S. Tommaso d'Aquino insegna come si fa il vero DIALOGO

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Caterina63
00martedì 27 gennaio 2009 21:14
Il metodo di san Tommaso d'Aquino
Se si tratta della verità non importa chi la dice

di Inos Biffi

    Non raramente si sente affermare che Tommaso d'Aquino è stato un modello di dialogo con le culture del suo tempo. Ed è vero, ma sarebbe anzitutto necessario precisare - e non lo si fa quasi mai - che cosa si intenda per dialogo. La parola dialogo è ripetuta oggi fino alla noia per i campi più svariati, ma la si lascia abitualmente nel vago di un significato generico, dove spesso un'ovvietà improduttiva rischia di rasentare la banalità.
    Ma torniamo a Tommaso d'Aquino. Egli è entrato certamente a contatto con la cultura del suo tempo, rappresentata specialmente da Aristotele che ormai si trovava - come direbbe Congar - alla sua terza entrata in Occidente, quella dei contenuti, dopo l'entrata riguardante la Logica vetus, con Boezio, e la Logica nova.

    Il commento, anche analitico, alle opere del filosofo non è sicuramente un'iniziativa originale di Tommaso, ma è sorprendente che egli, "maestro in Sacra Pagina", abbia dedicato tanto tempo e impegno all'analisi dei testi aristotelici. O forse meglio, non sorprende, se si tiene presente che il loro studio particolareggiato aveva come scopo quello di porre la verità che coglieva in esse a servizio della sua professione di teologo e quindi a servizio della sacra doctrina.


    Questa sua attività di commentatore - che non si limitava ad Aristotele, egli commentò anche il Liber de causis, di cui rilevò la matrice platonica - non passava, in ogni caso, senza l'attenzione e la stima dei maestri della Facoltà delle arti. Quando Tommaso partì da Parigi nella primavera del 1272, promise a questi che avrebbe inviato loro alcuni commentari di opere filosofiche, ed essi infatti lo ricordarono e li richiedevano, insieme con le reliquie di Tommaso, in una lettera del maggio 1274 al capitolo generale di Lione.

    Ma, di là da queste annotazioni storiche, è illuminante rilevare il metodo di Tommaso nel dialogo con la cultura del suo tempo. Si nota anzitutto il principio fondamentale della sua ricerca o della sua "etica mentale", espresso in questi termini e da lui attributo a sant'Ambrogio:  "Al principio di ogni verità, chiunque sia colui che la professi, vi è lo Spirito Santo (omne verum, a quocumque dicatur a Spiritu sancto est)" (Super evangelium Joannis, capitolo 1, lectio 3).

All'Angelico importa la verità, non la sua provenienza, e là dove essa sia presente riceve da lui tutto il suo riconoscimento. Ed è esattamente quello che egli ricercava in Aristotele:  la verità, per altro ben consapevole quanto, senza la Rivelazione, anche le menti più alte faticassero a trovare quale fosse il fine ultimo dell'uomo:  satis apparet quantam angustiam patiebantur hinc inde eorum praeclara ingenia (Summa contra gentiles, 3, 48).[SM=g1740745] 

    Tommaso aveva una confidenza assoluta nella verità, al punto da affermare nel Commento al libro di Giobbe (13, 19 ), che "la verità non cambia a secondo della diversità delle persone, per cui, quando uno dice la verità, chiunque sia la persona con cui disputa, non può essere vinto" (veritas ex diversitate personarum non variatur, unde cum aliquis veritatem loquitur vinci non potest cum quocumque disputet), quand'anche si tratti di Dio.

    Con questa sua sensibilità non sorprende che, quando commenta un autore, non gli prema tanto la ricostruzione storica - nella misura per altro in cui gli fosse possibile - quanto lo sforzo perché secondo l'oggettiva coerenza ai loro stessi principi venga raggiunta la verità.

    Così, di là dalla sua consapevolezza o meno, avviene quando egli analizza le opere di Aristotele. Non sono infatti mancate critiche alla sua esegesi quanto alla sua fedeltà al testo del filosofo. Di fatto, nel suo dialogo con lui su questa fedeltà testuale prevale la preoccupazione veritativa. D'altra parte, egli ha in certo modo teorizzato il suo metodo dialogico.

    Nel De caelo et mundo afferma:  "Lo studio della filosofia non mira a conoscere quello che gli uomini hanno pensato, ma quale sia la verità (studium philosophiae non est ad hoc quod sciatur quid homines senserint, sed qualiter se habeat veritas rerum)" (i, 22, 8 ). Ora, questo primo momento, inteso alla conoscenza del pensiero umano e che potremmo chiamare della ricerca storica, non solo non manca ma è largamente presente in Tommaso, e ne è prova la sua vasta e continua attenzione culturale in campo anche profano, e in primo luogo nell'area della cultura aristotelica, senza parlare di altri autori di cui conobbe e utilizzò il pensiero, tra gli altri Boezio, Avicenna, Averroè, Mosè Maimonide.

    Questo primo momento non gli è però sufficiente. Tommaso mira, come metodo, a oltrepassarlo, e lo fa nel secondo momento del suo itinerario scientifico, quando si dedica a indagare l'intenzione oggettiva - l'intentio profundior - che anima l'espressione di un autore e che a essa soggiace, di là dalla coscienza dell'autore stesso. Egli si impegna, così, a "scrutare con maggior profondità l'intenzione di Agostino (profundius intentionem Augustini scrutemur)" (De spiritualibus creaturis, 10, 8 ).

    Sulla relazione tra espressione e intenzione, particolarmente applicata a san Tommaso, e sul ritardo della prima rispetto alla seconda, si è soffermato con singolare finezza André Hayen, gesuita di Lovanio, uno dei più acuti interpreti dell'Angelico, le cui opere - alcune delle quali tradotte in italiano - conservano intatto il loro valore.

    E, tuttavia, anche questa seconda tappa non basta a san Tommaso. In ambedue i testi citati egli afferma che a importare non sono né la storia né l'intenzione profonda:  lo studio della filosofia deve avere come suo fine la conoscenza non di quello che i filosofi hanno scritto, ma di quale sia la veritas rerum; e per quanto concerne Agostino il punto d'arrivo non è quello di sapere quale sia stata la sua intenzione, ma una volta ancora quello che è vero:  quomodo se habeat veritas circa hoc.

    Nessun dubbio che san Tommaso abbia trascorso la sua laboriosa vita di teologo in dialogo culturale, ma non per un puro conoscersi reciproco, per un ammirarsi a vicenda o per fare semplicemente della storia, bensì con lo spirito critico ed esigente di chi si propone di discernere il vero dal falso e di giungere al traguardo liberante della verità:  di quella stessa verità che i principi di un autore includevano, anche se questi si era incoerentemente fermato come su un sentiero interrotto.

Un simile metodo, indubbiamente, non potrebbe essere praticato da chi sia indifferente di fronte al discorso della verità, al quale Tommaso era invece sensibilissimo, e che alla fine unicamente gli interessava.

    Tornando in particolare ai suoi commenti ad Aristotele, è indubbio che egli ha travalicato il testo del filosofo, che lo ha prolungato. A Tommaso non importava per se stessa "la ricostruzione storicamente esatta del pensiero di Aristotele" (Jean-Pierre Torrell), per cui ha fatto dire al filosofo cose alle quali questi "non aveva neppur pensato". Ma è proprio dal profilo di questa intenzione, di questo audace amore per la verità che Tommaso non cessa di essere il modello di un dialogo che non si rassegna a essere sterile e vuoto.

    In ogni caso, è grazie a questo suo metodo che egli ha potuto lasciare una mirabile somma di teologia, dov'è inclusa una filosofia "vera" - storicamente o non storicamente aristotelica - in certo modo trasfigurata dalla fede, più che sua "ancella" e non per ciò meno filosofia.

    Che è poi il compito proprio di ognuno che, come lui, voglia essere "maestro in sacra Pagina":  leggere, interpretare e proporre integralmente il Mistero, nella sua verità e nella sua bellezza, che possono apparire solo al credente, e non stemperarsi in confronti alla fine inconcludenti.



