Senza la Tradizione la Teologia è come un albero sradicato dal suolo...

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Caterina63
00mercoledì 30 settembre 2009 01:12

Senza tradizione la teologia è un albero sradicato dal suolo


Del Direttore del Dipartimento dei Manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana


CITTA' DEL VATICANO, sabato, 29 agosto 2009 (ZENIT.org).- In preparazione alla visita di Benedetto XVI alla culla di san Bonaventura, Bagnoregio, del 6 settembre prossimo, pubblichiamo l'intervento pronunciato da Paolo Vian, Direttore del Dipartimento dei Manoscritti della Biblioteca Apostolica Vaticana, in occasione della presentazione del libro di Joseph Ratzinger, "San Bonaventura. La teologia della storia" (Edizioni Porziuncola, Assisi 2008), svoltasi il 26 febbraio 2008 alla Pontificia Università  Antonianum.




* * *

"Per la piena e oggettiva comprensione della storia spirituale d'Italia nel secolo decimoterzo, mai e poi mai avremmo dovuto dissociare le due grandi figure che Dante, e con lui la migliore tradizione religiosa del suo tempo, hanno visto indissolubilmente avvinte l'una all'altra:  la figura di Gioacchino e quella di Francesco. La catena appenninica non è soltanto fisicamente la spina dorsale della penisola:  dalla Sila al Subasio è corsa, nella maturità del medioevo italiano, una stupenda continuità spirituale. Avervi inciso una frattura è stato gesto di improvvida iconoclastia".

Può sembrare sorprendente, ma Joseph Ratzinger non avrebbe probabilmente difficoltà a sottoscrivere quest'affermazione che nel 1931 Ernesto Buonaiuti poneva all'inizio della sua ricostruzione della vita e del pensiero di Gioacchino da Fiore. Proprio nell'introduzione al volume di cui stasera presentiamo la nuova edizione italiana, l'allora giovane teologo bavarese ricordava come una teologia e una filosofia della storia nascano soprattutto nei periodi di crisi della storia dell'uomo, a partire dal De civitate Dei agostiniano, risposta al collasso dell'impero romano e del mondo antico. "Da allora il tentativo di dominare la storia teologicamente non fu mai più estraneo alla teologia occidentale (...)" (p. 15).

Agli inizi del secolo tredicesimo questo sempre ricorrente tentativo di dominare teologicamente la storia raggiunse un nuovo punto culminante nella profezia della storia di Gioacchino da Fiore, ma essa - ecco il punto in cui le visioni del modernista italiano e del teologo tedesco coincidono - "raggiunse (...) la sua massima forza solo con la splendida conferma venutale dalla persona e dall'opera di san Francesco d'Assisi" (p. 16). I due fattori combinati - l'appello di Gioacchino e la risposta del francescanesimo - misero in discussione l'immagine medievale della storia generando un "nuovo, secondo momento culminante nel modo cristiano di pensare la storia (...) rappresentato dalle Collationes in Hexaëmeron di San Bonaventura" (p. 16). 

(...) Intento delle Collationes è quello di "contrapporre ai traviamenti spirituali del tempo l'immagine dell'autentica sapienza cristiana" (p. 27), facendo seriamente i conti con l'ora storica. Ma - Ratzinger mostra di rendersene subito conto - i sei livelli della conoscenza, allegoricamente indicati nei sei giorni della creazione e simboleggiati nelle sei età della salvezza, sono ulteriormente articolati in diversi livelli che presentano indiscutibilmente un accrescimento nel tempo della conoscenza. Riconoscendo un carattere storico alle affermazioni scritturistiche, Bonaventura si distingue dall'interpretazione dei Padri e degli scolastici improntata a un'idea di immutabilità.

Con l'idea delle theoriae, sorta di rationes seminales in prospettiva temporale, "rispecchiamento nella Scrittura dei tempi futuri" (p. 28), Bonaventura fa sua l'interpretazione della Scrittura che Gioacchino aveva presentato nella Concordia. Bonaventura "afferma così quella concezione fondamentalmente storica che costituisce la novità decisiva apportata dall'abate calabrese nei confronti della mentalità dei Padri" (p. 29). La Scrittura è certamente compiuta, la Rivelazione è conclusa, ma il suo significato va ricercato in uno sviluppo continuo lungo tutta la storia e non ancora concluso (cfr p. 29). Per la nostra posizione nel tempo, noi vediamo e comprendiamo più dei Padri:  "In questo modo l'interpretazione della Scrittura diviene teologia della storia, illuminazione del passato come profezia del futuro" (p. 30). 

Sono queste le premesse che inducono Bonaventura a escludere Agostino dalla teologia della storia, puntando tutto su una corrispondenza fra la storia dell'Antico Testamento e quella del Nuovo che Agostino aveva invece risolutamente scartato (cfr p. 32). In essa Cristo non è la fine dei tempi - come nello schema agostiniano - ma il centro dei tempi, e proprio questa opzione spinge Bonaventura a credere "in una nuova salvezza che si realizza "nella storia", entro i confini di questo tempo terreno" (p. 34); allora anche la Chiesa nella sua forma compiuta di "ecclesia contemplativa" è di là da venire e dobbiamo ancora attendere una sua trasformazione nella storia (cfr p. 35).

Dunque, sorprendentemente, Ratzinger ci presenta un Bonaventura che nell'estate 1273 (...) risente in maniera vistosa e consapevole dell'influsso di Gioacchino. Ma quale Gioacchino? Ratzinger precisa subito:  Bonaventura "si distacca chiaramente e risolutamente" dalla grossolana manipolazione che di Gioacchino aveva fatto Gerardo da Borgo San Donnino, presentando gli scritti dell'abate calabrese come un Vangelo eterno destinato a soppiantare il Nuovo Testamento, transitorio e perituro (cfr p. 45). Ma il rifiuto di Gerardo operato da Bonaventura non può in alcun modo essere fatto coincidere "con il rifiuto del Gioacchino originale" (p. 46). La lettura di Ratzinger compie così contemporaneamente due operazioni:  mentre da un lato avvicina Bonaventura a Gioacchino, dall'altro separa nettamente Gioacchino dai gioachimiti. 

Ho detto che la lettura di Ratzinger, in piena e totale rottura con le precedenti analisi di Martin Grabmann e di Etienne Gilson e nella linea piuttosto di quelle di Alois Dempf e Leone Tondelli che gli hanno aperto la strada, avvicina Bonaventura a Gioacchino; ma il giovane teologo tedesco è anche pienamente consapevole delle molte differenze che intercorrono tra il francescano e il florense. La prima ha origine per l'appunto dalla particolare valutazione del tempo che li accomuna. Proprio perché il tempo e il suo decorso sono decisivi nelle visioni di Gioacchino e di Bonaventura, il francescano può superare, oltrepassare il florense in ragione di quanto è accaduto nei settant'anni che separano la morte dell'abate, nel 1202, dalla stesura delle Collationes nel 1273. La novità di Francesco d'Assisi marca in effetti una profonda differenza fra i due schemi. Per il suo discepolo, successore, biografo, Francesco non è un santo come gli altri, ma occupa una posizione assolutamente particolare e preminente nella storia della salvezza e nella sua ultima ora.

Francesco è un novello Elia, un nuovo Giovanni Battista, è, soprattutto nelle Collationes, l'"angelo che sale dall'Oriente" (Apocalisse 7, 2), con il sigillo del Dio vivente, le stimmate della Verna. Con questa immagine, che percorrerà potentemente tutto il Duecento francescano, Bonaventura identifica in Francesco la figura annunciata da Gioacchino nel quarto libro della Concordia cui sarà conferita la "piena libertà di rinnovare la religione cristiana". Alla profezia dell'abate di Fiore risponde puntualmente l'avvenimento di Francesco, al quale spetta il compito di segnare i 144.000 eletti fondando così la comunità della fine dei tempi. Ma in che misura questo novus ordo, espressione mistica dell'"ecclesia contemplativa" con la quale il sesto giorno si trasforma nella quiete sabbatica del settimo, corrisponde nella sua empirica fattualità all'ordine francescano di cui Bonaventura era ministro generale all'inizio dell'estate del 1273? 

Il quesito è fondamentale, anche per le conseguenze che ne derivano, e l'analisi dei testi condotta da Ratzinger è puntuale e attenta alle sfumature:  parte da Gioacchino, passa attraverso il commento pseudogioachimitico a Geremia, per poi soffermarsi sui passi fondamentali della collatio XXI e sui suoi paralleli; e arriva alla conclusione che Bonaventura, ignorando lo pseudo-Gioacchino, si rifà direttamente a Gioacchino, ma attualizzandolo alla luce di Francesco e del suo movimento. Se tesi fondamentale degli Spirituali era l'identificazione dell'ordine francescano, ovvero del suo ramo spirituale, con l'ordo del tempo finale, Bonaventura respinge l'equazione e assume una posizione diversa:  Francesco ha certo inaugurato una comunità nuova di uomini contemplativi ma essa, pur essendo intrinsecamente francescana, non si identifica tout court con l'attuale ordine francescano; questo forse fu originariamente destinato a svolgere tale ruolo, ma il tralignamento dei suoi membri ha fatto sì che i Francescani - come i Domenicani - si trovino ora sulla soglia del tempo nuovo che essi preparano senza però poterlo personalmente incarnare. Solo quando questo tempo nuovo verrà, solo allora sarà il momento della piena contemplatio e di una rinnovata comprensione della Scrittura, il tempo dello Spirito Santo e quindi dell'introduzione nella piena verità di Gesù Cristo.  

Agli occhi di Bonaventura, nell'analisi di Ratzinger, Francesco anticipa dunque nella propria persona una forma di esistenza escatologica che, quale forma di vita universale, appartiene ancora al futuro. Bisogna sorprendentemente concludere che questa realistica distinzione tra Francesco e il francescanesimo "non è (...) solo una scoperta della liberale Forschung su Francesco", che ebbe nella celebre biografia dell'allievo di Ernest Renan, Paul Sabatier, del 1893, il suo vertice più significativo, ma era già stata formulata "dal grande Generale francescano del secolo tredicesimo" (p. 81).

In questa "realistica distinzione" risiede anche la chiave di comprensione del comportamento di Bonaventura come ministro generale e del suo stesso atteggiamento di vita come francescano: Egli può rifiutare il sine glossa - che pure conosce dal testamento di lui come la vera volontà di Francesco - sia per l'esercizio della sua funzione che per la sua personale forma di vita, sapendo che per tutto ciò l'ora storica non è ancora scoccata. Fino a quando durerà il sesto giorno, i tempi non saranno ancora maturi per quella radicalità dell'esistenza cristiana che Francesco, per missione divina, aveva potuto realizzare in anticipo nella sua persona. Senza la coscienza di un'infedeltà nei riguardi del santo fondatore, Bonaventura poté e dovette, di conseguenza, creare per il suo ordine quei limiti istituzionali che sapeva non essere mai stati voluti da Francesco.

È un metodo troppo facile e, in definitiva, menzognero, presentare questo come una falsificazione del vero francescanesimo. (...)Torniamo adesso, per concludere, a un passo della prefazione dell'edizione americana del volume, datata al 15 agosto 1969. In esso, come si è visto, Ratzinger sottolinea come le Collationes siano la risposta alla crisi profonda innescata nell'Ordine e nella Chiesa dall'incrocio fra la speranza gioachimita e il movimento francescano. Bonaventura avrebbe potuto rifiutare totalmente Gioacchino, come aveva fatto Tommaso d'Aquino, optando per una storia tutta agostiniana e altomedievale, per la scontata parabola di un mundus senescens che precipita ineluttabilmente verso una crisi finale. Ma così facendo avrebbe rinnegato teologicamente quella novità che Francesco aveva portato, semplicemente con la sua vita, nel mondo; Bonaventura opta dunque per una strada diversa, rischiosa ma potenzialmente fecondissima:  interpreta Gioacchino "all'interno della tradizione, mentre i gioachimiti lo interpretarono contro la tradizione" (p. 12). Così facendo il ministro generale ne offrì una lettura ecclesiale, che creò un'alternativa ai gioachimiti radicali e al tempo stesso cercò di conservare l'unità dell'Ordine (cfr p. 12).

Facciamo ora un passo avanti e ricordiamo che l'autore del libro che stiamo presentando è divenuto Papa il 19 aprile 2005, quarantasei anni dopo l'uscita del volume, trentasei dopo la formulazione di quelle parole dell'introduzione all'edizione americana. Come non pensare allora che il Papa che si è rivolto alla curia romana il 22 dicembre 2005 con il celebre discorso sull'eredità del concilio ecumenico Vaticano II e sulla necessità di leggerlo nella continuità della tradizione e non nell'ottica della frattura stia compiendo, per quell'eredità conciliare contesa e discussa, precisamente la stessa operazione che aveva individuato in Bonaventura nei confronti di Gioacchino? Quando Benedetto XVI parla della "giusta interpretazione del Concilio", della sua "giusta ermeneutica", della sua "giusta chiave di lettura e di applicazione" non sta forse auspicando per il Vaticano II la stessa lettura che aveva ritenuto di intuire in Bonaventura di fronte a Gioacchino? Interpretare il Vaticano II "all'interno della tradizione", evitando fughe in avanti e arroccamenti insensati, è forse la cifra profonda di questo pontificato; e piace pensare che un possibile modello dell'operazione di Benedetto XVI possa essere in qualche modo ravvisato nella teologia bonaventuriana della storia come era stata ritratta nel volume del 1959 e nella sua lettura di Gioacchino.

In questo modo il professor Ratzinger e Papa Benedetto XVI riaffermano che la teologia, come la vita cristiana, deve rimanere in contatto con la propria storia, senza la quale sarebbe "un albero divelto dalle proprie radici" (p. 12), condannato a inaridirsi e seccarsi. Tutti sappiamo che l'immagine dell'albero era cara a Gioacchino, come lo era a un altro suo interprete francescano duecentesco, discepolo fedele per quanto originale di Bonaventura, Pietro di Giovanni Olivi - citato solo in una nota del volume del 1959 - che nel suo commento all'Apocalisse presenterà la storia della Chiesa come una successione di status legati fra loro da una concurrentia che li unisce senza fratture, tale anzi che uno genera l'altro. E fu Olivi, con la straordinaria parabola dell'uomo di fronte alla triplice vetta di una montagna, a esprimere nel modo più efficace la nuova concezione gioachimitico-bonaventuriana della storia.

Si potrebbe aggiungere che non può certo apparire casuale che il professor Ratzinger che dedicherà tutto il secondo capitolo al contenuto della speranza intramondana nella nuova concezione gioachimitico-bonaventuriana sarà lo stesso che negli anni Ottanta e Novanta si confronterà come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede con le premesse e con gli esiti della teologia della liberazione e che, da Papa, dedicherà la sua seconda enciclica proprio al tema della speranza. Ma a ben vedere non è probabilmente solo il contenuto dell'operazione bonaventuriana a ispirare Benedetto XVI; lo è, in qualche modo, anche la forma; in ultima analisi, è lo stesso modello del teologo chiamato ad assumere una responsabilità nella Chiesa, il profilo che nel quinto secolo era stato del teologo Agostino divenuto vescovo di Ippona e poi, nel tredicesimo, del magister Bonaventura divenuto ministro generale dell'ordine francescano e cardinale, che forse rivive nella figura del primo vescovo di Roma del ventunesimo secolo, che fu teologo e rimane tale e attinge dalla sua riflessione teologica alimento per la predicazione e per il magistero.

In questo senso la lettura di questo volume del 1959 non è solo illuminante per comprendere Bonaventura e per capire il francescanesimo; diviene preziosa per comprendere lo spirito del suo autore e forse l'anima profonda del suo pontificato.

Caterina63
00sabato 30 gennaio 2010 12:32

MONS. GHERARDINI STRONCA LA CRISTOLOGIA LIBERALE E LA TEOLOGICA DI MONS. BRUNO FORTE



MONS. BRUNERO GHERARDINI STRONCA LA CRISTOLOGIA LIBERALE ED ESPRIME CON DOVIZIA DI DOCUMENTAZIONE, IL SUO ENERGICO DISSENSO DALLA TEOLOGIA  DI MONS. BRUNO FORTE 

Il Decano di Teologia della Pontificia Università Lateranense, Mons. Prof. Brunero Gherardini, già autore su "Disputationes Theologicae", di un sintetico e puntualissimo articolo su “Il valore magisteriale del Vaticano II”, interviene ora con un contributo di grande stimolo scientifico. Senza tergiversare, l’illustre teologo stronca come gravemente eterodossa la cosiddetta “cristologia liberale”. Quest’ultima, partendo da ambienti esegetici influenzati da Strauss e Bultmann o dal pensiero del “protestantesimo liberale” in genere, ha guadagnato molti teologi contemporanei. Mons. Gherardini analizza questa “nouvelle théologie” nella sua simbiosi con il pensiero “anti-metafisico” di certa filosofia tedesca. Egli concentra la sua analisi sul terreno strettamente teologico, esprimendo, con dovizia di documentazione, il suo energico dissenso dalla teologia di Mons. Bruno Forte. 

