quell'anno anche il primato di Roma come capitale universale delle arti.

Pio IX (1846-1878), l'ultimo Pontefice a unire in sé potere spirituale e potere temporale, ne era ben consapevole. E in questo senso non può che assumere valore particolarmente simbolico la poderosa "Esposizione romana di tutte le arti eseguite pel culto cattolico", che egli volle installare nella michelangiolesca Santa Maria degli Angeli - già sede delle Terme di Diocleziano, persecutore eponimo dei cristiani - nell'occasione del concilio Vaticano I (dicembre 1869 - luglio 1870), quando sui colli intorno a Roma erano già accampate le truppe dei bersaglieri. Prelati giunti da tutto il mondo per decretare il dogma dell'infallibilità del Papa potevano ammirare in quei luoghi - allestiti per l'occasione dall'architetto Virginio Vespignani - oltre un migliaio di opere d'arte. Questi, gli eloquenti stendardi che ne introducevano le sezioni: "La Religione ispira e guida le Arti, l'Onore le alimenta e le accresce, Roma le favorisce e le premia"; ovvero "Auspice la Religione, diffonde e conserva la grandezza del pensiero guida e maestra di virtù" (tipografia); oppure, ancora, "Gran Ministri di Dio sono i colori" (pittura). Il connubio tutto romano di arte e religione non poteva che emergere più che evidente.

Si trattava di una strategia ben collaudata. Tre anni più addietro, nell'agone internazionale dell'Esposizione Universale di Parigi (1867), lo Stato Pontificio, le cui pesanti perdite territoriali erano note a tutti, aveva sfidato il neonato Regno d'Italia sul terreno spinosissimo delle identità culturali.

A pochi passi l'uno dall'altro, l'Italia accoglieva i propri visitatori nel padiglione neo-rinascimentale di Antonio Cipolla, volto a promuovere Firenze, quale nuova capitale del Regno; lo Stato pontificio, invece, si presentava agli occhi del mondo negli spazi significativamente angusti delle Catacombe di San Callisto, replica fedele quanto sorprendente del più acclamato archeologo cristiano del momento: Giovanni Battista de Rossi, la cui monumentale Roma sotterranea era ancora fresca di stampa. Il confronto non poteva che essere più schiacciante. Mentre l'Italia divulgava i principi del suo Risorgimento sfruttando il prestigio ormai scontato del Rinascimento fiorentino, la Santa Sede propagandava il suo "controrisorgimento" facendo aggio sul fascino arcaico delle catacombe cristiane. In quel "microcosmo fantasmagorico della cultura capitalistica", come ebbe a battezzarlo Walter Benjamin, Roma si presentava al mondo come martire della modernità.

Non solo. In contemporanea a quell'esposizione, quasi a rendere più didascalico l'alto valore simbolico delle catacombe, Pio IX inaugurava a Roma le imponenti celebrazioni per il XVIII centenario del martirio dei santi Pietro e Paolo (1867), che avrebbero attirato in città un numero sorprendentemente notevole di fedeli da tutto il mondo. Roma, dunque, contro Parigi: nello stupore generale. L'immagine della città eterna che quei fedeli vedevano esibita non rinviava più alla Roma pagana, fissata nell'antichità esemplare del suo glorioso passato, ma alla Roma cristiana, colta nella contemporaneità ferita nel suo antico presente.

"La gloria di Roma - diceva più propriamente il cardinale Nicholas Patrick Wiseman, primo arcivescovo di Westminster nonché celebrato autore di Fabiola, o la Chiesa delle catacombe (1854) - non consiste nella bellezza della città moderna ma nell'ammirare i resti colossali della Roma antica prostrati in omaggio di fronte alla Croce". La storia riscopriva a Roma la sua dimensione eterna: presente e passato si annullavano reciprocamente in un messaggio ossimorico che sfidava con tempestiva audacia la rutilante celebrazione parigina della modernità. Questo il clima dell'epoca. Per saggiarne l'alta temperatura simbolica, basta rinviare al quadro programmatico di Alexander Maximilian Seitz, allievo di Peter Cornelius, dedicato, per l'appunto, al XVIII anniversario del martirio di san Pietro: l'immagine in gloria del santo si riflette nel ritratto devoto di Pio IX, mentre il mostro dell'avversa modernità cede ai colpi degli angeli di Dio. Ancora una volta, dunque, l'arte a servizio della religione.