(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2009)
Caterina63
00martedì 27 gennaio 2009 21:21
Un esempio di unità tra la meditazione della Parola e la riflessione sistematica

Nel passato la chiave per interpretare il futuro


In occasione della memoria liturgica di san Tommaso d'Aquino, l'arcivescovo segretario della Congregazione per l'Educazione Cattolica tiene all'Angelicum un'omelia della quale anticipiamo ampi stralci.

di Jean-Louis Bruguès


Nel decreto con il quale, il 25 maggio 1727, Papa Benedetto xiii erigeva lo Studium dei Domenicani, antenato diretto della Pontificia Università San Tommaso Angelicum, si presenta la dottrina di colui che sarebbe diventato il dottore comune della Chiesa, come una luce destinata a illuminare tutta la società. Una luce che ha permesso di denunciare gli errori del passato, una luce per meglio comprendere gli errori dei tempi presenti (n. 30). 1727:  in molti Paesi d'Europa, una nuova visione dell'uomo e del mondo comincia a nascere nell'intellighenzia, sotto l'influsso degli enciclopedisti. La secolarizzazione della società fa i suoi primi passi. Verso chi si rivolge la Chiesa? Non certo verso i teologi del momento - si sarebbe fatta molta fatica a trovarli! - ma verso un antico che aveva anticipato l'Europa intellettuale e studiato, poi insegnato a Colonia, Parigi, Orvieto, Roma e in ultimo a Napoli.

In questo inizio di millennio, quando la secolarizzazione si è imposta in più continenti, mi sembra che l'atteggiamento della nostra Chiesa deve rimanere lo stesso:  rivolgersi, non tanto verso un riferimento storico peraltro molto lontano dalla nostra cultura, ma verso un maestro, nel senso assoluto di questo termine, il cui fascino trascende i secoli. Nova et vetera:  Tommaso d'Aquino ebbe il genio di radicarsi nella tradizione più solida - lo testimoniano la sua conoscenza dei Padri e il suo debito verso sant'Agostino molto più forte di quanto lo si sembra riconoscere, da appena qualche decennio - al fine di cogliere dall'interno le sfide della modernità. L'assimilazione del passato prepara sempre il futuro. Sentiamolo allora darci due grandi consigli per oggi.

Primo consiglio:  mai separare il lavoro intellettuale dalla vita di unione con Dio. Certamente, per san Tommaso la teologia ha una funzione speculativa e sistematica ben definita, che consiste nel proporre una intelligenza della fede, dando delle ragioni certe o probabili, per eliminare gli errori. Altrettanto, egli non separa mai questa prospettiva immediata da una finalità più spirituale, che si potrebbe riassumere in una parola:  l'elevazione dello spirito.

A proposito di una questione trinitaria delicata, san Tommaso rileva:  "Una tale ricerca non è inutile, perché attraverso di essa lo spirito è elevato per cogliere qualcosa della verità (cum per eam elevetur animus ad aliquid veritatis capiendum)" (De potentia, 9, 5). Questa elevazione è percepita come anticipazione o preparazione della visione beatifica. Rimaniamo sempre nella prospettiva aperta dalle beatitudini proclamate nel Discorso della montagna.

Ecco perché il lavoro speculativo, secondo Tommaso è fonte di gioia. "È utile, egli spiega all'inizio della Summa contra gentiles, che lo spirito umano si eserciti a queste ragioni anche se sono deboli, a condizione che non abbia la pretesa di comprendere o di dimostrare. Perché poter percepire qualcosa delle realtà più alte, anche se soltanto con uno sguardo debole e limitato, procura la più grande gioia" (libro i, capitolo 8, numero 49).

Mi pare che questo primo consiglio ci difenda contro quello che è il rischio di una auto-secolarizzazione rampante presso quelli che hanno ricevuto l'incarico di insegnare nella Chiesa:  guardando le "cose dall'alto", come se si mettesse l'obiettivo fotografico sull'infinito, questi ultimi dovrebbero vedere meglio ordinarsi i diversi piani della realtà. Commemorando il centesimo anniversario del teologo Hans Urs von Balthasar, nel 2005, colui che era appena stato eletto Papa sotto il nome di Benedetto XVI, gli rendeva questo omaggio:  "Egli aveva profondamente compreso che la teologia può soltanto svilupparsi nella preghiera, che coglie la presenza di Dio e che si affida a Lui nell'obbedienza".

Il secondo consiglio che ci lascia il dottore angelico raggiunge con molta precisione una proposizione fatta dai padri dell'ultimo Sinodo tenutosi a Roma nell'ottobre scorso:  "Superare il dualismo tra esegesi e teologia" (Proposizione 27). Il testo riprendeva così le stesse parole di Papa Benedetto XVI:  "Dove l'esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l'anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento" (martedì 14 ottobre 2008).

San Tommaso ci dona un esempio meraviglioso di questa unità tra la meditazione della Parola di Dio e la riflessione sistematica. La Summa theologiae propone un andare e venire costante tra questa Parola, essa stessa riletta nella tradizione e alla luce del Magistero, e la costruzione teologica.

Sappiamo che nel medioevo, il primo compito del maestro di teologia era di commentare la Scrittura ogni giorno. Il titolo più elevato all'epoca era quello di Magister in sacra pagina o Doctor sacrae scripturae. Legere, cioè commentare, disputare delle questioni più ardue e infine praedicare:  Tommaso ci ha lasciato così meravigliosi commentari della Scrittura.

Sono almeno la metà dei testi del Nuovo Testamento e diversi libri dell'Antico che egli ha meditato ed esposto ogni giorno. Commentando, per esempio, la parola di Gesù:  "Io sono mite e umile di cuore" (Matteo, 11, 29), il nostro dottore spiega nel modo più luminoso:  "Tutta la nuova legge consiste in queste due cose:  nella mitezza e nell'umiltà. Per la mitezza, l'uomo si avvicina al prossimo secondo la parola del Salmo:  "Ricordati, Signore, di Davide, di tutta la sua mitezza" (Salmi, 131, 1). Per l'umiltà, egli si avvicina a sé e a Dio:  "Su chi riposa il mio Spirito se non sull'uomo di pace e d'umiltà?" (Isaia, 66, 2)" (Super evangelium sancti Matthaei Lectura, 970).

È normale, è necessario, mi sembra, che le Università pontificie romane si interroghino sulla loro specificità. La vostra, cari amici, non lascia posto ad alcuna incertezza:  fare che Tommaso d'Aquino diventi oggi, come fu nel passato, il sale della nostra dottrina e la luce degli uomini di buona volontà.[SM=g1740721]



(©L'Osservatore Romano - 28 gennaio 2009)
Caterina63
00lunedì 3 gennaio 2011 17:55
Condividiamo di cuore queste riflessioni di padre Giovanni Scalese dal suo blog senza peli sulla lingua:


Come non detto

Due giorni fa ho pubblicato l’articolo Il “cortile dei gentili” (che era stato scritto nel mese di ottobre per l’Eco dei Barnabiti), nel quale facevo riferimento anche al dialogo interreligioso e allo “spirito di Assisi”, sottolineando le differenze tra il pontificato di Benedetto XVI e quello di Giovanni Paolo II. Fra l’altro, affermavo: «Il 19 aprile 2005 Joseph Ratzinger è diventato Papa Benedetto XVI; e da allora non ci sono state, come era prevedibile, nuove giornate di Assisi». Era sottinteso: Non ci sono state — e non ci saranno piú! — nuove giornate di Assisi.

E invece ieri sono stato smentito: il Papa, durante l’Angelus di Capodanno, ha annunciato che a ottobre si recherà ad Assisi per una nuova Giornata mondiale di preghiera per la pace, in occasione del 25° anniversario della prima, nel 1986. Se devo essere sincero, ci sono rimasto male. Non perché consideri “eretiche” questo tipo di iniziative: è ovvio che i Pontefici, nell’intraprenderle, lo fanno con le migliori intenzioni e mettendo bene in chiaro lo spirito che le deve animare. Ma non è questo il punto.

