Sant' Ignazio di Loyola 1491 - 31 luglio 1556

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Caterina63
00sabato 6 febbraio 2016 21:26
  Sant’Ignazio di Loyola e la Compagnia di Gesù

 




Ignazio (in basco Íñigo) López nacque a Loyola intorno al 1491 e morì a Roma il 31 luglio del 1556 (canonizzato il 12 marzo 1622 da Papa Gregorio XV).Ultimo di tredici figli, faceva parte di una nobile famiglia che abitava un piccolo castello nella regione basca. Pur destinato al sacerdozio, egli non aveva la vocazione: leggeva continuamente romanzi cavallereschi e decise così di intraprendere la carriera militare, conducendo per un certo tempo la vita avventurosa e anche dissipata del soldato (un po’ come san Francesco). E, come per san Francesco, accadde un episodio che modificò per sempre la sua vita: combattendo nel 1521 nell’esercito del giovane Re di Spagna e Imperatore del Sacro Romano Impero Carlo V d’Asburgo, nella celebre battaglia di Pamplona contro i francesi venne ferito gravemente. Con le gambe fracassate, Ignazio fu costretto ad una lunga e dolorosa degenza. Ritornato al castello di famiglia, non essendoci più romanzi cavallereschi da leggere e non sapendo come trascorrere il tempo, si fece dare da una sua cognata due vecchi libri: una Vita di Gesù e una raccolta di Vite di Santi. Ignazio li lesse e la sua vita cambiò per sempre. E con essa la storia della Chiesa e della Cristianità.

Ignazio comprese che il Signore voleva che restasse soldato, ma un soldato diverso, un soldato di Cristo. Ai piedi della Madonna di Monserrat lasciò i vestiti di cavaliere e le armi. Si ritirò per mesi in preghiera e penitenza nella grotta di Manresa, dove secondo la tradizione la Vergine Ss.ma gli ispirò la sua opera celeberrima, Gli Esercizi spirituali; quindi andò in pellegrinaggio in Terrasanta. Poi decise di approfondire la propria fede. Riprese i libri e studiò prima a Barcellona, poi alla Sorbona a Parigi, dove si laureò e dove iniziò in concreto il suo apostolato. Infatti, egli ebbe subito la percezione di quanto l’infezione luterana stesse dilagando, specie tra alcuni docenti e molti studenti. Comprese allora quale sarebbe stata la sua missione in questo mondo: difendere la Chiesa e la Verità dall’eresia protestante.

 

Ad Majorem dei Gloriam

Con i suoi primi 9 compagni, il 15 agosto 1534, nella chiesa parigina di Saint Pierre de Montmartre, fece voto di vivere in povertà e in castità, di servire totalmente il Papa e fondò un nuovo ordine religioso, cui diede il militaresco nome di Compagnia di Gesù. Motto dell’ordine fu: “Ad Majorem Dei gloriam”.

Sempre come san Francesco, decise di venire a Roma per avere la definitiva approvazione papale sia del nuovo Ordine che della regola. Giunto alla collina della Storta, nei pressi di Roma, ebbe la visione del Sacro Cuore, con la scritta: “Propitius ero tibi Romae” (“Ti sarò propizio a Roma”): da questo evento si innestò il culto del Sacro Cuore in ambiente gesuitico. E da qui scaturisce anche la decisione di rimanere per sempre nella capitale della Cristianità.

Papa Paolo III approvò l’Ordine nel 1540; più tardi Ignazio, nominato “generale” della Compagnia, scrisse per essa le Costituzioni e gli Esercizi spirituali: le pratiche di meditazione e di educazione all’autocontrollo che dovevano servire ai membri per prepararsi alla loro missione.

Agli usuali tre voti, Ignazio ne volle aggiungere un quarto: l’obbedienza assoluta al Papa (e al generale dell’Ordine). Un’obbedienza “senza se e senza ma” veramente nel senso concreto del concetto, espressa dalla famosa sentenza ignaziana: “Perinde ac cadaver”. Nelle Costituzioni troviamo scritto al paragrafo 547: «(...) facciamo quanto ci sarà comandato con molta prontezza, gaudio spirituale e perseveranza, persuadendoci che tutto ciò è giusto, e rinnegando con cieca obbedienza ogni parere e giudizio personale in contrario, in tutte le cose che il superiore ordina... Persuasi come siamo che chiunque vive sotto l'obbedienza si deve lasciar portare e reggere dalla Provvidenza, per mezzo del superiore, come se fosse un corpo morto, che si fa portare dovunque e trattare come più piace».

 

Lo spirito della Controriforma

L’ordine dei gesuiti ebbe un enorme e rapido sviluppo. Al contrario di quanto avviene oggi più o meno in ogni ordine religioso (l’affannosa ricerca di nuovi seminaristi e adepti), Ignazio scoraggiava i giovani dall’entrare nella Compagnia, ponendone subito in rilievo tutte le difficoltà, legate soprattutto al voto di obbedienza assoluta. Si racconta il seguente episodio: un giorno un giovane nobile chiese di entrare nella Compagnia e di poter incontrare Ignazio (cosa peraltro non facile per nessuno), dichiarandosi pronto a sostenere qualsiasi sacrificio richiesto. Ignazio volle esaminarlo: ricevutolo dinanzi a sé, lo lasciò parlare, ascoltando le promesse del giovane di disposizione al martirio e all’obbedienza incondizionata. Improvvisamente, lo interruppe e gli chiese di fare tre salti indietro. Il giovane chiese perché dovesse farli. Ignazio lo guardò e gli disse che non era adatto a divenire gesuita… Aveva chiesto “perché?”!

Al contrario di quanto la mentalità moderna possa credere, proprio la durezza e la difficoltà selettiva donavano alla Compagnia un fascino irresistibile. Così, in pochi anni, il numero dei gesuiti salì enormemente, molto più dei limiti imposti dai pontefici. La Compagnia si diffuse in tutta Europa, e i suoi figli furono mandati in tutto il mondo a evangelizzare le genti.

Sant’Ignazio fondò a Roma due collegi, il Collegio Romano e il Collegio Germanico, quest’ultimo specificamente destinato alla formazione dei sacerdoti di lingua tedesca inviati a combattere la diffusione delle dottrine di Lutero e di Calvino. Nelle sale dove gli allievi vivevano, erano affrescate scene di tortura: così i futuri missionari avevano tutti i giorni sotto gli occhi il destino che avrebbero potuto subire se fossero caduti nelle mani dei loro nemici.

Riguardo al Protestantesimo, l’idea geniale di Ignazio, ma soprattutto dei suoi successori, fu quella di cogliere l’occasione della Pace di Augusta, che prevedeva che nelle terre imperiali le popolazioni dovessero seguire la scelta religiosa del Principe locale (“Cuius regio et ejus religio”). Teologi preparati e padri spirituali vennero per decenni inviati non solo nelle corti rimaste cattoliche al fine di garantire la fedeltà alla Chiesa della famiglia regnante, ma anche nelle corti protestanti, allo scopo ultimo della conversione del sovrano, o almeno per ottenere la pace religiosa per i cattolici. Essi seppero incarnare alla massima espressione lo spirito della Controriforma in tutto il mondo germanico, e, in tal maniera, i gesuiti svolsero un ruolo determinante come baluardo della cattolicità in tutte le terre imperiali.

La Compagnia era di fatto un vero e proprio esercito al servizio del Papa, che cercò con successo di limitare la diffusione delle teorie di Lutero e di Calvino, con una politica volta da un lato a fare colpo sulla sensibilità popolare con l’arte, le processioni, la devozione alla Madonna e ai santi, dall’altro a esercitare una notevole influenza sulla classe dirigente.

La Compagnia di Gesù aprì in tutte le nazioni collegi, in cui – con un programma di studi rigoroso, fondato sull’insegnamento delle lingue classiche – venivano educati non solo i futuri sacerdoti, ma anche i figli della nobiltà e dell’alta borghesia che volevano ricevere un’educazione qualificata. Per tutto il XVII e XVIII secolo, non solo lo spirito teologico e spirituale della Controriforma, ma anche l’arte sia colta che popolare del Barocco e in qualche modo tutta la cultura e l’istruzione europea trovarono i loro massimi esponenti nel padri gesuiti. La Compagnia divenne l’istituzione formante e caratterizzante di tutto il mondo religioso, civile e culturale europeo dei secoli moderni.

       I gesuiti col tempo divennero sempre più soggetti a critiche, specie da parte di correnti cripto eretiche come i giansenisti, che li accusavano di “lassismo”, non solo per la loro tendenza a vivere nelle corti, ma anche per la loro apertura alla spiritualità popolare e barocca, e in particolare per il culto del Sacro Cuore (ci fu perfino chi parlò di “cardiolatria”…). In realtà, la fucina di santi dei gesuiti non teme confronti: in pochi decenni, possiamo ricordare stelle del paradiso come san Francesco Saverio, uno dei dieci fondatori, detto “l’Apostolo dei pagani”, perché fu missionario in India e Giappone (dove battezzò fino a 100.000 persone); san Roberto Bellarmino, Dottore della Chiesa, che processò Giordano Bruno e Galileo Galilei, e san Luigi Gonzaga, parente del Duca di Mantova, che, giovanissimo, rinunciò a tutte le ricchezze e gli onori per farsi missionario fra gli appestati: morì giovane di peste, e la Chiesa lo ha consacrato “Patrono universale della gioventù”.

 

I gesuiti inviati nel mondo

La falsità dell’accusa di lassismo è soprattutto provata però dal vero e proprio esercito di gesuiti che furono nei decenni inviati in ogni parte del mondo per evangelizzare i pagani. Oltre a san Francesco Saverio, un numero indefinito di figli di sant’Ignazio partì per l’Asia (ricordiamo Matteo Ricci in Cina), l’Africa, il Nuovo Mondo. Qui, a partire dal 1609, i gesuiti avevano realizzato nelle regioni al confine fra i domini spagnoli del Paraguay e quelli portoghesi del Brasile un’esperienza politica e religiosa di grande importanza: le “Riduzioni” (in spagnolo Reducciones). In queste missioni, sottratte all’autorità del Re di Spagna, gli indios vivevano sotto la protezione dei missionari cattolici, coltivando le terre comuni e dedicandosi ad attività artigianali. I gesuiti li proteggevano dalle incursioni dei mercanti di schiavi, li istruivano nelle tecniche agricole e li incoraggiavano a vivere in piccole comunità di villaggio fondate sulla famiglia, insegnavano loro a leggere e a scrivere.

Questa situazione suscitò le proteste dei più spregiudicati fra i coloni spagnoli, che avevano tutto l’interesse a fare schiavi gli indios e a impadronirsi delle loro terre. Le proteste contro i gesuiti dei governatori spagnoli furono una delle principali conseguenze della soppressione dell’Ordine: il 1767, anno in cui i gesuiti furono espulsi dalla Spagna, segnò anche la fine delle Riduzioni e con esse della libertà per migliaia di Indios che persero le terre in cui vivevano e, in molti casi, la libertà.

 

Soppressione, rinascita e “cambiamento” della Compagnia di Gesù

Nei decenni dell’Illuminismo la guerra contro la Compagnia si intensificò radicalmente: lo spirito anticattolico illuminista vedeva nei gesuiti il nemico giurato da abbattere. Con la complicità delle famiglie reali cattoliche (i vari rami dei Borbone in primis) e con quella incredibile e imperdonabile di un Pontefice Romano, Clemente XIV, giansenisti, massoni e illuministi poterono ottenere ciò che qualche decennio prima era impensabile: nel 1773 la Compagnia fu sciolta e bandita, al punto tale che accadde il paradosso che molti gesuiti trovarono rifugio nella Prussia protestante e nella Russia ortodossa!       

Superfluo ricordare quanto questo atto folle abbia poi facilitato la diffusione delle idee sovversive tanto nelle famiglie reali e nelle élites politiche e culturali, quanto fra le popolazioni, specie fra la borghesia colta, i militari, i burocrati: in pratica, i philosophes presero il posto, sia fisicamente che con i loro scritti, dei gesuiti nella gestione della cultura, nell’educazione dei giovani, nelle corti reali. Ed è ancor più superfluo notare quanto tutto questo abbia poi facilitato il trionfo della Rivoluzione Francese e quindi l’affermazione degli ideali anticattolici e laicisti in tutta Europa, nonché la persecuzione fisica di migliaia e migliaia di cattolici in Francia, Italia, Spagna ecc.

Solo nel 1814, con la caduta di Napoleone e con l’affermazione dei principi della Restaurazione, Pio VII ricostituì la Compagnia di Gesù. Per tutto il XIX secolo, i suoi esponenti di punta combatterono una indefessa battaglia ideale contro le forze della Rivoluzione liberale, socialista e massonica. Specie in Italia, lo scontro fu durissimo: un gruppo di gesuiti italiani (Carlo Maria Curci in primis, quindi Luigi Taparelli d’Azeglio, Antonio Bresciani, Giovan Battista Pianciani) fondò una rivista di importanza capitale, La Civiltà Cattolica, che condusse per decenni delle eroiche battaglie intellettuali contro il Risorgimento laicista prima e contro la diffusione di tutti gli errori della modernità nella prima metà del XX secolo, a partire dal liberalismo e dai totalitarismi, poi. La Compagnia di Gesù, così, per altri 150 anni, rimase il baluardo della Verità teologica, filosofica, storica, morale.

Occorre dire che le cose sono cambiate dagli anni della Seconda Guerra Mondiale in poi. Un gruppo sempre più consistente e influente di teologi gesuiti di nuova generazione (Theilard de Chardin, de Lubac, Rahner e altri) introdussero con successo nella Compagnia idee eterodosse o almeno pericolosamente vicine al modernismo teologico, scomunicato da san Pio X, producendo, di fatto, sebbene a diversi livelli, il distaccamento della Compagnia dall’antica impostazione di fedeltà alla sana dottrina tradizionale della Chiesa e il diffondersi del progressismo all’interno della Chiesa stessa, del neomodernismo, delle deviazioni postconciliari, fino alla stessa teologia della liberazione.

In pratica, il processo di sovversione teologica, spirituale, liturgica e morale in atto da decenni nella Chiesa, e con un crescendo impressionante dopo il Concilio Vaticano II, vede nella Compagnia, se non l’unico certamente il principale artefice ideale e a volte anche operativo. Oggi, sebbene forse non più in maniera radicale come nei decenni anteriori e posteriori al Concilio, la Compagnia (eccetto che per lodevoli singole eccezioni) rimane in generale espressione salda del progressismo teologico e politico dei nostri giorni.

Esattamente il contrario di tutto quanto insegnato, voluto e vissuto dal Fondatore della Compagnia di Gesù, per il quale l’obbedienza totale al Papa e al magistero universale e immutabile della Chiesa era la condizione prima e ineliminabile non solo dell’essere gesuita, ma dell’essere cattolico, dell’essere dalla parte di Gesù Cristo e non dei suoi nemici, terreni e ultraterreni.

Ignazio di Loyola è lo stendardo della Cattolicità del XVI secolo (e in qualche modo di tutta la modernità), che si opposto, nei giorni terribili del trionfo dell’eresia e della fine dell’unità della Res Publica Christiana, allo stendardo del male, incarnato da Martin Lutero. Ignazio e Lutero sono i due poli opposti dello scontro fra la luce e le tenebre nel secolo più religioso della storia umana, i due stendardi della lotta fra la nascente Rivoluzione anticristiana e la risposta a tale Rivoluzione, quella che diverrà nei secoli successivi la Contro-Rivoluzione cattolica. Contro Lutero e i suoi soci, Dio scelse in primis Ignazio e la sua Compagnia.

Il fatto che oggi per la prima volta vi sia sul Soglio di Pietro un Pontefice gesuita, costituirà certamente un passaggio determinante per la storia della Chiesa e della Cristianità tutta.

 

Massimo Viglione





Caterina63
00sabato 6 febbraio 2016 21:31



Nel 1555 tutti i professori dell’università di Barcellona scrissero a Ignazio di Loyola - già celebre fondatore della Compagnia di Gesù ‑ la seguente lettera:

          «Reverendo Padre, quando consideriamo le tue opere e le confrontiamo con quelle dell’antichità, tu ci appari davvero beatissimo, perché Cristo ti ha eletto (...) per sostenere con vigore i vecchi edifici ecclesiastici che minacciano di rovinare per vecchiezza e per incuria dei loro architetti, e per costruirne di nuovi. È quanto han fatto in altri tempi Antonio e Basilio, Benedetto, Bernardo, Francesco e Domenico e molti altri illustri personaggi che veneriamo come santi e nominiamo con onore. Verrà un tempo - lo speriamo e lo desideriamo ‑ nel quale tu sarai invocato nello stesso modo per le tue grandi opere, e la tua memoria sarà sacrosanta in tutto il mondo». 

 

Ignazio aveva allora sessantaquattro anni; sarebbe morto l’anno dopo.

          Proprio nello Studium Generale di Barcellona egli, a trentatré anni, era tornato sui banchi di scuola, lasciati ai tempi dell’adolescenza. La difficoltà più grande nel riprendere in mano la grammatica latina non era l’età piuttosto avanzata, ma il fatto che aveva la mente tutta assorbita dal pensiero di Dio.