Due anni più tardi, Pio IX farà allestire nei Palazzi Vaticani una moderna "Galleria dei santi e dei beati", in cui l'arte sacra trionfava in tutti gli stili della sua lunga tradizione. Un prontuario, si direbbe, delle principali maestranze romane - tutti "pittori di Pio IX", come ebbe a definirli Luigi Huetter sulle pagine di questo giornale (1955) - e delle rinnovate iconografie che la Chiesa stava diffondendo nel mondo: Pietro Gagliardi, Cesare Fracassini, Francesco Podesti, Luigi Cochetti, Guido Guidi, Franz von Rohden, per non nominare che i più noti. Di questi, il visitatore romano può trovare oggi le tracce nelle chiese sparse nella città: nelle numerosissime chiese di Roma che Pio IX volle programmaticamente costruire, restaurare o ridecorare.
È questo il segno di un mecenatismo artistico che la storia dell'arte ha in gran parte ignorato: per ragioni ideologiche e storiografiche.

Un segno che non tocca soltanto Roma, ma che da Roma si estende a comprendere vaste aree del mondo: dal Cile alla Turchia, dai Balcani al Regno Unito, dal Canada a Malta, fino a toccare le lontane regioni oceaniche. Di questo trascurato quanto imponente fenomeno di fioritura artistica, Giovanna Capitelli, che insegna storia dell'arte moderna all'università della Calabria, segue pazientemente le tracce in un bel libro - Mecenatismo pontificio e borbonico alla vigilia dell'Unità, con un contributo di Ilaria Sgarbozza (Roma, Fondazione Roma - Viviani Editori, 2011, pagine 320 - per tanti versi innovativo, in cui tutti gli eventi fin qui esposti trovano minuta descrizione. Vale, il libro, per l'approccio pionieristico, sempre attento a inserire il dettaglio documentario nella più ampia e articolata compagine storica, culturale e artistica dell'epoca, scevro da qualsiasi pregiudizio di natura estetica o ideologica.

Anzi, il lavoro riesce ancor più prezioso proprio nel momento in cui propone una nuova storiografia, sfruttando con senso critico le linee arditamente euristiche che il compianto Stefano Susinno ebbe modo di tracciare nella memorabile mostra romana alle Scuderie del Quirinale ("Maestà di Roma, universale ed eterna: capitale delle arti", 2003).

Non solo Roma, ma anche Napoli. In un felice rapporto comparativo che illustra le componenti storiche e politiche e artistiche di due mecenatismi a confronto: quello del trono, rispondente al Regno delle Due Sicilie sotto i governi di Ferdinando II e Francesco II di Borbone, e quello dell'altare, rappresentato dal lungo pontificato di Pio IX.

Due realtà politiche diverse, travolte entrambe dall'unità italiana, ma le cui matrici culturali si influenzano a vicenda, a partire dall'esilio pontificio a Gaeta e Napoli, negli anni della seconda Repubblica Romana (1849); visita, questa, che rimarrà profondamente impressa nella memoria di Pio IX e che troverà sigillo nel tempio monumentale di San Francesco a Gaeta, quale omaggio di re Ferdinando all'esule Pontefice.

Queste le due prospettive in cui si articola il libro: quella romana (parte prima: Lo Stato Pontificio) e quella napoletana (parte seconda: Il Regno delle Due Sicilie), cui sono dedicati tre capitoli ciascuno, il quinto dei quali è affidato a Ilaria Sgarbozza (Ferdinando II e la promozione delle arti a Napoli); corredano il volume un'utilissima mappa del mecenatismo di Pio IX, a cura di Maria Saveria Ruga, e un analogo scandaglio archivistico sul mecenatismo borbonico, curato da Alba Irollo.

Spiccano notevolissime, in un apparato iconografico tanto generoso quanto vario e sorprendente, le immagini delle opere d'arte che gli artisti di Pio IX inviarono a Malta e in Cile (capitolo terzo: Le esportazioni di opere d'arte. Dalla Città Eterna al Nuovo Mondo), quale saggio di un fenomeno di diffusione artistica in gran parte ancora da sviscerare, ma che trova in queste pagine una prima documentata testimonianza e un viatico affidabile per gli studi a venire. Lasciata Malta, già in parte studiata dalla scuola di Mario Buhagiar e di Keith Sciberras, è il caso cileno a stupire: per la quantità e qualità delle opere illustrate. Il lettore attento, tuttavia, avrà l'agio di scoprire, tra le pieghe del testo e nelle note, peraltro puntualissime, importanti rinVII ad altri tasselli del mosaico ancora largamente inesplorati, rinvenuti in Turchia, Irlanda, Croazia, Spagna, Stati Uniti, Israele, Guadalupe, Argentina, Messico, Grecia, Canada, come pure negli Stati Uniti e nel Regno Unito (Ushaw College).

Quello, insomma, delle esportazioni di opere d'arte sacra nel mondo - opere non solo promosse ma finanche benedette personalmente dal Pontefice prima del loro invio - è un fenomeno che fa sistema. Proprio su questo tema si è svolto dal 13 al 15 dicembre un convegno internazionale alla British School at Rome ("Roma fuori di Roma: L'esportazione dell'arte moderna da Pio VI all'Unità: 1775-1870"), organizzato da Liliana Barroero, Giovanna Capitelli e Fernando Mazzocca.