Il problema è un altro (ed è ricorrente, purtroppo): che cosa “passa” al grande pubblico, di queste iniziative? che cosa rimane nell’immaginario collettivo? L’idea che una religione vale l’altra. Ovviamente il Papa non vuole che passi questo messaggio; ma di fatto è ciò che succede. L’uomo non comunica solo con le parole, ma anche con i gesti. E i gesti, il piú delle volte, sono ambigui. È per questo che vanno spiegati; ma molto spesso anche la spiegazione piú precisa non è sufficiente: talvolta sono necessari gesti di segno opposto per far passare il messaggio giusto.

Mi spiego. Quando la Chiesa, nel Concilio di Trento, si oppose all’uso della lingua volgare nella liturgia o alla comunione sotto le due specie, non lo fece perché tali cose, in sé stesse, fossero cattive (tanto è vero che attualmente noi le pratichiamo senza problemi); ma semplicemente perché esse avrebbero veicolato il messaggio sbagliato: la Messa vale solo se i fedeli capiscono ciò che si dice (agisce ex opere operantis); la comunione sotto una sola specie non è completa. E allora che fece la Chiesa? Spiegò, certo, la retta dottrina (i sacramenti sono efficaci di per sé, agiscono ex opere operato; Cristo è presente nella sua pienezza sotto ciascuna delle specie eucaristiche); ma a ciò aggiunse l’obbligo di celebrare la Messa in latino e di ricevere la comunione sotto la sola specie del pane. A quell’epoca non si parlava di pastorale, ma si aveva un senso pastorale che noi ci sogniamo. Oggi ci riempiamo la bocca di pastorale, ma poi non ci rendiamo conto di quanta confusione possono provocare certe iniziative.

Qualcosa del genere è accaduto anche con il libro-intervista Luce del mondo. Soprattutto dopo la precisazione della Congregazione per la dottrina della fede, si può difficilmente affermare che la risposta del Papa a proposito del preservativo fosse moralmente erronea. Il problema è ancora una volta: qual è il messaggio che è passato alla gente? Che l’uso del profilattico, almeno in certe situazioni, è giustificato. In barba alle reali parole pronunciate dal Papa, alle precisazioni di Padre Lombardi e alle note dottrinali del Sant’Uffizio!

Ma mi veniva da fare anche un’altra considerazione. C’è qualcuno che si chiede se Benedetto XVI e il Card. Ratzinger siano la stessa persona. Talvolta, confesso, me lo sono chiesto anch’io. Ma poi ho allargato la riflessione al passato (ormai comincio a non essere piú tanto giovane), e mi sono accorto che quanto sta accadendo al pontificato di Benedetto XVI è, piú o meno, lo stesso che accadde anche al pontificato di Giovanni Paolo II. Anche allora, quante attese, quante speranze all’inizio del pontificato! E poi, a poco a poco, quel pontificato si appiattí sull’ortodossia del “politicamente corretto”. Ho l’impressione che stia succedendo la stessa cosa anche oggi. Non nascondo di essere stato fra i “tifosi” del Card. Ratzinger durante il conclave (nonostante che molti escludessero in maniera categorica la sua elezione). Non potete immaginare la gioia di vederlo alla loggia di San Pietro quel 19 aprile 2005. Ancora una volta tante attese, tante speranze… E ancora una volta mi pare che si stia compiendo il progressivo adeguamento al “politicamente corretto”. Non vorrei essere frainteso: non sto muovendo accuse né a Giovanni Paolo II né a Benedetto XVI; sto semplicemente facendo una constatazione e cercando di comprendere il motivo che può spiegarla.

Una risposta abbastanza semplice potrebbe essere: beh, man mano che si sale in alto, si ha una visione sempre piú ampia della realtà; certe cose che non si possono capire da soldati semplici, si riescono a capire una volta divenuti ufficiali. Può darsi che sia cosí. 

Non escluderei però che ci possa essere anche una spiegazione d’altro genere, diciamo di carattere “cospirativo” (sono un inguaribile complottista). Nessuno mi toglierà di mente che il Potere cerchi di attuare, nei confronti di ciascun pontificato, una sorta di “normalizzazione”. Che cos’è stato, in fondo, l’attentato a Giovanni Paolo II del 13 maggio 1981? Con Benedetto XVI non si è fatto ricorso alle armi da fuoco, ma ad armi non meno lesive (i processi mediatici): i primi cinque anni di pontificato sono stati un attacco continuo, che non può essere considerato casuale; è ovvio che dietro c’era una regia ben organizzata. 

A un certo punto, sia nel caso di Papa Wojtyla, sia nel caso di Papa Ratzinger, tutto è cambiato. Nel primo caso, la seconda parte del pontificato è stata una continua apoteosi, culminata nel “Santo subito!” dei funerali. Ora, non so se ve ne siate accorti, da qualche tempo le cose stanno cambiando anche per Benedetto XVI: gli attacchi sono improvvisamente cessati; il Corriere della sera sembra diventato un’edizione locale dell’Osservatore Romano e la BBC una sezione staccata della Radio Vaticana. Che cosa è successo? Il Papa sta semplicemente recitando lo stesso copione che era stato scritto per il suo predecessore (visita alle sinagoghe e alle moschee, visita ad Auschwitz e allo Yad Vashem, giornate di preghiera con le altre religioni, ecc.). Cosí va bene: questo è il Papa che piace a chi ha in mano le sorti dell’umanità. A questo punto Benedetto XVI può anche permettersi il lusso di fare il tradizionalista in campo liturgico: un po’ di folclore non guasta...

Che dire? Cosí va il mondo. E forse dobbiamo farci il callo. Dopo tutto, la Chiesa è sopravvissuta a due Giornate di Assisi; volete che non sopravviva alla terza?


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 condividiamo anche quanto riportato da unafides che  riporta un passo integrale dell'allora cardinale Ratzinger..... il quale non può certo contraddire se stesso.....


 leggiamo...

Preghiera multireligiosa e interreligiosa

Nell’epoca del dialogo e dell’incontro delle religioni è sorto inevitabilmente il problema se si possa pregare insieme gli uni con gli altri. A questo proposito oggi si distingue preghiera multireligiosa e interreligiosa. Il modello per la preghiera multireligiosa è offerto dalle due giornate mondiali di preghiera per la pace, nel 1986 e nel 2002, ad Assisi. Appartenenti a diverse religioni si radunano. […] Tuttavia le persone radunate sanno pure che il loro modo di intendere il “divino”, e quindi la loro maniera di rivolgersi a esso, sono così diversi che una preghiera comune sarebbe una finzione, non sarebbe nella verità. Esse si raccolgono per dare un segno del comune anelito [alla pace e alla giustizia, ndr], ma pregano – anche se in contemporanea – in sedi separate, ciascuno a modo proprio. […]


In riferimento ad Assisi – tanto nel 1986 quanto nel 2002 – ci si è chiesti ripetutamente e in termini molto seri se questo sia legittimo. La maggior parte della gente non penserà che si finge una comunanza che in realtà non esiste? Non si favorisce così il relativismo, l’opinione che in fondo siano solo differenze secondarie quelle che si frappongono tra le “religioni”? Non si indebolisce così la serietà della fede, non si allontana ulteriormente Dio da noi, non si consolida la nostra condizione di abbandono? Non si possono accantonare con leggerezza tali interrogativi.

I pericoli sono innegabili, e non si può negare che Assisi, particolarmente nel 1986, da molti sia stato interpretato in modo errato. Sarebbe però altrettanto sbagliato rifiutare in blocco e incondizionatamente la preghiera multireligiosa così come l’abbiamo descritta. A me sembra giusto legarla a condizioni che corrispondano alle esigenze intrinseche della verità della responsabilità di fronte ad una cosa così grande come è l’implorazione rivolta a Dio davanti a tutto il mondo.

Ne individuo due:

1. Tale preghiera multireligiosa non può essere la norma della vita religiosa, ma deve restare solo come un segno in situazioni straordinarie, in cui, per così dire, si leva un comune grido d’angoscia che dovrebbe riscuotere i cuori degli uomini e al tempo stesso scuotere il cuore di Dio.