          A una scelta così difficile e ostinata, l’aveva spinto un solo motivo che Ignazio, nella sua Autobiografia, spiega semplicemente con queste parole: «Il pellegrino pensava tra sé che cosa avrebbe fatto. Finì per risolversi a studiare per un certo tempo, per poter aiutare le anime».«Pellegrino» era il nome che egli s’era dato da quando il Signore l’aveva attratto a Sé.

          da quel coraggio - di riprendere a studiare come un ragazzo, a trentatré anni ‑ dipendeva (tale è il mistero della storia cristiana) l’avvenire stesso del cattolicesimo: tutta quella immensa rete «missionaria» di collegi, scuole, università, attività culturale, umanistica scientifica e teologica, con cuíi gesuiti avrebbero risollevato le sorti della Chiesa dopola crisi protestante e avrebbero predicato il Vangelo “fino agli estremi confini della terra», quei confini che allora apparivano per la prima volta in tutta la loro impensata vastità

          Fino a trent’anni Ignazio era stato un tipico gentiluomo spagnolo. Era nato a Loyola, in terra basca, nel 1491. A sedici anni era stato mandato a vivere dalle parti di Avila, presso un nobile parente che aveva una posizione di prestigio alla corte dei Re Cattolici. Divenne così «un giovane brillante e raffinato, molto amante degli abiti sfarzosi. Ignazio stesso - raccontando la sua vita - inizia con queste parole: «Fino a ventisei anni, fu un uomo dedito alle vanità del mondo. Suo diletto preferito era il maneggio delle armi, con un grande e vano desiderio di procacciarsi fama» (Autobiografia, 1). 

 

          A venticinque anni era passato al servizio del Vicerè di Navarra, proprio quando Francesco I di Francia si preparava ad attaccare quel regno. Venne posto l’assedio a Pamplona. La città era divisa e pronta a cedere, tanto che i rinforzi rinunciarono a entrare nella città che avrebbero dovuto difendere. Inigo (questo era il suo vero nome), invece, si rifiutò di tornare indietro, reputandola cosa disonorevole.

          Alla testa di pochi uomini, riuscì ad entrare in città e ad asserragliarsi nella fortezza. Ma i francesi ebbero presto il sopravvento e diedero l’attacco al castello. Fu Inigo a imporre la resistenza e tutti «furono trascinati dal suo coraggio e dalla Intrepidezza».

          I bombardamenti francesi durarono sei ore. Poi si giunse all’assalto di spada. Fu allora che un proiettile colpì Inigo ferendolo a una gamba. Finita la battaglia, fu riportato a casa, ma la ferita era così grave e le prime cure furono così disastrose che l’eroe si trovò in fin di vita, tanto che gli fu amministrata l’estrema Unzione. Lo stesso Ignazio racconta che le sue ossa «o perché mal ricomposte la prima volta, o perché mosse durante il viaggio, impedivano la cicatrizzazione. Si ricominciò allora quella carneficina. Ma il malato come durante gli strazi subiti precedentemente e che avrebbe dovuto subire in seguito, non disse parola né diede altro segno di dolore, se non stringendo forte i pugni» (Autobiografia, 2).

          Contro l’aspettativa di tutti, guarì ma gli era rimasto un osso sporgente e zoppicava nel camminare. Ignazio, voleva poter cavalcare, voleva poter indossare ancora «i suoi stivali molto attillati ed eleganti.

          Benché le ossa si fossero ormai saldate, decise di farsi operare nuovamente. Leggiamo ancora il racconto: «Non si dava pace, perché voleva continuare la vita mondana e pensava che ciò lo rendeva deforme. Chiese ai medici se si potesse nuovamente tagliare. Essi risposero che certamente si poteva tagliare, ma che i dolori sarebbero stati più atroci di quelli già sofferti perché l’osso era già sano e l’operazione era lunga. Ciò nonostante egli decise di sottoporsi a quel martirio per il proprio capriccio. Suo fratello maggiore era assai preoccupato e diceva che egli non avrebbe potuto sopportare un simile dolore. Il ferito invece lo sopportò con la solita forza d’animo. Si incise la carne, si segò l’osso sporgente, poi si usarono vari rimedi perché la gamba non restasse così corta: si applicarono unguenti e apparecchi che la tenessero in trazione. Un vero martirio.Ma Nostro Signore gli ridiede salute a poco a poco» (Autobiografia, 4‑5). 

          Abbiamo insistito ‑ come fece lo stesso Ignazio ‑ su questo racconto perché esso delinea le qualità dell’uomo e la sua tempra: una forza d’animo incredibile posta al servizio di valori così fragili!

          A dire il vero, non era solo vanità: nel cuore di Inigo c’era un segreto che spiegava tutto, anche se ancora oggi non è stato pienamente svelato.

          Lui stesso racconta che, durante la convalescenza, c’era un pensiero che «talmente gli aveva rapito il cuore da tenerlo occupato sognando per tre o quattro ore di seguito, senza nemmeno accorgersene. Immaginava le imprese che avrebbe voluto compiere in onore di una signora, i mezzi che avrebbe usato per raggiungere il paese dove abitava, le parole che avrebbe detto, i fatti d’arme che avrebbe compiuto in suo onore. Era talmente perduto in simili progetti che non s’accorgeva quanto fosse impossibile realizzarli; perché quella dama non era di nobiltà ordinaria: non era né contessa né duchessa, ma di rango assai più elevato» (Autobiografia, 6).  

 

          Sembra che si trattasse della infelice principessina Catalina, sorella di Carlo V, che sarebbe poi andata sposa a Giovanni III Re del Portogallo. Fu durante la forzata immobilità della convalescenza che il Signore Gesù decise di impadronirsi del cuore di Ignazio e di finalizzare al bene della sua Chiesa tanta energia e capacità di dedizione.

          Fin dalla giovinezza Inigo s’era appassionato ai romanzi di cavalleria: chiese che gliene portassero alcuni, per aiutarsi a passare il tempo, ma nel Castello di Loyola non si riuscì a trovarne: gli portarono la Vita di Cristo di Ludolfo di Sassonia e l’incantevole Legenda aurea di Jacopo da Varagine.

          La prima cosa che il malato scoprì era che esisteva un altro mondo (quello di san Francesco, san Domenico e di molti altri Santi) dove ugual­mente si amava, si combatteva, si soffriva e si acquistava gloria: ma per un altro Signore, e per un altro Amore.

          E questo «nuovo mondo» si imponeva in tutta la sua urgenza e serietà con questa domanda che gli martellava dentro: «E se io facessi ciò che ha fatto san Francesco, o quello che ha fatto san Domenico?» (n. 7).

          Nota l’Autobiografia: «Tutto il suo ragionamento si riduceva a questo: san Domenico ha fatto questo, ebbene devo farlo anch’io; san Francesco ha fatto quest’altro, ebbene devo farlo anch’io».  

 

Ma poi veniva ripreso dalle antiche immaginazioni e dagli antichi amori.

          Tuttavia Ignazio ebbe la fortuna di sapersi guardare dentro, e osservò una sorta di «legge» che regola la vita dello spirito. Osservò che, quando pensava a Dio e ai santi, dapprima faceva fatica, ma poi restava pieno di gioia. Viceversa, quando pensava agli eroismi mondani e alle passioni cavalleresche, dapprima provava immediato piacere e soddisfazione, ma alla fine restava triste e inquieto. Senza ancora saperlo Inigo s’era inoltrato negli spazi dell’anima, in quella avventura interiore nella quale sarebbe poi diventato maestro.

          Decise dunque di attuare la sua nuova vocazione: appena guarì, divenne «il pellegrino», deciso a giungere fino alla culla dell’avvenimento cristiano, in Terra Santa.

La prima tappa fu il Santuario di Monserrat dove preparò per iscritto la sua confessione generale: ci impiegò tre giorni. Alla sera del 24 marzo 1522, vigilia dell’Annunciazione «in tutta segre­tezza se ne andò da un povero, si spogliò dei suoi vestiti, di cui gli fece dono, indossò una tunica di sacco mal tessuto e assai ruvido» (n. 18 e 16); poi iniziò, davanti all’altare della Madonna, la sua «veglia d’armi»: una intera notte di preghiera, sempre in piedi o in ginocchio, per diventare cavaliere di Dio e della Vergine Santa.

          Si recò quindi a Manresa, una città che Ignazio definì poi «la mia chiesa primitiva». Qui gli accaddero le cinque visioni che lo plasmarono dal punto di vista cristiano.

          Prima della conversione Inigo si riteneva, tutto sommato, un buon cristiano ‑ nonostante le sue debolezze - ed era fiero della sua fede. Ma, dopo la conversione, egli diventa cristiano: la luce della rivelazione lo afferra e dilaga nel suo cuore e nella sua intelligenza; la pretesa e la novità dell’avvenimento cristiano lo afferrano e lo dominano.

          Parliamo di «visioni», ma Ignazio insisterà sempre che non si trattò di immagini o di forme distinte (nemmeno quando vide Cristo o Maria), ma piuttosto di illuminazioni interiori. La sua formula è questa: «Vide con gli occhi interiori».

          La prima «visione» riguardò la Trinità: il mistero vivo, caldo, delle tre Persone divine, lo penetrò con una tale forza e un tale struggimento di cuore che egli pianse a lungo, e ciò gli capiterà poi spesso nella vita (cfr. n. 28).

          La seconda «visione» riguardò la Creazione: «Gli si rappresentò nell’in­telletto, accompagnato da grande allegria spirituale, il modo con cui Dio aveva creato il mondo» (n. 29).

La terza «visione» riguardò «come nostro Signore stava nel Sacramento dell’altare» (n. 29).

La quarta «visione» riguardò «l’umanità di Cristo e la figura di Maria» (n. 29).

          La quinta «visione» riguardò il significato di tutta l’esistenza, e fu così importante che «in tutto il corso della sua vita, fino a sessantadue anni suonati, sommando tutti gli aiuti di Dio e tutto ciò che ha imparato, anche riunito tutto assieme, non gli pare di aver appreso tanto come in quella sola volta». Essa accadde lungo le rive del fiume Cardoner. Ascoltiamone il racconto, sempre dall’Autobiografia: «Camminando cosi assorto nelle sue devozioni, egli si sedette un momento, rivolto verso l’acqua che scorreva in basso, e stando lì seduto, cominciarono ad aprirglisi gli occhi dell’intelletto. Non già che avesse una visione, macapì e conobbe molte cose della vita spirituale, della fede, e delle Scritture, con una tale luce che tutte le cose gli parevano nuove» (n. 30). Un confidente di Ignazio lo udì dire che gli sembrò allora «d’essere un altro uomo e che l’intelletto fosse diverso da quello di prima».

          Trinità, Creazione, Eucaristia, Umanità di Cristo e di Maria, il significato unitario di tutto (oggi diremmo: «una cultura nuova»): furono le basi dogmatiche e spirituali su cui Ignazio potè iniziare la sua costruzione.

          Notiamo di passaggio un tema che meriterebbe di essere lungamente approfondito: sono esattamente i punti cardinali su cui è entrato invece in crisi il pensiero teologico di Lutero. Il Riformatore protestante fu così preoccupato del problema della «sua salvezza» (della salvezza individuale del credente) che ridusse tutto il cri­stianesimo a un esclusivo faccia a faccia tra l'uomo e Dio: faccia a faccia che accade‑per così dire‑in Cristo (e perciò Lutero parlava di sola fede), ma con una tale angosciosa preoccupazione di sé che aLutero sfuggì la «interezza» del dono di Dio.

          Amò Cristo, ma non «tutto ciò che è di Cristo»: il mondo vivo, caldo, amoroso di Dio (la vita trínitaría del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo) quasi gli sfuggi; il mondo vivo caldo, amoroso di Cristo (la sua Chiesa, ricca di grazie e di doni, nonostante le sue debolezze) ugualmente gli sfuggì.

          Ignazio invece si lascerà assorbire dal «mondo di Dio» e diverrà il Santo della Trinità (nel suo Diario egli ha addirittura segnato quante lacrime ac­compagnassero ogni giorno la sua preghiera, i suoi colloqui con le tre divine Persone ‑ tanto da temere di perdere la vista).

          Allo stesso modo Ignazio si lascerà assorbire dal mondo di Cristo, fino a diventare il «Santo della Chiesa», il Santo della costruzione ecclesiale bella, ben organizzata e attiva, nella quale ognuno deve saper versare il sangue vivo della sua totale disponibilità a servire.

Ma torniamo a quei primi passi.

          Il suo immediato progetto restava comunque quello di recarsi in Terra Santa e di restarvi per sempre. Vi si recò infatti, ma pur cogliendo l’essenziale del viaggio, la decisione di restare si rivelò irrealizzabile (venne addirittura minacciato di scomunica, se non ripartiva). Ci era andato per respirare la stessa aria che aveva respirato Cristo, vedere gli stessi luoghi, le stesse città, percorrere gli stessi sentieri.

          Meditava e ricostruiva nel suo intimo paesaggi, suoni, immagini, odori: tutto ciò che serviva a tener desto il realismo dell’Incarnazione. Addirittura, quando tornò aveva imparato a esprimersi come pensava che avesse fatto Gesù (ad esempio: usando il «voi» nel rivolgersi alle persone!).

          Su questa esperienza di «immersione» nell’ambiente vivo di Cristo incarnato, egli fondò la sua pedagogia: il mistero di Cristo va accostato «come se fossimo presenti e partecipando alla totalità del suo mistero».

          Il nostro Papini giustamente ha commentato, «Ignazio ha ricondotto i cristiani alla familiarità visiva, uditiva, quasi tattile e spirante, di Cristo figlio del Dio vero; il suo metodo sopprime l’illusione dei secoli e fa di tutti i cristiani obbedienti i contemporanei di Pilato e di san Giovanni». Poiché egli non poteva più fermarsi nella terra di Gesù, gli restava una sola conclusione: obbedire alla Parola con cui Cristo ha inviato i suoi discepoli nel mondo.

          Ignazio volle restare sempre con Cristo «lasciandosi inviare missionariarnente», secondo la promessa evangelica: «andate in tutto il mondo... io sarò con voi». Tornò dunque indietro e decise di prepararsi per la «missione», pagando tutto il prezzo necessario.

          Si iscrisse ‑ nonostante l’età ‑ all’università di Alcalà, poi a Salamanca, poi a Parigi, e dovunque radunava attorno a sé dei compagni e li educava al suo metodo: capacità di «esercitarsi» a guardare dentro il proprio spirito, poi di offrirsi totalmente a Cristo, poi di acquisire una disponibilità assoluta a qualunque missione.

          Portava con sé un libretto, da lui stesso composto, che ampliava e sistemava man mano che passavano gli anni e cresceva la sua esperienza: gli Esercizi Spi­rituali, «Esercizi perché l’uomo vinca se stesso ed ordini la sua vita ... ». Un mese di meditazioni e di lavoro interiore: quattro settimane per imparare‑sotto la guida di un maestro ‑ ad orientarsi verso un fine degno dell’uomo, per decidere il proprio «arruolamento» come soldati di Cristo, il grande e vivo Re Ignazio non rinnega la sua origine e la sua funzione!) per conformarsi al Signore Gesù, ai misteri della sua vita, ai suoi sentimenti.

          Ignazio guidava egli stesso i suoi amici, uno per uno, in questo duro ed esaltante lavoro degli Esercizi da cui uscivano rinnovati.

          Subì alcuni processi da parte dell’Inquisizione, dato che pretendeva insegnare cose spirituali senza aver studiato e senza essere prete. Ma non trovarono nulla da rimproverargli.

          A Salamanca, a una signora che lo commiserava per esser finito nelle celle dell’Inquisizione, rispose con umile certezza e fierezza: «Salamanca non ha tanti ceppi e catene quante io ne desidero per amore di Dio». 

 

          D’altra parte Ignazio insisteva sul suo buon diritto: «Noi non predichiamo, ma con alcuni parliamo familiarmente delle cose di Dio, come facciamo dopo mangiato con alcuni che ci invitano».  

 

          A Parigi riuscì a radunare un gruppetto stabile di «amici del Signore», tutti giovani di particolare valore: il più difficile da conquistare fu Francesco Saverio che Ignazio perseguitò a lungo, ripetendogli le parole del Vangelo: «Che giova all’uomo guadagnare tutto il mondo se poi perde se stesso?».

L’accusa che gli rivolsero nell’ambiente dell’Università fu la seguente: «Seduttore degli studenti» (n. 78).

          Nel 1537 Ignazio e i primi compagni poterono finalmente essere ordinati sacerdoti e poco dopo assunsero il nome di«compagni di Gesù». Il senso ultimo di questo appellativo risultò però dalla visione che Ignazio ebbe mentre viaggiava verso Roma.

          Aveva deciso che, per un anno intero dopo l’ordinazione sacerdotale, non avrebbe celebrato la Messa in modo da potervisi preparare degnamente. E la preparazione consisteva in una preghiera ripetuta ininterrottamente nella quale chiedeva alla Santa Vergine «di volerlo mettere col Suo Figliolo».