(©L'Osservatore Romano 15 dicembre 2011)

Caterina63
00martedì 3 gennaio 2012 23:22
Letteratura, teatro e cinema riscoprono "Il ritorno" di Claudio Rutilio Namaziano, "praefectus urbi" nel V secolo

Quando i sindaci di Roma
erano poeti

di MARCO BECK

Sul quadrante della storia universale l'anno 410 dell'era cristiana segna, senza dubbio, una data tra le più drammatiche. Dopo un assedio non troppo lungo né difficoltoso, oltretutto agevolato - a quanto pare - dall'apertura della Porta Salaria grazie a presunte connivenze interne, Alarico, re dei visigoti, espugnò Roma e la sottopose a saccheggio. Anche se nel 402 Onorio, imperatore d'Occidente, aveva spostato la sua corte a Ravenna, l'evento assunse agli occhi dei contemporanei la fisionomia di una sciagura inaudita, dal funesto significato simbolico: l'Urbe, faro secolare di civiltà, veniva per la prima volta violata nella sua maestà imperiale, per quanto declinante, da un'armata barbarica.

Eppure Alarico, destinato a morire solo pochi mesi dopo quel clamoroso successo, non infierì sulla città. Frenato forse dalla sua fede ariana, "diede ordine alle truppe di lasciar illesi e tranquilli quanti si fossero rifugiati in luoghi sacri, specialmente nelle basiliche dei santi apostoli Pietro e Paolo, e di astenersi quanto possibile, nella caccia alla preda, dal sangue" (Orosio, Le storie contro i pagani, VII 39, traduzione di Giuseppe Chiarini).


Ed è interessante osservare, in quel medesimo passo delle Historiae adversus paganos, l'affermarsi di una lettura teologico-morale ispirata da sant'Agostino che interpretava il sacco di Roma come "scempio consentito" dall'Onnipotente "al solo scopo di correggere la città superba, lasciva, blasfema". Che un processo di catarsi collettiva avesse effettivamente accompagnato l'opera di ricostruzione seguita alla parziale devastazione del 410, sembra trasparire da un singolare poemetto composto di lì a qualche anno e pervaso da uno spirito di riscatto, di fiducia nell'indefettibilità del primato universale di Roma caput mundi, ma anche venato da un senso struggente di decadimento senza rimedio: il De reditu suo di Claudio Rutilio Namaziano.

Membro di un ceto aristocratico ancora dominante nel suo tradizionalismo di matrice pagana, e in parte ancora fedele a valori e ideali di alto profilo, Rutilio, nativo della Gallia Narbonense, abitava ormai da tempo a Roma, dove aveva percorso un brillante cursus honorum, da magister officiorum (una sorta di ministro degli Interni) a praefectus Urbi (l'equivalente dell'odierno sindaco). Tale era il suo amore per la Città Eterna, nutrito d'intensi rapporti affettivi con la famiglia e con la cerchia degli amici, che solo a malincuore si decise a lasciarla, con il presentimento di non più rivederla, quando gli s'impose la necessità di un ritorno in Gallia per un restauro dei possedimenti di famiglia. Risalita la penisola italica, infatti, le schiere visigote avevano attraversato, saccheggiandola, l'attuale Provenza.

Un lungo indugio, in cui s'intrecciavano ragioni sentimentali e meteorologiche, precedette la partenza di Rutilio da Portus, alla foce del Tevere, nell'autunno di un anno indicato nel 417 da Alessandro Fo, latinista dell'università di Siena, autore del poliedrico saggio che introduce la più recente edizione del Ritorno, con traduzione di Andrea Rodighiero a fronte del testo latino e note di Sara Pozzato (Torino, Nino Aragno, 2011, pagine 322, euro 15). Si dovette cioè aspettare che spirassero venti favorevoli prima di poter sciogliere le vele e i remi a una flottiglia di grosse barche, denominate cymbae, la cui ammiraglia ospitava Rutilio. Nel De reditu suo l'iniziale spazio d'attesa è occupato da un vero e proprio inno a Roma, regina pulcherrima mundi, che si estende per oltre un centinaio di versi (il metro adottato è quello dell'elegia di stampo ovidiano, esametro più pentametro).

Due i pinnacoli tematici di questo panegirico pregno di nostalgia: il primo consiste nell'esaltazione della funzione storico-politica dell'Urbe come unificatrice di popoli, compendiata nella formula Fecisti patriam diversis gentibus unam (I, 63), "Di popoli diversi hai fatto un'unica patria"; il secondo esprime una speranza di quasi cristiana redenzione, affermando, con un'allusione alla catastrofe del 410 riferibile anche a questa nostra epoca di crisi mondiale e nazionale, che "regola di rinascita è sapere, dal male, ricrescere" (ordo renascendi est crescere posse malis, I, 140).