2. Un tale avvenimento porta quasi necessariamente ad interpretazioni sbagliate, all’indifferenza rispetto al contenuto da credere o da non credere e in tal modo al dissolvimento della fede reale. Perciò avvenimenti del genere devono restare eccezionali, e dunque è della massima importanza chiarire accuratamente in che cosa consistano. Questo chiarimento, in cui deve risultare nettamente che non esistono le “religioni” in generale, che non esiste una comune idea di Dio e una comune fede in Lui, che la differenza non tocca unicamente l’ambito delle immagini e delle forme concettuali mutevoli, ma le stesse scelte ultime – questo chiarimento è importante, non solo per i partecipanti all’avvenimento, ma per tutti quelli che ne sono testimoni o comunque ne sono informati.
 
L’avvenimento deve presentarsi in sé stesso e davanti al mondo in modo talmente chiaro da non diventare dimostrazione di relativismo, perché si priverebbe da solo del suo senso.

Mentre nella preghiera multireligiosa si prega nello stesso contesto, ma separatamente, la preghiera interreligiosa significa un pregare insieme di persone o gruppi di diversa appartenenza religiosa. È possibile fare questo in tutta verità e onestà? Ne dubito.

Comunque devono essere garantite tre condizioni elementari, senza le quali tale pregare diverrebbe la negazione della fede:

1. Si può pregare insieme solo se sussiste unanimità su chi o che cosa sia Dio e perciò se c’è unanimità di principio su cosa sia il pregare: un processo dialogico in cui io parlo a un Dio che è in grado di udire ed esaudire. In altre parole: la preghiera comune presuppone che il destinatario, e dunque anche l’atto interiore rivolto a Lui, vengano concepiti, in linea di principio, allo stesso modo. Come nel caso di Abramo e Melchisedek, di Giobbe e di Giona, dev’essere chiaro che si parla col Dio unico che sta al di sopra degli dèi, col Creatore del cielo e della terra, col mio Creatore. Dev’essere chiaro dunque che Dio è “persona”, vale a dire che può conoscere ed amare; che può ascoltarmi e rispondermi; che Egli è buono ed è il criterio del bene, e che il male non fa parte di Lui. […]

2. Sulla base del concetto di Dio, deve sussistere pure una concezione fondamentalmente identica su ciò che è degno di preghiera e può diventare contenuto di preghiera. Io considero le richieste del Padre nostro il criterio di ciò che ci è consentito implorare da Dio, per pregare in modo degno di Lui. In esse si vede chi e come è Dio e chi siamo noi. Esse purificano la nostra volontà e fanno vedere con che tipo di volontà stiamo camminando verso Dio, e che genere di desideri ci allontana da Lui, ci metterebbe contro di Lui. Richieste che fossero in direzione opposta alle richieste del Padre nostro, per un cristiano non possono essere oggetto di preghiera interreligiosa, e di nessun tipo di preghiera.

3. L’avvenimento deve svolgersi nel suo complesso in modo tale che la falsa interpretazione relativistica di fede e preghiera non vi trovi alcun appiglio. Questo criterio non riguarda solo chi è cristiano, che non dovrebbe essere indotto in errore, ma alla stessa stregua anche chi non è cristiano, il quale non deve avere l’impressione dell’interscambiabilità delle “religioni” e che la professione fondamentale della fede cristiana sia di importanza secondaria e dunque surrogabile. Per evitare tale errore bisogna pure che la fede dei cristiani nell’unicità di Dio e in quella di Gesù Cristo, il Redentore di tutti gli uomini, non sia offuscata davanti a chi non è cristiano.

(tratto da J.Ratzinger, Fede, verità, tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena, 2003, pagg.110-114)



Caterina63
00martedì 4 gennaio 2011 00:05

Il Sultano sottopose a San Francesco D'Assisi un'altra questione:


FF. 2690-2691


II vostro Signore insegna nei Vangeli che voi non dovete rendere male per male, e non dovete rifiutare neppure il mantello a chi vuol togliervi la tonaca, dunque voi cristiani non dovreste imbracciare armi e combattere i vostri nemici;


rispose il beato Francesco:


"Mi sembra che voi non abbiate letto tutto il Vangelo. Il perdono di cui Cristo parla non è un perdono folle, cieco, incondizionato, ma un perdono meritato.

Gesù infatti ha detto: "Non date ciò che è santo ai cani e non gettate le vostre perle ai porci, perché non le calpestino e, rivoltandosi, vi sbranino". Infatti il Signore ha voluto dirci che la misericordia va dispensata a tutti, anche a chi non la merita, ma che almeno sia capace di comprenderla e farne frutto, e non a chi è disposto ad errare con la stessa tenacia e convinzione di prima.

Altrove, oltretutto, è detto: "Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo lontano da te”. E, con questo, Gesù ha voluto insegnarci che, se anche un uomo ci fosse amico o parente, o perfino fosse a noi caro come la pupilla dell'occhio, dovremmo essere disposti ad allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tentasse di allontanarci dalla fede e dall'amore del nostro Dio.


Proprio per questo, i cristiani agiscono secondo massima giustizia quando vi combattono, perché voi avete invaso delle terre cristiane e conquistato Gerusalemme, progettate di invadere l’Europa intera, oltraggiate il Santo Sepolcro, distruggete chiese, uccidete tutti i cristiani che vi capitano tra le mani, bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla sua religione quanti uomini potete.
Se invece voi voleste conoscere, confessare, adorare, o magari solo rispettare il Creatore e Redentore del mondo e lasciare in pace i cristiani, allora essi vi amerebbero come se stessi".


Approfondimenti:


Caterina63
00sabato 2 aprile 2011 12:48
Davvero monumentale la riflessione di padre Giovanni Scalese dal suo blog "senza peli sulla lingua" e che condividiamo in totos....


Extraterritorialità nella Chiesa?

Il Signor Benedetto Serra, dopo aver letto il mio post di due giorni fa, mi ha inviato un messaggio in cui pone un problema non di poco conto sul piano storico, teologico, canonico e pastorale:

«Ho letto con molto interesse il Suo post sul possibile fallimento dei colloqui con la Fraternità San Pio X, e gli altri echi che sui vari blog cattolici ha avuto l’articolo su Disputationes Theologicae. Volevo chiederLe se non ritiene che la concessione di un Ordinariato, sul modello di quello previsto nella Anglicanorum Coetibus per gli Anglicani, non vada a costituire una specie di abuso. Mi riallaccio anche a qualche Suo commento circa la riconciliazione con gli Ortodossi, sul fatto che il Papa non è il capo supremo dei Vescovi, ma è il Vescovo di Roma, primus inter pares, garanzia di unità ma non padrone assoluto di tutte le diocesi e di tutte le parrocchie. Non Le sembra che riconoscendo ai lefebvriani il diritto ad un Ordinariato, e quindi il diritto a essere indipendenti dai Vescovi diocesani, il Papa non scavalchi in questo modo l’autorità dei Vescovi? E non Le sembra che il riconoscimento di un Ordinariato non sia una violazione dell’autorità del Vescovo? Non so nulla di diritto canonico, e non so quindi quali privilegi abbiano gli ordini religiosi, cui Lei fa riferimento nel suo post. Evidentemente, se capisco bene, perfino gli istituti religiosi hanno spesso dovuto soffrire il rapporto con i Vescovi … Nel caso degli Anglicani erano comunque dei cristiani fuori (da secoli) dalla Chiesa cattolica, e non sottoposti all’autorità dei Vescovi, per cui l’Ordinariato in realtà non cambia molto la situazione. Ma nel caso dei lefebvriani questo non è vero. E si rischia di introdurre nelle diocesi dei gruppi “indipendenti”, estremamente polemici ed aggressivi con l’autorità diocesana, protetti da questa specie di status di “extraterritorialità”, che non hanno fatto niente per meritarsi».