          Ed ecco che, giunto a una cappella in località detta «La Storta», vicino a Isola Farnese, «facendo orazione, ha sentito tale mutazione nell’anima sua e ha visto tanto chiaramente che Iddio Padre lo metteva con Christo Suo Figliolo, che non gli basterebbe l’anímo di dubitare di questo: che Dio Padre lo metteva col suo Figliolo». 

 

          Dobbiamo comprendere bene questa particolare «mistica ignaziana». In un’altra versione di questo stesso episodio, Ignazio precisò che Dio Padre «lo metteva con Cristo» e poi gli diceva «Voglio che tu ci serva».

          «Servire» fu la grande parola di Ignazio: Cristo è un Re venuto nel nostro misero mondo per conquistarlo e arricchirlo, per ricondurlo al Suo Dio e Creatore; ma la sua opera non è ancora compiuta: Egli ha bisogno di amici fidati e di cooperatori generosi.

          Per questo Ignazio inventò un modo nuovo di consacrarsi a Dio: pur stimandoli moltissimo, non volle per i suoi né le lunghe preghiere corali, né le penitenze e gli usi monastici, ma una sola cosa, una obbedienza assoluta come disponibilità a lasciarsi inviare e utilizzare dovunque la Gloria di Cristo lo esigesse. Perinde ac cadaver, come un cadavere nelle mani di chi ti rappresenta Cristo e ti indica la sua volontà. Formula dura e urtante se non si capisce che essa indica l’abbandono totale, a corpo morto, nel più ardente, generoso e attivo amore.

          A Roma i nuovi «compagni di Gesù» cominciarono contestando un celebre predicatore quaresimalista, dell’ordine agostiniano, che insegnava dal pulpito dottrine luterane. In cambio furono essi stessi accusati di essere eretici, e processati: ne uscirono con fama di santità.

          Solo quando tutto fu finito si presentarono al Papa, mettendosi a sua totale disposizione, secondo il voto che avevano fatto. Anche questa fu una scelta di ferrea consequenzialità: se Ignazio non poteva stare là dove Cristo era vissuto in terra, doveva stare là dove c’era il suo Vicario: con la stessa dedizione, con la stessa obbedienza, con la stessa disponibile energia, con lo stesso amore.

          La prima messa Ignazio la celebrò la notte di Natale del 1538 a Santa Maria Maggiore, all’altare del presepío: cosi si ricongiungeva, misticamente ma realmente, a quella «origine» presso la quale voleva sempre restare.

          Da allora la storia di Ignazio diventa la storia della «Compagnia di Gesù». Egli non si muoverà più da Roma, e da lì ‑ dal cuore della cristianità e dalla prossimità fisica e spirituale al Vicario di Cristo ‑ i suoi figli muoveranno alla conquista del mondo, mentre il Santo li seguirà con la sua autorità forte e dolce.

          Ignazio era un organizzatore nato: l’apostolato veniva organizzato col sistema delle «opere» e delle «confraternite», secondo i diversi bisogni in cui egli decideva di impegnare i suoi figli e fratelli. La loro selezione era severa, sulla base del principio che «chi non era buono per il mondo non era buono nemmeno per la Compagnia», e che «per la Compagnia era buono soltanto chi sapeva vivere e farsi valere anche nel mondo». Dovevano essere in prima linea, dovevano riconquistare le posizioni perdute (nell’Europa protestantizzata) e quelle non ancora conquistate, nei vasti spazi delle missioni in India, Congo, Etiopia, Giappone.

          Ritorna qui prepotente il nome e il ricordo di san Francesco Saverio che, in Ignazio, aveva trovato «il suo vero e unico padre, nel cuore di Cristo». In quel 1540 Ignazio era a letto malato quando chiamò Francesco per dirgli che il Re del Portogallo chiedeva quattro «compagni» per i suoi domini nelle Indie. Egli ne aveva promessi due, e uno di quelli designati era venuto meno per malattia.

          «Benissimo, eccomi pronto! », aveva risposto Francesco: era così iniziato quel suo leggendario viaggio in terra di missione, che sarebbe durato undici anni.

          Non possiamo raccontare ora la sua straordinaria avventura (si dice che quando la flotta d’Oriente sbarcava a Lisbona, si dava al re questo resoconto della lontana situazione: «L’India è in pace, perché là c’è Padre Francesco»), ma possiamo percepire – come riflesso – un aspetto essenziale dell’opera di Ignazio. Si tratta della passione con cui Francesco Saverio visse la sua appartenenza alla compagnia.

          Anche se solitario nelle lande più sperdute, egli si sentiva legato ai suoi fratelli, più che a una famiglia di sangue: «Noi, stando qui ‑ scriveva nelle sue lettere ‑ siamo opera di voi tutti». E, della Compagnia, voleva conoscere tutto: chiedeva che gli inviassero dall’Europa «lettere si lunghe che bisognassero otto giorni per leggerle» e anch’egli non avrebbe mai smesso di scrivere: «Quando incomincio a parlare della Compagnia non so più come uscire dall’argomento, non so più come finire la mia lettera._ ma bisogna terminare, mio malgrado, perché i vascelli devono partire. Non trovo migliore conclusione che giurare a tutti della Compagnia che se io dovessi dimenticarla, che si dissecchi prima la mia mano destra».  

 

          «Compagnia di Gesù compagnia d’Amore», questa era la bega definizione che ne dava, e non temeva di apparire sentimentale, quando narrava: «Vi faccio sapere, fratelli carissimi, che dalle lettere che mi avete scritto ho ritagliato í vostri nomi, scritti dalla vostra stessa mano e, assieme alla formula della mia professione, li pOrto sempre con me, per la consolazione che ne ricevo»: infatti teneva tutto in una piccola custodia che portava sul petto.  

 

Come è ovvio, egli sentiva soprattutto, con indicibile fede e passione, la «compagnia» di Ignazio.

          Conclude così una lettera che gli invia: «Termino pregando la santa carità vostra, venerando Padre dell’anima mia, mentre vi scrivo, inginocchio per terra, come se foste davanti a me, di raccomandarmi motto a Dio Nostro Signore... perché mi doni la grazia di conoscere in questa vita la Sua santissima volontà, e la forza di compierla fedelmente. Amen. La stessa preghiera faccio a tutti quelli della Compagnia. Vostro minimo e inutile figlio, Francesco». 

 

La tenerezza del «Padre» non era minore: «Tutto tuo, senza poterti mai dimenticare. Ignazio», così gli scriveva...

          E Francesco: «Con le lacrime ho letto queste parole e con le lacrime le trascrivo ricordandomi del tempo passato e del molto amore che sempre avete avuto e avete per di quale grande desiderio abbiate di vedermi, prima di terminare questa vita Dio sa quale emozione hanno suscitato nell’anima mia parole…».

 

          Non sono espressioni estenuate di un nostalgico sentimentale: sono l’attaccamento forte e invincibile di un credente che si inoltrava, per Cristo, là dove nessuno era ancora giunto, rischiando continuamente torture e morte.

          Forse l’espressione che meglio unisce il Maestro al Discepolo, nella stessa passione per la stessa obbedienza, è in queste parole di Francesco: «È peggio della morte il vivere lasciando Cristo, dopo averlo conosciuto per seguire le proprie opinioni o inclinazioni... Non vi è al mondo una pena simile a questa». 

 

          Ma torniamo a Ignazio, che sarà canonizzato lo stesso giorno di questo suo figlio prediletto. Alla passione missionaria egli legava, in forma ugualmente stringente, quella educativa. Perciò volle che i suoi figli diventassero gli educatori delle nuove generazioni cristiane: nelle corti dei re e dei nobili, come nelle più prestigiose università, come nei più piccoli villaggi.

          Uno dei loro più celebri educatori ‑ Juan Bonifacio ‑ quand’era ancora giovanissimo insegnava lettere umanistiche a Medina del Campo, verso la metà del sec. XVI. Usava dire che «formare ì bambini significa rinnovare il mondo». E non sapeva quanta ragione avesse: tra quei ragazzi della sua scuola c’era il piccolo Juan de Yepes, il futuro Dottore mistico, san Giovanni della Croce.

          I primi collegi gesuiti in Italia furono fondati a Padova nel 1542, a Bologna nel 1546, a Messina nel 1548. In particolare ‑ per l’enorme prestigio e influenza che acquisterà in brevissimo tempo ricordiamo quel «Collegio Romano» aperto nel 1551: «Schola de grammatica, d’humanità e dottrina cristiana gratis», si leggeva simpaticamente sul cartello posto sulla prima casa affittata allo scopo.

Cinque anni dopo questo collegio sarà già riconosciuto come Università (è l’attuale «Gregoriana»).

          Prima che Ignazio muoia, e dunque in poco più di un decennio ‑ oltre alle normali case per la formazione e la vita dei suoi membri - la Compagnia avrà aperto ventuno collegi in Italia, diciotto in Spagna, quattro in Portogallo, due in Francia, cinque in Germania, cinque in India, tre in Brasile, uno in Giappone.

E l’intero Istituto conterà già undici Province religiose, con un migliaio di membri.

          Quando le preoccupazioni, soprattutto quelle economiche, si facevano assillanti, Ignazio esclamava: «In confronto al tesoro di speranze che possediamo, tutto è poca cosa. Dio che ce le dà, non le deluderà».

          Intanto il Fondatore viveva a Roma, nel centro della cristianità, desideroso che tale città diventasse «l’esempio e non lo scandalo del mondo». Guidava la vita della sua «Compagnia» con una sola parola d’ordine nella quale compendiava tutta la sua spiritualità: «Ad maiorem Dei Gloriam»: cercava sempre e in ogni modo di accrescere la Gloria di Dio.

          «Servire Cristo, servire la Chiesa: e raggiungere in questa assoluta dedizione le più alte vette della contemplazione».«Assomigliare ai più grandi mistici ma dentro la più obbediente dedizione a Cristo nella concretezza della sua Chiesa».Coniarono per lui una nuova formula: «In actione contemplativus»: contemplativo nell’azione.

          Celebri sono rimaste le sue Regole per sentire con la Chiesa, che scandalizzano tutti i ben pensanti perché le può capire solo chi è preda di un grande amore e di una grande fede.

          Annotava dunque Ignazio: «Per non sbagliare, dobbiamo sempre ritenere che quello che vediamo bianco sia nero, se lo dice la Chiesa gerarchica. Perché crediamo che quello Spirito che ci governa e ci sorregge, per la salvezza delle nostre anime, sia lo stesso in Cristo Nostro Signore, che è lo Sposo, e nella Chiesa, che è la sua sposa. Infatti la nostra Santa Madre Chiesa è retta e governata dallo stesso Spirito e Signore Nostro il quale dettò i dieci Comandamenti» (Per il vero criterio che dobbiamo avere nella Chiesa militante ‑ XIII Regola). 

 

«Lodare più che criticare. Costruire più che demolire questo era il suo motto, rivelatore della sua particolare sensibilità ecclesiale».

          Era l’alba del 31 luglio 1556 quando a Roma si sparse velocemente la voce: «é morto il Santo!». Era accaduto quello che Ignazio attendeva ormai da cinque anni, da quando s’era ammalato gravemente.

          «Allora ‑ scrisse egli nell’Autobiografia ‑ pensando alla morte egli provava una tale allegria e una consolazione spirituale così grande, perché stava per morire, che si scioglieva in lacrime. Questo stato gli divenne talmente continuo che molte volte lasciava di pensare alla morte per non provare tanta consolazione» (n. 33).

          Una delle descrizioni più simpatiche che ci restano di lui è quella di un padovano che lo conobbe e lo descrisse così: «Un espannoleto, picolo, un poco zopo, che ha l’ochi alegri». I santi ‑ anche quando sono grandi e geniali ‑ attraversano il nostro mondo con semplicità e familiarità. Ma seguendoli, incontriamo Dio.

 autore: Antonio Sicari


Caterina63
00sabato 6 febbraio 2016 21:37

  ANTOLOGIA DI TESTI UTILIZZATA DURANTE L'INCONTRO


Ufficio catechistico di Roma
www.ucroma.it
 (cfr. anche www.gliscritti.it )

Premessa: il luogo in cui ci troviamo (le stanzette di Sant’Ignazio)

1/ La riforma cattolica

1.1/ I concetti di “riforma cattolica” e di “controriforma”

da H. Jedin, Riforma cattolica e controriforma, in H. Jedin (a cura di), Storia della chiesa VI, Jaca, Milano, 1975, pp. 513-514
Tanto il concetto di «riforma cattolica» quanto quello di  «controriforma» presuppongono nel termine «riforma» la designazione storica della crisi protestante con la conseguente frattura della fede e della chiesa. Con «controriforma» il giurista Pütter di Gottinga (1776) intese la riconquista alla fede cattolica, operata con la forza, delle regioni divenute protestanti. Ranke parlò inizialmente di controriforme (al plurale), ma presto riconobbe il carattere unitario del movimento e ne vide la radice nella «restaurazione, quasi piantagione ex novo, del cattolicesimo». Con l'opera di Moritz Ritter Deutsche Geschichte im Zeitalter der Gegenreformation (Storia della Germania al tempo della contro-riforma, 1889), il concetto di controriforma, contre-réformecounter-reformationcontrarreforma, prese piede anche in Germania, ma si urtò contro il rifiuto quasi unanime della storiografia cattolica, perché esso sembrava concepire il nuovo consolidarsi della chiesa cattolica in modo unilaterale, come reazione allo scisma protestante e perché portava il marchio dell'uso della forza in materia di religione. L. Pastor, J. Schmidlin e altri preferirono quindi la designazione di «restaurazione cattolica», nella quale tuttavia non si esprimono sufficientemente né la continuità col medioevo, né i nuovi elementi apportati dalla riforma tridentina.

Nel frattempo W. Maurenbrecher, in dipendenza dal Ranke, aveva adottato (1880) il termine di «riforma cattolica» per designare quel rinnovamento di sé operato dalla chiesa, specialmente in Italia ed in Spagna, che si riannodava ai tentativi di riforma del tardo medioevo
. Egli era stato preceduto dai cattolici Giuseppe Kerker (Katholische Reform, 1859) e Costantino Höfler (Romanische Reformation, 1878). Noi diamo la preferenza a questa designazione di «riforma cattolica», perché allude ai tentativi di rinnovamento che si ebbero nella chiesa dal XV al XVI secolo, senza escludere, come il termine «restaurazione», i nuovi elementi che fanno la loro comparsa e l'influsso esercitato dalla crisi protestante sullo sviluppo del movimento. Tale designazione ha tuttavia bisogno di venir completata dal concetto di controriforma, perché di fatto la chiesa rinnovata e rafforzata internamente, dopo il concilio di Trento, passa al contrattacco e riconquista parte del terreno perduto, sia pure mediante un'alleanza con l'assolutismo confessionale, il cui significato è stato messo in evidenza dall'Eder.

Entrambi i concetti hanno quindi una loro giustificazione, designano però dei movimenti non separati, ma connessi tra loro. Anche autori cattolici come Paschini e Villoslada ritengono di poter usare la designazione di controriforma per l'intero movimento di rinnovamento e di riconquista.
Soltanto collegati tra loro i concetti di riforma cattolica e di controriforma possono servire a designare quest'epoca della storia ecclesiastica
.

da G. Martina, Storia della chiesa, Ut unum sint, Roma, 1980, p. 244
In sostanza, il problema «riforma o controriforma?», rinnova in un altro contesto la questione del rapporto fra il momento carismatico e quello giuridico tante volte incontrato: la riforma cattolica corrisponde al momento carismatico, e mostra maggiore spontaneità e freschezza, ma è più limitata; la controriforma corrisponde al momento giuridico, e sembra rallentare lo slancio iniziale, mentre in realtà ne assicura la stabilità.
In questo senso è stato detto, da storici laicisti, che la riforma cattolica fu sconfitta proprio nel momento in cui sembrava riportare vittoria, acquistando l'appoggio della gerarchia, mentre storici cattolici hanno opposto che la riforma cattolica poté vincere proprio perché divenne controriforma
.