IL DIO DI GESÙ CRISTO
di Mons. Brunero Gherardini

Quanto sto per scrivere è ben lungi, nell'intenzione e di fatto, da ciò che comunemente è detto processo alle intenzioni. Per principio mi sforzo sempre di considerarle tutte - le intenzioni - pure e sante. Ovviamente, "donec contrarium probetur", nel qual caso anche una presunzione di santità o ne trae le conseguenze, o si rassegna al ridicolo. S'aggiunga poi che l' intenzione, anche se pura e santa, non trasferisce automaticamente la propria ineccepibilità morale nel suo prodotto, il quale ha un suo realismo oggettivo, e quindi una sua moralità, prescindendo dall'intenzione formale che lo vuole e verso il quale si protende. Una bestemmia è sempre, in sé e per sé, una bestemmia, anche se pronunciata paradossalmente per render gloria a Dio.

Una tale premessa era necessaria per capir il giudizio, certamente ed irriducibilmente negativo, che sto per pronunciare. Il giudizio non riguarda né le persone che han detto certe cose, né le intenzioni per le quali le han dette, ma esclusivamente le cose che sono state dette, anche se son pervenute all'orecchio e all'intelligenza di qualcuno solo perché qualcun altro le ha dette. Nel sottolineare chi, metto in luce di esse il soggetto con le sue circostanze di luogo e di tempo, senza peraltro condannarlo, nemmeno se - come nel caso di cui qui m'interesso - la mia coerenza teologico-morale mi porta alla condanna inequivoca di ciò ch'è stato detto.

1 - Che cos'è stato detto - Mi riferisco soprattutto, ma non esclusivamente, ad un'espressione non nuova in assoluto, essendo talvolta comparsa, anche se formulata in modo diverso, in un passato non troppo lontano da non pochi degli addetti ai lavori. Proprio perché né faccio, né voglio far il processo alle intenzioni, dirò che si tratta ormai d'un modo-di-dire entrato nel gergo teologico e dai più recepito ed usato quasi certamente senz'avvertirne né la provenienza, né il significato. Provenienza e significato, a dir il vero, più vicini alla cosiddetta Liberaltheologie che non al Credo cattolico.

L'espressione alla quale mi riferisco suona in questi termini: i l D i o d i G e s ù C r i s t o .

Forse il non addetto ai lavori, oppure il non attento all'esigenza d'un linguaggio il più possibilmente proprio per farne tramite, pur sempre inadeguato, dell'Ineffabile, neanche s'accorge d'aver a che fare con un'espressione che dir impropria è un complimento. Il fatto ch'essa allude a Dio ed a Gesù Cristo è più che sufficiente a soddisfar il facile palato di quei teologi - ed oggi son i più - che si son formati non sulla Summa di san Tommaso d'Aquino e nemmeno su quei "loci" che Melchior Cano individuò soprattutto nella Rivelazione, nella Chiesa e nella Tradizione, ma sui testi di rinomati maîtres-à-penser, preferibilmente postconciliari, quasi tutti sensibili alla suggestione d'un hegelismo vagamente cristianizzato, che ciò nonostante imprigiona il messaggio evangelico nelle maglie del divenire, lo spoglia d'ogni sua componente soprannaturale e lo riduce ad un dato sempre cangiante dell'immanenza. Ho trovato un po' dovunque - in Italia, in Europa, nelle Americhe - le opere di siffatti maestri, brillantemente esposte nelle vetrine di librerie ovviamente cattoliche. Segnalate come nouvelle vague théologique, esse apron la teologia postconciliare alla metodologia storico-critica, chiudendola ermeticamente a quella "ex auctoritate et ex traditione". N'è nata la famosa teologia dal basso, non più legata ai dati della divina Rivelazione, né più tributaria della " soffocante" metodologia scolastica che, appropriandosi della Rivelazione stessa, imponeva i suoi criteri interpretativi e le conseguenza cui perveniva. Teologia dal basso, cioè al servizio non del "Dio che ha parlato e si è rivelato", ma del Dio che vien rivelandosi di volta in volta, qui ed ora, nel dispiegarsi di questo momento storico, nelle alternanze della coscienza religiosa, nel sentimento e nella commozione dell'animo umano, nella sua sete di giustizia e di pace, a coronamento dei suoi desideri e delle sue aspettative. Una teologia, insomma, a misura d'uomo, per l'uomo, in conformità al "suo" mistero umano ed alla "figura di questo mondo" (1Cr 7,31) che ne plasma l'identità. Una teologia, infine, tutta protesa a sondare, sulla scia della rivelazione in fieri, non più il mistero di Dio nel mistero del suo Verbo incarnato, ma il mistero dell'uomo come cartina di tornasole del mistero di Dio.

A dir il vero, questa nuova teologia di nuovo ha ben poco. Nel 1835, un Repetent di Tubinga, David Friedrich Strauss, difese la tesi secondo la quale il Cristo del NT non era il Gesù della storia, ma l'oggetto della fede, quale il Libro sacro aveva accolto dalle dichiarazioni di fede della Chiesa nascente[1]. Gli scritti di questo Repetent s'innestano su altri con caratteristiche analoghe ed insieme fanno da apripista ad una corrente - la Leben-Jesu-Forschung - che dà un volto ai secoli XIX e XX, ridimensionando la figura storica di Gesù: il Signore, il Risorto assiso alla destra del Padre e presente col suo Spirito nella vita della Chiesa vien considerato come il frutto della fantasia credente, nettamente distinto e diverso dal biondo Rabbi della Galilea, dalla sua concreta ed individua esistenza all'interno d'una storicità ben determinata e sulla cui psicologia indagaron Ethelbert Stauffer[2] e, con esiti ben diversi, i cattolici Paul Galtier e Pietro Parente[3]. In effetti, è questa la griglia attraverso la quale può intravedersi la scaturigine culturale del Dio di Gesù Cristo. E' la griglia del criticismo teologico che è riuscito nell'impresa di staccare la "paràdosis" del Credo dalla sua dipendenza dalle fonti e di queste medesime fonti ha talmente sconvolto il costitutivo formale da farne un fantomatico coacervo di presupposti ben al di là dei dati più elementari del NT. Dinanzi ad un siffatto isolamento critico-scientifico dell'Uomo-Dio dalla vita e dalla fede della Chiesa, la parola di Karl Barth, un protestante mai tenero verso la Chiesa cattolica, assume il timbro d'un autorevolissimo e profetico richiamo perché si smetta di dar la caccia al "fantasma d'un Gesù storico nello spazio vuoto dietro il NT"[4].

Uno dei massimi responsabili di codesta caccia, quel Rudolph Bultmann che tanta fortuna incontrò in campo cattolico ed altrettanta ne procurò e ne procura ad alcune editrici cattoliche, pone il problema cristologico a cavallo tra due categorie: il mito e la storia. Prima di lui, altri - e fra questi in special modo il ben noto W. Bousset[5] - si sottrassero alla suggestione e d'un'interpretazione cristologica a partire dalla suprema regalità del Padre e videro nel Christus Kyrios una pura e semplice espressione mitologica, che trasformò l'uomo Gesù in essere divino. Da qui l'impegno, tutto liberale, di "smitizzare" il Cristo della fede per ritrovar i lineamenti storici di Gesù.

D'un personaggio, cioè, che non ha nulla in comune, nella realtà dei fatti, con il Figlio preesistente di Dio, incarnatosi per l'umana salvezza, crocefisso risuscitato ed assiso alla destra del Padre. E che non può esser affatto il Kyrios presente nella Chiesa con la forza del suo Spirito e con l'efficacia dei suoi sacramenti. Tutto ciò, infatti, è mito che ha trasformato Gesù in Cristo e di cui questo Cristo va spogliato perché torni ad esser Gesù.

La peculiarità di R. Bultmann si mise in luce nel distinguersi dalla smitizzazione liberale: egli parlò di smitologizzazione - s'è possibile tradurre così la sua intraducibile "Entmythologisierung", un lemma composito che può capirsi solo se scomposto -. Le componenti principali son "Mythos" e "Logos", precedute dal prefisso inseparabile "ent" che richiama la funzione dell'alfa privativo in greco, e seguite dal suffisso indicante l'azione privativa introdotta da "ent". Basterebbe una tale scomposizione a far capire che il programma bultmanniano, pur procedendo in direzione liberale, è tutt'altro rispetto alla smitizzazione della teologia liberale: non spazza via il mito e meno ancor il senso e l'intenzione di esso, ne tutela anzi la trascendenza liberandolo dalla "ratio" (Logos) che ne altera il senso, elevandolo a valore soprannaturale come supporto e spiegazione del Cristo della fede, un uomo che la fede avrebbe trasformato in essere divino[6]. In comune con i liberali, tuttavia, anche Bultmann aveva il traguardo del ridimensionamento del Cristo della Fede sul Gesù della storia. Nemmeno per lui i titoli messianici neotestamentari Messia, Figlio dell'uomo, Figlio di Dio, Signore, Salvatore e via dicendo, dimostrerebbero che Gesù è "un'ipostasi divina"; una loro interpretazione in tal senso, secondo lui, "razionalizzerebbe" Dio e misconoscerebbe che "la divinità di Cristo è un evento" sempre nuovo "e non oggettivabile con nessun fatto del passato" e proprio per questo "opposto ad ogni oggettivazione"[7]. La conclusione, pertanto, non poteva esser diversa dalla seguente: "La formula Cristo è Dio è falsa in ognuno di quei sensi - ariano, niceno, ortodosso o liberale - che intendono Dio come una grandezza oggettivabile. Essa è corretta solo se intende Dio come l'evento dell'azione di Dio"[8].

E', questa, una costante bultmanniana. La si riscontra perciò anche in altri interventi. Nel seguente, p. es.: "Accanto a Dio non c'è un'altra persona divina che, come tale, completi la fede giudaica nell'unico Dio. La fede non è l'affermazione di speculazioni metafisiche sulla divinità di Cristo e sulle sue (due) nature. La fede in Cristo non è nient'altro che la fede nell'azione di Dio in Cristo"[9].

Era proprio necessario arrivare fin qui per capire che cosa significhi "il Dio di Gesù Cristo". Esso non ha senso se non nella separazione fisica e qualitativa di Gesù Cristo da Dio. Ha senso se si parte dal dato di fatto di codesta irriducibile dualità: da una parte Gesù Cristo e Dio dall'altra. L'uno non è l'altro e viceversa. L'uno può parlare dell'altro, ma senza che ciò lo identifichi con l'altro. Quando si legge "Io ed il Padre siamo un'entità sola" (Gv 10,30) si è di fronte non ad un'autoaffermazione sulla divinità di Cristo, sbocciata sulle sue labbra come rivelazione del suo mistero, ma a parole con cui la Chiesa avrebbe divinizzato Gesù, oggettivando nella sua fede il Padre ed il Figlio. In altri termini, l'espressione "il Dio di Gesù Cristo" è formalmente identica a quella veterotestamentaria sul Dio d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe (Es 3,6) che il NT (Mt 22,32; Mc 12,26) ripete alla lettera e con identico significato.

Quello, cioè, di Dio unico trascendente e sovrano, che può prendersi cura d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe, solo perché si distingue nettamente - qualitativamente, metafisicamente - da loro. L'espressione non assume un significato diverso se applicata a Gesù Cristo. Come non fa d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe altrettante divinità né accanto a Dio, né in competizione con Lui, così l'incauta e blasfema espressione "il Dio di Gesù Cristo" non innalza il personaggio chiave dell'Evangelo al rango della divinità ed ignora - o forse nega - il dogma delle due nature in lui ipostaticamente unite. E come nel primo caso, oltre alla trascendenza di Dio, la formula esprime la fede d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe nel Dio che s'è coinvolto nella loro storia personale ed in quella del loro popolo, così nel secondo caso la formula esprime:

* Iddio metafisicamente distinto e separato da Gesù Cristo in base ad un'infinita differenza qualitativa di kierkegaardiana memoria;

* La condizione puramente umano-creaturale di Gesù Cristo che, alludendo a Dio, indica in Lui il totalmente altro da sé;

* la fede con cui Gesù Cristo si rapporta continuamente a Dio, espressa nella sua predicazione su Dio Padre, Amore, Giustizia, Pace.

2 - Chi l'ha detto - Mi spiace sinceramente di dover far nome e cognome, ma non posso sottrarmi al diritto del lettore di conoscer come stian esattamente le cose. Il nome, dunque, ed il cognome da fare è quello di BRUNO FORTE. Non che sia l'unico; il contorno in cui si trova è anzi piuttosto cospicuo e costituito da personaggi spesso di primo piano. Di primissimo, peraltro, è lui: arcivescovo di Chieti-Vasto dal 26 giugno 2004 e Presidente della Commissione Episcopale per la dottrina della Fede, l'annuncio e la catechesi; taccio sui titoli accademici, notevoli ma men interessanti di quelli istituzionali. Solo per far capire che non è il primo venuto, ricorderò che, dopo il dottorato in teologia presso la facoltà teologica dell'Italia meridionale, conseguì diplomi di perfezionamento a Tubinga e a Parigi, e coronò il suo curricolo con la laurea in filosofia presso l'università di Napoli. In un non dimenticato articolo su "Divus Thomas" del 1986/87, il suo ex professore e predecessore nella detta facoltà teologica, Mons. Prof. Giuseppe De Rosa, scrisse una ragionata e lunghissima stroncatura del libro Gesù di Nazaret. Storia di Dio, Dio della Storia [10]. Scrivendo poco dopo una mia "recensione d'una recensione", riconobbi tutte le fondate ragioni del De Rosa, ma tentai pure di dar al mio scritto un tono leggermente più blando. Da inguaribile ingenuo qual sono, devo oggi riconoscere che la severità del prof. De Rosa aveva i suoi buoni motivi. Bruno Forte continuò a scrivere con penna agile e disinvolta, a tratti quasi felpata, ma sempre terribilmente al limite della rottura, in certi casi anzi, come nella sua fantateologia trinitaria, ben al di là di esso. Volutamente l'ho per anni ed anni ignorato, pur leggendo i suoi scritti e perfino ammirando la leggiadria formale in cui è solito immerger i suoi tremendi errori. Ché, d'errori si tratta, non di bazzecole. Speravo che qualche nuovo De Rosa se n'avvedesse e si comportasse con lui sull'esempio del primo. Speranze perdute. Il suo nome, presto in evidenza nelle sfere che contano[11], e sapientemente usato da editori interessati, suscitò progressivamente risonanze mondiali. Fu maestro in convegni e congressi ad altissimi livelli. Cooptato in Accademie e Commissioni di studio. Fatto vescovo e Presidente, proprio lui, della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede. Punto di riferimento (sembra) obbligato del pensiero teologico italiano. Lui soltanto o anche i suoi errori?

La frase dalla quale si è partiti appartiene a lui. A lui, lo si noti bene, non come privato dottore, ma com'espressione e sintesi del pensiero e dell'insegnamento della CEI. Si trova, infatti nella Presentazione d'una Lettera ai cercatori di Dio, che S. E. Rev.ma Mons. B. Forte, a nome della Commissione episcopale da lui presieduta, ottenuta l'approvazione del Consiglio Episcopale Permanente in data 22-25 settembre 2008, inviò ai destinatari nella Pasqua del 2009. Si riprometteva, con essa, di mettersi al fianco di quanti cercano "il volto del Dio vivente": dei credenti che crescono nella conoscenza della Fede e di quanti, pur non credenti, avvertono come serio il problema di Dio e delle cose ultime. Ma intendeva sollecitare l'interesse anche di coloro che non si pongono mai un tale problema, "nel pieno rispetto della coscienza di ciascuno, con amicizia e simpatia verso tutti"[12].

Solenne e nobile, dunque, l'intento ed altrettanto il punto di partenza. L'uno e l'altro, però, miseramente naufragati nei gorghi liberali della frase incriminata. Solo nella Presentazione della Lettera la frase ricorre per ben due volte: "Il testo parte da alcune domande che ci sembrano diffuse nel vissuto di molti, per poi proporre l'annuncio cristiano e rispondere alla richiesta: dove e come incontrare il Dio di Gesù Cristo"? E poco dopo: "La commissione Episcopale si augura che la Lettera possa...suscitare reazioni...che aiutino ciascuno a interrogarsi sul Dio di Gesù Cristo e a lasciarsi interrogare da lui"[13]. Non si pensi a due casi isolati: aprendo la lettera e scorrendone le pagine, ritroviamo o la stessa frase[14], o parole equivalenti[15].

Difficile equivocare sul significato obiettivo della frase, che proprio in quant'ho premesso trova il suo Sitz-im-Leben; deriva infatti dal cristianesimo desoprannaturalizzato della Liberaltheologie, la quale a sua volta è figlia naturale della tradizione illuminista. Il Sitz-im-Leben è addirittura confessato: a p. 55ss. tutto è detto in chiave liberaltheologisch. I discepoli infatti si convincono che Gesù è risorto e ne reinterpretan la vita, alla luce della sua risurrezione, come "appartenente al mondo di Dio". Non mancan, sia ben chiaro, parole e ragionamenti meno scioccanti, o addirittura pienamente ortodossi; è il costume dei "neoterici", come direbbe Amerio: un colpo al cerchio ed uno alla botte. Ma resta il fatto della distinzione tra il Cristo della Fede ed il Gesù della storia e, col fatto, il senso che gli ho dato chiudendo il mio precedente paragrafo. Con profondo rammarico devo prender atto, perciò, che si tratta d'una frase da riprovare per un doppio motivo: perché non confessa in Cristo il Figlio naturale di Dio e perché lo stacca dalla circuminsessione amorosa tra Dio Padre Figlio e Spirito Santo, sovvertendo insieme il dogma trinitario e quello cristologico.