Ma ecco giungere finalmente l'alba serena che segna il momento di salpare. Rutilio e il suo equipaggio intraprendono una cauta navigazione a ridosso della costa e segmentata in brevi tappe, con frequenti approdi e soste: itinerario marittimo certo rischioso in quella stagione, ma consigliato dall'impraticabilità di molte vie di terra per effetto delle incursioni barbariche e dello spopolamento del territorio. Probabile sviluppo letterario di un diario di bordo ed erede di una tradizione "odeporica" culminata nella satira i, 5 di Orazio (il celebre iter Brundisinum), il De reditu suo ci restituisce in sostanza la parte tirrenica del viaggio, fino alla Lunigiana. Lì il secondo libro del poemetto, purtroppo mutilo, s'interrompe. E solo vaghi accenni alla Liguria, fra Genova e Albenga, emergono da due frammenti fortunosamente rinvenuti nel 1973.

Vediamo così dipanarsi, evocate con sguardo insieme poetico e pittorico, attento alle suggestioni paesaggistiche e agli scorci marini ma anche aperto al fascino decadente delle rovine, località costiere ritratte in una configurazione ancora oggi riconoscibile a distanza di sedici secoli: Civitavecchia, Porto Ercole, Populonia, Vada, le isole Capraia e Gorgona (con le loro comunità monastiche poco apprezzate dall'intellettuale pagano). Il registro elegiaco, fondato su un mutevole rispecchiamento tra la natura e la psiche del viaggiatore, s'inarca spesso in elevazioni di una sensibilità che si sarebbe tentati di definire "pre-preromantica", se non addirittura "pre-byroniana". E ha sapore di preromanticismo ante litteram anche il risalto concesso a sentimenti peraltro declinati in chiave sempre virile. Il vincolo dell'amicizia, in particolare, celebra a sorpresa un rito festoso quando "una tempesta amara rende dolce la sosta" (I, 492) lungo la costa etrusca, dove risiede un conterraneo di Rutilio, il comes Vittorino di Tolosa. Uno sbarco alla foce dell'Arno prelude, poco dopo, a un incontro con un altro saggio amico, Protadio, in quella città di Pisa che serba marmorea memoria di Lacanio, il defunto padre di Rutilio: di fronte alla sua statua, l'affetto filiale del poeta si effonde con accenti di orgoglio e commozione.

All'equilibrio compositivo del carmen rutiliano contribuisce, sul piano formale, la classicità dello strumento linguistico, "un latino sobrio, elegante, tramato di sofisticati richiami intertestuali, di reminiscenze mitiche", secondo il giudizio di Giancarlo Pontiggia (in Selve letterarie, Bergamo, Moretti & Vitali, 2006, p. 191).

Una specifica sottolineatura merita infine la fortuna multimediale di cui sta godendo in Italia, negli ultimi vent'anni, il De reditu suo: una visibilità inversamente proporzionale - nei campi della letteratura, del teatro e del cinema - all'emarginazione dai programmi di studio della scuola media superiore. Con passione pari al puntiglio filologico, Alessandro Fo dedica la maggior parte della sua corposa introduzione a una rassegna di tutte le manifestazioni creative innescate di recente, nel nostro Paese, dalla "riscoperta" di Rutilio. Il panorama si estende dalle traduzioni (in primis quella dello stesso Fo, Torino, Einaudi, 1994) alle rielaborazioni o allusioni poetiche (Normanno, Cappello, Pisini), ai romanzi e racconti (Cardona, Bettini, Mastrocola, Acitelli). Vivaci e inventive si sono poi rivelate alcune riduzioni teatrali, di carattere professionale (Grosseto, Telème Teatro, 1993-1995) o giovanile-sperimentale (Ancona, Centro Teatrale Rinaldini, 2005).

Indubbiamente, però, l'adattamento più spettacolare del Ritorno resta il film diretto da Claudio Bondì (2003). Completò Rutilio il suo viaggio? Raggiunse la sua terra nativa? È verosimile. Se avesse fatto naufragio lungo la rotta o fosse rimasto vittima di un'aggressione, difficilmente il suo poemetto sarebbe stato tramandato ai posteri. Certo è in ogni caso che, senza l'irruzione dei visigoti in Roma e le loro successive scorrerie, non sarebbe mai nato uno dei più pregevoli documenti letterari legati al tramonto dell'antichità.

Significativamente fu lui stesso, Rutilio Namaziano, a scrivere (I, 491): O quam saepe malis generatur origo bonorum!, "Oh, quanto spesso dal male si genera un inizio di bene!". Non potrebbe appartenere, un simile concetto, anche alle quasi coeve Confessioni agostiniane?



(©L'Osservatore Romano 4 gennaio 2012)


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