1.2/ Aspetti della riforma cattolica

da G. Martina, Storia della chiesa, Ut unum sint, Roma, 1980, p. 247-248
I tentativi di un rinnovamento della Chiesa, che precedono la riforma protestante, e si sviluppano poi parallelamente ad essa, ma con spirito e metodi propri, si possono schematicamente ridurre a questi:

a) Le varie associazioni laiche, che si propongono un doppio fine, la carità verso i poveri e la pietà eucaristica. In molte città italiane dalla fine del Quattrocento, a cominciare da Genova per opera di Ettore Vernazza, si diffondono con questi intenti le Compagnie del Divino Amore, composte prevalentemente da laici, ma anche da cardinali e vescovi.

b) La riforma degli antichi ordini religiosi. Si moltiplicano i conventi di stretta osservanza, che finiscono per raccogliersi in una congregazione riformata, governata da un proprio vicario generale, e con forti tendenze all'autonomia, per meglio salvare i caratteri propri della riforma. Osserviamo questo processo in vari paesi d'Europa, tra i francescani (che vedono il graduale distacco dai conventuali dei frati minori osservanti, di cui fu a lungo vicario generale S. Bernardino da Siena), le clarisse, che vogliono applicare nel suo pieno rigore la regola primitiva di Santa Chiara, i benedettini (in Italia con la congregazione di Santa Giustina), i cistercensi e i camaldolesi (per esempio con la congregazione di Montecorona, cosiddetta dall'eremo di questo nome, in Umbria), i domenicani, gli agostiniani.

c) Nascita di nuovi istituti. Il movimento si accentua dopo il 1517, ed è parte cospicua della controriforma. Tuttavia alcuni dei nuovi istituti sono lo sviluppo logico delle confraternite laiche di cui abbiamo fatto cenno: la loro genesi è piuttosto lenta, e le prime idee risalgono talora alla fine del Quattrocento, anche se l'approvazione pontificia è posteriore; molti di essi sono sorti senza nessun rapporto con l'eresia luterana. La stessa Compagnia di Gesù, che le circostanze storiche resero uno dei baluardi della Controriforma, alla sua nascita non si prefiggeva affatto di opporsi al protestantesimo.

d) L'opera riformatrice dei vescovi nelle loro diocesi. Se molti vescovi non mostrano particolare zelo pastorale, altri si prodigano, convocano sinodi, promuovono la predicazione, si preoccupano della formazione del clero. In Germania emerge Nicolò da Cues, vescovo di Bressanone, che estende la sua attività ben al di là della sua diocesi; in Spagna spiccano tre persone; il « gran cardinale», Pietro Gonzales de Mendoza, il primo arcivescovo di Granada, Ferdinando de Talavera, il cardinale Ximenes de Cisneros, arcivescovo di Toledo, che fonda l'università di Alcalá, cura l'edizione della Bibbia Compeutense, traduce la Imitazione di Cristo. In Italia, possiamo ricordare almeno Sant'Antonino, arcivescovo di Firenze.

e) Abbiamo ricordato ormai più volte i gruppi dell'umanesimo cristiano, che inculcano lo studio della Scrittura e dei Padri, e i circoli dell'evangelismo, anelanti ad un culto e ad una religiosità più intima, che si ricollegano in vario modo alla devotio moderna, che aveva avuto nell'Imitazione di Cristo la sua espressione più alta, e che ora hanno in Erasmo il loro campione più efficace, anche se non sempre coerente e talora non alieno da esagerazioni.


f) Le iniziative della curia e dei papi. Se la curia, come abbiamo detto, si mostrò in genere piuttosto distratta e restia, non mancarono alcuni gesti che avrebbero potuto essere efficaci se fossero stati accompagnati da una migliore volontà. Nel 1512 Giulio II convocò a Roma un concilio ecumenico, il Lateranense V, ecumenico XVIII: il Papa non si preoccupava però di rispondere all'attesa universale di una reformatio in capite et membris, e voleva soprattutto svuotare di ogni importanza un'assemblea aperta a Pisa dal re di Francia Luigi XII con cui egli era in guerra, e che si atteggiava a concilio ecumenico. Il concilio comunque continuò anche quando l'assise pisana era fallita, e fu proseguito dal successore di Giulio II, Leone X: se esso prese alcune decisioni utili, in sostanza non ebbe il coraggio di combattere in modo energico e definitivo gli abusi di cui tutti conoscevano l'esistenza, ma che erano di vantaggio ai prelati.

Nulla si disse sul fiscalismo della curia, che pure era una delle fonti di continui lamenti al di là delle Alpi, e quando si vietò il cumulo di uffici ecclesiastici nelle stesse mani, si fecero subito tali eccezioni da rendere praticamente nullo il divieto. Del resto, anche quei timidi ed incerti propositi espressi nel Lateranense V, restarono praticamente lettera morta. La bolla di riforma della curia è contemporanea alla autorizzazione data ad Alberto di Brandeburgo di reggere una terza diocesi (ossia di riscuotere altri redditi da una terza fonte), a condizione di pagare a Roma una forte tassa.

Jean Delumeau, Il cattolicesimo dal XVI al XVIII secolo, Mursia, Milano, 1976, pp. 33-36
Alla fine del XVI secolo, e nel XVII, la Chiesa cattolica conobbe una profonda trasformazione che fu preparata da un lavoro di ricerca durato per un periodo assai lungo, dalla santità di molti suoi membri, e da dolorose esperienze
 paragonabili a brancolamenti nel buio. Oggi nessuno storico penserebbe di datare gli inizi di questo rinnovamento al Concilio di Trento. La verità è che le due riforme, che si credettero e si vollero nemiche, e di cui solo ora noi scorgiamo gli aspetti comuni, trassero la propria linfa da un passato comune a entrambe, un passato fatto certamente di miserie e di «abusi» di ogni specie, ma anche di molti sforzi tesi a rinnovare la pietà, e a renderla più personale, a livello delle élites, e più viva, a livello della massa del popolo fedele. Il rinnovamento e la nuova giovinezza della Chiesa cattolica e l'evoluzione della sua spiritualità si sono determinati in due tempi: quello della Preriforma, e quello che iniziò con il Concilio di Trento; il tempo degli sforzi non organizzati, dispersi, e quello in cui l'autorità riprese in mano le redini della situazione, cosa che non avrebbe potuto produrre tali e tanti frutti se non fosse stata preceduta da tutto il lavoro degli anni precedenti il 1540, lavoro oscuro, e non di rado, almeno all'apparenza, deludente, privo di successo. È altrettanto vera l'impostazione che parta da un punto di vista rovesciato. In una Chiesa centralizzata quanto la Chiesa cattolica, il rinnovamento non avrebbe potuto imporsi a tutto il popolo dei fedeli per la sola virtù di iniziative espresse dalla base, nella misura in cui fosse venuta a mancare la volontà della gerarchia (papato e corpo episcopale).

Proprio quando gli « abusi» si facevano ogni giorno più gravi e numerosi (cumulo dei benefici, commende, crescente laicizzazione e vita sempre più mondana dell'alto clero, mancata residenza dei pastori e loro ignoranza) nasceva la Devotio Moderna che fu definita e diffusa, alla fine del XIV secolo, da Ruysbroeck il «mirabile », da Geert Groot, e dai Fratelli della Vita Comune. La Devotio Moderna non poneva l'accento sulla liturgia, e neppure sulla vita monastica, ma sulla meditazione personale, meditazione ben strutturata e condotta metodicamente (così da evitare di cadere nella rischiosa insidia del sentirsi «illuminati») e centrata sul Cristo. Benché ciascuno in modo diverso, tanto Lutero quanto Bérulle, Erasmo e sant'Ignazio sono eredi della Devotio Moderna. E vero che questa costituiva un nutrimento spirituale per anime di élite, tuttavia mai si era predicato per il popolo tanto quanto nel XV secolo. Quando Lutero, Calvino e i padri del Concilio di Trento insistettero perché la parola di Dio venisse annunziata e spiegata ai fedeli, essi si collocarono sulla stessa linea, nello stesso solco, dei grandi predicatori della Preriforma: Jan Hus, Bernardino da Siena, Savonarola, ecc.

Proprio quando la Cristianità stava perdendo la speranza di una purificazione profonda e vasta della Chiesa, negli ordini religiosi si produssero numerose riforme parziali, con ritorno a una disciplina più rigorosa: i Domenicani conobbero la creazione della cosiddetta Congregazione d'Olanda; tra i Camaldolesi la riforma si ebbe grazie a Paolo Giustiniani, che attribuiva la massima importanza all'esperienza e all'osservanza della solitudine assoluta; tra i Francescani, la secessione di un eroe della povertà e della devozione, Matteo da Bascio (1526), dava luogo alla nascita di una nuova famiglia religiosa, quella dei Cappuccini. In compenso, c'era un ordine che non aveva mai tralignato: i Certosini. Cartusia numquam reformata quia numquam deformata. Uno dei libri di pietà più letti, nel corso del XV secolo e all'inizio del XVI, fu la Vita Christi, di Ludolfo il Certosino, che il cavaliere Iñigo di Loyola ebbe nella sua biblioteca.

La vocazione del fondatore dei Gesuiti è fiorita in un paese di stupefacente vitalità religiosa, in cui i re vigilavano perché i vescovi facessero residenza nelle proprie diocesi; un paese che, grazie al cardinale Cisneros († 1517), aveva portato a termine una sua propria riforma quando ancora il nome di Lutero era sconosciuto
. All'università di Alcalá, creata da Cisneros, dominava la cultura umanistica, e Salamanca aveva fama di «piccola Roma ». La robustezza e il valore della teologia spagnola si affermeranno ben presto, nel corso del Concilio di Trento. Contrariamente al cardinale Cisneros, il legato papale in Francia, cardinale d'Amboise, e il cardinale Wolsey, legato in Inghilterra, non trassero profitto dalla propria autorità per attuare una riforma della Chiesa nei rispettivi paesi. Vari concordati, quali quello inglese del 1418 e quello francese del 1516, che era stato preceduto dalla Prammatica Sanzione del 1438, erano ostacoli ad una seria riforma della vita religiosa. Nelle mani dei sovrani, i benefici maggiori diventavano la migliore ricompensa per servigi di ordine e natura politica; si deve ritenere, a questo punto, che la pietà fosse in abbandono in questi due paesi?

A dire il vero, sia in Francia che in Inghilterra, nel periodo che chiamiamo della Preriforma, furono costruite o abbellite molte chiese.Numerose prove indicano d'altra parte che il popolo inglese era rimasto assai attaccato alla propria Chiesa, e la Francia, dove il clero era in aumento dalla fine della guerra dei Cento anni (nella diocesi di Sées quadruplicò tra il 1445 e il 1514), cercava, dal canto suo, la strada per un rinnovamento religioso. La prova che la volontà di riforma era viva nel paese è data dal Concilio di Sens (1485), e dai sinodi diocesani che lo seguirono, a Chartres, Langres, Nantes e Troyes, dalla azione di un severo riformatore come Standonck, e dallo zelo apostolico di vescovi come Poncher a Parigi, François d'Estaing a Rodez, Briçonnet a Meaux.

Anche la Chiesa tedesca, nel secolo che precedette la rivolta di Lutero, ebbe vescovi «rigeneratori» che cercarono di realizzare nelle proprie diocesi la riforma in capite et in membris: Heinrich di Hewen e Burchard von Randegg a Costanza, Matthias Ramung a Spira, Friedrich von Zollern ad Augusta, ecc. Recenti ricerche hanno molto mutato il quadro tradizionale delle condizioni della Chiesa e della vita religiosa tedesca agli inizi del secolo XVI. Scrive H. Jedin:

Non c'è dubbio che nella Chiesa tedesca si fecero riforme più che in ogni altra Chiesa. Se gli eventi presero la piega che conosciamo, non è perché il ministero pastorale fosse poi trascurato, il clero meno pio o morale, il popolo più ignorante o meno religioso che in altri paesi; al contrario, la borghesia cittadina, il laicato, la classe degli intellettuali, il cui peso cresceva, esigevano dal loro clero più che non altrove, avvertivano in modo più vivo la distanza tra l'ideale e la realtà, e soprattutto erano decisi a correggere in modo radicale ogni abuso, vero o presunto ...

L'Italia del Rinascimento, per certi aspetti così pagana, conobbe tuttavia i primi sintomi di una trasformazione religiosa in anni in cui Lutero non aveva ancora fatto parlare di sé
, e in cui, in ogni caso, concilio e papa non avevano ancora ripreso in mano le redini della Chiesa. La recente storiografia ha strappato all'oblio in cui giacevano i nomi di un uomo e di una confraternita che contribuirono a creare questo nuovo clima religioso.
L'uomo è Battista da Crema († 1534), «il padre pieno di lume», un domenicano che predicava la riforma individuale, assicurava che la Grazia non manca mai all'uomo, ma è l'uomo che non risponde a Dio (è l'inizio del molinismo), e fu un suscitatore di vocazioni. La confraternita è l'Oratorio del divino amore, creato a Genova nel 1497 da un devoto genovese e trasferito a Roma verso il 1514. Questa iniziativa laicale ricorda quella che diede origine ai Fratelli della Vita Comune. Si metteva l'accento sulla preghiera, sulla santificazione personale e sul servizio al prossimo. Tra i membri della confraternita furono Gaetano da Thiene, Giampietro Carafa (il futuro Paolo IV), l'umanista Sadoleto, G. M. Giberti, che sarà il riformatore della diocesi di Verona. Da essa uscirono i Teatini, la prima congregazione di chierici regolari della storia (1524).

La creazione dei Teatini, che rispondeva a un bisogno dei tempi, fu seguita ben presto da quella dei Barnabiti, dei Somaschi, e dei Gesuiti, tutte precedenti la convocazione del Concilio di Trento. Questi «preti riformati », vivendo in mezzo al popolo cristiano, intendevano dare l'esempio della virtù sacerdotale, insegnare il catechismo, occuparsi degli orfani, ridare al culto decoro e solennità, portare i fedeli alla pratica sacramentale. Contemporaneamente a queste congregazioni di preti regolari, sorgeva a Brescia, grazie ad Angela Merici, l'istituto delle Orsoline (1535), che non aveva clausura, come più tardi quello delle Serve dei Poveri di Vincenzo de' Paoli, e aveva per scopo l'educazione delle ragazze. Quanto poi ai vescovi italiani della prima metà del secolo XVI, la lista di coloro che non trascuravano i doveri del proprio stato, e consentirono al Concilio di Trento di giungere a buon porto, è tutto sommato abbastanza nutrita, Uno, sopra gli altri, è degno di attenzione: G. M. Giberti († 1543), ex «datario» di Clemente VII, e vescovo di Verona. Egli faceva vita da monaco, visitò senza sosta la propria diocesi, restaurò la dignità del culto, sorvegliò sulla predicazione, sospese i preti incapaci, mise in carcere i sacerdoti indegni, e riformò i monasteri. San Carlo Borromeo, a Milano, non avrà altro modello che questo «rude asceta».

dal sito dell’Almo Collegio Capranica

Il cardinale Domenico Capranica (1400-1458), con atto del 5 gennaio 1457, fondava un Collegio, cui dava il nome della sua famiglia, con lo scopo di offrire la possibilità di una adeguata formazione al sacerdozio ai giovani meno abbienti della città di Roma
. Tale fondazione si inseriva nell’ambito di una serie di iniziative analoghe che, specie nella Roma del Quattrocento, venivano suscitate dalla crescente attenzione verso l’istruzione ecclesiastica. Le intenzioni del fondatore rispondevano pertanto all'esigenza di offrire alla società del tempo un clero più preparato sotto l'aspetto culturale e spirituale, da qui la specificità e l'unicità dell'identità capranicense.

Domenico Capranica, col quale iniziarono le fortune della famiglia che prendeva nome dalla originaria Capranica Prenestina, feudo dei Colonna fino al 1563, fu personaggio di spicco nella Roma della prima metà del Quattrocento. Nato col secolo, formatosi alle Università di Padova e di Bologna, iniziò la sua carriera ecclesiastica e politica col papa Colonna, Martino V: chierico della Camera Apostolica nel 1423, vescovo di Fermo l’anno seguente, governatore della Romagna nel ‘26, cardinale del titolo di Santa Maria in Via Lata nel ‘30. In seguito alla morte del papa, questo grado gli fu contestato e riconosciuto solo due anni dopo, mentre partecipava al concilio di Costanza, concilio al quale il Capranica continuò a prendere parte dal ‘38 al ‘43 - seguendolo nei trasferimenti a Ferrara prima e poi a Firenze - durante il papato di Eugenio IV. Nel ‘43 veniva promosso vicario generale della marca di Ancona. Da Nicolò V Domenico riceveva, nel ‘49, la nomina a Penitenziere Maggiore, che l’avrebbe impegnato nell’imminente Giubileo e che richiedeva la sua stabile presenza a Roma; intorno a quella data egli avviò i lavori per la sua nuova residenza presso il Pantheon, nella piazza di Santa Maria in Aquiro. Nel ‘53 si rese benemerito del papa, denunciando la congiura di Stefano Porcari, e nell’ultimo periodo della non lunga vita svolse importanti incarichi diplomatici, in particolare presso il re di Napoli Alfonso V d'Aragona. Domenico Capranica fu un buon umanista (nel suo palazzo raccolse una preziosa biblioteca di codici, oggi alla Vaticana), ma soprattutto cultore degli studi teologici e filosofici ed autore di opuscoli di argomento morale, ecclesiastico e politico.