Parlo di significato obiettivo, ben sapendo o comunque augurandomi che le intenzioni soggettive non abbian avuto altro di mira che di facilitare l'incontro salvifico col Signore Gesù, l'eterno Verbo del Padre, Dio da Dio, della sua stessa sostanza, perfettamente Dio e perfettamente uomo, avendo preso l'umana carne dal grembo immacolato della Vergine Madre, per esser il rivelatore il mediatore il redentore il salvatore del genere umano. Sì, questo so e questo m'auguro che sia pure nelle intenzioni, meglio ancora se nelle convinzioni di Fede, del Vescovo che ha firmato la Lettera ai cercatori di Dio, per essa avvalendosi, lo confessa lui stesso, "di un lavoro collegiale che ha coinvolto vescovi, teologi, pastoralisti, catecheti ed esperti nella comunicazione"[16].

La confessione non mi consola. Devo dedurne che la situazione è molto più grave di come appare: così stando le cose, ne deduco che gli errori appartengono non ad una sola persona, ma ad un insieme di persone, per giunta considerate competenti ed ufficialmente incaricate di collaborar in base alla loro competenza. Com'è possibile che la competenza ingeneri l'errore? Di quale competenza si tratta? E quale teologia può esser il terreno di coltura per una competenza che semina l'errore?

3 - Gli errori - Parole come "errore" ed "eresia" non si dicon a cuor leggero: sconsideratamente superficialmente astiosamente. Son parole gravissime che si riferiscono a posizioni dogmatico-teologiche altrettanto gravi. La prudenza, non meno che la carità, son in casi del genere due condizioni previe e non discutibili.

Purtroppo, nel caso in esame - "et flens dico", Fil 3,18 - esse sono le due sole parole oggettivamente adeguate, con la conseguenza che inadeguata sarebbe ogni altra parola. Debbo anzi riconoscere - ancora "flens dico" - che aveva ragioni da vendere, il vecchio De Rosa, quando per primo mise il dito sulla piaga. La pseudoteologia di questo Ecc.mo personaggio, al quale la CEI affida le sorti della dottrina cattolica, del suo annunzio e della sua catechesi, e quindi della nostra Fede oltre che della nostra salvezza, è tutt'un coacervo di posizioni decisamente erronee ed insostenibili. Il suo punto di partenza - la teologia dal basso - lo pone a braccetto con i massimi responsabili dell'odierna miopia teologica: attraverso Rahner e la pletora dei soliti ripetitori risale a Heidegger, Husserl, Hegel, non senza strizzatine d'occhi en passant a Barth, Bultmann, Moltmann, Schillebeeckx, Block, né senza sintomatiche reminiscenze di Gioacchino da Fiore, di Vico, di Croce, di Spinoza e del suo emulo moderno Teilhard de Chardin.

Un tale punto di partenza è una pista di lancio verso il ribaltamento radicale della dogmatica classica: Dio è considerato sullo sfondo dell'uomo e misurato sulle sue naturali necessità e limitazioni, invischiato in esse, sofferente per esse e non meno sofferente del Figlio suo che le fece proprie. Le sue simpatie per il teopaschismo o monofisismo teopaschita lo metton al passo dei Patripassiani, per i quali "si ipse est Filius qui et Pater, crux Filii Patris est passio"[17], ma lo coinvolgono pure, inevitabilmente, nella loro condanna[18]. La sua concezione del Dio non più personale ne mette in evidenza i tratti hegeliani, quelli d'un Dio dichiarato, anzi definito "storia": un Dio che diviene, si pone e si rinnova nell'ondiflua immanenza mondana. L'immutabilità e l'impassibilità di Dio son pertanto superate di slancio: ferri vecchi e del tutto inutilizzabili dai moderni laboratori di teologia dogmatica

La derivazione hegeliana di questo "pezzo da novanta" si rivela nell'aver egli confuso cristologia e soteriologia in un impalpabile pancristismo, grazie al quale il Signore Gesù dovrebb'esser al centro della realtà, tutta in lui ricapitolata (cf Ef 1,10), ed è invece la ragione e la molla di quel divenire dialettico che, con Feuerbach, porta alle conseguenze estreme la dialettica hegeliana, trasformando la teologia in pura e semplice antropologia.

Si tratta d'un quadro appena abbozzato, che l'ineludibile esigenza d'un'analisi critica vorrebbe più specificato ed approfondito; il presente semplice abbozzo è dovuto al fatto che questo scritto, non essendo formalmente un'analisi critica, non risponde alle sue esigenze. Tuttavia, i pochi tratti del quadro generale qui delineati costituiscono, secondo me, un sufficiente sfondo sul quale l'espressione "Il Dio di Gesù Cristo" si colloca come a casa propria. E' la casa equivoca dell'ammodernamento teologico, in tanto tale, cioè teologia svecchiata e rinnovata, in quanto ha dato lo sfratto:

* a quella divina Rivelazione che la Chiesa dichiara conclusa con la morte dell'ultimo apostolo

* alla Tradizione che n'è nata come supporto della vita e della giovinezza perenne della Chiesa;

* al Magistero ecclesiastico come organo, solenne ed ordinario, di codesta Tradizione;

* alla teologia dei grandi dottori, costruita sulla Rivelazione e sulle definizioni dogmatiche per darle sicurezza "in lumine fidei, sub Ecclesiae Magisterii ductu"[19].

Portando sulle spalle la pesante responsabilità d'un tale sfratto, non so con quale faccia sia possibile presentarsi a Dio, per affidargli la famosa Lettera e chiedergli di "farne strumento della sua grazia"[20].

B. Gherardini


[1] Nato il 27 genn. 1808 a Ludwigsburg, alunno di F. Chr. Baur, elaborò nel 1831/32 a Berlino le lezioni di Schleiermacher sulla vita di Cristo ed altrettanto fece nel 1832/35, come Repetent a Tubinga, con la vita di Cristo di Hegel, finché, proprio nel 1835/36, pubblicò il suo famoso Das Leben Jesu, kritisch bearbeitet in due volumi, dei quali già il primo suscitò un tale vespaio che Strauss ci rimise il posto di Repetent. Nel 1837 pubblicò l'apologia dello suo scritto incendiario: Streitschriften zur Verteidigung meiner Schrift über das Leben Jesu und zur Charakteristik der gegenwärtigen Theologie. Il fossato che già prima era stato aperto tra il-Cristo-della-fede ed il-Cristo-della-storia, si dilatò fin all'inverosimile sotto la spinta d'esigenze c.d. storico-scientifiche: la fede è una cosa, la scienza un'altra. La Leben Jesu diventò una corrente, sulla quale riferì con onestà critica il poliedrico esegeta-teologo-medico-organista-missionario (fondatore del discusso ed ammirato ospedale di Lambarené) ed appartenente egli stesso alla Liberaltheologie, SCHWEITZER A., Geschichte der Leben-Jesu-Forschung, J.C.B.Mohr (P. Siebeck), Tubinga 19516, il quale, ricercando i prodromi del fenomeno, li individuò anzitutto in H. S. Reimarus ed in alcune espressioni vetero-razionaliste, nel colto razionalismo di H.F. G. Paulus, in quello romantico-sentimentale di Schleiermacher e quindi in quello "scientifico" di Strauss, al quale dedica le p. 69-128 prima di passare alle successive Vite di Cristo. Per una mess'a punto complessiva, cf RISTOW H.-MATTHIAE K. (a c. di), Der historische Jesus und der kerygmatische Christus, Ev. Verlagsanstalt, Berlino 1960.

[2] STAUFFER E., Die Theologie des Neuen Testaments, Stoccarda 19473. Altrettanto VOGEL H., Christologie, 1.Monaco 1949, sp. p. 22.

[3] GALTIER P., L'unité du Christ: Être, Personne, Conscience, Parigi 19392; ID., La conscience humaine du Christ, in "Gregor." 32 (1951) 526ss, sp. p. 562; in polemica con lui, ma ad altissimi livelli, intervenne PARENTE P., col suo capolavoro L'Io di Cristo, Morcelliana, Brescia 1955, terza ed. Istituto Padano Arti Grafiche, Rovigo 1981; ID., Unità ontologica e psicologica dell'Uomo-Dio, Collez. Urbaniana 3/2, Roma 1952.

[4] BARTH K., Kirchliche Dogmatik, I/2 Zollikon-Zurigo 19453, p. 71: "...nach dem Phantom eines historischen Jesus im leeren Raum hinter dem Neuen Testament".

[5] BOUSSET W., Kyrios Christos. Geschichte des Christusglaubens von den Anfängen des Christentums bis Irenaeus, Gottinga 19212.

[6] Cf spec. BULTMANN R., Theologie des Neuen Testaments, Verlag J. C. B. Mohr (Siebeck) Tubinga 19583; ID., Die Geschichte der synoptischen Tradition, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottinga 19615; ID., Glauben und Verstehen, 3 voll., J. C. B. Mohr (Siebeck), Tubinga 1961-62. Tra le innumerevoli opere d'interpretazione o di presentazione, scelgo l'unica che più d'ogni altra riesce a far capire il programma della "smitologizzazione" bultmanniana: MALET A., Mythos et Logos - La pensée de Rudolph Bultmann, Labor et Fides, Ginevra 1962. Come puntuale ed onesta controversia fra due grandi si veda anche BARTH K., Rudolph Bultmann: ein Versuch, ihn zu verstehen, Zurigo 19643; al riguardo si confronti anche lo scambio epistolare Karl Barth-Rudolph Bultmann: Briefwechsel 1922-1966, a c. di B. Jaspert, Zurigo 1971, spec. lett.94/95 p. 169ss,

[7] BULTMANN R., Glauben und Verstehen, II. p. 258: "So ist auch Christi Herr-Sein, seine Gottheit, immer nur je Ereignis. Eben das ist der Sinn dessen, daß er das eschatologische Ereignis ist, das nie zu einem Ereignis der Vergangenheit objektiviert werden kann, auch nicht zu einem Ereignis in einer metaphysischer Sphäre, das vielmehr jeder Obiektivation widerstreit".

[8] Ibid.

[9] Ibid., I, p. 331.

[10] Ed. paoline, Cinisello Balsamo, 1981.

[11] Proprio a me l'Em.mo Card.Ursi, certo non volendo, ne dette la notizia.

[12] Dalla presentazione di Lettera ai cercatori di Dio, Paoline Editoriale Libri, Milano 20093 , p. 3.

[13] Ibid. p. 3-4.

[14] P. es. a p. 44, 65; a p. 85 la frase entra nel titolo del III cap.

[15] Un solo esempio, fra i tanti: "La Chiesa è la comunità dei credenti che riconoscono Gesù Cristo Figlio di Dio" (p. 68). Non evidente, ma reale è qui la dissociazione del Cristo della Fede dal Gesù della storia, il quale non vien adorato perché "Figlio di Dio" e quindi Dio egli stesso, ma la sua divina figliolanza è fatta dipendere dalla Fede dei credenti.

[16] Ibid. p. 3.

[17] S. LEONE M., Ep. "Quam laudabiliter", 21 luglio 447, DS 284.

[18] Ibid.

[19] Optatam totius, 16/a.

[20] Presentazione, cit. p. 4.

Fonte: DISPUTATIONES THEOLOGICAE - 29 gen 2010
http://disputationes-theologicae.blogspot.com/
Caterina63
00martedì 2 febbraio 2010 12:38
NON PERDETELO io lo sto già leggendo ed è avvincente e molto pratico nella dinamica dei fatti...
un ottimo padre Cavalcoli, come sempre... Ghigno



Karl Rahner - il Concilio tradito 


PRESENTAZIONE DEL LIBRO CON L'AUTORE E L'EDITORE 3 febbraio 2010 a Verona

IL LIBRO

Il teologo gesuita Karl Rahner (1900-1984), perito del Concilio Ecumenico Vaticano II, nell'immediato postconcilio si procurò la fama di uno dei più grandi teologi cattolici ed interpreti del Concilio. Sennonché però, altri teologi eminenti, come il Fabro, Lakebrink, il card. Parente, il Von Balthasar e il Card. Ratzinger segnalarono le gravi insidie contenute nel sistema rahneriano e la falsità della sua interpretazione modernistica del Concilio, non conforme a quella della Chiesa postconciliare. Un'interpretazione non di continuità ma di rottura, che forniva pretesti a reazioni ultratradizionaliste.
Dalle segnalazioni di questi teologi, in un primo tempo inascoltate, sta sorgendo un movimento teologico internazionale, fedele alla Chiesa e al Papa, il quale si è impegnato a correggere le vedute rahneriane, le cui conseguenze si sono rivelate dannose in campo morale, come hanno segnalato alcuni moralisti, tra cui Don Dario Composta. Tale movimento si propone di contribuire alla vera interpretazione del Concilio, senza per questo misconoscere i meriti del teologo tedesco.

L'AUTORE
Nato nel 1941 a Ravenna, entrato nell’Ordine Domenicano nel 1971, sacerdote dal 1976. Addottorato in Filosofia nel 1970 presso l’Università di Bologna e in Teologia nel 1984 presso la Pontificia università S.Tommaso d’Aquino di Roma, insegna Metafisica nello Studio Filosofico Domenicano di Bologna e Metafisica e Teologia Sistematica nella Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna. Dal 1982 al 1990 è stato officiale della Segreteria di Stato in Vaticano. A Roma ha insegnato per due anni Teologia all’Istituto Universitario di Magistero “Maria Assunta”. Dal 1992 è Accademico Pontificio. Tiene corsi per catechisti a Radio Maria dal 1995. Ha coltivato e pubblicato studi di mistica e di demonologia. Studioso del pensiero di S.Tommaso d’Aquino, ha partecipato a congressi tomistici internazionali, ha pubblicato molti articoli su riviste specializzate ed alcuni libri, soprattutto di cristologia: “La gloria di Cristo” (2001); “Il mistero dell’Incarnazione” (2003); “Il mistero della Redenzione” (2004). È postulatore nella causa di beatificazione del teologo domenicano Tomas Tyn, sul quale ha pubblicato “Padre Tomas Tyn, un tradizionalista postconciliare”, Fede & Cultura, 2007. Ha pubblicato inoltre “La questione dell’eresia oggi”, (2008), “La liberazione della libertà”, Fede & Cultura 2008; “Siate santi!”, Fede & Cultura 2008.



Caterina63
00lunedì 17 maggio 2010 09:53

Lettera a un conformista (Weigel a Kueng)

Hans Küng, il teologo star dei media, attacca il Papa perché non ha svenduto la Tradizione (come ha fatto lui)

Pubblichiamo la lettera aperta che il saggista cattolico americano George Weigel ha scritto al teologo tedesco Hans Küng, in rete dal 21 aprile 2010 sul sito web della rivista First Things.

Gentile Hans Küng, una quindicina d’anni fa un suo ex collega, tra i più giovani teologi progressisti del Concilio Vaticano II, mi raccontò di un amichevole avvertimento che le aveva dato all’inizio della seconda sessione del Concilio. Di quei giorni eccitanti, questo autorevole studioso della Bibbia e sostenitore della riconciliazione tra ebrei e cristiani ricordava che lei lo aveva portato in giro per Roma su una Mercedes rossa decappottabile, secondo lui uno dei frutti del successo commerciale che aveva ottenuto il suo libro “The Council: Reform and Reunion”.

Questo tour automobilistico fu considerato dal suo collega imprudente e inutilmente autopromozionale, dato che alcune delle sue opinioni più rischiose, così come la sua dote per quello che in seguito fu detto sound bite, il breve intervento mediatico, stavano già facendo inarcare molte sopracciglia nella curia romana. Quindi, così come mi è stata raccontata la storia, il suo amico un giorno la prese da parte e disse, usando una parola francese di cui entrambi comprendevate perfettamente il significato: “Hans, stai diventando troppo évident”.

Lei ha inventato in solitario un nuovo personaggio globale – il teologo dissidente come star dei media internazionali – e dunque suppongo che non sia rimasto particolarmente contrariato dall’ammonimento del suo amico. Nel 1963 lei era già deciso a ritagliare un percorso assolutamente particolare per sé, ed era abbastanza saggio per sapere che una stampa mondiale ossessionata dalla storia del sacerdote-teologo dissidente avrebbe dato un'enorme amplificazione alle sue parole. Penso anche che sia stato deluso dal compianto Giovanni Paolo II perché aveva cercato di smantellare la sua versione della storia togliendole il mandato ecclesiastico per l’insegnamento della teologia cattolica. La successiva e ringhiosa arringa sulla presunta inferiorità intellettuale di Karol Wojtyla, pubblicata in un volume di sue memorie, ha rappresentato, fino a poco tempo fa, il punto più basso di una carriera polemica nella quale si è certamente distinto nel modo più évident come un uomo incapace di riconoscere intelligenza, onestà e buona volontà nei propri avversari. Ho detto “fino a poco tempo fa” perché, nella sua lettera aperta del 16 aprile, indirizzata ai vescovi di tutto il mondo, ha stabilito un nuovo record in quella particolare forma di odio nota con il termine di odium theologicum, con una malvagia condanna nei confronti di un vecchio amico che, al momento di ascendere al papato, si era mostrato generoso con lei, incoraggiando persino alcuni aspetti del suo attuale lavoro.