Innanzi tutto, una precisazione: non mi pare di aver mai affermato che «il Papa non è il capo supremo dei Vescovi, ma è il Vescovo di Roma, primus inter pares, garanzia di unità ma non padrone assoluto di tutte le diocesi e di tutte le parrocchie». È vero che egli è il Vescovo di Roma, ma ciò non toglie che egli sia anche il “capo del Collegio dei Vescovi” (can. 331) e perciò non possa essere considerato semplicemente un “primus inter pares”, dal momento che gode di un primato non solo onorifico, ma giurisdizionale sui suoi fratelli Vescovi ed esercita su tutta la Chiesa (quindi su tutte le diocesi, su tutte le parrocchie e su tutti i fedeli) una “potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale” (ibid.). Il problema che oggi si pone, soprattutto a livello ecumenico, non riguarda tanto l’affermazione di tale primato (che non può in alcun modo essere messa in discussione), quanto piuttosto il suo concreto esercizio.

E su questo piano si pongono le osservazioni piú che pertinenti del Signor Serra. È opportuna l’istituzione di un ulteriore “Ordinariato personale”? Non sono sufficienti l’Ordinariato di Nostra Signora di Walsingham e la Prelatura personale dell’Opus Dei? Se si continua su questa strada non si rischia di stravolgere la naturale struttura della Chiesa? Penso che non sia facile dare una risposta netta a tali domande; non si può rispondere semplicemente con un sí o con un no. Credo che si debba prendere il problema un po’ alla larga.

Penso che sia opportuno ricordare l’esistenza, nella Chiesa, di alcune ineliminabili “polarità”. La prima è quella fra la dimensione istituzionale o gerarchica e la dimensione pneumatica o carismatica. È vero che la Chiesa è stata istituita da Cristo, il quale le ha dato una organizzazione gerarchica; ma è altrettanto vero che lo Spirito continua ad agire nella Chiesa, distribuendo liberamente i suoi carismi e suscitando in essa nuove forme di vita evangelica. È vero che queste due dimensioni sono fra loro interconnesse; ma è altrettanto vero che nessuna delle due può essere semplicemente ridotta all’altra.

Una seconda polarità è quella esistente fra la Chiesa particolare e la Chiesa universale: se è vero che una diocesi non può essere considerata semplicemente una forma di “decentramento” della Chiesa universale (e il Vescovo non può essere considerato una sorta di “funzionario”, di rappresentante locale del Papa); è altrettanto vero che la Chiesa universale non può essere considerata semplicemente la “somma” delle Chiese particolari o una loro “federazione” (e il Papa il suo “presidente”). 

Connessa con questa, esiste poi la polarità fra collegialità e primato: è vero che l’autorità suprema della Chiesa risiede, collegialmente, nel Collegio dei Vescovi (il cui capo è il Papa); ma è altrettanto vero che la medesima autorità risiede, individualmente, nel Romano Pontefice.

Tali polarità vanno accettate cosí come sono. La tentazione è sempre quella di semplificare, eliminando uno dei due “poli” (gli “opposti estremismi” di chi vuole solo la Chiesa istituzionale o solo la Chiesa carismatica, solo la Chiesa particolare o solo la Chiesa universale, solo la collegialità o solo il primato); ma ciò non è possibile: Cristo ha voluto cosí la Chiesa e cosí dobbiamo tenercela. È ovvio che l’esistenza di tali polarità provocherà inevitabilmente delle tensioni; ma la soluzione a tali tensioni non starà mai nell’eliminazione di uno dei poli, ma nella loro composizione. Ciò che va fatto è la ricerca continua di un difficile equilibrio. Per dirla con Vittorio Messori: non l’aut-aut, ma l’et-et.

È proprio questo ciò che distingue la Chiesa cattolica dalle comunità ecclesiali non-cattoliche: lo sforzo di tenere insieme le spinte centrifughe che inevitabilmente si generano al suo interno. Che cosa avviene nel mondo della Riforma? Non appena sorge un qualche leader carismatico, nasce una nuova “chiesa”. Nella Chiesa cattolica, al contrario, un tempo nasceva un ordine religioso; oggi, un movimento ecclesiale

Visto che abbiamo accennato agli ordini religiosi, va ricordato che essi, grazie all’istituto dell’esenzione, sono sempre stati dei preziosi strumenti in mano al Papa per esercitare il suo primato universale sulla Chiesa (va anche detto che, se non fosse stato per il papato, la stragrande maggioranza degli ordini religiosi oggi non esisterebbe). Cosí come ai nostri giorni l’appello alla “nuova evangelizzazione” è stato accolto quasi esclusivamente dai movimenti ecclesiali (i quali esistono solo grazie alla protezione del Sommo Pontefice e se ne fanno i primi ambasciatori).

Venendo ora al nostro problema delle circoscrizioni ecclesiastiche territoriali o personali, ci troviamo di fronte a un ulteriore tipo di polarità, in qualche modo connesso con i precedenti. Anche in questo caso credo che la soluzione non stia nell’aut-aut, ma nell’et-et. È vero che l’attuale Codice di diritto canonico, quando parla delle Chiese particolari, prevede solo circoscrizioni di tipo territoriale (can. 368). Ciò corrisponde all’organizzazione originaria della Chiesa (ed è per questo che gli Ortodossi, specialmente i russi, insistono tanto sul “territorio canonico” di una determinata Chiesa e non ammettono la presenza, sul medesimo territorio, di un’altra Chiesa).

Ma è altrettanto vero che, col passare dei secoli, si è avuta nella Chiesa un’evoluzione che, senza eliminare tale organizzazione, ha ammesso l’esistenza di strutture “personali”: tali sono, appunto, gli ordini religiosi; ma l’attuale Codice di diritto canonico — non nella parte dedicata alla costituzione gerarchica della Chiesa, ma in quella dedicata ai fedeli — prevede la costituzione di prelature personali (cann. 294-297). Esistono inoltre Ordinariati militari (che sono praticamente delle diocesi personali); esistono delle parrocchie personali (non solo quelle previste nel m. p. Summorum Pontificum per i fedeli tradizionalisti; esistono anche parrocchie “nazionali”: per esempio, la parrocchia dei Barnabiti a San Diego è una parrocchia personale per la comunità italiana); ora sono stati istituiti gli Ordinariati personali per gli Anglicani.

È un bene? è un male? Mi rendo conto che, se si eccedesse su questa linea, si potrebbe realmente stravolgere la struttura originaria della Chiesa. Ma, finché si tratta di rispondere a delle esigenze oggettive, penso che non possa che essere un fatto positivo. Si tratterà di valutare caso per caso. Chi deve farlo? Certamente non io; e neppure i singoli Vescovi; ma il Sommo Pontefice.
Un criterio molto equilibrato da seguire mi sembra quello previsto dal Codice di diritto canonico per le prelature personali
:

«Al fine di promuovere un’adeguata distribuzione dei presbiteri o di attuare speciali opere pastorali o missionarie per le diverse regioni o per le diverse categorie sociali, la Sede Apostolica può erigere prelature personali formate da presbiteri e da diaconi del clero secolare, udite le Conferenze dei Vescovi interessati» (can. 294).

Che dire a proposito del caso presente? Chi deve giudicare è soltanto il Papa. Da parte mia, posso solo dire che, se questo può servire per evitare uno scisma, ben venga. Ciò non significa che non mi renda conto dei problemi che ciò potrebbe creare; ma io sono stato sempre del parere che i problemi, almeno finché viviamo su questa terra, non possono essere evitati; essi vanno piuttosto “gestiti”.

La Chiesa non può essere considerata una caserma; i cristiani non possono essere irreggimentati. Quante volte ho ripetuto che nella Chiesa c’è posto per tutti e — aggiungo ora — se non c’è, bisogna trovarlo! L’unica cosa che bisogna pretendere è che nessuno si senta esclusivo e indispensabile: l’unica cosa da chiedere ai lefebvriani è che non pretendano che tutti, nella Chiesa, diventino come loro; ma se vogliono fare, nella Chiesa, l’esperienza della tradizione, lasciamogliela fare liberamente, e cerchiamo di evitare che qualcuno possa impedirglielo. 

Il mondo, nell’era della globalizzazione, sta diventando sempre piú complesso; è inevitabile che anche la Chiesa rifletta tale complessità, ed è inevitabile che essa adegui le proprie strutture a tale complessità. Che sullo stesso territorio possano insistere diverse giurisdizioni, credo che stia diventando pressoché inevitabile: proprio l’Oriente ci dimostra che nel medesimo territorio possono esistere piú Chiese e molteplici riti; probabilmente anche in Occidente dovremo pian piano abituarci a questo tipo di pluralismo. 