Due anni prima della morte fondò il “Collegio dei poveri scolari della Sapienza Firmana” (come suonava la denominazione originaria motivata dalla sua carica di vescovo di Fermo; ragione per la quale anche la piazza fu chiamata, per un certo periodo, “del Cardinale di Fermo”), destinato a giovani di umile condizione, romani di nascita, ma con l’eccezione per i fermani, che avevano deciso di intraprendere la carriera ecclesiastica, perché studiassero soprattutto teologia e diritto canonico. Veniva così anticipata di un secolo l’istituzione dei seminari, decisa dal Concilio di Trento nel 1563. Il Capranica predispose ogni cosa perché il progetto andasse in porto. Ne assicurò il mantenimento con le rendite immobiliari: una casa detta “delle due torri” presso Sant’Agostino ed un’altra in piazza di Pietra, nella parrocchia di Santo Stefano del Trullo; i due casali fuori porta Maggiore detti Boccamazzi e Monumento che formarono la tenuta della “Sapienza”: l’attuale borgata di Tor Sapienza. Fissò regole precise per ogni aspetto della vita collegiale, redigendone personalmente le “Constitutiones”: significativi, per quei tempi di non eccessivo rigore, gli obblighi per i futuri sacerdoti della messa quotidiana, del celibato, dell’obbedienza al Papa, dello studio costante della teologia e in particolare di San Tommaso. Gli alunni dovevano governarsi da soli, eleggendo tra di loro il rettore, i consiglieri e i bibliotecari, che dovevano essere confermati dai patroni e rimanevano in carica un anno.

La tutela e l’amministrazione il Capranica volle affidati all’autorità dei Conservatori dell’Urbe, dei Capi Rione e soprattutto dei Guardiani dell’Arciconfraternita del Santissimo Salvatore ad Sancta Sanctorum (alla quale egli stesso era iscritto), i quali assicurarono la loro disponibilità in tal senso il 24 dicembre 1456. Il 5 gennaio 1457 - data ritenuta come quella di fondazione dell’istituto - avvenne la presa in consegna dei beni. Domenico Capranica morì il 14 agosto 1458, a pochi giorni di distanza da Callisto III, al quale era ormai dato per scontato dovesse succedere: a un passo, dunque, dal massimo riconoscimento di una straordinaria carriera. 
Fu sepolto nella cappella gentilizia che aveva ottenuto nel ’49 in Santa Maria sopra Minerva, chiesa dell’ordine domenicano da lui prediletto, nel monumento funebre scolpito dal Bregno che gli eresse il fratello Angelo, suo erede ed esecutore testamentario.

Il Collegio venne dotato dal suo fondatore di una solida base economica, così da garantirne l’autonomia finanziaria. Lo stesso cardinal Domenico ne redasse le costituzioni, riedite con qualche aggiunta fino al XX secolo. Nel 1459 il Collegio Capranica aprì le sue porte a una trentina di alunni, e venne affidato alle cure dell’Arciconfraternita romana del SS. Salvatore ad Sancta Sanctorum, di cui il cardinal Capranica era membro fin dal 1452. 

Alcuni anni dopo, nel 1478, fu il cardinale Angelo Capranica (1423-1478), fratello di Domenico, ad ottenere da Sisto V licenza di costruire una sede specifica per il Collegio, a fianco dell’antico Palazzo Capranica presso la chiesa di Santa Maria in Aquiro. Il titolo di “almo” (che dà la vita), di cui il Collegio si fregia, ricorda con somma riconoscenza quei superiori e alunni che, durante il sacco di Roma del 1527, presso Porta Santo Spirito, sacrificarono la loro vita per la difesa del Pontefice.




Caterina63
00sabato 6 febbraio 2016 21:43




1.3/ Il significato della riforma cattolica come di ogni vera riforma della Chiesa

dall’Editoriale de “La Civiltà Cattolica”, n. 3562, 21/11/1998
Nel Cinquecento la Chiesa ha visto il trionfo del paganesimo rinascimentale, il dilagare della corruzione, giunta con Alessandro VI fino al soglio pontificio, un’incredibile ignoranza del clero, l’abbandono delle sedi vescovili, le pratiche simoniache, la scissione della cristianità occidentale a causa delle riforme luterana e calvinista, il sacco di Roma, la minaccia dell’invasione turca. Sembrava che sotto tanti colpi la Chiesa dovesse crollare, tanto più che Carlo V, il difensore ufficiale del cattolicesimo, si alleava con i principi protestanti, i quali si impadronivano della maggior parte delle regioni settentrionali dell’Europa, e Francesco I, re di Francia, si alleava con Solimano, il nemico della cristianità. 

Eppure, forse in nessun secolo della sua storia come nel Cinquecento la Chiesa diede segni più forti di vitalità. È straordinario il numero dei santi canonizzati vissuti nel Cinquecento. Eccone alcuni: Girolamo Emiliani, Antonio Maria Zaccaria, Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo, Gaetano da Thiene, Giuseppe Calasanzio, Filippo Neri, Francesco Saverio, Pietro Canisio, Francesco Borgia, Giovanni di Dio, Francesco Caracciolo, Giovanni Leonardi, Andrea Avellino, Pietro di Alcantara, Tommaso da Villanova, Tommaso Moro, Giovanni Fisher, Pio V, Stanislao Kostka, Luigi Gonzaga, Pasquale Baylon, Camillo de Lellis, Lorenzo da Brindisi, Turibio di Mongrovejo, Giovanni della Croce, Francesco Solano, Roberto Bellarmino, Angela Merici, Teresa di Gesù, Maria Maddalena de’ Pazzi, ecc. È un elenco impressionante, anche se incompleto: si tratta, nella maggior parte dei casi, di giganti della santità cristiana, della carità, della mistica e dell’apostolato cattolico. 

Non è tutto. Nel Cinquecento fu celebrato il Concilio di Trento il quale, da una parte, mise in chiaro la dottrina cattolica e, dall’altro, pose le basi per la riforma della vita cristiana;furono fondati molti ordini religiosi (teatini, scolopi, barnabiti, cappuccini, gesuiti, fatebenefratelli, camilliani, carmelitani scalzi, ecc.), che costituirono una delle forze ecclesiali più vive e attive; vennero aperte al Vangelo l’Asia, l’Africa e l’America Latina; fu definitivamente respinta la minaccia turca con la vittoria di Lepanto; si riuscì a fermare la diffusione del protestantesimo nel sud dell’Europa e a riconquistare in parte il terreno perduto con la riforma luterana. 

Lo storico che si pone di fronte a questi fatti non può non essere sorpreso dalla capacità della Chiesa di riprendersi da pesanti sconfitte e di rinnovarsi continuamente; ma la sua sorpresa crescerà, se rifletterà che non soltanto essa è stata ed è combattuta da forze esterne ad essa assai superiori, ma è debole interiormente. Certo, se la Chiesa fosse stata e fosse forte e vigorosa e potesse quindi combattere con i suoi avversari ad armi pari, la sua sopravvivenza potrebbe spiegarsi; ma sfortunatamente la Chiesa è debole e divisa; ci sono in essa mediocrità, debolezze, peccati; c’è spesso mancanza di intelligenza dei problemi, di strategie adeguate, di iniziativa e di coraggio. 

In realtà, i colpi più duri si sono abbattuti sulla Chiesa non dal di fuori, ma dall’interno, per opera dei suoi stessi figli: per causa loro essa ha versato le lacrime più amare e ha corso i più gravi pericoli per la stessa esistenza. La storia è piena di debolezze e di tradimenti perpetrati dai suoi figli ai suoi danni. Eppure, sottoposta ad attacchi combinati esterni ed interni, la Chiesa non è finita, ma ogni volta si è ripresa vigorosamente, mentre i suoi avversari, tanto più forti di essa, sono scomparsi.

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Dalla lettera di Romano Guardini a mons. G.B. Montini, del 29 marzo 1952

Il riconoscimento della Chiesa è stato la convinzione determinante della mia vita. Quando ero ancora studente di scienze politiche ho capito che la vera e propria scelta cristiana non ha luogo davanti al concetto di Dio e neppure di fronte alla figura di Cristo, ma davanti alla Chiesa. Ciò mi ha fatto capire che una vera efficacia è possibile solo nell'unità con essa.

Da Romano Guardini, Il senso della Chiesa, Morcelliana, Brescia, 2007, pp.106-107

Il discorso si volge alla Chiesa reale, non alla sua idea, non a una Chiesa spirituale, bensì a quella storica, attuale. La Chiesa non è affatto un’idea che possa essere progettata a priori, e su cui ci si possa ritirare, quando la realtà fallisca. In fondo non vi è alcuna filosofia della Chiesa: essa si presenta piuttosto come una realtà unica. La sua condizione è analoga a quella d’un uomo: se qualcuno dicesse che il suo assenso, l’approvazione, non vale affatto per l’essere concreto dell’amico, bensì per la sua idea, gli farebbe ingiustizia.
Sì, sarebbe sleale verso di lui; poiché è la personalità dell’amico che esige si consenta alla sua realtà esistenziale, ovvero la si rinneghi. Il sì o il no, la lotta o la fedeltà – non però nell’intendimento d’astrarre dalla realtà, per amore dell’idea: sarebbe metafisicamente falso, in quanto costituirebbe un disconoscimento dell’importanza decisiva della personalità, la quale impedisce di farne semplicemente un caso individuo dell’universale.

E sarebbe eticamente illecito, poiché equivarrebbe a porre al posto di quell’atteggiamento, che si richiede dalla persona, quello ben diverso che è adatto di fronte ad una cosa. Appunto tale è l’assurdità di una distinzione tra realtà ed idea della Chiesa. Vi e è però a questo proposito tanto più stringente la necessità di un’altra distinzione. Ci si deve chiedere: riesce ad apparire la forma essenziale, la perfezione interiore della Chiesa nella sua manifestazione esteriore nel tempo? Sono operanti le energie essenziali della Chiesa attraverso le sue espressioni di vita visibile? L’interiorità del suo essere si inserisce percepibilmente negli uomini che formano la Chiesa?

Qui nessuno si può sentire esentato dal dare risposta, perché essa lo riguarda personalmente. Quando si sia riconosciuto che la Chiesa nella sua reale essenza è rivestita di valore e rimane ognora una via e una forza atta a farci pervenire al compimento del nostro destino, ciò ci riempirà innanzitutto di un profondo senso di gratitudine, non ci concederà tuttavia per nulla il diritto di collocarci in essa a nostro agio, bensì si muterà in una istanza: poiché la parabola dei talenti [cfr. Mt 26,15; Lc 19,13] vale anche per i nostri rapporti con la Chiesa. Noi siamo gravati di una responsabilità in rapporto ad essa, ciascuno a suo modo, il sacerdote in virtù dell’Ordine, il laico attraverso la Cresima. Dipende da ciascuno di noi con quanta larghezza e profondità contribuiamo a determinarla nel suo essere e nel suo manifestarsi, nel suo interno e nel suo esterno.

da J. Ratzinger, Una compagnia sempre riformanda, Conferenza a conclusione dell’XI edizione del Meeting per l’amicizia dei popoli, Rimini, 25- agosto-1 settembre 1990, pubblicata in J. Ratzinger, La bellezza. La chiesa, LEV-ITACA, Roma-Castel Bolognese, 2005, pp. 30-33
Una Chiesa che riposi sulle decisioni di una maggioranza diventa una Chiesa puramente umana. Essa è ridotta al livello di ciò che è plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni ed opinioni. L’opinione sostituisce la fede. Ed effettivamente, nelle formule di fede coniate da sé che io conosco, il significato dell’espressione “credo” non va mai al di là del significato “noi pensiamo”. La Chiesa fatta da sé ha alla fine il sapore del “se stessi”, che agli altri “se stessi” non è mai gradito e ben presto rivela la propria piccolezza. Essa si è ritirata nell’ambito dell’empirico, e così si è dissolta anche come ideale sognato.

L’attivista, colui che vuole costruire tutto da sé, è il contrario di colui che ammira (l’“ammiratore”). Egli restringe l’ambito della propria ragione e perde così di vista il Mistero. Quanto più nella Chiesa si estende l’ambito delle cose decise da sé e fatte da sé, tanto più angusta essa diventa per noi tutti. In essa la dimensione grande, liberante, non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello che a noi tutti è donato. Quello che non proviene dal nostro volere e inventare; bensì è un precederci, un venire a noi di ciò che è inimmaginabile, di ciò che “è più grande del nostro cuore”. 

La reformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la “nostra” Chiesa come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce purissima che viene dall’alto e che è nello stesso tempo l’irruzione della pura libertà.

Lasciatemi dire con un’immagine ciò che io intendo, un’immagine che ho trovato in Michelangelo, il quale riprende in questo da parte sua antiche concezioni della mistica e della filosofia cristiane. Con lo sguardo dell’artista, Michelangelo vedeva già nella pietra che gli stava davanti l’immagine-guida che nascostamente attendeva di venir liberata e messa in luce. Il compito dell’artista – secondo lui – era solo quello di toglier via ciò che ancora ricopriva l’immagine. Michelangelo concepiva l’autentica azione artistica come un riportare alla luce, un rimettere in libertà, non come un fare. [...]

Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana. E per questo tutto ciò che è fatto dall’uomo, all’interno della Chiesa, deve riconoscersi nel suo puro carattere di servizio e ritrarsi davanti a ciò che più conta e che è l’essenziale. 
La libertà, che noi ci aspettiamo con ragione dalla Chiesa e nella Chiesa, non si realizza per il fatto che noi introduciamo in essa il principio della maggioranza. Essa non dipende dal fatto che la maggioranza più ampia possibile prevalga sulla minoranza più esigua possibile. Essa dipende invece dal fatto che nessuno può imporre il suo proprio volere agli altri, bensì tutti si riconoscono legati alla parola e alla volontà dell’Unico, che è il nostro Signore e la nostra libertà. 

Nella Chiesa l’atmosfera diventa angusta e soffocante se i portatori del ministero dimenticano che il Sacramento non è una spartizione di potere, ma è invece espropriazione di me stesso in favore di Colui, nella persona del quale io devo parlare ed agire. Dove alla sempre maggiore responsabilità corrisponde la sempre maggiore auto espropriazione, lì nessuno è schiavo dell’altro; lì domina il Signore e perciò vale il principio che: «Il Signore è lo Spirito. Dove però c’è lo Spirito del Signore ivi c’è la libertà» (2Cor 3,17).
Quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto meno c’è spazio per lo Spirito, tanto meno c’è spazio per il Signore, e tanto meno c’è libertà. Io penso che noi dovremmo, sotto questo punto di vista, iniziare nella Chiesa a tutti i livelli un esame di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza dovrebbe avere conseguenze assai concrete, e recare con sé un’ablatio che lasci di nuovo trasparire il volto autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare a noi tutti il senso della libertà e del trovarsi a casa propria in maniera completamente nuova.

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da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 27 (lettera dei professori dell’università di Barcellona a Ignazio del 1555)

«Reverendo Padre, quando consideriamo le tue opere e le confrontiamo con quelle dell' antichità, tu ci appari davvero beatissimo, perché Cristo ti ha eletto (... ) per sostenere con vigore i vecchi edifici ecclesiastici che minacciano di rovinare per vecchiezza e per incuria dei loro architetti, e per costruirne di nuovi. È quanto han fatto in altri tempi Antonio e Basilio, Benedetto, Bernardo, Francesco e Domenico e molti altri illustri personaggi che veneriamo come santi. E nominiamo con onore. Verrà un tempo - lo speriamo e lo desideriamo - nel quale tu sarai invocato nello stesso modo per le tue grandi opere, e la tua memoria sarà sacrosanta in tutto il mondo». 

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 38
«Lodare più che criticare. Costruire più che demolire»: questo era il suo [di Ignazio] motto, rivelatore della sua particolare sensibilità ecclesiale.




2/ Ignazio di Loyola

2.1/ La serietà di una vita anche precedentemente alla conversione: il concetto di onore

Autobiografia, 1 (cfr. assedio di Pamplona)
Fino a ventisei anni, fu un uomo dedito alla vanità del mondo. Suo diletto preferito era il maneggio delle armi, con un grande e vano desiderio di procacciarsi fama.

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 29
«Non si dava pace, perché voleva continuare la vita mondana e pensava che ciò lo rendeva deforme [dopo la ferita alla gamba in guerra]. Chiese ai medici se si potesse nuovamente tagliare. Essi risposero che certamente si poteva tagliare, ma che i dolori sarebbero stati più atroci di quelli già sofferti perché l'osso era già sano e l'operazione era lunga. Ciò nonostante egli decise di sottoporsi a quel martirio per il proprio capriccio. Suo fratello maggiore era assai preoccupato e diceva che egli non avrebbe potuto sopportare un simile dolore. Il ferito invece lo sopportò con la solita forza d'animo. Si incise la carne, si segò l'osso sporgente, poi si usarono vari rimedi perché la gamba non restasse così corta: si applicarono unguenti e apparecchi che la tenessero in trazione. Un vero martirio. Ma Nostro Signore gli ridiede salute a poco a poco» (Autobiografia, 4-5).

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 29
«Immaginava le imprese che avrebbe voluto compiere in onore di una signora, i mezzi che avrebbe usato per raggiungere il paese dove abitava, le parole che avrebbe detto, i fatti d'arme che avrebbe compiuto in suo onore. Era talmente perduto in simili progetti che non s'accorgeva quanto fosse impossibile realizzarli; perché quella dama non era di nobiltà ordinaria: non era né contessa né duchessa, ma di rango assai più elevato» (Autobiografia, 6).
Sembra che si trattasse della infelice principessina Catalina, sorella di Carlo v, che sarebbe poi andata sposa a Giovanni III Re del Portogallo.