Prima di dedicarmi al suo attacco sull’integrità di Papa Benedetto XVI, comunque, mi permetta di osservare che il suo articolo dimostra chiaramente che non ha considerato con sufficiente attenzione la questione sulla quale si è pronunciato con un tono di infallibile sicurezza che farebbe arrossire Pio IX. Lei sembra del tutto indifferente al caos dottrinale che sta opprimendo gran parte del protestantesimo europeo e nordamericano, e che ha creato una situazione che impedisce un dialogo ecumenico teologicamente serio. Lei si scaglia senza pietà contro Pio XII, prendendo alla lettera le sue posizioni, a quanto pare del tutto ignaro che gli studi più recenti stanno invece mettendo in luce il coraggio mostrato da Pio XII in difesa degli ebrei d’Europa (nonostante tutto ciò che si possa pensare del suo atteggiamento improntato alla prudenza). Lei travisa gli effetti del discorso pronunciato da Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006, accusandolo frettolosamente di avere fatto una “caricatura” dell’islam. In realtà, il discorso di Ratisbona riportava il dialogo islamicocattolico alle due questioni attualmente più urgenti: la libertà religiosa intesa come diritto umano fondamentale e la separazione dell’autorità religiosa da quella politica nello stato del Ventunesimo secolo.

Lei non comprende in alcun modo che cosa oggi permette di impedire un’ulteriore diffusione dell’Aids in Africa, e rimane abbarbicato allo screditato mito della “sovrappopolazione” proprio quando i tassi di natalità stanno precipitando in tutto il mondo e l’Europa sta per entrare di sua volontà in una fase di congelamento demografico. E sembra altrettanto ignaro delle prove scientifiche che sostengono la chiesa nella sua difesa dello status morale dell’embrione umano, accusandola falsamente di opporsi alla ricerca sulle cellule staminali. Perché non è a conoscenza di tutte queste cose? Lei è senza dubbio un uomo intelligente. Un tempo ha dato un contributo fondamentale nel campo della teologia ecumenica. Che cosa le è successo?

Ciò che le è accaduto, a mio giudizio, è che lei è uscito sconfitto dal dibattito sul significato e la corretta interpretazione del Concilio Vaticano II. Questo spiega perché ha seguito imperterrito per cinquant’anni nella sua ricerca di un cattolicesimo protestante liberale, proprio nel momento stesso in cui il progetto del protestantesimo liberale sta collassando per la sua stessa incoerenza teologica interna.

Ed è per questo stesso motivo che lei è ora impegnato in una velenosa diffamazione di un altro ex collega al Concilio Vaticano II, Joseph Ratzinger. Ma prima esaminare questa diffamazione, vorrei dire ancora qualche parola sull’interpretazione del Concilio.

Sebbene lei sia l’esponente più autorevole sul piano teologico di ciò che Benedetto XVI, nel suo discorso del Natale 2005 rivolto alla curia romana, ha definito l’“ermeneutica della rottura”, lei è anche, senza ombra di dubbio, il membro internazionalmente più conosciuto di quel gruppo ormai piuttosto anziano di persone che continua a sostenere che il periodo 1962-1965 ha rappresentato un punto di svolta decisivo nella storia della chiesa cattolica: il momento di un nuovo inizio, in cui la Tradizione sarebbe stata detronizzata dalla sua posizione preminente di fonte primaria per la riflessione teologica, e sarebbe stata sostituita da un cristianesimo che avrebbe destinato sempre più “al mondo” il compito di stabilire l’agenda della chiesa (come recitava allora uno slogan del Concilio mondiale delle chiese).

Lo scontro tra questa interpretazione del Concilio e quella sostenuta da padri conciliari come Ratzinger e Henri de Lubac, ha spaccato in mondo teologico cattolico postconciliare in agguerrite fazioni con tanto di riviste militanti: Concilium per lei e i suoi colleghi progressisti, Communio per coloro che continuate a chiamare “reazionari”. Il fatto che il progetto di Concilium si sia fatto, nel corso degli anni, sempre più impraticabile, e che la nuova generazione di teologi, soprattutto in America del nord, sia gravitata nell’orbita di Communio, non deve certo essere stata un’esperienza facile da superare. E deve essere stato un duro colpo anche il fatto che Communio abbia potuto influenzare in modo decisivo le deliberazioni prese in occasione del Sinodo straordinario dei vescovi tenutosi nel 1985, e indetto da Giovanni Paolo II per celebrare i risultati ottenuti dal Vaticano II e per definire la sua piena attuazione nel ventesimo anniversario della sua conclusione.

Tuttavia, credo che la vera scintilla che l’ha fatta esplodere si sia accesa il 22 dicembre 2005, quando l’appena eletto Papa Benedetto XVI – vale a dire lo stesso uomo che lei aveva contribuito a fare eleggere nella facoltà teologica di Tubinga – rivolgendosi alla curia romana proclamò che la discussione era terminata e che la “ermeneutica della riforma” conciliare, che si fondava su una continuità con la grande Tradizione della chiesa, aveva vinto la battaglia contro la “ermeneutica della discontinuità e della rottura”.

Forse, mentre sorseggiava birra insieme a lui a Castel Gandolfo nell’estate del 2005, lei si è in qualche modo immaginato che Ratzinger avesse cambiato opinione su questo punto fondamentale. Ma ovviamente non è così. Per me rimane francamente un mistero come abbia potuto immaginarsi che avrebbe accettato la sua idea di ciò che comporterebbe un “continuo rinnovamento della chiesa”. E la sua analisi dell’attuale situazione in cui si trova il mondo cattolico non diventa affatto più comprensibile quando, nel suo ultimo editoriale di invettive, si legge che gli ultimi Papi hanno avuto un atteggiamento “autocratico” nei confronti dei vescovi: ancora una volta, viene da domandarsi se ha considerato la questione con sufficiente attenzione. Perché sembra del tutto evidente che Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si sono mostrati dolorosamente riluttanti – qualcuno direbbe disgraziatamente riluttanti – a prendere provvedimenti disciplinari nei confronti di vescovi che si sono rivelati incompetenti o disonesti e hanno per questo perduto il diritto di insegnare e guidare i fedeli: una situazione che molti di noi sperano possa presto cambiare, specialmente in considerazione delle recenti controversie.

In un certo senso, naturalmente, nessuna delle sue rimostranze sulla vita del mondo cattolico postconciliare appare nuova. Sembra tuttavia cosa sempre più inaspettata e incomprensibile per chi abbia veramente a cuore il futuro della chiesa cattolica intesa come testimone della verità di Dio al fine della salvezza del mondo che si possa seguire la via sulla quale lei si affanna a condurci: che, in altre parole, un cattolicesimo credibile si avvierà sulla stessa strada percorsa negli ultimi decenni da varie comunità protestanti che, consapevolmente o no, hanno seguito sostanzialmente il suo consiglio di adottare un’ermeneutica di rottura con la grande Tradizione cristiana. Eppure, è proprio questa la risoluta posizione che ha assunto fin da quando uno dei suoi colleghi l’ha ammonita sul rischio di diventare troppo évident; e poiché questa posizione le ha permesso di rimanere sempre évident, perlomeno sulle prime pagine di quei giornali che condividono la sua interpretazione della tradizione cristiana, ritengo che sarebbe davvero illusorio aspettarsi che lei possa cambiare, o anche soltanto rettificare, le sue opinioni, persino quando tutte le testimonianze empiriche a disposizione indichino che la via da lei proposta è la via che porta alla scomparsa delle chiese.

Ciò che ci si può ragionevolmente aspettare, invece, è che lei si comporti con almeno un minimo di onestà e decenza nelle controversie in cui si impegna. So perfettamente cos’è l’odium theologicum, ma, in tutta sincerità, devo confessarle che nel suo recente articolo ha oltrepassato una linea invalicabile, in particolare con queste parole: “Non si può in alcun modo negare che il sistema mondiale di insabbiamento dei crimini sessuali compiuti da sacerdoti è stato elaborato e messo in opera dalla Congregazione per la Dottrina della Fede sotto la guida del Cardinale Ratzinger”.

Ma questo è semplicemente falso. Mi rifiuto di credere che lei, pur sapendo che era falso, l’abbia scritto lo stesso, perché ciò significherebbe essersi consapevolmente bollato come bugiardo. Se quindi non sapeva che ciò è falso, significa che lei non ha la minima idea di come si svolgessero nella curia romana le procedure di assegnazione dei casi di abuso prima che Ratzinger se ne assumesse la responsabilità e la affidasse alla competenza della congregazione per la Dottrina della fede nel 2001: pertanto, ha perso ogni diritto a essere ascoltato su questo argomento, e anzi su qualsiasi questione che riguardi la curia romana e il governo centrale della chiesa cattolica.

Anche se probabilmente non lo sa, sono stato un tenace e, spero, responsabile critico del modo in cui i casi di abuso sono stati malamente affrontati da singoli vescovi e dalle autorità della curia prima della fine degli anni Novanta, quando l’allora cardinale Ratzinger iniziò a fare forti pressioni per un radicale cambiamento nella gestione di questi casi (se è interessato alla questione, può consultare un mio libro uscito nel 2002: “The Courage to be Catholic: Crisis, Reform, and the Future of the Church”).

Parlo quindi con ben fondata sicurezza quando dico che la sua descrizione del ruolo avuto da Ratzinger non appare soltanto ridicola a chiunque conosca sufficientemente bene i dettagli della vicenda, ma è anche contraddetta dalla stessa esperienza dei vescovi americani che hanno quasi sempre trovato Ratzinger estremamente sollecito, pronto ad aiutare, profondamente preoccupato per la corruzione del sacerdozio a opera di un piccolo numero di maltrattatori, e deluso dalla incompetenza o dalla disonestà di vescovi che prendevano le promesse della psicoterapia in modo ben più serio di quanto avrebbero dovuto o non aveva il coraggio di affrontare ciò che doveva essere affrontato.

So perfettamente che gli autori degli editoriali non scrivono i titoli talvolta disgustosi che li annunciano. Lei ha però firmato un articolo al vetriolo – del tutto inappropriato per un sacerdote, un intellettuale o un gentleman – che ha permesso ai redattori dell’Irish Times di pubblicarlo con questo titolo: “Papa Benedetto ha ulteriormente aggravato tutto ciò che c’è di sbagliato nella chiesa cattolica ed è direttamente responsabile per avere orchestrato l’operazione di insabbiamento globale sugli stupri commessi dai preti – così si dichiara in questa lettera aperta indirizzata a tutti i vescovi cattolici”. Questa volgare falsificazione della verità serve forse a dimostrare fino a che punto può portare un uomo l’odium theologicum. Ma rimane comunque una cosa vergognosa.

Mi si permetta infine di suggerirle che dovrebbe delle pubbliche scuse a Papa Benedetto XVI, per quella che, in tutta obiettività, è una calunnia che mi auguro sia stata formulata in parte per ignoranza (sebbene per colpevole ignoranza). Posso assicurarle che intendo profondere il mio massimo impegno per realizzare una completa riforma della curia romana e dell’episcopato, due progetti che ho descritto dettagliatamente nel mio saggio “God’s Choice: Pope Benedict XVI and the Future of the Catholic Church”, di cui sarò felice di inviarle una copia nella traduzione tedesca. Ma non esiste alcuna via per un’autentica riforma nella chiesa che non passi attraverso l’angusta e stretta valle della verità. E proprio la verità è stata dilaniata e macellata nel suo articolo pubblicato su Irish Times. E questo significa che ha fatto arretrare la causa della riforma.

Con la promessa di tenerla presente nelle mie preghiere,

George Weigel
(traduzione di Aldo Piccato)

Fonte: Il Foglio 15 maggio 2010, via Segnideitempi









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Ognuno di noi ha la propria "spina nel fianco"....non da meno è l'amato da Dio Joseph Ratzinger Wink  
 
Confesso che da quando "conosco" Kung attraverso interviste, interventi e qualche discussione nei libri, ho sempre provato da una parte PENA per quest'uomo così altamente inquieto...e dall'altra spesso anche rabbia per come attaccava Giovanni Paolo II accusandolo di essere stato il Papa peggiore del Novecento e il Papa peggiore per cominciare il nuovo Millennio e questo perchè, secondo lui, quel Papa aveva fallito nella sua missione che avrebbe dovuto portare la Chiesa a delle svolte dottrinali come l'ordinazione delle donne, la depenalizzazione del divorzio e l'acconsentire all'aborto per i feti malati... Un Papa dunque che avrebbe fallito perchè invece mantenne ferrea la Dottrina e scrisse la Evangelium Vitae, la Christifidelis Laici, la Ecclkesia de Eucharestia ecc... e che permise (quale affronto) di far scrivere a Ratzinger la Dominus Jesus... capirai, un oltraggio al progressismo cattolico!  
 
Ratzinger, come è nel suo stile, ricevette Kung appena venne eletto Papa, gli aprì le braccia per tentare un ultima opportunità di riappacificazione, ma così non è andata, Kung ha preferito impugnare LE SUE OPINIONI quali verità indiscutibili e resterà per sempre una spina nel fianco di Benedetto XVI... una spina tuttavia utile e forse anche necessaria se la vediamo dalla MISTICA CATTOLICA...  
certe spine sono necessarie proprio per aiutarci a vedere dove si nasconde la Verità e dove invece regna la menzogna...  
 
Bellissimo l'articolo, veramente molto interessante in alcuni punti anche commovente laddove emerge la PASSIONE DELLA CHIESA che come il suo Cristo riceve INSULTI, MENZOGNE E SCHIAFFI...  
Chi rifiuta e chi rinnega QUESTA CHIESA, non ne godrà neppure i frutti della Risurrezione... il Siracide ci ammonisce: ti sarà dato ciò che avrai scelto!  
 
Viva il Papa!!



Caterina63
00mercoledì 7 luglio 2010 15:27
La riforma di Benedetto
padre Massimo Camisasca

mercoledì 7 luglio 2010


Benedetto XVI rimarrà certamente nella storia come un papa riformatore. La riforma della Chiesa è sempre stata una delle sue attenzioni, anche quando era Cardinale. Non a caso, quando parlò al Meeting di Rimini circa 20 anni fa, intitolò il suo intervento: “La Chiesa deve essere sempre riformata”.

Questo suo intento riformatore è apparso più chiaramente e in modo insistito durante l’ultimo anno, dopo il ritorno del tema preti-pedofilia all’attenzione mondiale. Ma non può essere assolutamente ridotto ad esso.

Innanzitutto, il campo della riforma è per papa Ratzinger la liturgia (e di conseguenza la comprensione del Vaticano II). È nella celebrazione liturgica che appare più chiaramente la “mondanizzazione” della Chiesa, la sua assunzione di categorie sociologiche o politiche.

Da lì dunque deve partire il rinnovamento, che è un processo sia in avanti verso la liberazione da schemi mondani del passato recente, sia all’indietro verso una riscoperta di quel Principio che è il cuore della vita della Chiesa.

Poi la riforma deve scendere a colpire l’avarizia, la lussuria, la superbia. La ricerca del denaro, del piacere, del potere come fonti della ragione per vivere. La gioia e la realizzazione umana stanno altrove, nell’obbedienza, nella povertà e nella verginità.

Superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c’hanno i cuori accesi, aveva scritto Dante. A lui, a san Francesco, a san Bonaventura, a papa Celestino visitato domenica, ma anche a Tommaso Moro, a Newman e a Rosmini può essere accostato il progetto riformatore del Papa.

Sembra che tutto riguardi e vada a colpire solo la Chiesa. Tutto il male, tutte le colpe sono dunque raccolte solo nella sposa di Cristo? Ratzinger deve far pensare a Lutero o comunque a uno spirito che vuole sferzare i cardinali, dimenticando quanto di male c’è al di fuori della Chiesa?

Sarebbe un’ottica veramente sbagliata, assunta purtroppo da alcuni giornalisti e pubblicisti, capaci di falsare le vere intenzioni del Papa. Egli non vuole colpire la Chiesa, all’opposto vuole liberarla dal suo abbraccio col mondo.

Non vuole una Chiesa meno presente nella storia, meno “istituzione”. Il male infatti non è l’istituzione, ma la rincorsa dei beni mondani. Il male è nelle logiche mondane e negli uomini di Chiesa che le sposano spogliandosi della loro vera identità. Il centro dell’amore di Benedetto è la sposa di Cristo.

Da questa riforma (che ora deve riguardare anche le nomine episcopali con l’arrivo del cardinale canadese Ouellet a capo della congregazione per i Vescovi) la Chiesa uscirà più libera e più trasparente per la missione che Cristo le ha affidato.


tratto da:
www.ilsussidiario.net/News/Editoriale/2010/7/7/La-riforma-di-Benedett...

[SM=g1740722]



Caterina63
00martedì 17 agosto 2010 11:21

Le radici gianseniste della nuova lex orandi

Mentre su “Gente Veneta”, settimanale del patriarcato di Venezia, si ciancia del Sinodo di Pistoia condannato da Pio VI con la bolla Auctorem fidei, come riporta il blog di messainlatino.it, proponiamo ai nostri lettori quest'interessantissimo studio su

Le radici gianseniste della nuova lex orandi.