La moltiplicazione di strutture personali non finisce per rafforzare ulteriormente il primato romano, a danno delle diocesi, e creare problemi sul piano ecumenico? Anche questa la considero una  tendenza abbastanza inevitabile. Il mondo si sta unificando; è inevitabile che anche nella Chiesa l’autorità centrale si rafforzi. Ma questo sta già avvenendo, a prescindere dagli Ordinariati personali: i viaggi apostolici non sono forse la riaffermazione del primato pontificio? E allora, che facciamo? Li eliminiamo? E i mezzi di comunicazione che ci permettono di seguire l’insegnamento e l’attività del Papa in ogni parte del mondo non finiscono per rafforzare il primato? Che facciamo? Lo impediamo? Certi fenomeni sono piú grandi di noi; possiamo tenerli sotto controllo, ma non possiamo evitarli. Dobbiamo semmai saper leggere i “segni dei tempi” e vedere in essi il soffio dello Spirito e… adeguare, se necessario, le nostre strutture. Non dimentichiamo mai che il diritto è fatto per l’uomo e non l’uomo per il diritto.





Caterina63
00mercoledì 2 gennaio 2013 11:47

Dialogare o Evangelizzare?

01.01.2013 22:45

 

 

 

 

Apriamo il Nuovo Anno con un articolo che parte dalle parole del Pontefice nel suo Discorso alla Curia di questo Natale 2012:

 

"Per l’essenza del dialogo interreligioso, oggi in genere si considerano fondamentali due regole:

1. Il dialogo non ha di mira la conversione, bensì la comprensione. In questo si distingue dall’evangelizzazione, dalla missione.

2. Conformemente a ciò, in questo dialogo ambedue le parti restano consapevolmente nella loro identità, che, nel dialogo, non mettono in questione né per sé né per gli altri.
Queste regole sono giuste. Penso, tuttavia, che in questa forma siano formulate troppo superficialmente.

Sì, il dialogo non ha di mira la conversione, ma una migliore comprensione reciproca: ciò è corretto. La ricerca di conoscenza e di comprensione, però, vuole sempre essere anche un avvicinamento alla verità. Così, ambedue le parti, avvicinandosi passo passo alla verità, vanno in avanti e sono in cammino verso una più grande condivisione, che si fonda sull’unità della verità.
Per quanto riguarda il restare fedeli alla propria identità: sarebbe troppo poco se il cristiano con la sua decisione per la propria identità interrompesse, per così dire, in base alla sua volontà, la via verso la verità.

Allora il suo essere cristiano diventerebbe qualcosa di arbitrario, una scelta semplicemente fattuale. Allora egli, evidentemente, non metterebbe in conto che nella religione si ha a che fare con la verità.

Rispetto a questo direi che il cristiano ha la grande fiducia di fondo, anzi, la grande certezza di fondo di poter prendere tranquillamente il largo nel vasto mare della verità, senza dover temere per la sua identità di cristiano.

Certo, non siamo noi a possedere la verità, ma è essa a possedere noi: Cristo, che è la Verità, ci ha presi per mano...."

***

Non nascondiamo alcuni punti apparentemente "ambigui" del Discorso del Pontefice, parole che ben facilmente si prestano a strumentali interpretazioni di comodo, soprattutto sincretiste se ci si fermasse ai due punti citati, ma naturalmente non ne facciamo una colpa al Papa dal momento che il fine e lo scopo delle sue parole non si fermano lì. In fondo egli sta spiegando la situazione di una forma di dialogo che, laddove è necessaria per creare amicizie, incontri, rispetto, fiducia, dall'altra parte è andata ben oltre l'intenzione medesima del Cristo nei Vangeli, e il Papa stesso richiama alle responsabilità del fedele quanto del Clero.

Non pochi fra Clero e fedeli laici ci si ferma al punto: Il dialogo non ha di mira la conversione,  e davanti ad una affermazione del genere non possiamo non chiederci: ma allora, perché il Battesimo è necessario? Perché "dobbiamo" evangelizzare e patire come Cristo? Perché farsi Cattolici?

Possiamo forse rispondere che "siamo chiamati, battezzati e fatti cristiani", chiamati a dare la propria vita per servire il dialogo? Naturalmente no!

Ed infatti il dialogo non ha di mira la conversione! Lo stesso Pontefice specifica: "In questo (- il dialogo) si distingue dall’evangelizzazione, dalla missione".

Ed è vero: distinzione si, separazione no!

E' Gesù che sceglie chi mandare in missione, chi mandare ad evangelizzare, non siamo noi gli iniziatori, noi siamo responsabili di un rifiuto o di una accettazione: "Non vos me elegistis, sed ego elegi vos et posui vos, ut vos eatis et fructum afferatis, et fructus vester maneat / Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga" (Gv.15,16).

Il "frutto" non è nostro, ma è della vite, quindi è di Cristo, e chi viene chiamato a lavorare nella vigna deve lavorare per quella Vite, la vigna è del Signore.

L'essere così in "possesso della Verità " è un relazionarsi in Cristo=Verità, nell'ambito di quell'essere "costituiti-innestati" all'interno, appunto, della Chiesa per rendere un servizio al prossimo, al mondo, al regno di Dio che viene.

 

Il 2 settembre 2012, Benedetto XVI ha tenuto una interessante Omelia nel suo annuale incontro con gli ex-studenti, proferendo queste parole:

"Conviene, quindi, alla Chiesa, come per Israele, essere piena di gratitudine e di gioia. «Quale popolo può dire che Dio gli sia così vicino? Quale popolo ha ricevuto questo dono?».

 Non lo abbiamo fatto noi, ci è stato donato. Gioia e gratitudine per il fatto che lo possiamo conoscere, che abbiamo ricevuto la saggezza del vivere bene, che è ciò che dovrebbe caratterizzare il cristiano. Infatti, nel Cristianesimo delle origini era così: l’essere liberato dalle tenebre dell’andare a tastoni, dell’ignoranza - che cosa sono? perché sono? come devo andare avanti? -, l’essere diventato libero, l’essere nella luce, nell’ampiezza della verità. Questa era la consapevolezza fondamentale. Una gratitudine che si irradiava intorno e che così univa gli uomini nella Chiesa di Gesù Cristo.

"Ma anche nella Chiesa c’è lo stesso fenomeno: elementi umani si aggiungono e conducono o alla presunzione, al cosiddetto trionfalismo che vanta se stesso invece di dare la lode a Dio, o al vincolo, che bisogna togliere, spezzare e schiacciare.

Che dobbiamo fare? Che dobbiamo dire? Penso che ci troviamo proprio in questa fase, in cui vediamo nella Chiesa solo ciò che è fatto da se stessi, e ci viene guastata la gioia della fede; che non crediamo più e non osiamo più dire: Egli ci ha indicato chi è la verità, che cos’è la verità, ci ha mostrato che cos’è l`uomo, ci ha donato la giustizia della vita retta. Noi siamo preoccupati di lodare solo noi stessi, e temiamo di farci legare da regolamenti che ci ostacolano nella libertà e nella novità della vita.

"Se leggiamo oggi, ad esempio, nella Lettera di Giacomo: «Siete generati per mezzo di una parola di verità», chi di noi oserebbe gioire della verità che ci è stata donata?

 Ci viene subito la domanda: ma come si può avere la verità? Questo è intolleranza! L’idea di verità e di intolleranza oggi sono quasi completamente fuse tra di loro, e così non osiamo più credere affatto alla verità o parlare della verità. Sembra essere lontana, sembra qualcosa a cui è meglio non fare ricorso.

 Nessuno può dire: ho la verità – questa è l’obiezione che si muove – e, giustamente, nessuno può avere la verità. E’ la verità che ci possiede, è qualcosa di vivente! Noi non siamo suoi possessori, bensì siamo afferrati da lei. Solo se ci lasciamo guidare e muovere da lei, rimaniamo in lei, solo se siamo, con lei e in lei, pellegrini della verità, allora è in noi e per noi.