2.2/ Discernere cosa si vuole veramente: quali segni per orientarsi nei desideri? La gioia del bene che dura una vita intera e l’eternità

dagli "Atti" raccolti da Ludovico Consalvo dalla bocca di sant'Ignazio (Cap. 1, 5-9; Acta SS. Iulii, 7, 1868, 647)
Essendo stato appassionato divoratore di romanzi e d'altri libri fantasiosi sulle imprese mirabolanti di celebri personaggi, quando cominciò a sentirsi in via di guarigione, Ignazio domandò che gliene fossero dati alcuni tanto per ingannare il tempo. Ma nella casa, dove era ricoverato, non si trovò alcun libro di quel genere, per cui gliene furono dati due intitolati "Vita di Cristo" e "Florilegio di santi", ambedue nella lingua materna. Si mise a leggerli e rileggerli, e man mano che assimilava il loro contenuto, sentiva nascere in sé un certo interesse ai temi ivi trattati. Ma spesso la sua mente ritornava a tutto quel mondo immaginoso descritto dalle letture precedenti. In questo complesso gioco di sollecitazioni si inserì l'azione di Dio misericordioso. Infatti, mentre leggeva la vita di Cristo nostro Signore e dei santi, pensava dentro di sé e così si interrogava: "E se facessi anch'io quello che ha fatto san Francesco; e se imitassi l'esempio di san Domenico?". Queste considerazioni duravano anche abbastanza a lungo avvicendandosi con quelle di carattere mondano. Un tale susseguirsi di stati d'animo lo occupò per molto tempo. 

Ma tra le prime e le seconde vi era una differenza. Quando pensava alle cose del mondo era preso da grande piacere; poi subito dopo quando, stanco, le abbandonava, si ritrovava triste e inaridito. Invece quando immaginava di dover condividere le austerità che aveva visto mettere in pratica dai santi, allora non solo provava piacere mentre vi pensava, ma la gioia continuava anche dopo. Tuttavia egli non avvertiva né dava peso a questa differenze fino a che, aperti un giorno gli occhi della mente, incominciò a riflettere attentamente sulle esperienze interiori che gli causavano tristezza e sulle altre che gli portavano gioia. Fu la prima meditazione intorno alle cose spirituali. In seguito, addentratosi ormai negli esercizi spirituali, costatò che proprio da qui aveva cominciato a comprendere quello che insegnò ai suoi sulla diversità degli spiriti.

dagli Esercizi spirituali
[1] Prima annotazione. Con il termine di esercizi spirituali si intende ogni forma di esame di coscienza, di meditazione, di contemplazione, di preghiera vocale e mentale, e di altre attività  spirituali, come si dirà  più avanti. Infatti, come il passeggiare, il camminare e il correre sono esercizi corporali, così si chiamano esercizi spirituali i diversi modi dipreparare e disporre l'anima a liberarsi da tutte le affezioni disordinate e, dopo averle eliminate, a cercare e trovare la volontà  di Dio nell'organizzazione della propria vita in ordine alla salvezza dell'anima.

-si tratta di purificare, di ordinare (perché spesso l’uomo non sa cosa vuole, al di là delle apparenze in cui sembra di saperlo!)

appunti da p. Daniele
Gc 1,14-15 ciascuno è tentato dalle proprie passioni che lo attraggono, poi il peccato, poi la morte!
Ma anche:
Sal 83 l'anima mia anela e desidera...
Sal 42 l'anima mia anela
Is 26,7-9 al tuo nome si volge tutto il nostro desiderio.
Nella Scrittura il desiderio è molto presente.
Il desiderio ha una forza straordinaria nella vita, ma se non siamo padroni di noi stessi, i nostri desideri possono portarci molto in alto o molto in basso!
Possiamo essere vittima dei nostri desideri. Desiderare rimanda al “mestiere” degli àuguri... guardare le stelle, guardare in alto per trarne degli auspici, come uno stato di affezione dell'io verso qualcosa di cui si desidera la contemplazione o il possesso. Esiste qualcosa che non ci serve per vivere, ma è bello, quegli oggetti spirituali che sono propri dell'uomo. Ma i desideri possono essere anche smodati!
Esperienza profonda che l'uomo cerca qualcosa... l'uomo non basta a se stesso.... non può essere autosufficiente. A detto F. Hadjadj 
Per elevare un palazzo, c’è bisogno di un terreno. Affinché l’uomo si elevi, ha bisogno di un Cielo. C’è una nostra creaturale destinazione a qualcun'altro. C’è la domanda: perché ci sono? A che serve la mia vita?

Ma esiste anche il desiderio della carne, il desiderio di una carne non cristificata
 (cfr. Gal e Rm desideri della carne e dello Spirito), esiste una lotta nel cuore dell’uomo!
Se voi osservate, esiste un identikit dell'uomo integrato, equilibrato, dell'uomo che ha trovato il suo baricentro. Un esempio? Persone disordinate che quando si innamorano cambiano!
Che cosa ami, chi ami, cosa vuoi costruire, a chi vuoi donarti?

Come avviene il cammino? Imparando ad innamorarsi del Signore! Il problema non è il desiderio, ma amare troppo poco il Signore. Per Ignazio l’uomo è un coacervo di desideri, dove ci sono desideri di cose buone e di cose cattive, desideri eccessivi di cose buone e desideri eccessivi di cose non cattive, ma solo necessarie, dove c’é mancanza di desiderio per cose buone, ma anche desideri eccessivi di cose non buone, ecc. Ecco allora la prospettiva liberante. Il desiderio ci può portare all'inferno, ma anche alle vette più alte del vivere, bisogna quindi  scegliere ciò che è oggettivamente più idoneo, senza lasciarsi distogliere dall'obiettivo dei desideri più profondi.

da L’ordine dei sentimenti nel cammino di un credentedi Carlo Maria Martini   
Sento timore e trepidazione perché a causa della natura complessa e poliedrica del tema del sentire umano non è possibile azzardare una parola conclusiva, ma semmai indicare qualche pista di lavoro.
“L’ordine dei sentimenti nel cammino di un credente: gli esercizi spirituali di sant’Ignazio quale cammino verso la libertà”, è il titolo della mia relazione. Possiamo esprimerlo in forma di domanda: “C’è un ordine dei sentimenti? C’è un governo dei sentimenti? E’ lecito questo governo? E’ possibile?”. In altri termini: come fare quando i sentimenti mi tradiscono? Quando non sgorgano come e quando io vorrei oppure si spengono quando e come io non vorrei, oppure si accavallano e si urtano, così da togliermi il controllo di essi? Oppure si occultano, scompaiono, mi lasciano freddo, arido e cinico, quando io vorrei invece reagire a una situazione in modo diverso, più costruttivo e mi sento vuoto di sentimenti? E’ possibile questo governo? E’ giusto? O è meglio lasciare la briglia alla spontaneità, affidarsi ai torrenti del deserto, che ora si intorbidano nel momento delle grandi piogge, ora si seccano e deludono la nostra sete? Come fare ad esempio, quando in un amore, che si voleva senza fine, in una amicizia che si voleva perenne, i sentimenti si ottundono e si spengono? E’ necessario rassegnarsi? Oppure lottare? Si possono risuscitare? Come?

Sono domande a cui non pretendo di rispondere esaustivamente, ma che pure si pongono nel cammino di ogni uomo e di ogni donna, perché sono parte di ogni rapporto umano.
E’ il problema dell’esserci o meno dei sentimenti, dell’esserci a dispetto di noi. E’ questa incapacità a governarli che ci irrita, e vorremmo capire meglio. Il discorso vale, e fortemente, anche nel nostro rapporto o non rapporto con Dio, nel credere o nel non credere, perché molto spesso il sì o il no alla fede è giocato sull’onda del sentire o del non sentire.
“Non credo perché non sento niente”, dice qualcuno; “Credevo, e tuttavia mi pare di non credere più, mi pare che i miei sentimenti si siano affievoliti con gli anni”.
Ci chiediamo: esiste un tentativo di risposta sistematica a questi problemi?  


Il libretto degli “Esercizi spirituali”

Penso siano molto pochi coloro che hanno letto nella sua stesura originale il testo di sant’Ignazio. E’ composto di circa ottanta paginette ed è stato scritto quando Ignazio era ancora in ricerca di Dio e faceva le sue esperienze titubanti anche, e difficili, che annotava su dei fogli. Il libretto è stato scritto tra il 1521 e il 1538; Ignazio cominciò quindi a trentun anni ad appuntare alcune note di metodo su ciò che accadeva dentro di lui, sul suo itinerario mentale, e concluse la stesura circa verso i quarantacinque anni. E’ importante sapere che non è un libro fatto per essere letto, dal momento che raccoglie indicazioni metodologiche per un itinerario della mente: è un po’ come una guida dei sentieri di montagna, che non va letta, ma che accompagna chi percorre quei sentieri.

Il libretto si può definire come l’itinerario per una scelta libera da condizionamenti emozionali, da investimenti affettivi errati, da blocchi sentimentali. Scelta, però, non priva di emozioni e di sentimenti; tuttavia libera da condizionamenti ciechi e irrazionali, nella ricerca e nella suscitazione di sentimenti sorgivi e autentici
. Ignazio ci aiuta a ricercare, nel nostro intimo, i sentimenti autentici e a scoprire quelli inautentici e distruttivi, per mettere ordine.

La parola “ordine” è fondamentale e la troviamo già nella definizione che Ignazio dà degli Esercizi: “Esercizi spirituali per mettere ordine nella propria vita senza prendere decisioni emozionalmente compromesse”. Egli ha proprio di mira la forza dei sentimenti da incanalare nella maniera giusta. E, in una delle prime Annotazioni metodologiche del libretto, sottolinea la forza del binomio capire – sentire, perché non basta capire, ma occorre capire e sentire.

Conclude: “Non è il sapere molto che sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare le cose interiormente” (Ann. 2. a).
Si avverte dunque che il capire è importante; meno importante è il sapere molto, l’accumulo di pure informazioni; molto importante, per un cammino autentico della persona, è l’educarsi al sentire e gustare interiormente. E’ una vera educazione dei sentimenti
.

Ho cercato così di far cogliere la relazione tra il libretto degli Esercizi spirituali e il tema che ci siamo proposti: l’ordine dei sentimenti nel cammino di una persona.
Ancora sottolineo, del testo ignaziano, che l’importanza dell’ordine dei sentimenti è anche indicata da alcune regole metodologiche, poste verso la fine, che trattano della scoperta che si deve imparare a fare dei propri movimenti interiori, delle emozioni, dei desideri, delle paure, delle angosce, delle ripugnanze, dei soprassalti di entusiasmo, ecc., in modo da mettervi ordine secondo una serie di principi orientativi chiari ed efficaci. Sono le cosiddette Regole per il discernimento, termine che appare già nella Scrittura, nel Nuovo Testamento e che acquista nel libretto un rilievo specifico. E’ importante – afferma sant’Ignazio – che ciascuno scopra e si renda ragione di ciò che ha dentro, soprattutto dei movimenti, delle pulsioni, degli istinti, non per una semplice psicanalisi del passato, bensì in relazione all’hinc et nunc, al vissuto del momento che si sta attraversando.


Come gli esercizi spirituali ci aiutano a ordinare i sentimenti.

Torna la domanda dell’inizio: è possibile un ordine dei sentimenti, un governo di essi?
Per rispondere sintetizzo alcune note di itinerario, che valgono per tutti e che mi sembra offrano le linee indicative e quasi conclusive di ciò che abbiamo vissuto nei precedenti incontri di questa sessione della “Cattedra” [dei non credenti].

1. E’ certamente possibile ordinare i sentimenti; ordinarli evidentemente con un dominio (lo diceva già Aristotele) non dispotico, bensì politico. Ordinarli infatti non significa schiacciarli o scatenarli o rimuoverli; esiste un giusto mezzo, un governo, una supervisione. E’ già un’acquisizione: c’è un cammino personale possibile del governo dei sentimenti.

2. Questo ordinamento dei sentimenti è in relazione a un fine, dice il libretto. Noi diremmo: un ordinamento dei sentimenti è possibile in relazione a un senso globale della vita, a una Weltanschauung. Non esiste un ordinamento senza un prima o un poi, senza priorità, senza un ordine dei valori, senza un cammino che va verso una meta. E’ il confronto tra il senso globale della vita e gli accadimenti oscuri del mio sentire tumultuoso e apparentemente incontrollabile e indecifrabile, che mi permette a poco a poco di tracciare delle coordinate di senso, di cominciare a capirci qualcosa, di separare alcune emozioni da altre, di riconoscerne alcune come costruttive, altre come distruttive, e di cominciare a darmi un ordine pratico nel confrontarmi con esse.


3. Nasce la domanda che ritengo cruciale per un cammino adulto, per colui che ha già superato le prime conflittualità adolescenziali o giovanili dei sentimenti e ha a che fare con sentimenti più profondi e duraturi, quelli che reggono o non reggono nell’impegno della vita. Che cosa fare quando il pozzo si prosciuga, quando la sorgente si dissecca, quando i sentimenti, che ritenevo necessari, ovvi, giusti, si affievoliscono? Che cosa fare quando nell’amore umano sembra che non si sia più capaci di dirsi niente? Quando nella preghiera non si sente più nulla, sembra di mangiare sabbia, di camminare in un deserto? Quando sembra di non credere più a niente?


4. Gli Esercizi spirituali insegnano che esistono delle regole preziosissime... regole fondate sulla conoscenza profonda della persona e delle sue relazioni con altre persone e con il mistero al di là delle persone umane. Regole che danno una luce straordinaria per quei momenti di buio da cui pochi sono esenti nel corso della vita, soprattutto se si tratta di persone che hanno dedicato la loro esistenza alla preghiera. I contemplativi lottano più di ogni altro con l’aridità dei sentimenti, con la ripugnanza, con l’impotenza, con l’oscurità della notte. Sono i momenti in cui ci si chiede: Che cosa mi sta succedendo? Perché i miei sentimenti non mi obbediscono più?

La regola fondamentale, il segreto della “notte oscura” (per usare l’espressione di san Giovanni della Croce), è molto semplice: anche un pozzo prosciugato nutre i fiori della vita.
E’ dunque la scoperta di un’affettività subliminale al di là dei sentimenti immediatamente percepibili; è la scoperta di un’affettività che è dentro di noi senza che noi lo sappiamo
 e che è, se noi lo vogliamo, più forte delle ripugnanze e delle paure.

Siamo o ci sembra di essere nel “buco nero”, ma in realtà c’è qualcosa di più profondo, che scorre nel silenzio e che nutre le risposte. Il non sapere dell’esistenza di queste acque porta alla disperazione, al cinismo, alla tomba dell’amore; lo scoprirlo invece è l’avvio di una nuova matura esistenza, di un nuovo ordine dei sentimenti.

L’ultima parola che in proposito ci dice il libretto degli Esercizi è quindi consolante: esiste, al di là dei sentimenti superficiali, vulcanici, tumultuosi, proprio là dove si entra nella notte, nel deserto, la capacità di scoprire la potenzialità di energie umane profonde, che, se accolte, pongono la persona in una maturità nuova, in un più definitivo e pieno controllo di sé, in una nuova, acquisita libertà.
E’ qualcosa che non si può esprimere a parole, perché va vissuta; è qualcosa verso cui si orienta tutta la grande tradizione mistica, e non solo cristiana, e che ha trovato una sedimentazione molto semplice proprio nel dinamismo, nel processo degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio.
Non riguarda, ripeto, soltanto i cammini mistici, ma ogni esistenza che voglia pensarsi seriamente come esistenza che fonde in unità pensare e sentire.

Chi vuol vivere un’esistenza così, arriva, presto o tardi, a dover fare il conto con la conflittualità e l’oscurità dei sentimenti che riteneva migliori e più validi. Soprattutto se si tratta della preghiera o dell’amore, di quegli amori che abbiamo scelto e che hanno costituito la nostra esperienza di vita. E’ qui che avviene la scoperta della radice più vera delle grandi scelte della vita, della “opzione fondamentale” che non si svolge nelle scaramucce dei sentimenti superficiali, bensì a queste profondità, dove ciascuno arriva, dove ciascuno ritrova, magari nel buio, la verità di sé.


Quali domande pratiche conseguono per noi?   

Sintetizzo le domande in una sola che possiamo portare con noi per continuare la riflessione: Dove, quando mi è stato dato di accedere a questa profondità di me?