Pubblicato in Conoscenza Religiosa [Firenze: La Nuova Italia], 1 (gennaio - marzo-1969), 90-108; il testo qui riportato è stato sottoposto ad alcune correzioni ortografiche e stilistiche. Il sottotitolo è redazionale


Da tre anni ormai è stato introdotto nella Messa il volgare e questa immissione, se non le sue conseguenze, forma materia di storia, e si può considerare con una certa misura di distacco. Che fosse un evento della massima importanza nessuno può negare: lex orandi, lex credendi. La fede regola l'orazione e viceversa. Sarebbe inoltre di una singolare superficialità sostenere che si potessero costringere milioni di persone a rimutare di punto in bianco la millenaria atmosfera della loro vita spirituale senza che ciò significasse niente. Forse mai vi fu un così drastico sovvertimento nella forma cultuale d'una religione la quale nel contempo pretendesse di rimanere la stessa di prima.

Il cambiamento non s'è ristretto alla lingua; la posizione dell'altare, del tabernacolo, del sacerdote, i gesti del celebrante, i movimenti dei fedeli, tutto è cambiato.

Anche se potrebbe essere illuminante, un esame particolareggiato di tutte queste mutazioni dilaterebbe di troppo questo saggio, ed esse sono inoltre, in certa misura, tutte subordinate alla stessa, unica affermazione: che nessun simbolo è significativo salvo la parola parlata e comprensibile.

Allo storico è indifferente che un mutamento sia giusto o errato; il problema è perché si sia verificato in un certo momento invece che in un diverso contesto ed in tempi diversi. Che cosa c'è di particolare nell'Avvento del 1964, che fosse assente nell'Avvento del 964? E come avviene che lo stesso vescovo oggi prescrive ciò che ieri proscriveva? E come mai un prete, ordinato nella e per la Messa latina, e che la celebro diuturnamente per anni, e la spiegò e difese ogni qual volta dovette istruire un convertito, e la predico dal pulpito, come mai egli la butta a mare oggi senza pensarci sopra e inveisce contro di essa senza arrossire. Non si può affermare che il clero vi fosse obbligato da una soverchiante esigenza popolare. È un fatto storicamente certo che nei tempi preconciliari, le varie associazioni ñ liturgiche vernacole nazionali ñ non solo erano promosse dal clero ma annoveravano fra i loro membri quasi soltanto ecclesiastici, e per lo più escludevano la Messa dal loro programma. D'altro canto il movimento Una Voce è forse oggi l'unica organizzazione spontanea e del tutto laica di azione cattolica nella Chiesa.

Poiché sarebbe assurdo asserire che tutti i vescovi e la maggioranza dei preti siano o subdoli o incapaci, bisogna pur trovare una causa sufficiente a spiegare un mutamento così subitaneo e così universalmente applaudito. Un'avversione alla Messa latina si stava dunque formando, da qualche parte in un qualche modo, del tutto inconsciamente. La enorme struttura monolitica pareva intatta, ma restava eretta, dunque, per mera forza d'abitudine. Doveva essere minata sotterraneamente se basto pigiare un bottone per farla crollare. Ma chi pigio il bottone e chi aveva scavato le gallerie per minarla?

Questi i problemi che attendono lo storico, e che sono al di fuori dell'ambito proprio al liturgista ed al teologo.

Allorché si esaminano da vicino questi cambiamenti così massicci, bisogna ricordarsi che le ragioni proclamate non sono necessariamente le vere, in parte perché il problema può essere non già che cosa la gente pensi ma perché lo pensi, in parte perché i motivi conclamati sono probabilmente razionalizzazioni post hoc di sentimenti più profondi e forse inesplicabili. Se questo vale per la Riforma protestante o per la Rivoluzione francese, varrà anche per la Riforma liturgica. Le ragioni proclamate meritano tuttavia d'essere prese in esame.

Quelle, anzitutto, del fautore del latino.

Quali ragioni adduce a pro del mantenimento d'una liturgia che in gran parte non si ode e per lo più non si capisce? Egli lamenta la perdita irreparabile d'un simbolo d'unità nel tempo e nello spazio, mostra l'assurdo d'un inglese che va a cercarsi a Roma la sua chiesa tribale; i conflitti inevitabili che nascono dal vernacolo in società plurilinguistiche; il pericolo che rappresentano per la Chiesa le lingue dei colonizzatori in paesi di emancipazione recente. Non solo le versioni sono inadeguate ma è puerile immaginare che si sia cresta una liturgia volgare soltanto col tradurre dal latino poiché ogni lingua ha una propria congeniale natura e l'equivalente inglese di un epigramma latino sarebbe un passo della magniloquente prosa di Macaulay. Comunque sia, non soltanto il silenzio è altamente significativo, ma è l'unico elemento comune fra tutte le lingue. C'è inoltre il problema insolubile della musica, e via enumerando.

Ragioni come queste sono oggettivamente veritiere, valide e ponderose, ma si può ben dubitare che siano le vere ragioni per cui il fautore del latino odia il volgare. Esse sono, fra l'altro, ragioni accidentali. S'immagini che l'inglese fosse dichiarato lingua universale della Chiesa e che la Messa, non tradotta ma riscritta in un inglese impeccabile ed armonioso, fosse celebrato dal sacerdote meno inadeguato fra tutti. Forse che il fautore del latino l'accetterebbe? Certo che no. Essa continuerebbe a stridergli nel profondo dell'anima. Continuerebbe a crudelmente soffrire.

Messo alle strette, pero, il fautore del latino avanza tutt'altro genere di ragioni, in modo spesso e variamente inadeguato; buon segno in verità, poiché le argomentazioni astratte sono sempre chiare mentre la realtà viva non è mai del tutto esprimibile.

Queste ragioni suonano più o meno così: "La Messa ha perduto il suo anonimato. Nell'antica, il sacerdote non aveva importanza, adesso ogni sua parola è intenzionalmente significativa e, poiché egli parla la sua lingua che non posso fare a meno di capire, mi urta. Pregare è impossibile, perché la mia lingua non solo mi distrae ma è in se stessa la distrazione. Peggio ancora: ho smarrito anch'io il mio anonimato. Nella antica Messa, io non contavo; adesso mi tocca esprimermi e per giunta in comune. Ero raccolto, ora debbo essere attivo, due inconciliabili. Nella vecchia Messa il cuore parlava al cuore, cor ad cor loquitur; ora che la Messa si ode tutta, è il cuore a non parlar più. Ogni traccia di devozione è svanita.

Un simile punto di vista può sembrare piuttosto soggettivo, ma ha un enorme vantaggio: il timbro della verità; probabilmente è una buona pista verso i veri motivi che cela questo atteggiamento. Fra l'altro, la direbbe lunga su un fenomeno innegabile: e cioè che coloro che meno conoscono il latino sono quelli che più ne deplorano generalmente la perdita: la lingua ieratica li aiutava a raggiungere l'anonimato; per un dotto conoscitore il latino aveva un palese significato e poteva valergli il vernacolo.

Quali, viceversa, le ragioni dichiarate del vernacolarista? Una si può eliminare d'acchito perché non regge, e cioè che la Messa offra alla Chiesa l'occasione più naturale di assolvere alla propria missione d'insegnamento. Forse che nessuno ha mai pensato di predicare durante la Messa? Che cosa s'insegna costringendo a borbottare tutto l'anno "Signore, pietà" invece di far ascoltare il Kyrie eleison Tra l'altro, è proprio vero che "Il Signore sia con voi" ha lo stesso significato di Dominus vobiscum? Produce veramente le stesse immagini mentali, conduce alle stesse associazioni?

D'altronde, a parte la teoria, il fatto che l'assemblea fosse composta esclusivamente di "periti" che non hanno nulla da imparare, impedirebbe in pratica al vernacolarista di celebrare la sua Messa in vernacolo? No di certo; al contrario.

Un'altra linea di pensiero, assai più interessante benché neppure questa sembri una causa sufficiente a mutamenti tanto drammatici, è nel vernacolarista la aspirazione al revival religioso, il "torniamo ai primordi" comune a ogni rivoluzione. Le società sembrano raggiungere di quando in quando uno stato tale di perfezione che la gente se ne disgusta cordialmente. Le tecniche sembrano troppo raffinate, i contenuti troppo gracili. La protesta mira non ad incrementare il contenuto bensì a spaccare il contenente: "Torniamo ai primordi!"

Nel 1520 che cosa avrebbe potuto produrre la Germania medievale dopo la Hellenkirche? Che cosa si poteva intagliare, dopo Riemenschneider? "Torniamo alla Bibbia!": prima che si edificassero chiese o si intagliassero figure.

E che cosa si poteva fare nella Francia dell'ancien régime, se non distruggerla?

"Torniamo alle virtù di Roma repubblicana!"

Non si pecca forse di scorrettezza se si dirà che in questi tempi burrascosi la Barca di Pietro appariva un po' troppo salda. Poiché le onde non riuscivano a sbalestrarla, forse ci sarebbero riusciti i marinai. Essa cavalcava i marosi con un trionfalismo esasperante: "la nostra Fede, che è il principio trionfale che trionfa del mondo" (Giovanni, 1, 5-4); eh, no, bisogna impedirlo far si che imbarchi un po' d'acqua. La ciurma era governata dalla legge imperturbabile del diritto canonico; un po' di capriccio, un tocco d'anarchia bisogna introdurli subito: "Torniamo alla Chiesa dei primordi!"

Certo, non è questo il primo revival che abbia afflitto la Chiesa. Il movimento per la riesumazione del gotico non è neanche finito, sicché lo stesso prete il quale qualche anno fa proclamava che la conversione dell'Inghilterra era questione di iconostasi goticheggianti, cortinaggi d'altare, amitti ornamentati, gregoriano e scolastica, adesso è convintissimo che l'altare rivolto al popolo, la stola più spoglia, gran letture bibliche, una messa comunitaria e l'esistenzialismo convertiranno il mondo. La cosa più curiosa è il periodo che oggi si è scelto di far rivivere.

La straordinaria somiglianza fra il declino dell'Occidente e quello della Roma imperiale, fra l'età nostra e quella di Sant'Agostino, è stata riconosciuta da parecchio tempo. Sgomenta perciò che qualcuno desideri consapevolmente ripristinare il cristianesimo quale fu dal IV al VI secolo. Eppure s'è scelto proprio quello. Come ogni revival, anche questo seleziona con gran cura, e come prima si pigliava il rapido per Edimburgo ad una stazione gotica e si mangiava con posate vittoriane su una conventina gotica, così è soltanto la socialità religiosa del culto pubblico che si vuole ridestare fra i vari caratteri dell'epoca di Sant'Agostino. Non sono pero considerati da imitare fenomeni religiosi ben più significativi dello stesso periodo, come quelli rappresentati dagli stiliti o dai monaci della Tebaide, da coloro che la socialità religiosa del loro tempo spinse nel deserto o in cima ad una colonna

Ma se queste forme estreme di individualismo religioso non sono state trascelte per l'imitazione odierna, questo non impedisce che riemergano. Un egregio autore ha scritto in una lettera privata, a proposito dei mutamenti liturgici: "Mi debbo ricordare che compito della Chiesa è trasmettere il deposito della fede attraverso i secoli, e che la sua testimonianza nei templi è soltanto una parte, e da ora in poi forse una parte decrescente, del suo destino L'unica conseguenza positiva è che forse molti di più tra noi saranno spinti nel Castello Interiore di Santa Teresa dove Dio può parlare nel suo linguaggio di silenzio". Costui è maturo per il deserto.

Ma per quanto fascinoso possa essere un revival, per rappresentativo che possa essere di un movimento, non può mai esserne la causa.

No, la giustificazione fondamentale della Messa volgare è, come proclamano gli stessi vernacolaristi, la partecipazione. Il guaio è che la parola è molto ambigua.

Partecipare a che cosa, come, con chi? Partecipare a una società a responsabilità limitata, a una conversazione, a una recita teatrale, sono atti che implicano accezioni abbastanza diverse del vocabolo. Poi ci sono piani ben separati su cui si può ritenere che una persona partecipi: l'ecclesiale (in quanto membro della Chiesa) e il personale. Tanto vale dir subito che una liturgia inintelligibile non compromette il primo. Il fantolino che non capisce niente e strilla nel suo particolare vernacolo durante tutta la Messa partecipa, sul piano ecclesiale, con la stessa pienezza del celebrante, perché è membro della Chiesa e perché la Chiesa è presente in ognuno dei suoi membri come Gesù Cristo è ugualmente presente in ogni ostia consacrata. È nel piano personale che il fantolino è come o peggio che assente. Ne consegue che la partecipazione a cui mira una liturgia comprensibile deve attuarsi sul piano personale.

Ma si partecipa con chi? Qual è la "controparte" partecipe?

Non si può sostenere che sia Dio. Anche se l'osservazione sembra una celia, è ben vero che l'unica persona ostinata nel rifiuto di partecipare ad un'udibile Messa volgare è Dio; da parte Sua Egli continua a pronunciare nulla più che il Verbo fatto Carne. Se comunque la partecipazione a Dio può dipendere in qualsiasi modo da una liturgia volgare e udibile, allora dovunque, da più di mille anni, la Chiesa ha incoraggiato e insegnato una frequentazione inadeguata dei Sacri Misteri.

E se questo è vero, in che cosa ci si fiderà mai della Chiesa, se non c'è da darle credito neanche in ciò che eminentemente la concerne: la religione stessa, la partecipazione dell'uomo a Dio?

Se non è Dio, la controparte nel rapporto di partecipazione sarà forse il sacerdote ed i compagni di culto? Sembrerebbe a prima vista di si. Il canonico J. B. O'Connell negli Opuscoli dei Redentoristi (Redemptorist Pamphlets) scrive: "il quasi incredibile che per un millennio il rapporto vitale fra il popolo dei fedeli nei banchi ed i ministri all'altare sia rimasto tagliato". Si dà qui per scontato che sia l'attività vernacola ed udibile a formare il rapporto vitale fra fedeli e ministri e non già la raccolta attenzione della assemblea, che poté certo esservi sempre. Ma le cose stanno davvero in termini così elementari?

Se è indubbio che taluni ricavano un beneficio psicologico dalla preghiera comunitaria, altrettanto lo è che molti non lo ricavano per niente. Anzi, invece di apportare un ricco sentimento di comunione, di incorporazione nell'assemblea, essa ha prodotto una frattura che prima sarebbe stata inconcepibile.

D'altra parte, un simile concetto di partecipazione non basta a spiegare tutto: perché mai i monasteri femminili sono stati particolarmente trascelti per farvi celebrare la Messa volgare? Lo stato spirituale di quasi tutte le monache è quello dell'orazione di pure presenza; la Messa volgare è probabile che provochi in loro una crudelissima sofferenza invece di rafforzarne lo Spirito di comunità; già forse hanno troppe preghiere in comune, aggiungere alla lista anche la Messa sembra un atto leggermente brutale.

O ancora, nei giorni feriali in certe chiesette minori, il semplice fatto che nessuno dei devoti apra bocca e che ci si conoscano tutti per favorevoli al latino, non impedirà ad un prete, che intenda farlo, di dire la messa volgare. Non che egli sia necessariamente un sadico, ma certo i suoi motivi per agire in tal modo debbono essere diversi dal desiderio di ripristinare "il rapporto vitale fra il popolo nella navata ed il ministro all'altare".

Se la partecipazione come causa sufficiente per la liturgia volgare non può significare aver parte con Dio e non vuol precisamente dire far parte con il sacerdote ed il vicino, forse va intesa come "assumere una parte": rappresentare, piuttosto che condividere. Cosi deve essere, poiché, per quanto una persona lo conosca bene, di norma non pensa in latino né si esprime in latino, soprattutto con se stesso: gli rimane artificiale. può conoscere il significato di Agnus Dei, ma non c'è qui una sua personale implicazione, è come se stesse parlando un altro, laddove "Agnello di Dio" ha per lui un significato reale, implica un affidarsi, un consegnare se stesso.

Anche se la assemblea rifiuta caparbiamente di rispondere, il prete, con eroica risoluzione, continuerà a dire la messa volgare, si consegnerà nella lingua in cui può mettere dell'intenzione.

Se poi l'assemblea risponde, sarà dalla somma delle personali volontà di consegnarsi che sorgerà la inebriata partecipazione con il vicino, il "rapporto vitale" di cui parla O'Connell. La Messa latina dialogata era del tutto insufficiente a questo fine particolare; gli inservienti erano semplicemente moltiplicati da due magari a duecento, ma inservienti rimanevano: non partècipi, non consegnati, impersonali, anonimi, per mera forza della lingua ieratica. Ma ora, nella loro lingua, parlano con intenzione, non sono più inservienti ma persone, non schiavi ma uomini liberi: "popolo di Dio".

Se questa breve analisi dei motivi dichiarati dei fautori del latino o del volgare si avvicina al vero, la questione risulta abbastanza chiaramente definita. Il fautore del latino cerca nella Messa la dissoluzione dell'io, l'anonimato; il vernacolarista l'impegno dell'io, l'uscita dall'anonimato. Essi sono dunque irriconciliabili.