 Penso che dobbiamo imparare di nuovo questo «non-avere-la-verità». Come nessuno può dire: ho dei figli – non sono un nostro possesso, sono un dono, e come dono di Dio ci sono dati per un compito - così non possiamo dire: ho la verità, ma la verità è venuta verso di noi e ci spinge. Dobbiamo imparare a farci muovere da lei, a farci condurre da lei. E allora brillerà di nuovo: se essa stessa ci conduce e ci compenetra..."

(Omelia Santa Messa 2.9.2012 Benedetto XVI - Ratzinger Schülerkreis)

 

Insomma: dobbiamo dialogare si o no?

Dobbiamo "convertire" o no?

 

Il dialogo non è conversione o convertire, ma per un cattolico il dialogare è uno strumento non il fine, ed  ha uno scopo ben preciso:

Instaurare omnia in Christo”....

Con queste parole San Pio X iniziava il suo Pontificato all'inizio del '900.

Quale significato ha per noi oggi questa verità? Lo spiegava bene Giovanni Paolo II quando nel 1993 andò a visitare la Parrocchia romana dedicata a san Pio X:

"San Pio X ha trovato queste parole: “Instaurare omnia in Christo”.

“Instaurare”, innovare, cercare in Lui sempre il recupero, l’instaurazione, la restaurazione di quello che è giusto, che è umano, che è pacifico, che è bello, che è sano e che è santo.

“Instaurare omnia” e “omnia” vuol dire la vita personale, la vita delle famiglie".

 

Dice ancora Benedetto XVI:

" Il linguaggio della fede spesso è molto lontano dalla gente di oggi; può avvicinarsi soltanto se diviene in noi il linguaggio del nostro tempo..." (13.5.2005)

Cosa vuol dire?

Innanzi tutto vuol dire che la Parola di Dio non può essere adeguata alle mode del momento con nuove interpretazioni di comodo, ma deve diventare "il linguaggio del nostro tempo" di ogni tempo, ossia è l'uomo che deve adeguarsi alla Parola, alla vera dottrina che non è affatto un "monopolio" della Gerarchia Cattolica modificabile a seconda di certi poteri occulti che si agitano nel tempo e nella storia.

 

Il giorno di Pentecoste gli Apostoli parlarono in lingue ma attenzione perché in quel "parlare in lingue" non c'è esclusivamente la lingua straniera come da molti è concepito, ma intende anche una "comprensione degli avvenimenti" appena accaduti.

Dice infatti sant'Agostino (e così comprendiamo anche le parole di Benedetto XVI):

" Nel giorno di Pentecoste lo Spirito Santo scese su centoventi persone, tra cui erano gli Apostoli, che si trovavano riuniti insieme. Quando gli Apostoli, ricolmi di Spirito Santo, cominciarono a parlare la lingua di tutte le genti, molti di coloro che lo avevano odiato, stupefatti per un tale prodigio (infatti si trovavano davanti a Pietro che con la sua parola rendeva a Cristo una testimonianza grandiosa e divina, dimostrando che colui che essi avevano ucciso e credevano morto era invece risuscitato ed era ben vivo), toccati nel profondo del cuore, si convertirono e ottennero il perdono d'aver versato quel sangue divino con tanta empietà e crudeltà e da quel medesimo sangue, che avevano versato, furono redenti (cf. At 2, 2).

Il sangue di Cristo, versato per la remissione di tutti i peccati, possiede, infatti, una tale efficacia che può cancellare anche il peccato di chi lo ha versato. Ed è appunto a questo fatto che alludeva il Signore con le parole: Mi hanno odiato senza ragione. Quando verrà il Paracleto, egli mi renderà testimonianza, come dire: Vedendomi, mi hanno odiato e ucciso; ma il Paracleto mi renderà una tale testimonianza che li farà credere in me senza vedermi". (Omelia 92)

E ancora, dice sant'Agostino:

"...la verità evangelica è stata a noi comunicata dal Verbo di Dio, che rimane eterno e immutabile al di sopra di ogni creatura, mediante l'opera di creature umane e attraverso segni e lingue umane. Questa comunicazione ha raggiunto nel Vangelo il più alto vertice dell'autorevolezza" (Il consenso degli Evangelisti - Libro Secondo).

 

Nella Messa Crismale del 2009 il Papa, rivolgendosi al Clero pone nove domande precise

“Siamo veramente pervasi dalla parola di Dio?

È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto non lo siano il pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero? La amiamo?

Ci occupiamo interiormente di questa parola al punto che essa realmente dà un’impronta alla nostra vita e forma il nostro pensiero?

O non è piuttosto che il nostro pensiero sempre di nuovo si modella con tutto ciò che si dice e che si fa?

Non sono forse assai spesso le opinioni predominanti i criteri secondo cui ci misuriamo?

Non rimaniamo forse, in fin dei conti, nella superficialità di tutto ciò che, di solito, s’impone all’uomo di oggi?

Ci lasciamo veramente purificare nel nostro intimo dalla parola di Dio?”

(Benedetto XVI Santa Messa Crismale - Giovedì Santo 9 aprile 2009)

 

Del resto, il Papa stesso aveva obiettato il 25 maggio 2006 durante il suo viaggio in Polonia:

“Dai sacerdoti i fedeli attendono soltanto una cosa: che siano degli specialisti nel promuovere l’incontro dell’uomo con Dio. Al sacerdote non si chiede di essere esperto in economia, in edilizia o in politica. Da lui ci si attende che sia esperto nella vita spirituale (…) Siate autentici nella vostra vita e nel vostro ministero. Fissando Cristo, vivete una vita modesta, solidale con i fedeli a cui siete mandati. Servite tutti; se vivrete di fede, lo Spirito Santo vi suggerirà cosa dovrete dire e come dovrete servire”.

Dunque, non solo lo sguardo sempre rivolto a Dio e quindi piegato poi verso l'umanità, ma di conseguenza anche ogni forma di dialogo deve avere questa impronta, questo sguardo rivolto a Dio e non a un dio qualunque, o ad una immagine astratta di chiesa o persino una immagine del Cristo modellata a seconda delle nostre opinioni personali.

 

Per questo, dice durante la Messa Crismale del 2008:

“Il sacerdote deve essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene”.

I mezzi per la “perfezione” sono noti a ogni presbitero: Eucaristia, fedeltà a una preghiera profonda, formazione permanente. Il Papa ne parla quasi ogni settimana, quando le stanze della sua casa si riempiono di vescovi di tutto il mondo che vengono a raccontargli delle loro Chiese particolari. Ma è possibile fin qui individuare un concetto su tutti, il leit-motiv che - secondo Benedetto XVI - “fa” il sacerdote, come dichiara il 13 maggio 2005, nel tradizionale incontro con il clero romano:

“Tutto ciò che è costitutivo del nostro ministero non può essere il prodotto delle nostre capacità personali (…) Siamo mandati non ad annunciare noi stessi o nostre opinioni, ma il mistero di Cristo e, in Lui, la misura del vero umanesimo. Siamo incaricati non di dire molte parole, ma di farci eco e portatori di una sola 'Parola', che è il Verbo di Dio fatto carne per la nostra salvezza”.

 

Ricapitolando:

il dialogo non è lo scopo, non è il fine, ma uno strumento per l'evangelizzazione il cui scopo e fine è l'incontro con la Verità. Il vero dialogo deve "toccare nel profondo del cuore l'altro, e condurlo alla conversione", ossia, ascoltare Cristo, crederGli, abbracciarLo.

 

Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Pace del 2006 scrive:

"E allora, chi e che cosa può impedire la realizzazione della pace? A questo proposito, la Sacra Scrittura mette in evidenza nel suo primo Libro, la Genesi, la menzogna, pronunciata all'inizio della storia dall'essere dalla lingua biforcuta, qualificato dall'evangelista Giovanni come « padre della menzogna » (Gv 8,44).

La menzogna è pure uno dei peccati che ricorda la Bibbia nell'ultimo capitolo del suo ultimo Libro, l'Apocalisse, per segnalare l'esclusione dalla Gerusalemme celeste dei menzogneri: « Fuori... chiunque ama e pratica la menzogna! » (22,15).