Parlo di profondità – voglio sottolinearlo ancora – che non è frutto di introspezione, di terapia analitica, bensì di quella scoperta della propria autenticità che per lo più avviene nei momenti duri e neri della vita, allorché la persona giunge, forse per la prima volta, a una così autentica libertà, che la estrae dai condizionamenti emozionali che continuamente ci travolgono, verso la scoperta di un’emozionalità interiore potentissima, invincibile, perché sorgiva e finalmente libera
. Questo è l’accesso alla libertà, il cammino verso la libertà. Lasciamo allora che la domanda che ho posto penetri in noi.

da K. Demmer, Introduzione alla teologia morale
Nell'uso comune la parola «libertà» assume anzitutto il senso di libertà di scelta (libertas arbitrii) ed indica la capacità di ciascuno di scegliere tra diversi oggetti. Limitarsi però solo a questo significato comporta necessariamente percepire la norma come restrizione, un «gravamen libertatis». Sorge il dubbio che questa non sia ancora la piena essenza della libertà.
La prospettiva cambia
 e ci permette di aderire maggiormente alla realtà se si inizia a comprendere la libertà come libertà essenziale; in altri termini come capacità di attuare il bene riconosciuto come tale e quindi di auto determinarsi. Questa visione permette di rischiare un progetto su degli ideali, su una meta di vita pienamente riuscita e sensata conferendo alla decisione morale, intesa come adempimento della norma, una sfumatura del tutto singolare.

Le norme in questo senso non restringono la libertà ma abilitano tutte le sue capacità, non sono un peso ma un dono, un gesto di solidarietà nell'ambito di una comunità fraterna. Prendere una decisione morale significa quindi non fuoriuscire da questo ambito, in cui il singolo non è abbandonato ad una norma, che forse lo impegna fino al limite delle sue forze, ma in cui la comunità lo accompagna per un tratto di strada. È in base a ciò che le norme devono essere trasparenti, altrimenti non assolvono il loro compito, non costruiscono ma schiacciano e conducono alla rassegnazione se non addirittura al cinismo.






Caterina63
00sabato 6 febbraio 2016 21:47




2.3/ La scelta della fede: l’opzione fondamentale della ricerca di piacere a Dio

dagli Esercizi spirituali [23] PRINCIPIO E FONDAMENTO.
L'uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e così raggiungere la salvezza; le altre realtà di questo mondo sono create per l'uomo e per aiutarlo a conseguire il fine per cui è creato
. Da questo segue che l'uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano per il suo fine, e deve allontanarsene tanto quanto gli sono di ostacolo. Perciò è necessario renderci indifferenti verso tutte le realtà create (in tutto quello che è lasciato alla scelta del nostro libero arbitrio e non gli è proibito), in modo che non desideriamo da parte nostra la salute piuttosto che la malattia, la ricchezza piuttosto che la povertà, l'onore piuttosto che il disonore, una vita lunga piuttosto che una vita breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo soltanto quello che ci può condurre meglio al fine per cui siamo creati.

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 31
Si recò quindi a Manresa, una città che Ignazio definì poi «la mia chiesa primitiva». Qui gli accaddero le cinque visioni che lo plasmarono dal punto di vista cristiano.
È un momento importante. Prima della conversione Iñigo si riteneva, tutto sommato, un buon cristiano - nonostante le sue debolezze - ed era fiero de a sua fede. Ma, dopo la conversione, egli diventa cristiano: la luce della rivelazione lo afferra e dilaga nel suo cuore e nella sua intelligenza; la pretesa e la novità dell' avvenimento cristiano lo afferrano e lo dominano
.

Parliamo di «visioni», ma Ignazio insisterà sempre che non si trattò di immagini o di forme distinte (nemmeno quando vide Cristo o Maria), ma piuttosto di illuminazioni interiori. La sua formula è questa: «Vide con li occhi interiori».
La prima «Visione» riguardò la Trinità: il mistero vivo, caldo, delle tre Persone divine
, lo penetrò con una tale forza e un tale struggimento di cuore che egli pianse a lungo, e ciò gli capiterà poi spesso nella vita (cfr. n. 28).

La seconda «visione» riguardò la Creazione
: «Gli si rappresentò nell'intelletto, accompagnato da grande allegria spirituale, il modo con cui Dio aveva creato il mondo» (n. 29).
La terza «visione» riguardò «come nostro Signore stava nel Sacramento dell'altare»
 (n. 29).
La quarta «visione» riguardò «l'umanità di Cristo e la figura di Maria»
 (n. 29).
La quinta «visione» riguardò il significato di tutta l'esistenza
, e fu così importante che «in tutto il corso della sua vita, fino a sessantadue anni suonati, sommando tutti gli aiuti di Dio e tutto ciò che ha imparato, anche riunito tutto assieme, non gli pare di aver appreso tanto come in quella sola volta».

Essa accadde lungo le rive del fiume Cardoner. Ascoltiamone il racconto, sempre dall'Autobiografia:
«Camminando così assorto nelle sue devozioni, egli si sedette un momento, rivolto verso l'acqua che scorreva in basso, e stando lì seduto, cominciarono ad aprirglisi gli occhi dell'intelletto. Non già che avesse una visione, ma capì e conobbe) molte cose della vita spirituale, della fede, e delle Scritture, con una tale luce che tutte le cose gli parevano nuove» (n. 30).
Un confidente di Ignazio lo udì dire che gli sembrò allora «d'essere un altro uomo e che l'intelletto fosse diverso da quello di prima».

Trinità, Creazione, Eucaristia, Umanità di Cristo e di Maria, il significato unitario di tutto (oggi diremmo: «una cultura nuova»): furono le basi dogmatiche e spirituali su cui Ignazio poté iniziare la sua costruzione.

-l’opzione fondamentale

2.4/ La I settimana degli Esercizi spirituali: solo la coscienza del peccato rivela la misericordia

dagli Esercizi spirituali

[50] Primo punto. Il primo peccato è quello degli angeli: su questo devo esercitare la memoria, poi l'intelletto ragionando, infine la volontà. Voglio ricordare e capire tutto questo per vergognarmi e umiliarmi sempre più, confrontando l'unico peccato degli angeli con i miei tanti peccati: essi sono andati all'inferno per un solo peccato, e io l'ho meritato innumerevoli volte per i miei tanti peccati. Devo dunque richiamare alla memoria il peccato degli angeli: essi furono creati in grazia, ma non vollero usare la libertà per prestare rispetto e obbedienza al loro Creatore e Signore; perciò, divenuti superbi, passarono dalla grazia alla perversione e furono precipitati dal cielo nell'inferno. Devo poi ragionare più in particolare con l'intelletto e suscitare gli affetti con la volontà.

[51] Secondo punto. Il secondo peccato è quello di Adamo ed Eva: anche su questo devo esercitare le tre facoltà dell'anima. Richiamerò alla memoria che, in seguito a questo peccato, essi fecero penitenza per tanto tempo, e fra gli uomini dilagò tanta corruzione, per cui molti andarono all'inferno. Devo dunque richiamare alla memoria il secondo peccato, quello dei nostri progenitori: dopo che Adamo fu creato nella regione di Damasco e posto nel paradiso terrestre, e dopo che Eva fu formata da una sua costola, fu loro proibito di mangiare il frutto dell'albero della scienza; ma essi ne mangiarono e così peccarono; perciò, coperti di pelli e scacciati dal paradiso, trascorsero tutta la vita fra molti travagli e molta penitenza, senza la giustizia originale che avevano perduto. Devo poi ragionare più in particolare con l'intelletto ed esercitare la volontà nel modo già indicato.

[52] Terzo punto. Devo fare ancora lo stesso sul terzo peccato particolare: è il caso di una persona che per un solo peccato mortale è andata all'inferno, e di moltissime altre persone che vi sono andate per meno peccati di quanti ne ho fatto io. Devo dunque fare lo stesso sul terzo peccato particolare, richiamando alla memoria la gravità e la malizia del peccato contro il mio Creatore e Signore. Devo poi ragionare con l'intelletto, considerando che chi ha peccato e agito contro la bontà infinita, giustamente è stato condannato in eterno, e concludere con la volontà nel modo già indicato.

[53] Colloquio. Immaginando Cristo nostro Signore davanti a me e posto in croce, farò un colloquio: egli da Creatore è venuto a farsi uomo, e dalla vita eterna è venuto alla morte temporale, così da morire per i miei peccati. Farò altrettanto esaminando me stesso: che cosa ho fatto per Cristo, che cosa faccio per Cristo, che cosa devo fare per Cristo. Infine, vedendolo in quello stato e appeso alla croce, esprimerò quei sentimenti che mi si presenteranno.

[54] Il colloquio deve essere spontaneo, come quando un amico parla all'amico, o un servitore parla al suo padrone, ora chiedendo un favore, ora accusandosi di una colpa, ora manifestando un suo problema e chiedendo consiglio. Alla fine si dice un Padre nostro.

[55]SECONDO ESERCIZIO: MEDITAZIONE SUI PECCATI. DOPO LA PREGHIERA PREPARATORIA E DUE PRELUDI, COMPRENDE CINQUE PUNTI E UN COLLOQUIO.

La preghiera preparatoria è la stessa.
Il primo preludio è la stessa composizione.
Il secondo preludio consiste nel domandare quello che voglio: qui sarà chiedere un profondo e intenso dolore e lacrime per i miei peccati.

[56] Primo punto. Il primo punto consiste nel passare in rassegna i miei peccati: devo cioè richiamare alla memoria tutti i peccati della mia vita, esaminando anno per anno o periodo per periodo. A questo proposito sono utili tre considerazioni: rivedere il luogo e la casa dove ho abitato, le relazioni che ho avuto con altri, le attività che ho svolto.

[57] Secondo punto. Valuto i miei peccati, considerando la bruttura e la malizia che ogni peccato mortale commesso ha per sua natura, anche se non si trattasse di cosa proibita.


[58] Terzo punto. Considero chi sono io, ridimensionando me stesso mediante confronti.

- la confessione generale

-cfr. la banalizzazione frequente del cristianesimo: Dio è buono, Dio ci ama, qualsiasi cosa facciamo ci ama... ma è questo il cristianesimo?

appunti da p. Daniele

comprendere quanto sia brutto il peccato in sé. Prima usiamo l'intelligenza... perché non dovremmo desiderare il male? Perché brutto, è detestabile, fa male... noi non faremo il peccato quando ci disgusterà. Come fare perché il peccato non ci dia più gusto?


coinvolgere l'emotività. Considerare il peccato di un uomo, vedere la cronaca... mettersi nei panni di coloro che hanno subito il male (es. Natan che parla al re Davide), far scattare la ribellione al peccato, prendere atto emotivamente del peccato ed esserne disgustato (per questo per Ignazio sono importanti gli affetti o mozioni o emozioni)


vedere il peccato nella propria vita. Vedere l'effetto oggettivo del peccato: Cristo crocifisso. Nessuno può dire più... mi dispiace che tu sia lì, ma io non c'entro. No! anche io sono responsabile. Io che mi appello spesso alla giustizia ho fatto le stesse cose, ma Dio non mi ha fulminato. Provare grande stupore dinanzi alla misericordia di Dio! Percepire di non poter pagare il debito

Abbiamo annullato la Legge ma la gente ha lo stesso sensi di colpa! Perché il peccato è l’esperienza dell’uomo!

Ecco la grazia, il fare grazia... ti devo uccidere, ma ti mando vivo. A questo punto io non desidererò più il male.... desidererò di essere grato! Che cosa posso fare per te che hai fatto tanto per me?

2.5/ La memoria e la “sensibilità”/vedere e gustare nella vita spirituale

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 32

Vi si recò infatti [in Terra Santa], ma pur cogliendo l'essenziale del viaggio, la decisione di restare si rivelò irrealizzabile
 (venne addirittura minacciato di scomunica, se non ripartiva). Ci era andato per respirare la stessa aria che aveva respirato Cristo, vedere gli stessi luoghi, le stesse città, percorrere gli stessi sentieri.
Meditava e ricostruiva nel suo intimo paesaggi, suoni, immagini, odori: tutto ciò che serviva a tener desto il realismo dell'Incarnazione
.

Addirittura, quando tornò aveva imparato a esprimersi come pensava che avesse fatto Gesù (ad esempio: usando il «voi» nel rivolgersi alle persone!).
Su questa esperienza di «immersione» nell'ambiente vivo di Cristo incarnato, egli fondò a sua pedagogia: il mistero di Cristo va accostato «come se fossimo presenti e partecipando alla totalità del suo mistero».
Il nostro Papini giustamente a commentato:
«Ignazio ha ricondotto i cristiani alla familiarità visiva, uditiva, quasi tattile e spirante, di Cristo figlio del Dio vero; il suo metodo sopprime l’illusione dei secoli e fa di tutti i cristiani obbedienti i contemporanei di Pilato e di san Giovanni».

dagli Esercizi spirituali

[91] LA CHIAMATA DEL RE TERRENO AIUTA A CONTEMPLARE LA VITA DEL RE ETERNO.
Il primo preludio è la composizione vedendo il luogo
: qui sarà vedere con l'immaginazione le sinagoghe, le città e i paesi attraverso i quali Cristo nostro Signore predicava.

2.6/ L’indifferenza delle scelte particolari rispetto a  ciò che realmente si desidera!

dagli Esercizi spirituali [23] PRINCIPIO E FONDAMENTO.
L'uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e così raggiungere la salvezza; le altre realtà di questo mondo sono create per l'uomo e per aiutarlo a conseguire il fine per cui è creato. Da questo segue che l'uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano per il suo fine, e deve allontanarsene tanto quanto gli sono di ostacolo. Perciò è necessario renderci indifferenti verso tutte le realtà create (in tutto quello che è lasciato alla scelta del nostro libero arbitrio e non gli è proibito), in modo che non desideriamo da parte nostra la salute piuttosto che la malattia, la ricchezza piuttosto che la povertà, l'onore piuttosto che il disonore, una vita lunga piuttosto che una vita breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo soltanto quello che ci può condurre meglio al fine per cui siamo creati.







Caterina63
00sabato 6 febbraio 2016 21:51


2.7/ L’elezione dello stato di vita (l’opzione vitale)

dagli Esercizi spirituali

[91] LA CHIAMATA DEL RE TERRENO AIUTA A CONTEMPLARE LA VITA DEL RE ETERNO.

[...] Il secondo preludio consiste nel domandare la grazia che voglio: qui sarà chiedere a nostro Signore la grazia di non essere sordo alla sua chiamata, ma pronto e sollecito nell'adempiere la sua sanissima volontà

[92] Primo punto. Immagino di avere davanti a me un re terreno, designato direttamente da Dio nostro Signore, a cui portano rispetto e obbedienza tutti i principi e tutti i cristiani.

[93] Secondo punto. Osservo questo re che parla a tutti i suoi e dice: "È mia volontà sottomettere al mio potere tutto il territorio degli infedeli; perciò chi vuole venire con me deve accontentarsi di mangiare come me, e così bere, vestire e tutto il resto. Inoltre deve faticare con me di giorno, vegliare di notte e via dicendo; così alla fine avrà parte con me nella vittoria, come l'avrà avuta nelle fatiche".

[94] Terzo punto. Penso che cosa devono rispondere i sudditi fedeli a un re così generoso e così umano, e quindi come sarebbe degno di essere disprezzato da tutti e considerato un vile chi non accettasse la proposta di un tale re.

[95] La seconda parte di questo esercizio consiste nell'applicare l'esempio precedente del re terreno a Cristo nostro Signore, seguendo gli stessi tre punti.
Primo punto. Se l'appello del re terreno ai suoi sudditi merita attenzione, quanto più degno di considerazione è vedere nostro Signore, re eterno, che ha davanti a sé tutti gli uomini del mondo, e chiama ciascuno in particolare dicendo: "È mia volontà sottomettere al mio potere tutto il mondo e tutti gli avversari, e così entrare nella gloria del Padre mio; perciò chi vuole venire con me deve faticare con me, perché, seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria".

[96] Secondo punto. Penso che tutte le persone ragionevoli e di buon senso si offriranno senza riserve alla fatica.

[97] Terzo punto. Quelli che vorranno impegnarsi di più e distinguersi in ogni servizio del loro re eterno e signore universale, non soltanto si offriranno alla fatica, ma, andando anche contro le inclinazioni dei sensi, le affezioni disordinate e le vanità mondane, faranno una offerta di maggior valore e di maggiore importanza dicendo:
[98] "Eterno Signore dell'universo, con il tuo favore e il tuo aiuto io faccio la mia offerta davanti alla tua infinita bontà, davanti alla tua gloriosa Madre e a tutti i santi e le sante della corte celeste: io voglio e desidero ed è mia ferma decisione, purché sia per tuo maggior servizio e lode, imitarti nel sopportare ogni ingiuria e disprezzo e ogni povertà, sia materiale che spirituale, se la tua santissima Maestà vorrà scegliermi e ricevermi in questo genere di vita".

appunti da p. Daniele

Che cosa posso fare per te che hai fatto tanto per me?
Ecco che si innesta qui la ricerca dell'elezione. L’elezione non è la chiamata da parte di Dio, la vocazione è domandarsi che cosa io posso fare per Dio
. Tanta più generosità ci sarà nel mio cuore nel domandarmi cosa posso fare io per Dio che ha fatto per me la grazia.

Carlo V in quel tempo realizzò l’impresa di riconquistare il nord Africa e liberare gli schiavi cristiani dai mori: chi è quel cavaliere che dinanzi all'appello del re non si tirerebbe indietro? 
Intelligenza: misurarsi su di un progetto nobile: cosa vorresti fare da grande? Se è una cosa così bella far fare la pace tra i popoli, quanto più grande ancora è il progetto di Cristo sull'uomo!