Ma, se il punto controverso risulta chiaramente definito, rimane il problema di come sia potuto avvenire uno scontro frontale entro una religione così dogmatica e unificata come quella della vera Chiesa. Prima di esaminare le possibili soluzioni, occorre escludere una spiegazione semplice: che è questione di temperamento; i fautori del latino sono degli introversi che cercano di perdersi perfino nel culto pubblico, i vernacolaristi invece degli estroversi che vogliono imprimere la loro personalità perfino sulla Messa.

I fatti, ahimè, non lo confermano: conosciamo tutti dei vernacolaristi introversi e degli estroversi fautori del latino. È veramente molto comico pensare che certi papi rinascimentali fossero degli introversi all'ultimo stadio. E che cosa avrebbe fatto diventare tutti estroversi nel bel mezzo del XX secolo? La spiegazione non funziona.

Certo è che, a parte il suo temperamento, un uomo per pregare deve essere capace di un minimo di introversione. La quieta, piccola voce giunta a Elia non si adatta al microfono. Ma questa è un'altra questione.

Lex orandi, lex credendi. Le liturgie possono mutare soltanto per due motivi: sono cambiate le credenze, la lex credendi, o è cambiato l'atteggiamento verso la preghiera, la lex orandi. Fu perfettamente giusto che al tempo della Riforma i protestanti cambiassero la liturgia, se non l'avessero fatto sarebbero stati degli ipocriti.

CONTINUA..........

Caterina63
00martedì 17 agosto 2010 11:26
C'è stato un mutamento della fede, in seno alla Chiesa, tale da compromettere la liturgia della Messa?

Non è un problema, questo, su cui gli storici possano emettere per adesso un giudizio valido. La pozione intellettuale è ancora in fermento e non la si può imbottigliare e mettervi un'etichetta. Si è tenuti alla cautela. Si dice, per esempio, che il 60% degli studenti di teologia d'un seminario maggiore austriaco non creda alla Presenza Reale sotto nessuna riconoscibile forma. Ma forse il 60% del cervello dell'intervistatore non sapeva riconoscere la forma in cui quegli studenti credevano alla Presenza Reale.

È certo, comunque, che vi sono stati dogli spostamenti d'accento. Due di questi spostamenti, uno positivo e l'altro negativo, paiono degni di menzione.

Negativamente, "transustanziazione" è diventata una parola altrettanto oscena quanto "trionfalismo" o "diritto canonico". La ragione è filosofica e può non aver niente o ben poco a vedere con la teologia. Ma il risultato è che il clero secolare, la cui fede nella Presenza Reale e schietta come l'oro, ha perduto un termine che gli era perfettamente significativo e che nessun altro ha sostituito. Di conseguenza sono rimasti senza parola dinanzi al mistero centrale della fede cristiana.

Più importante è il cambiamento positivo. Molti studiosi, con un seguito numeroso nel clero, non negherebbero certo la Presenza Reale ma credono che usarne separatamente dall'evento comunitario, dalla attiva partecipazione (recita) del Popolo di Dio alla Cena del Signore ñ la Messa ñ sia un abuso. Come la loro ripugnanza per il termine "transustanziazione", anche quest'altra idea si fonda in una filosofia esistenziale invece che ontologica.

Eppure pochi porterebbero questa concezione esistenziale alla sua estrema, ma logica conseguenza: che fuori della Messa la Presenza Reale non ha senso, né, dunque, esistenza.

Questo atteggiamento spiega parecchio di quanto è accaduto e probabilmente accadrà nelle chiese cattoliche. Il Santissimo Sacramento è stato rimosso dall'altare maggiore grazie al semplice espediente di voltare l'altare. È ancora conservato, ma il più discretamente possibile, per scongiurare gli abusi della devozione privata. Sarebbe meglio non conservarlo affatto nella Riserva ma deporre le ostie non consumate nel santuario, dal momento, poi, che il Viatico è indesiderabile, militando esso contro il giusto uso del Sacramento dell'Unzione.

Non è difficile trovare chiese chiuse allorché non vi si officia, benché in esse non ci sia niente da rubare o da sconsacrare. Un numero sorprendente di preti già esita, specie nei giorni di festa a dire la messa privata, che probabilmente non sopravviverà a lungo. Le polemiche correnti contro le elemosine per la Messa si possono considerare un mezzo per divezzare il clero dall'interesse investito nel preservare tali messe.

La concelebrazione a onor del vero non fu troppo diffusa, finché non si concesse a tutti i concelebranti di accettare l'elemosina. In pratica la Benedizione è stata abolita con l'introduzione della Messa vespertina, accoppiata al recente decreto che ne vietava la celebrazione prima o dopo la Messa. Le processioni del Corpus Domini stanno segnando il passo e le Quaranta Ore saranno quietamente abbandonate. Salvo forse qualche specie di "servizi per gruppi di studio" rimarrà soltanto la Messa, ma la Presenza Reale, invece che il centro della devozione cristiana, dovrà diventare un "avvenimento" impegnativo. Questa la tesi benissimo enunciata in una pastorale recente da uno dei nostri vescovi inglesi: "Finora la maggioranza fra noi ha trascorso l'intervallo di silenzio fra il Sanctus ed il Pater aspettando la venuta di Nostro Signore... per adorarlo veracemente presente nel Santissimo Sacramento... La Chiesa ci sta togliendo questo silenzio... non perché non creda valida e necessaria questo genere di preghiera, ma perché non pensa che il momento del Canone sia il più adatto ad essa": vale a dire il più adatto all'adorazione del Signore nel Santissimo Sacramento! Inevitabilmente, poiché il vescovo in questione è uomo d'onore e devoto, prosegue raccomandando la fuga nel deserto: "Nostro Signore in persona ci offre in merito l'insegnamento opportuno, e l'esempio. Disse: Ma quando pregate, andate nella vostra camera...".

Si, proprio così, non si può, anzi non si deve, pregare in chiesa. Non c'è da sorprendersi se le chiese si svuotino

Che questo spostamento di accento nella lex credendi abbia fornito l'energia propulsiva all'introduzione delle liturgie volgari pare innegabile. Tuttavia non spiega tutta la gamma dei fatti. La concezione esistenzialista e attivistica del Santissimo Sacramento è di una minoranza esigua del clero secolare, benché possa essere più diffusa fra gl'intellettuali del clero regolare.

La stragrande maggioranza conserva una visione del tutto tradizionale della Messa e della Presenza Reale. Se, dunque, hanno accolto volentieri il vernacolo, non è certo perché sottoscrivano a un qualsiasi spostamento di accento nella fede. Sarebbero probabilmente sconvolti se pensassero che possa esservi una qualunque relazione tra le due cose. Se dunque è così, allora la vera ragione per i drammatici mutamenti di cui siamo testimoni va cercava altrove. ciò non significa che lo Zeitgeist, così mirabilmente illustrato dagli spostamenti d'accento nella lex credendi, non sia importante; significa pero che deve aver trovato il terreno stranamente ben preparato perché potesse esservi seminato, crescere, fiorire e fruttificare, come un qualche raro fiore del deserto, nello spazio di una notte.

Vi è stato dunque un mutamento nella lex orandi, nella teoria e nella pratica della preghiera? Indubbiamente si, e un mutamento così sottile, esteso su tante centinaia d'anni, da passare quasi inosservato.

La concezione tradizionale, universalmente accettata fino alla Riforma, e nella Chiesa cattolica sino ad oggi, è che la preghiera cristiana sia un atto di abituale grazia santificante. Vale a dire che la preghiera di un cristiano differisce dall'atto equivalente di uno Stoico o di un Buddista non soltanto nel contenuto o nell'oggetto ma nell'essenza. Mentre lo Stoico o il Buddista sta compiendo un atto naturale, favorito dalla grazia attuale, il Cristiano sta favorendo un atto soprannaturale compiuto dallo Spirito Santo. I due processi sono chiaramente contrari; il primo è un atto umano santificato, il secondo un atto divino umanizzato.

Poiché lo Spirito Santo è l'operatore e l'essere umano soltanto il cooperatore nell'orazione cristiana, ne consegue infallibilmente che questa è l'atto, tra tutti, che può esser compiuto solo in istato di grazia. Un uomo può ricevere sacrilegamente la Santa Comunione, ma non può sacrilegamente pregare. Dunque, o dovrà sforzarsi, almeno in certa misura, di essere in istato di grazia, o se, dopo peccato grave, è consapevole di trovarsi in istato di preghiera, allora dovrà aver compiuto qualche atto equivalente alla contrizione perfetta, poiché, per pregare, deve trovarsi in istato di grazia. In pratica, la concezione tradizionale preferisce la prima alternativa: un certo sforzo deve essere compiuto per trovarsi in istato di grazia. Donde l'importanza di ciò che gli antichi chiamavano "temperanza", gli scrittori più tardi "mortificazione" e i moderni "ascetica", vale a dire la pratica delle virtù e delle pie meditazioni. Ma la pratica dell'ascetismo non è in se stessa formalmente preghiera. Si limita a provvedere le circostanze nelle quali la preghiera è normalmente possibile. È vero che la meditazione può essere preghiera, ma lo sarà non in virtù della cosa meditata ma dell'intenzione, poiché la cooperazione umana con lo Spirito Santo non è un atto dell'intelligenza ma un atto della volontà.

Cosi, i pensieri che un sacerdote esprime nell'omelia, o un professore di teologia nella lezione, non sono preghiere; rimangono esattamente ciò che vogliono essere: veritieri, belli e pii pensieri. Un predicatore potrà indubbiamente essere indotto a pregare dalla sua stessa predicazione, ma non appena lo farà dovrà cessare di predicare, a meno che, come il Curato d'Ars, non sia in uno stato abituale di preghiera. L'attività dell'essere umano in preghiera è qualcosa di assai diverso: è aderenza alla grazia e meno esso interferisce con lo Spirito Santo, meglio è. Questo egli non lo compie con pii pensieri e buone risoluzioni che rimarrebbero i "suoi" pensieri e le "sue" risoluzioni ñ forme, tutte, di egocentrismo ñ ma con l'immediato cancellarsi, con l'abbandono di tutto ciò che è "suo" per divenire teocentrico quanto lo consente la grazia. Dovrebbe raccogliersi e svuotarsi, così da lasciare spazio per la divina operazione dello Spirito Santo. Sebbene petizione, propiziazione e resa di grazie abbiano il loro posto nella preghiera, la nota finale è l'adorazione, l'amour pur della controversia Fénélon-Boussuet, proprio quella cosa che, secondo il discorso episcopale testé citato, è oggi considerato un'attività sconveniente durante il Canone della Messa.

Nella concezione tradizionale è appassionatamente negato che la sua teocentricità sia in qualsiasi modo anti-sociale. Al contrario. Tutte le nostre pie esortazioni a noi stessi e risoluzioni di amare il prossimo nostro possono aiutarci ad essere con lui ragionevolmente cortesi e ad esercitare un'ipocrisia bene intenzionata, ma non possono farcelo amare perché rimangono meri atti umani. Ma la preghiera vera, nella quale la persona dimentica il proprio prossimo come se stessa per aderire a Dio solo, lo perfeziona in modo tale che, con sua stessa sorpresa, potrà accadergli di scoprire in quel prossimo ragioni di amarlo mai prima immaginate. Questa è l'operazione della grazia.

Né si deve immaginare che simile concezione della preghiera si debba riferire ai grandi contemplativi nella via unitiva ma non si possa applicare al semplice fedele. Non è così. Tutte le forme di orazione peculiari alla Chiesa e da essa incoraggiate implicano e richiedono uno stato di raccoglimento e di adesione, e non di intenzionale dedizione e attività. Il Rosario, le Litanie, le Stazioni della Via Crucis, le Lodi Divine, le giaculatorie indulgenziate, chi ha mai pensato alla parola parlata e persino al particolare mistero? Quale mai significato possono avere simili reiterazioni? Il loro uso serve a ridurre l'attività della mente umana ad un minimo così da liberare l'anima e disporla all'adesione a Dio nell'orazione.

Concessa questa filosofia dell'orazione, la posizione del latinista si mostra perfettamente razionale. Egli assisterà alla Messa con in mano un Rosario, una Filotea, un'Imitazione di Cristo, un Messale o nulla assolutamente: con qualsiasi strumento l'esperienza gli indichi come più utile a tenerlo raccolto in se stesso attento all'adorabile Presenza. Questo desiderio di anonimato, di raccoglimento, onde adorare Gesù Cristo realmente presente nel Santissimo Sacramento, non è preferenza personale nata dall'abitudine, è parte integrante della più intima fede. Il vernacolarista non ha bisogno di sostenere che dai Padri del Deserto in giù fino al benedettino John Chapman tutti i cattolici di tutto il mondo si sono mostrati inspiegabilmente ottusi: possono avere avuto un'errata filosofia dell'orazione, ma, qualunque essa fosse, la loro liturgia la esemplificava perfettamente.

Che la filosofia tradizionale dell'orazione fosse inaccettabile per i riformatori protestanti, specie per Calvino, è abbastanza ovvio; tutto il sistema cattolico dell'orazione dové sparire insieme alla Messa, poiché i riformatori propugnavano un diverso sistema della grazia, e sarebbe assai interessante in proposito un'analisi delle numerose liturgie protestanti.

Ma quando fu che si cambio atteggiamento fra i cattolici?

Henri Brémond attribuì il mutamento agli Esercizi di sant'Ignazio. Quale fosse la natura della orazione di Sant'Ignazio stesso, la ripetizione costante dogli Esercizi, specie com'era raccomandata nella Perfezione del Rodriguez, non poteva non dare l'impressione che la preghiera fosse essenzialmente un atto umano che dipendeva, al pari d'ogni altro, dalla grazia attuale e non già un atto soprannaturale dipendente dallo Spirito Santo attraverso l'abituale grazia santificante.

Per pregare si doveva scegliere un tema di meditazione, immaginare composizioni di tempo e luogo, trarre conclusioni, eccitare affetti, prendere risoluzioni; inoltre l'obiettivo dell'esercizio era antropocentrico: la propria perfezione, e non teocentrico: l'adorazione di Dio. Il risultato, secondo Brémond era l'opposto dell'orazione: invece di un'operazione della volontà volta allo svuotamento di sé, invece d'un raccoglimento e un'adesione volti all'adorazione di Dio, si ebbe il massimo di attività intellettuale e fantastica volta alla propria perfezione. Fu una sostituzione dell'ascetica all'orazione, del mezzo al fine. Un professore di teologia del tipo lirico dovrebbe pregare in tal modo meglio di chiunque e resterebbe un mistero insondabile come persone così stupide come Santa Teresina o Bernadette Soubirous potessero mai pregare.

Il principio unificante della vasta produzione letteraria di Brémond è l'illustrazione di questa tesi e, fra diecimila altre, egli tira fuori questa citazione, così formidabile che nessuno, per poco che sia interessato alla questione, potrebbe tralasciarla. Nel 1923 un certo Padre Vincent pubblico un'opera intitolata François de Sales Directeur d'âmes et éducateur de la volonté (1). Eccone alcuni passi essenziali.

"Se vediamo Dio come lo videro gli Ebrei, nella sua conturbante maestà, non saremo forse portati a prostrarci dinanzi a Lui, subordinando quindi tutti i nostri doveri religiosi a quello della adorazione e della lode? Se l'uomo concepisce Dio alla maniera giudaica, tenderà a dimenticarsi, a perdersi di vista per vedere in certo qual modo soltanto il suo Signore onnipotente.

Se d'altro canto Dio è pensato come un padre o un tutore indulgente, desideroso di ornare le nostre anime, infallibilmente concentreremo le nostre preoccupazioni su noi stessi".

Padre Vincent procede quindi a dimostrare che se la tradizione adoratrice duro un millennio e mezzo, lo si dovette al fatto che gli antichi Padri erano impregnati di giudaismo e che i loro atteggiamenti furono perpetuati dai monaci benedettini. Questa aggiunta era ben vera allorquando abate di Downside era Dom John Chapman, ma il vescovo Butler (suo successore) forse la troverebbe un po' dura nei propri confronti. "L'ascetismo liturgico", prosegue Padre Vincent, designando con questa buffa locuzione la concezione tradizionale della preghiera, "che ebbe origine, avanti il Vangelo, nella vecchia legge mosaica, e che è basato sul timore riverenziale della divinità, rimane la norma fino al secolo XVI". Ma finalmente arrivano i gesuiti con il loro "concetto più alto della religione". Loro capirono che Dio "è assetato del nostro progresso spirituale più che della nostra lode". Alla fine "identificarono la Cristianità con il progresso morale". La loro preoccupazione invariabile e primaria "fu di onorare Dio premièrement par la culture de soi, secondement par la culture des autres". La lode di Dio certo è cosa eccellente "ma soltanto nella misura in cui contribuisce alla nostra crescita morale. In se stessa non è niente, se non la riduciamo alla sua funzione strumentale, se non ne facciamo un mezzo di (auto)perfezione e uno strumento d'amore (per il prossimo)".

Sapere se le valutazioni storiche di Padre Vincent a proposito di ebrei e gesuiti siano vere o false esula dai nostri fini, ne tratteremo comunque più avanti. i! certo che la sua filosofia dell'orazione è una rivoluzione integrale e giustifica del tutto la diagnosi di Brémond. È anche innegabile che sia questa filosofia della orazione a giustificare la liturgia volgare. Se la preghiera equivale al "progresso morale", se è un atto umano, che dipende come qualunque altro dalla grazia attuale e che è diretto al perfezionamento di sé, certo ci dovrà essere una liturgia comprensibile vernacola, didattica che il fedele possa "rappresentare", capire, con cui possa esprimersi, impegnarsi e consegnarsi. Forse il vernacolarista ha una errata filosofia dell'orazione, ma la sua liturgia sicuramente la esemplifica alla perfezione.