Alla menzogna è legato il dramma del peccato con le sue conseguenze perverse, che hanno causato e continuano a causare effetti devastanti nella vita degli individui e delle nazioni. (..) Come non restare seriamente preoccupati, dopo tali esperienze, di fronte alle menzogne del nostro tempo, che fanno da cornice a minacciosi scenari di morte in non poche regioni del mondo? L'autentica ricerca della pace deve partire dalla consapevolezza che il problema della verità e della menzogna riguarda ogni uomo e ogni donna, e risulta essere decisivo per un futuro pacifico del nostro pianeta".

 

***

Il dialogo è perciò la condivisione della Verità, mettendo a nudo la menzogna, così dice il Profeta:

"Se io dico al malvagio: Tu morirai! e tu non lo avverti e non parli perché il malvagio desista dalla sua condotta perversa e viva, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma della sua morte io domanderò conto a te.

Ma se tu ammonisci il malvagio ed egli non si allontana dalla sua malvagità e dalla sua perversa condotta, egli morirà per il suo peccato, ma tu ti sarai salvato. Così, se il giusto si allontana dalla sua giustizia e commette l'iniquità, io porrò un ostacolo davanti a lui ed egli morirà; poiché tu non l'avrai avvertito, morirà per il suo peccato e le opere giuste da lui compiute non saranno più ricordate; ma della morte di lui domanderò conto a te. Se tu invece avrai avvertito il giusto di non peccare ed egli non peccherà, egli vivrà, perché è stato avvertito e tu ti sarai salvato". (Ezec.3,18-21)

 

L'impegno della Chiesa ad annunciare il Vangelo, ha ripetuto il Papa nell'Omelia del Te Deum 31.12.2012: "è tanto più necessario quando la fede rischia di oscurarsi in contesti culturali che ne ostacolano il radicamento personale e la presenza sociale" e in "stili di vita improntati all'individualismo e al relativismo etico".

 

Non sia dunque turbato il nostro cuore di fronte alla Verità di questa Pace che è fuoco, dice infatti Gesù: "Ignem veni mittere in terram et quid volo. Si iam accensus esset!  / Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!" (Lc.12,49).

 

Perché attraverso la Chiesa? Chi lo dice?

Lo dice Gesù le cui parole riportiamo dall'introduzione del Documento Dominus Jesus:

" Il Signore Gesù, prima di ascendere al cielo, affidò ai suoi discepoli il mandato di annunciare il Vangelo al mondo intero e di battezzare tutte le nazioni: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,15-16); «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,18-20; cf. anche Lc 24,46-48; Gv 17,18; 20,21; At 1,8).

La missione universale della Chiesa nasce dal mandato di Gesù Cristo e si adempie nel corso dei secoli nella proclamazione del mistero di Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, e del mistero dell'incarnazione del Figlio, come evento di salvezza per tutta l'umanità".

 ***

Questo è lo scopo del "dialogo" con i non cattolici!

Gesù non ha comandato: «Andate in tutto il mondo e dialogate con ogni creatura condividendo la fede di tutti.»

Il vero dialogo rispettoso dell'altro non può essere separato da questo che è invece il comando di Gesù: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato».

Seppure resta chiara la distinzione del dialogare dalla missione evangelizzatrice, resta palese che la Chiesa, il cattolico stesso che "vive nel mondo" è invitato a dialogare per "preparare il terreno" (la chiamata) alla semina del Vangelo.

L'opera di conversione non spetta a noi, ma al Cristo, è Lui che fa crescere e maturare.

Del resto è la Verità che rende liberi, mentre la menzogna rende schiavi; perché la menzogna ha un  fascino perverso e pervertitore, possiede un potere diabolico sugli animi, si accredita con l’opinione e la dittatura del relativismo, si afferma e si consolida con l’uso di un falso e perverso dialogo, assume tutte le apparenze della verità, presto o tardi giunge a sottomettere chi rifiuta la Verità, e acquista sugli animi un dominio anche indistruttibile se non si previene smascherandola, denunciandola, condannandola.

 

Se dunque noi non dialoghiamo per seminare il Logos, cosa deve far crescere il Cristo: le nostre chiacchiere, le nostre ideologie, le nostre vane parole?

Per dialogare non serviva fondare la Chiesa, non serviva finire sulla Croce.

 

"...chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia” (Mt 7, 15.23).

L’opera di santificazione in noi è manifestata non dai “carismi”, dal dialogo fine a se stesso, dal volemose bene a tutti i costi, ma dai “frutti” (le conversioni), le chiacchiere stanno a zero. I carismi, così come il dialogo sono strumenti a servizio della santificazione nostra e del prossimo, ma non sono il segno di averla già raggiunta. L’albero buono non si riconosce nella produzione di “carismi o da quanto è prodigo nel dialogo”, ma per i “frutti”, e i frutti sono la trasformazione che lo Spirito Santo produce dentro l'uomo: la conversione, la santificazione, vero scopo del dialogo. Gesù è il vero Maestro del dialogo, ma tratta duramente coloro che avendo ricevuto ed usato i carismi non producono frutti dello Spirito Santo e quindi non costruiscono la loro casa sulla roccia, ossia su di Lui.

Leggiamo infatti ancora nella Dominus Jesus:

" La risposta adeguata alla rivelazione di Dio è «l'obbedienza della fede(cf. Rm 1,5; Rm 16,26; 2 Cor 10,5-6), per la quale l'uomo si abbandona a Dio tutto intero liberamente, prestando il “pieno ossequio dell'intelletto e della volontà a Dio che rivela” e dando il proprio assenso volontario alla rivelazione fatta da lui»".

 

La priorità dell'evangelizzazione nel Messaggio del Papa per la Giornata Mondiale Missionaria 2012 è la seguente:

  "Il mandato di predicare il Vangelo (...) deve coinvolgere tutta l'attività della Chiesa particolare, tutti i suoi settori, in breve, tutto il suo essere e il suo operare. Il Concilio Vaticano II lo ha indicato con chiarezza e il Magistero successivo l'ha ribadito con forza. Ciò richiede di adeguare costantemente stili di vita, piani pastorali e organizzazione diocesana a questa dimensione fondamentale dell'essere Chiesa, specialmente nel nostro mondo in continuo cambiamento. (...) Tutte le componenti del grande mosaico della Chiesa devono sentirsi fortemente interpellate dal mandato del Signore di predicare il Vangelo, affinché Cristo sia annunciato ovunque. Noi Pastori, i religiosi, le religiose e tutti i fedeli in Cristo, dobbiamo metterci sulle orme dell'apostolo Paolo, il quale (...) ha lavorato, sofferto e lottato per far giungere il Vangelo in mezzo ai pagani, senza risparmiare energie, tempo e mezzi per far conoscere il Messaggio di Cristo". (...)

 

“Il mistero dell’iniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene. Solo allora sarà rivelato l’empio e il Signore Gesù lo distruggerà con il soffio della sua bocca e lo annienterà all’apparire della sua venuta, l’iniquo, la cui venuta avverrà nella potenza di satana, con ogni specie di portenti, di segni e prodigi menzogneri, e con ogni sorta di empio inganno per quelli che vanno in rovina perché non hanno accolto l’amore della verità per essere salvi. E per questo Dio invia loro una potenza d’inganno perché essi credano alla menzogna e così siano condannati tutti quelli che non hanno creduto alla verità, ma hanno acconsentito all’iniquità”. (2 Tessalonicesi 2, 7-12).

 

"Ecce venio cito, et merces mea mecum est, reddere unicuique sicut opus eius est.

Ego Alpha et Omega, primus et novissimus, principium et finis.

Beati, qui lavant stolas suas, ut sit potestas eorum super lignum vitae, et per portas intrent in civitatem.

Foris canes et venefici et impudici et homicidae et idolis servientes et omnis, qui amat et facit mendacium! /

Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere.

Io sono l'Alfa e l'Omega, il Primo e l'Ultimo, il principio e la fine.

Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all'albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. 

Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolàtri e chiunque ama e pratica la menzogna! " (Ap.22,15)

 

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