C’è il re, anche cattivo, che spinge alla violenza e c’è il re buono, Cristo, che dice che il mondo non si salva con la violenza: ecco l'Agnello di Dio! Questa è la parola che fa zittire tutti i nostri modi di vedere.
Un innamorato non aspetta che l'altra mi dica cosa vuole... tu lo ami tanto da fare cosa per lui? Vocazione... a meno che non avvenga una chiamata diretta, una vocazione si chiarisce sempre attraverso la chiarificazione di un desiderio!
 Non persone che vogliono farsi gestire... Piuttosto: tu mi ami tanto, e allora cosa fai per me?Quando una ragazza si sposa è lei che decide di sposarsi, è lei che comanda il gioco!

dagli Esercizi spirituali

[189] PER EMENDARE E RIFORMARE IL PROPRIO STATO DI VITA.

Un'avvertenza per coloro che sono legati a una dignità ecclesiastica o al matrimonio, sia che abbiano molti beni terreni, sia che non ne abbiano. Se non hanno la possibilità o la risoluta volontà di fare l'elezione su cose soggette ad elezione mutabile, giova molto, invece di proporre loro l'elezione, presentare un metodo per emendare e riformare lo stato di vita proprio di ciascuno, indirizzando la loro esistenza e il loro stato di vita alla gloria e lode di Dio nostro Signore e alla salvezza della propria anima.

Per raggiungere e conseguire questo fine, chi si trova in tale condizione deve considerare a lungo, attraverso gli esercizi e i modi di fare l'elezione già spiegati [175-188], quale genere di casa e di servitù deve avere, come dirigerla e governarla, come educarla con la parola e con l'esempio; così anche riguardo ai suoi averi, quanto destinare per la famiglia e la casa e quanto per essere distribuito ai poveri o in altre opere pie, senza volere o cercare, in tutto e per tutto, nient'altro che la maggior lode e gloria di Dio nostro Signore. Ciascuno, infatti, deve pensare che tanto progredirà nella vita spirituale, quanto si libererà dell'amore di sé, della propria volontà e del proprio interesse.

2.7B/ Opzione fondamentale, opzione vitale e scelte particolari/scelta sul senso della vita, scelta di uno stato di vita, scelte particolari

cfr. su questo Le decisioni irrevocabili nella vita cristiana: scelta di fede e scelta di uno stato di vita, orizzonte delle scelte particolari, di Klaus Demmer (su www.gliscritti.it )

2.8/ Ogni vocazione cristiana è “per” gli altri, è a servizio

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 34
Ed ecco che, giunto a una cappella in località detta «La Storta», vicino a Isola Farnese, «facendo orazione, ha sentito tale mutazione nell'anima sua e ha visto tanto chiaramente che Iddio Padre lo metteva con Christo Suo Figliolo, che non gli basterebbe l'animo di dubitare di questo: che Dio Padre lo metteva col suo Figliolo»
.

Dobbiamo comprendere bene questa particolare «mistica ignaziana».
In un'altra versione di questo stesso episodio, Ignazio precisò che Dio Padre «lo metteva con Cristo» e poi gli diceva «Voglio che tu ci serva».

«Servire» fu la grande parola Ignazio: Cristo è un Re venuto nel nostro misero mondo conquistarlo e arricchirlo, per ricondurlo al Suo Dio e Creatore; ma la sua opera non è ancora compiuta: Egli ha bisogno di amici fidati e di cooperatori generosi.
Per questo Ignazio inventò un modo nuovo di consacrarsi a Dio
: pur stimandoli moltissimo, non volle per i suoi né le lunghe preghiere corali, né le penitenze e gli usi monastici, ma una sola cosa: una obbedienza assoluta come disponibilità a lasciarsi inviare e utilizzare dovunque la Gloria di Cristo lo esigesse.
Perinde ac cadaver
, come un cadavere nelle mani di chi ti rappresenta Cristo e ti indica la sua volontà.

Formula dura e urtante se non si capisce che essa indica l'abbandono totale, a corpo morto, nel più ardente, generoso e attivo amore. 

da Hans Urs von Balthasar, Vocazione, Editrice Rogate, Roma, 1981, pp. 15-18;21-22 
Ci sono concetti cristiani fondamentali che, a dire il vero, sono sempre stati presenti alla coscienza della cristianità e che tuttavia, in una determinata epoca della sua storia, emergono alla luce in maniera tale da essere scoperti come per la prima volta. Nella Chiesa dell’epoca moderna si sono succeduti tre momenti a mettere in nuova luce il senso della vocazione cristiana secondo la Rivelazione.

1. Nei secoli successivi a Tommaso si sviluppa un senso elementare della libertà di Dio, dal cui beneplacito dipende ogni essere mondano: l’immagine veterotestamentaria di Dio, il Signore che elegge e rigetta, diviene determinante, in una specie di effetto retroattivo, persino per il rapporto del Dio della creazione con il suo mondo. Questa immagine di Dio comunque appare storicamente ancora troppo legata alla dottrina agostiniana della predestinazione (che continua ad avere effetto soprattutto nella Riforma) per poter dar vita, presa in sé, ad una soddisfacente dottrina della vocazione. Essa rimane a far da sfondo a ciò che segue.


2. Ignazio di Loyola – di fronte alla «parola» (biblica) della Riforma come realtà della rivelazione di Dio – porrà il venire salvifico di Dio nella carne interamente sotto il concetto di «chiamata». Per chiarire la natura del Vangelo nella sua essenza, egli fa precedere tutte le meditazioni sulla vita di Gesù da una parabola di chiamata (chiamata di un re ai suoi sudditi ad andare in guerra con lui contro i non credenti) dalla quale, in crescendo, e con l’uso di termini centrali del Nuovo Testamento, viene spiegata la missione di Cristo: se abbiamo preso in considerazione tale chiamata del re temporale ai suoi sudditi, quanto sarà più degno di essere preso in considerazione il fatto di vedere Gesù Nostro Signore, re eterno, e davanti a lui tutto l’universo che Egli, come fa con ciascuno in particolare, chiama dicendo: «È mia volontà conquistare tutto il mondo e tutti i nemici, ed entrare così nella gloria del Padre mio; pertanto chi vuole venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria. (Eserc. 95».

In questo brano risulta evidente:

-che il Vangelo viene inteso come «proclama» per una azione che deve ancora accadere, alla quale sono invitati fin da principio mondo e uomo;

-che qui non si parla della Chiesa, ma da una parte di «tutto l’universo» e dall’altra di «ogni singolo» così che la realtà della chiamata e della vocazione viene a trovarsi in qualche luogo anteriore alla chiesa organizzata;


-che con ciò colui che ascolta questa chiamata e vi risponde (in grande opposizione all’ascoltare–la–parola in Lutero, per il quale la giustificazione compiuta è solo da ascoltare e da credere) viene invitato all’evento della salvezza stessa.

3. Il terzo momento, - quantunque già formulato in Ignazio, ma non ancora messo in rilievo in maniera riflessa dalla Controriforma -, emerge là dove viene rispecchiato il faccia a faccia fra «tutto l’universo» e il «singolo» e soltanto con ciò viene recuperato il senso fondamentale della vocazione biblica.
La vocazione del «singolo» si verifica, secondo il proclama del re eterno, a favore di tutto il mondo, poiché la volontà del re è «conquistare tutto il mondo e tutti i nemici e così – attraverso croce, discesa agli inferi, resurrezione – entrare nella gloria del Padre mio». 

Per liberare il senso di questa affermazione dalla ferrea morsa della teologia dell’elezione o della predestinazione agostiniano-calvinistico-giansenista era necessaria la coscienza universale dell’umanità e del mondo propria dell’epoca moderna la quale però, soltanto così, è approdata ad una comprensione della salvezza come, nel concludere la Bibbia, la sviluppano Paolo e Giovanni e, sulle loro orme, i padri greci.

Con l’ingresso definitivo nel campo visivo del piano universale di Dio tanto per la creazione quanto per la sua redenzione, diventa impossibile interpretare la dottrina dell’elezione dell’Antico e del Nuovo Testamento, con la loro chiara preferenza di un singolo rispetto agli altri, se non come un momento all’interno di questo piano universale. Paolo stesso l’ha così intesa, dal momento che ha visto solo tipicamente la dottrina dell’elezione individuale (Rom 9) in base all’elezione d’Israele tra i popoli, e questa a sua volta, nella dialettica di Romani 11, in maniera funzionale per la totalità dei popoli.

Israele è chiamato a favore dei pagani e questa vocazione di Israele diviene modello per una vocazione (chiamare–fuori–da) della Chiesa, la quale avviene a favore del mondo e con ciò diviene anche modello per ogni vocazione personale all’interno della Chiesa, vocazione che mostra, senza eccezioni, la stessa forma ecclesiale: vocazione a favore di coloro che per il momento non sono ancora chiamati. 

Questa comprensione biblico-patristica e di nuovo moderna supera definitivamente ogni teologia della predestinazione individuale (la cui forma più consequenziale era la dottrina della doppia predestinazione), secondo la quale l’eletto è principalmente eletto proprio per se stesso, a tal punto che deve arrestarsi rigidamente e con orrore davanti al mistero della mancata elezione (forse persino del rifiuto) degli altri – e siano pure questi altri molti o pochi.

Si può e si deve formulare molto semplicemente: ogni chiamata in senso biblico è tale per amore dei non-chiamati. Questo è vero in maniera centrale per Gesù Cristo che è predestinato e con ciò chiamato (Rom 1,4) a morire e risorgere, prendendo il loro posto, per tutti i condannati. E in Gesù Cristo è al tempo stesso visibile che il Padre proprio per questo lo ama con un amore di predilezione, poiché egli si è fatto funzione della universale volontà salvifica paterna.

-il vivere “per” oggi: pensiamo anche solo per un istante alla fecondità, ai figli, alle nuove generazioni ed al loro servizio

2.9/ Il servizio dell’educazione, via di carità

-Ignazio non è di per sé un intellettuale; torna a scuola a 33 anni, perché capisce l’importanza del formarsi e del formare al pensare

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 37
Alla passione missionaria egli legava, in forma ugualmente stringente, quella educativa.
Perciò volle che i suoi figli diventassero gli educatori delle nuove generazioni cristiane
: nelle corti dei re e dei nobili, come nelle più prestigiose università, come nei più piccoli villaggi.

Uno dei loro più celebri educatori Juan Bonifacio - quand' era ancora giovanissimo insegnava lettere umanistiche a Medina del Campo, verso la metà del sec. XVI. Usava dire che «formare i bambini significa rinnovare il mondo!».

E non sapeva quanta ragione avesse: tra quei ragazzi della sua scuola c'era il piccolo Juan de Yepes, il futuro Dottore mistico, san Giovanni della Croce.

I primi collegi gesuiti in Italia furono fondati a Padova nel 1542, a Bologna nel 1546, a Messina nel 1548
.

In particolare - per l'enorme prestigio e influenza che acquisterà in brevissimo tempo-ricordiamo quel «Collegio Romano» aperto nel 1551: «Schola de grammatica, d'humanità e dottrina cristiana gratis», si leggeva simpaticamente sul cartello posto sulla prima casa affittata allo scopo.
Cinque anni dopo questo collegio sarà già riconosciuto come Università (è l'attuale «Gregoriana»).
Prima che Ignazio muoia, e dunque in poco più di un decennio - oltre alle normali case per la formazione e la vita dei suoi membri - la Compagnia avrà aperto ventun collegi in Italia, diciotto in Spagna, quattro in Portogallo, due in Francia, cinque in Germania, cinque in India, tre in Brasile, uno in Giappone.

2.10/ La Compagnia

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, pp. 35-36

La loro selezione era severa, sulla base del principio che «chi non era buono per il mondo non era buono nemmeno per la Compagnia», e che «per la Compagnia era buono soltanto chi sapeva vivere e farsi valere anche nel mondo». [...]
Anche se solitario nelle lande più sperdute, egli [Francesco Saverio] si sentiva legato ai suoi fratelli, più che a una famiglia di sangue: «Noi, stando – gli scriveva nelle sue lettere - siamo opera di voi tutti»
.

E, della Compagnia, voleva conoscere tutto: chiedeva che gli inviassero dall'Europa «lettere sì lunghe che bisognassero otto giorni per leggerle»; e anch'egli non avrebbe mai smesso di scrivere:
«Quando incomincio a parlare della Compagnia non so più come uscire dall'argomento, non so più come finire la mia lettera ... , ma bisogna terminare, mio malgrado, perché i vascelli devono partire. Non trovo migliore conclusione che giurare a tutti della Compagnia che se io dovessi dimenticarla, che si dissecchi prima la mia mano destra!».

«Compagnia di Gesù, compagnia d'Amore», questa era la bella definizione che ne dava, e non temeva di apparire sentimentale, quando narrava:

«Vi faccio sapere, fratelli carissimi, che dalle lettere che mi avete scritto ho ritagliato i vostri nomi, scritti dalla vostra stessa mano e, assieme alla formula della mia professione, li porto sempre con me, per la consolazione che ne ricevo»: infatti teneva tutto in una piccola custodia che portava sul petto.
Come è ovvio, egli sentiva soprattutto, con indicibile fede e passione, la «compagnia» di Ignazio.
Conclude così una lettera che gli invia: «Termino pregando la santa carità vostra, venerando Padre dell’anima mia, mentre vi scrivo, in ginocchio per terra, come se foste  davanti a me, di raccomandarmi molto a Dio Nostro Signore ... perché mi doni la grazia di concedere in questa vita la Sua santissima volontà, e la forza di compierla fedelmente. Amen. La stessa preghiera faccio a tutti quelli della Compagnia. Vostro minimo e inutile figlio, Francesco».

La tenerezza del «Padre» non era minore: «Tutto tuo, senza poterti mai dimenticare. Ignazio», così gli scriveva ...
E Francesco: «Con le lacrime ho letto queste parole e con le lacrime le trascrivo ricordandomi del tempo passato e del molto amore che sempre avete avuto e avete per me ... Mi scrivete di quale grande desiderio abbiate di vedermi, prima di terminare questa vita. Dio sa quale emozione hanno suscitato nell'anima mia queste parole...».





Caterina63
00sabato 6 febbraio 2016 22:24



Così Ignazio redasse i seguenti consigli ai quattro gesuiti presenti e attivi al Concilio di Trento:

"Sarò pacato nei parlare, e lo farò in maniera riguardosa e cordiale... Cercherò di ascoltare tranquillamente in modo da poter capire e valutare il punto di vista e le intenzioni di colui che parla, in modo che io possa rispondere meglio oppure tacere. Nel discutere, si dovrebbero portare le ragioni delle due parti in modo che non sembriate prevenuti, e starete attenti a non spiacere a nessuno...
Se le cose discusse sono così evidentemente giuste che non si debba stare zitti, dovreste dire la vostra opinione con la maggior compostezza e modestia possibile, e concludere richiamandovi ad un miglior giudizio...
La maggior gloria di Dio è il fine dei nostri padri a Trento, e questo fine si otterrà predicando, ascoltando confessioni, tenendo conferenze, insegnando ai fanciulli, visitando i poveri negli ospedali ed esortando i vicini, ciascuno secondo le proprie capacità di muovere la gente a devozione ed a preghiera, così che tutti possiamo pregare Dio affinché faccia scendere il Suo Spirito divino su tutti coloro che sono impegnati con le cose del Concilio...
Nel predicare, io non toccherei mai le divergenze fra protestanti e cattolici, ma mi limiterei esclusivamente ad esortare alle buone abitudini e alla devozione, inducendo la gente a conoscere veramente se stessi e ad acquistare una maggiore conoscenza ed amore del loro Creatore e Signore.


Nelle mie prediche ritornerei sempre sul tema del Concilio e le terminerei tutte con preghiere a questo fine. Così, nelle conferenze, il mio desiderio sarebbe di infiammare le anime all'amore per il loro Creatore e Signore, e concluderei con preghiere per il Concilio stesso. Nell'ascoltare confessioni, parlerei in modo tale che quanto io dico si possa ripetere in pubblico, e come penitenza darei alcune preghiere per il Concilio... Gli ospedali dovrebbero essere visitati nelle ore più indicate, e dovreste confortare i poveri ed anche portar loro tutto quello che potete, senza dimenticare di ottenere le loro preghiere per il Concilio".

I quattro gesuiti da Trento avevano un vastissimo campo per le attività suggerito loro dal loro Padre, perché il Concilio vi aveva richiamato una straordinaria collezione dei più intraprendenti vagabondi d'Europa. Questi tenaci cavalieri della strada dormivano all'aperto finché qualche cardinale compassionevole trovava loro un rifugio. I gesuiti si prendevano cura di loro, e con le elemosine che andavano raccogliendo furono presto in grado di dire ad Ignazio che essi avevano "fornito vestito a settantasei poveri, dando a ciascuno una camicia, una giacca, calzoni e scarpe".

(da Le origini dei Gesuiti - J.Brodrich S.J. - Un buon soldato di Gesù Cristo)





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