Di là da ogni ragionevole dubbio, questa è la causa sufficiente del cambiamento liturgico di così vasta portata di cui siamo stati testimoni. Forse gli spostamenti di accento nella lex credendi hanno provocato la deflagrazione, ma il gran monumento della Messa latina era stato prima minato da un mutare lento e silenzioso della lex orandi, della dottrina della grazia come incide sulla preghiera.

Resta a vedere come questo mutamento lento e silenzioso si produsse. Tanto Brémond che Vincent l'attribuiscono ai gesuiti, l'uno a loro dannazione, l'altro a loro gloria. Ma per plausibile che la tesi appaia, non combacia coi fatti.

Gli Esercizi, quale ne sia l'interpretazione tarda, nei secoli XVI e XVII si ritennero solo Esercizi, una forma di allenamento di alta ascetica, e non un manuale di preghiera. Come pregasse Sant'Ignazio stesso si può inferire dal fatto che dovette ottenere la dispensa dalla recita dell'Ufficio "perché quasi tutta la sua giornata se ne andava nel dirlo, tanto abbondanti erano le visitazioni divine che gliene scaturivano (S. Sophia, III, 1, C. VII, § 28). In tali condizioni non sarebbe giunto molto in là con gli esercizi, come metodo di orazione. Il confessore di Santa Teresa Padre Baldassarre Alvarez abbandono decisamente gli Esercizi; alcuni intriganti lo denunciarono al Generale, ma sta di fatto che egli si difese benissimo e più tardi gli furono affidate le massime cariche nella Compagnia. più strano è il caso della Perfezione del Rodriguez, poiché mostra con quale diverso spirito si leggano i libri in tempi diversi. Per Brémond nel XX secolo essa è la causa d'ogni male, eppure figura nella lista dei libri raccomandati dal benedettino Dom Augustine Baker, il campione della spiritualità tradizionale agli inizi del secolo XVII. Si potrebbe continuare a lungo.

L'atteggiamento fondamentale della Compagnia di Gesù in queste materie, avanti la soppressione, si può giudicare da come parteggio nella controversia fra Fénélon e Bossuet: la difesa di Fénélon fu organizzata da Padre Dez della Chiesa del Gesù. L'origine della nuova spiritualità va cercata dunque altrove. L'onore o l'infamia non spettano alla Compagnia.

È chiaro come il sole che una nuova filosofia dell'orazione può solo nascere come conseguenza d'una nuova teoria della grazia e questa fu fornita non dai gesuiti, ma dai giansenisti. Anche loro promossero una riviviscenza del IV e del VI secolo, ma andarono ben al di là dei moderni, risuscitando la Tebaide: un deserto per intellettuali a Port Royal des Champs. Ma, quel che più importa, la loro teoria della "grazia sufficiente" spezzava in due la concezione tradizionale della orazione perché negava l'esistenza della grazia santificante su cui quella concezione riposa. La "grazia sufficiente" riguarda sempre gli atti, mentre la grazia santificante riguarda uno stato. Sotto molti aspetti i giansenisti furono esistenzialisti avanti lettera.

Come conseguenza naturale di questa teoria, se mai qualcuno "identifico il cristianesimo con il progresso morale" questi furono i giansenisti e non i gesuiti (con il loro "lassismo morale"). Non è per mera coincidenza che i giansenisti in Olanda avevano una liturgia volgare prima della fine del secolo XVII e che il giansenista Noailles la frequentava a Parigi nel 1709.

La nuova spiritualità fu iniettata nella Chiesa nientemeno che da Bossuet. Anche se egli non era giansenista, lo era certamente il suo teologo, Nicole. Benché non aderisse alla teoria della "grazia sufficiente" dovette sentire una naturale attrazione verso il loro atteggiamento in materia di preghiera. Bossuet era appunto un teologo di tipo lirico che probabilmente pregava facendo a Dio lezioni di teologia così come i suoi scritti teologici sono sublimati da un'unico fluire di lirismo. Quali che fossero le vere origini della controversia sul quietismo (e forse resteranno per sempre avvolte nelle tenebre), non c'è dubbio che i giansenisti, grazie a Nicole, si servirono di Bossuet per attaccare la spiritualità tradizionale attraverso a Mme Guyon. Il bersaglio non era tanto quella pia, intelligente dama che scribacchiava troppo, ma l'amour pur, l'amore disinteressato, l'adorazione pura: ciò che precisamente adesso è dichiarato inadatto al Canone della Messa.

Fénélon sorse a difendere la spiritualità tradizionale ed il risultato furono gli Articoli di Issy, la capitolazione completa di Bossuet. Ma non era ancora finita, Fénélon, comprensibilmente ma forse poco saggiamente, buttò fuori un libretto perfettamente anodino ma di non grande qualità Maximes des saints. L'aquila di Meaux, con occhio d'aquila appunto, riuscì a vedervi errori tali "da scuotere le fondamenta stesse della Cristianità". Il resto è noto. Dopo le 132 sessioni d'una commissione romana, durate due anni, 23 proposizioni del tutto secondarie furono condannate da Innocenzo XII, ma non la dottrina dell'amour pur; come rilevo il cardinale de Bausset, Fénélon trionfo nella propria condanna.

Eppure i potenti, Bossuet ed i giansenisti, non avrebbero permesso che la cosa apparisse così. Fénélon è stato condannato, dunque tutto il suo sistema, la spiritualità tradizionale che egli difendeva, devono essere errati. Le conseguenze si palesarono subito: se il XVII secolo fu il più ricco di autori spirituali, il XVIII è sicuramente il più povero. Nessuno osava pregare, figuriamoci poi scrivere sulla preghiera.

Fénélon fu condannato il 12 marzo 1699. Immediatamente si apre l'età della ragione e dell'irreligione. In meno d'un secolo ci saranno vescovi come Loménie de Brienne e Talleyrand, sarà proclamata la costituzione civile del clero, abrogato il celibato ecclesiastico e introdotta la Messa volgare in più di ottanta delle centotrentacinque diocesi francesi.

Onore vada a chi lo merita. Nel crollo religioso del secolo XVIII, un Ordine si distinse nel tener fede alla spiritualità tradizionale, non i benedettini, parce Padre Vincent, ma i gesuiti, che s'inabissarono a vessilli spiegati. Caussade e Grou non sono soltanto i più alti autori spirituali del secolo, ma il secondo forse il più alto di quanti la Compagnia di Gesù ne ha prodotto.

La Compagnia di Gesù fu soppressa nel 1773. Rinacque quarant'un anni dopo. È molto, è più di una generazione. Qui Brémond e Vincent possono aver ragione: la Compagnia restaurata sembra aver avuto sulla preghiera una concezione leggermente diversa dall'antica. È, naturalmente, molto difficile resuscitare lo spirito, più facile resuscitare la lettera ñ ma "è lo spirito che vivifica". Nessuno nega che nella Compagnia vi siano stati, negli ultimi 156 anni, grandi maestri di spiritualità: tutti ne abbiamo conosciuto personalmente qualcuno. Ma è anche difficile negare due proposizioni: 1. che molti singoli Gesuiti sono oggi in prima linea nell'introdurre proprio quella forma di orazione che l'antica compagnia combatté fino all'ultimo sangue; 2. che la nuova spiritualità è stata diffusa in parte da un uso improprio degli Esercizi nei ritiri per il clero. Quest'ultima asserzione, se vera, la direbbe lunga sul perché il clero, e non il laicato, è particolarmente prono alle nuove tendenze.

Questo saggio avrà adempiuto al suo compito se avrà mostrato che i fautori del latino ed i vernacolaristi non si ostinano intorno ad una questione superficiale di forma liturgica o di pratica pastorale. È l'intero fondamento dell'orazione, della Chiesa in actu che ne va di mezzo. Dunque è di somma importanza che si chiariscano alcuni quesiti.

Prima di tutto: nella Lex credendi, si esige una qualche autoritativa asserzione tanto sul Divino Sacrificio della Messa come sulla Presenza Reale. Gesù nel Santissimo Sacramento è soltanto la Via, o anche la Verità e la Vita? È ovvio che il peggior momento possibile per riformare una liturgia è quando vi sia il pur minimo elemento di dubbio su ciò che essa intende significare.

E poi: nella lex orandi, è di suprema importanza che sia dato insegnamento preciso su due punti: che cosa costituisce l'elemento della preghiera, l'azione dello Spirito Santo o quella dell'uomo? e qual è l'oggetto finale della preghiera: il perfezionamento di sé dell'uomo o la pura adorazione di Dio?

Fin quando non si saranno definiti questi punti, sulla vera e propria liturgia della Messa, dall'Offertorio alla Comunione compresa, non dovrebbe esser alzata la mano. In realtà sarebbe commendevole restaurare l'antico rito, per lo meno facoltativamente, onde non pregiudicare le deliberazioni dei Padri del Vaticano III.

Bryan Houghton

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BRYAN HOUGHTON, nato nel 1911, studiò a Friburgo e a Oxford. Si convertì dal protestantesimo al cattolicesimo nel 1934 e fu ordinato sacerdote nel 1940.

Assolse il suo ministero prima a Slough, in una parrocchia operaia, quindi, dal 1954, a Bury St. Edmund's occupandosi soprattutto di problemi scolastici in distretti industriali, fondando scuole elementari nelle due parrocchie successivamente amministrate. È membro del Consiglio dell'Università dell'East Anglia.

1) Cfr. H. BRÉMOND, Introduction à la philosophie de la Prière, Paris: Blond & Gay, 1929.
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Caterina63
00martedì 17 agosto 2010 17:15

Benedetto XVI e i margini di una possibile critica ai testi del Vaticano II.

Benedetto XVI e i margini di una possibile critica ai testi del Vaticano II.

È noto che il Papa Benedetto XVI ha indicato nella cosiddetta ermeneutica della discontinuità e della rottura una delle cause della difficile recezione del Vaticano II [1].

In pieno accordo con quanto detto dal Papa, anche Mons. Guido Pozzo, Segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha recentemente affermato che “la questione cruciale o il punto veramente determinante all’origine del travaglio, del disorientamento e della confusione che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano in parte i nostri tempi non è il Concilio Vaticano II come tale, non è l’insegnamento oggettivo contenuto nei suoi Documenti, ma è l’interpretazione di tale insegnamento”. Mons. Pozzo ha chiamato tale interpretazione una “ideologia para-conciliare, diffusa soprattutto dai gruppi intellettualistici cattolici neomodernisti e dai centri massmediatici del potere mondano secolaristico” [2].

Proseguendo sulla scia di queste affermazioni, si potrebbe dunque paragonare il Vaticano II a un monumento storico, bello sì, ma gravemente imbrattato da dei piccioni (parte della teologia moderna e simpatia dei mass-media (Benedetto XVI [3]); gruppi intellettualistici cattolici neomodernisti e centri massmediatici del potere mondano secolaristico (Mons. Pozzo [4]).

Tutti i buoni cattolici non possono che prendere atto di questa situazione, per altro descritta anche troppo benevolmente.

Ma questa spiegazione, nella sua sostanza, potrebbe non offrire tutte le ragioni della grave crisi in atto.

Se infatti provassimo a ripulire il monumento dalle incrostazioni lasciate dai piccioni, se riuscissimo cioè a liberare il Concilio dall’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso (Mons. Pozzo [5]), cosa troveremmo sotto la suddetta coltre di errori? Troveremmo un capolavoro finalmente ripulito, oppure potremmo rinvenire, nello stesso monumento, qualche difetto (es.: espressioni per lo meno ambigue) e qualche lacuna (es.: la mancata condanna del comunismo, la mancanza di canoni definitori)?

In altre parole, può un cattolico, che deve necessariamente aderire “con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto agli insegnamenti che il Romano Pontefice o il Collegio episcopale propongono quando esercitano il loro Magistero autentico, sebbene non intendono proclamarli con atto definitivo” [6], rinvenire una qualche forma di difetto negli stessi testi conciliari? E se sì, quali sono i margini leciti di questa critica?

Per rispondere a questa domanda, può giovare la rilettura di un testo scritto da Joseph Ratzinger a metà degli anni 60 [7], circa la qualificazione teologica di alcuni testi conciliari. Il testo riguarda strettamente la qualifica teologica di alcuni paragrafi del cap. III di Lumen Gentium (riguardanti la collegialità episcopale), ma i principi e le conclusioni si possono applicare cum granu salis a tutti i testi del Vaticano II.

Riporto ora il testo dell’allora teologo Joseph Ratzinger, a cui posporrò alcune osservazioni conclusive.

Joseph Ratzinger: Il problema della qualificazione teologica [di Lumen Gentium]

Inizio dello stesso testo di J. Ratzinger:

1. Il problema

Durante tutto il tempo delle consultazioni e discussioni sullo schema De Ecclesia fu dai Padri e Teologi del Concilio sempre più sollevata la questione
della qualificazione teologica dei testi che sarebbero stati promulgati. Questi, 
infatti, rappresentano una novità nella storia dei Concili, in quanto mancano 
di canoni o anatematismi, che venivano finora impiegati come norma di interpretazione nella questione di ciò che è veramente definito e vincolante. Si aggiunga come aumento di difficoltà per una interpretazione che voglia conoscere
il valore dommatico dei testi conciliari, la insolita lunghezza di questi e il carattere pastorale sempre più accentuato del Concilio. D'altra parte, non si deve
neppure dimenticare che il tentativo fatto, di spingere le affermazioni del Concilio su un piano esclusivamente pastorale, cercando di cancellare dal titolo del testo
la parola «dogmatica» per parlare solo e semplicemente di una «Constitutio de 
Ecclesia», venne respinto. Il testo promulgato si intitola ora nuovamente «Constitutio dogmatica de Ecclesia» ed esprime con ciò una chiara esigenza dommatica.

Con questa chiarificazione del genere letterario, espressa dal Concilio, è anzitutto esclusa la tendenza a volerlo qualificare come un testo di pura edificazione.
 Ciò contrasterebbe, del resto, apertamente anche con la nozione positiva dell'idea pastorale, che si è formata nel Concilio sviluppando le richieste di Giovanni
XXIII. Questo carattere pastorale riprende l'idea che i Padri della Chiesa avevan o
della cura pastorale; esso non è affatto distaccato dalla verità dommatica, ma
 riposa proprio sulla piena riscoperta del carattere salvifico della verità biblica,
 che non è fatta soltanto per la scuola né è semplicemente teoretica. «Pastorale»
è, perciò, l'espressione adatta per indicare l'unione fraterna della verità e dell'amore, del Logos e dell'Ethos e dovrebbe essere anche la legge fondamentale
 che dirige e caratterizza ogni lavoro teologico.

2. La Dichiarazione della Commissione Teologica

Per quanto importanti siano tali conoscenze, esse non sopprimono, tuttavia,
la questione del valore esatto dei testi presentati e non sono sufficienti a risolverla. E necessario, del resto, riflettere, che anche nei testi dei Concili precedenti la questione della obbligatorietà è più difficile di quanto spesso si affermi, 
e che, in genere, una storia della nozione di definizione dommatica e dei testi
 dommatici resta ancora da scrivere, e vani e molto diffusi sono ancora i malintesi da eliminare [8].

Tra le notificazioni del 16 novembre 1964, che abbiamo menzionate, e di cui
la terza parte - la «Nota esplicativa previa» - è stata appena esaminata [9], la seconda parte si occupa del problema della qualificazione teologica [10]. Se ne parla 
ampiamente in altro articolo [11].

3. II risultato

Secondo il testo della Nota, è anzitutto chiaro che una vera «definizione dommatica» con la quale una proposizione viene dichiarata oggetto di fede divina e
cattolica, si ha solo quando ciò sia espressamente dichiarato. Questo non è mai il
caso nella parte del testo da noi analizzato ossia nei numeri 19-22 del cap. III 
della Costituzione sulla Chiesa. Dunque, essi non contengono alcun nuovo 
domma.

Per prima potrebbe ancora riecheggiare una definizione dommatica la proposizione con la quale, nel numero 21, viene pronunciata la sacramentalità
 dell'episcopato: «Insegna quindi il Santo Concilio che con la consacrazione 
episcopale viene conferita la pienezza del sacramento dell'Ordine...». Ma poiché
 manca l'accenno al carattere rivelato di questa dottrina, neppure qui si ha da
vedere una vera definizione dommatica, ma solo l'espressione di una comune
 convinzione dottrinale del Concilio, nella quale, tuttavia, non si afferma l'appartenenza immediata della dottrina proposta al deposito della fede apostolica,
 né si propone questa all'assenso della fede.

Con questo che è stato detto si è raggiunta una chiarificazione negativa: non 
ci sono dommi, neppure nella proposizione della sacramentalità dell'episcopato.
 Rimane aperta la questione positiva: quale grado di certezza hanno, in realtà, 
i testi promulgati?

Questo non è reso del tutto chiaro neppure dalle parole della
Commissione teologica, che suonano un po' come oracolo e offrono due specie
di criteri:

a) L'intero testo è espressione del supremo magistero della Chiesa. Ciò 
include, in ogni caso, una certa misura di obbligatorietà, sulla quale dovremo 
ancora riflettere un po'.

b) Valgono le regole ordinarie di interpretazione che trovano la loro norma 
nella natura della materia trattata e nel genere letterario del testo.

Anche da questo risulta necessariamente una non piccola forma di obbligatorietà del testo, la cui materia si trova nel campo della verità dommatica e la 
cui dizione è assolutamente magisteriale-autoritativa, soprattutto nei brani da 
noi considerati.

Nella determinazione del genere letterario si deve aggiungere che si tratta
 di un testo, intorno al quale, per tre anni, parola per parola, si è applicato intensamente l'episcopato del mondo intero, il collegio dei vescovi in comunione
 col Papa, dotato del supremo potere dottrinale; testo che il papa stesso ha meditato nel modo più radicale, alla cui maturazione ha contribuito con un non
 piccolo numero di proposte, e che, infine, ha solennemente confermato e promulgato:

Tutte e singole le cose stabilite in questa Costituzione dommatica piacquero ai Padri. E Noi, con la potestà Apostolica conferitaci da Cristo, unitamente ai Venerabili
 Padri, nello Spirito Santo le approviamo, decretiamo e stabiliamo; e ciò che è stato
sinodalmente decretato, comandiamo che sia promulgato a gloria di Dio.

Quando si rifletta a tutto questo, si rende indubbiamente chiaro che, per
quanto riguarda la misura della sua obbligatorietà teologica, il testo sta molto 
al di là delle espressioni ordinarie del magistero del papa, le stesse Encicliche 
comprese. E un documento cresciuto in anni della più intensa espressione della 
coscienza attuale della fede di tutta la Chiesa cattolica adunata in Concilio;
 Chiesa che ha formulato questo testo come professione della sua fede, come
 annunzio al mondo di oggi, come base del suo rinnovamento spirituale, che
 non può stare su piedi vacillanti. Questo non significa che il testo sia irreformabile nelle particolarità delle sue formulazioni, nelle linee direttrici del suo pensiero o nelle sue citazioni della Scrittura e dei SS. Padri. Ma significa che, nel
complesso dei testi emanati dal magistero della Chiesa, nei tempi moderni, la 
presente Costituzione occupa una posizione di preminente importanza che la fa
essere come una specie di centro di interpretazione.

Nei prossimi decenni e oltre la Costituzione dovrà, in larga misura, attirare 
su di sé l'attenzione dei teologi, ai quali spetta il compito di assimilarne il contenuto e di esprimerlo convenientemente perché sia messo al servizio della predicazione. Sarebbe falso, tuttavia, credere che tutto il lavoro dei teologi si debba 
ora esaurire nella interpretazione delle affermazioni conciliari. Il senso di questo 
testo non è precisamente quello di assorbire le forze dei teologi ma, piuttosto,
quello di condurli fuori da se stessi e di accompagnarli e guidarli alle sorgenti
 del perpetuo rinnovamento e ringiovanimento di tutta la teologia: alla S. Scrittura, cioè, ed ai ricchi tesori che, di generazione in generazione, si possono tirar 
fuori dagli scritti dei Padri.


Fine dello stesso testo di J. Ratzinger.

Osservazioni conclusive

Possiamo riassumere ora le osservazioni di J. Ratzinger: e siccome riguardano i testi conciliari che hanno la qualifica teologica più alta, quanto qui detto si può applicare, con molta prudenza, a tutto il resto del Vaticano II.

1) “Con questa chiarificazione del genere letterario [Costituzione dogmatica], espressa dal Concilio, è anzitutto esclusa la tendenza a volerlo qualificare come un testo di pura edificazione”.

2) Non esiste nel III capitolo di Lumen Gentium alcuna definizione dogmatica, né alcuna dottrina proposta come definitiva (e se non esiste qui, sarà molto difficile trovarne qualcuna nel resto del corpus dei documenti conciliari)

3) Ciò non toglie che i testi presi in esame non godano dell’infallibilità propria del magistero ordinario, né che non sia richiesta l’adesione con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto: infatti, “risulta necessariamente una non piccola forma di obbligatorietà del testo, la cui materia si trova nel campo della verità dommatica e la
cui dizione è assolutamente magisteriale-autoritativa, soprattutto nei brani da
noi considerati […] si deve aggiungere che si tratta
 di un testo, intorno al quale, per tre anni, parola per parola, si è applicato intensamente l'episcopato del mondo intero, il collegio dei vescovi in comunione 
col Papa, dotato del supremo potere dottrinale; testo che il papa stesso ha meditato nel modo più radicale, alla cui maturazione ha contribuito con un non
 piccolo numero di proposte, e che, infine, ha solennemente confermato e promulgato”.

4) “si rende indubbiamente chiaro che, per
 quanto riguarda la misura della sua obbligatorietà teologica, il testo sta molto 
al di là delle espressioni ordinarie del magistero del Papa, le stesse Encicliche 
comprese”.

5) “Questo non significa che il testo sia irreformabile nelle particolarità delle sue formulazioni, nelle linee direttrici del suo pensiero o nelle sue citazioni della Scrittura e dei SS. Padri. Ma significa che, nel
 complesso dei testi emanati dal magistero della Chiesa, nei tempi moderni, la
presente Costituzione occupa una posizione di preminente importanza che la fa 
essere come una specie di centro di interpretazione”.

Circa quest’ultimo punto, è molto importante la prima frase, questo non vuol dire che il testo sia irreformabile nelle particolarità delle sue formulazioni. Ciò significa che, vuoi perché l’ideologia para-conciliare ha ormai caricato certe espressioni in sé buone di un significato erroneo; vuoi perché infallibilità del magistero non significa che tutte le parti di un documento siano redatte sempre nel migliore dei modi; vuoi perché un testo ampio e discorsivo si presta di più di un’unica interpretazione e a fraintendimenti (pensiamo all’abuso che gli eretici hanno fatto di Sant’Agostino e della Scrittura stessa); vuoi perché l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, si è impadronita del Concilio fin dal principio (Mons. Pozzo [12]); insomma, per tutta una serie di motivi può essere lecito auspicare, nei punti più controversi - visto che il testo non è “irreformabile nelle particolarità delle sue formulazioni” - una migliore formulazione che renda impossibile l’ermeneutica della rottura e renda invece più evidente la vera ermeneutica della riforma e della continuità.

D'altra parte è vero che il Concilio è stato continuamente e rettamente interpretato da centinaia di discorsi e in altri documenti importantissimi, quali ad esempio il Catechismo della Chiesa Cattolica. Ma visto che l'ideologia para-conciliare si richiama al Concilio, usando questa parola quasi come un mantra, non guasterebbero chiarificazioni ex-professo (come è stato fatto con la questione del subsistit).

Una nuova formulazione particolare dei punti più controversi potrebbe - oltre che arrecare tanti frutti positivi - senz’altro favorire il felice esito dei colloqui tra la Santa Sede e la Fraternità Sacerdotale San Pio X.

La piena riconciliazione infatti non potrà che passare attraverso l’accettazione sostanziale - da parte della FSSPX - di tutto il magistero, ordinario e straordinario: le suddette riformulazioni, che non sarebbero altro che chiarimenti autentici e autoritativi del Concilio stesso, potrebbero permettere di sciogliere le riserve che FSSPX tuttora mantiene nei confronti di alcuni testi del Vaticano II.


Don Alfredo M. Morselli, Stiatico di San Giorgio di Piano, 16 agosto 2010, festa di San Gioacchino, padre della Beata e Gloriosa sempre Vergine Maria, Madre di Dio.


NOTE

[1] cf. Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri Natalizi, 22 dicembre 2005, tinyurl.com/b8f72; sito visitato il 16 agosto 2010.

[2] Aspetti della ecclesiologia cattolica
nella recezione del Concilio Vaticano II, conferenza tenuta il 2 luglio 2010, presso il Seminario della Fraternità Sacerdotale di San Pietro a Wigratzbad: cf www.fssp.org/it/pozzo2010.htm; sito visitato il 16 agosto 2010.

[3] Discorso alla Curia Romana...

[4] Aspetti della ecclesiologia...

[5] Aspetti della ecclesiologia...

[6] Cf. Congregatio pro Doctrina Fidei, Professio fidei et Iusiurandum fidelitatis in suscipiendo officio nomine Ecclesiae exercendo una cum nota doctrinali adnexa, 29 giugno 1998
 AAS 90 (1998) 542-551.

[7] Si tratta della terza e ultima parte di un interessantissimo scritto di J. RATZINGER, «La collegialità episcopale dal punto di vista teologico», pubblicato in G. BARAÚNA (a c. di), La Chiesa del Vaticano II, Firenze: Vallecchi, 1965, pp. 733-760. Il sottotitolo originale della III parte (pp. 757-760) è Il problema della qualificazione teologica.

[8] Cfr. A. KOLPING, Qualifikationen, in «Lexikon für Theologie und Kirche» 8 (1963) 914-919 e gli importanti studi, ivi citati, di A. LANG, specialmente: Der Bedeutungswandel der 
Begriffe «fides» und «haeresis» und die dogmatische Wertung der Konzilsentscheidungen von
 Vienne und Trient, in «Münchener Theologische Zeitschrift» 4 (1953) 133-146 e il nuovo 
studio riassuntivo: Die theologische Prinzipienlehre der mittetalterlichen Scholastik, Friburgo
1964, specialmente le pp. 184-195. [Nell’edizione italiana di La Chiesa del Vaticano II, il n. della nota è 46. N. d. R.]

[9] Nelle prime due parti dello stesso scritto, qui non riportate.

[10] Riportiamo, per comodità del lettore, la II parte della suddetta notificazione:

NOTIFICATIO

Facta ab Exc.mo Secretario Generali Ss. Concilii in Congregatione Generali CLXXI diei XV nov. MCMLXV

Quaesitum est quaenam esse debeat qualificatio theologica doctrinae, quae in Schemate Constitutionis dogmaticae de Divina Revelatione exponitur et suffragationi subicitur.

Huic quaesito Commissio de doctrina fidei et morum hanc dedit responsionem iuxta suam Declarationem diei 6 martii 1964:

«Ratione habita moris conciliaris ac praesentis Concilii finis pastoralis, haec S. Synodus ea tantum de rebus fidei vel morum ab Ecclesia tenenda definit quae ut talia aperte ipsa declaraverit».

«Cetera autem, quae S. Synodus proponit, utpote Supremi Ecclesiae Magisterii doctrinam, omnes ac singuli christifideles excipere et amplecti debent iuxta ipsius S. Synodi mentem, quae sive ex subiecta materia sive ex dicendi ratione innotescit, secundum normas theologicae interpretationis».

Traduzione in italiano:

Notificazione fatta dall'Ecc.mo Segretario generale (Card. Pericle Felici) nella congregazione generale 123.a (16 novembre 1964)

“È stato chiesto quale debba essere la qualificazione teologica della dottrina esposta nello schema sulla Chiesa e sottoposto alla votazione. La commissione dottrinale ha dato al quesito questa risposta: «Come è di per sé evidente, il testo del Concilio deve sempre essere interpretato secondo le regole generali da tutti conosciute». In pari tempo la commissione dottrinale rimanda alla sua dichiarazione del 6 marzo 1964, di cui trascriviamo il testo:

«Tenuto conto dell'uso conciliare e del fine pastorale del presente Concilio, questo definisce come obbliganti per tutta la Chiesa i soli punti concernenti la fede o i costumi, che esso stesso abbia apertamente dichiarato come tali.

«Le altre cose che il Concilio propone, in quanto dottrina del magistero supremo della Chiesa, tutti e singoli i fedeli devono accettarle e tenerle secondo lo spirito dello stesso Concilio, il quale risulta sia dalla materia trattata, sia dalla maniera in cui si esprime, conforme alle norme d'interpretazione teologica»”.

[N.d.R.].

[11] J. RATZINGER si riferisce qui all’articolo di U. BETTI, «Qualificazione teologica della Costituzione», nella stessa opera La Chiesa del Vaticano II, pp. 267-274. [N.d.R.].

[12] Aspetti della ecclesiologia...

Caterina63
00mercoledì 18 agosto 2010 16:41

Come abbiamo ricevuto, così dobbiamo trasmettere

Sotto il profilo etimologico la nozione di tradizione appartiene all’area semantica del verbo «tramandare». Letto nella soggiacenza latina, esso suona «trans-mandare», o più precisamente «trans-manui-dare», cioè «consegnare qualcosa in mano a qualcuno», o più brevemente «trans-dare» ovvero «tradere», cioè «consegnare qualcosa a un altro». Attraverso l’etimologia propria alla componente «manui-dare», il verbo latino «mandare» lascia poi emergere la connotazione del comando e dell’ordine impartito, che il «mandante» impartisce appunto a chi è fatto destinatario di un «mandato».

Se colui che trasmette e colui che riceve si collocano nel presente, il messaggio trasmesso proviene ovviamente dall’esperienza del passato ed è ordinato a prolungare la sua operatività in un presente che è in continuo divenire. La tradizione è come una catena, cui non può mancare alcun anello. La nozione di tradizione, dopo aver detto una sola volta l’inizio assoluto, dice sempre continuità.

Infatti chi trasmette, trasmette ciò che ha ricevuto da altri, che a loro volta l’hanno ricevuto da altri ancora
.



La nozione di tradizione si colloca dunque nel quadro della coppia semantica «ricevere-trasmettere», largamente attestata dalla tradizione rabbinica e da Paolo tramite la formula tecnica che in ebraico suona qibbèl min [ricevere da] – masàr le [trasmettere a] e in greco paralambànein apò (+ genitivo) – paradidònai (+ dativo).
Nei documenti rabbinici gli anelli della catena vengono enumerati in linea tanto discendente quanto ascendente. Ecco due esempi.

Per la linea discendente: «Mosè ricevette dal Sinai la Legge e la trasmise a Giosuè, e Giosuè agli Anziani, e gli Anziani ai Profeti, e i Profeti la trasmisero agli uomini della Grande Sinagoga»; per la linea ascendente: «Io l’ho ricevuta da Rabbì Miašà, il quale l’ha ricevuta da suo padre, il quale l’ha ricevuta dalle Coppie dei capi, i quali l’hanno ricevuta dai Profeti come norma di condotta data a Mosè dal Sinai».
Il rabbino Paolo, nel richiamare alla mente dei cristiani di Corinto la sacralità dell’eucaristia, predilige il processo discendente: «Io infatti ho ricevuto dal Signore (parélabon apò tou Kyriou) ciò che anch’io ho trasmesso a voi (parédoka hymìn)...» (1Cor 11,23). Egli è di fatto l’anello che collega l’inizio assoluto della tradizione eucaristica, ossia il Signore Gesù, ai Corinzi.

Affine all’area semantica che fa capo al verbo «tramandare» («trans-dare») è quella espressa dal verbo «tradurre», che deriva dal latino «trans-ducere», cioè «condurre oltre, far passare».

Quando si parla di «traduzione», si pensa immediatamente alla trasposizione di un testo da una lingua a un’altra, e a tutti i problemi di forma che tale trasposizione comporta. Tuttavia, prima ancora di essere una questione di stile letterario, la traduzione dei testi liturgici, non meno che la traduzione dei testi biblici, è un intervento che tocca direttamente la trasmissione del depositum fidei, considerato in rapporto alle ricchezze tramandate. Il compito che si assume il traduttore risulta pertanto assai delicato e gli impone di guardarsi, da una parte, dalle lusinghe di una pastorale galoppante e, dall’altra, dalle remore imposte dalla fedeltà aprioristica a una formulazione presentata come intangibile.



Caterina63
00mercoledì 25 agosto 2010 10:38
L'ortodossia e il rinnovamento nella Chiesa

Quelli che vogliono
aggiornare Cristo


di Inos Biffi


L'ortodossia, cioè il Credo cristiano nella sua integrità, è il fondamento e la condizione dell'esistenza stessa della Chiesa.

Questa perderebbe la propria identità, se qualche verità del Credo si annebbiasse nell'incertezza o fosse rimossa o trascurata. La prima missione che sta a cuore alla Chiesa è la piena fedeltà alla Parola di Dio, autorevolmente espressa e proposta dalla stessa Chiesa.

Verso le formulazioni della fede non è raro riscontrare una diffidenza e reazione, ma è perché vengono fraintese, quasi riducessero e impoverissero tale Parola, frantumandola in enunciazioni astratte, prive di vita. Se è vero che nessun linguaggio umano riesce a esprimerne adeguatamente il contenuto, che solo nella visione beatifica sarà immediatamente percepito, è altrettanto indubbio che i simboli di fede coi loro articoli e le definizioni della Chiesa col loro rigore, grazie all'opera dello Spirito, mediano infallibilmente la Rivelazione. E proprio questa sta a cuore alla Chiesa, quale sua prima e insostituibile missione, in ogni tempo.

Già Paolo raccomandava a Tito di insegnare "quello che è conforme alla sana dottrina" (Tito, 2, 1), mentre, esortando Timoteo ad annunciare la Parola, gli prediceva:  "Verrà un giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina" (2 Timoteo, 4, 2-3). D'altronde lui stesso si preoccupava di essere in sintonia con gli altri apostoli.

Oggi qua e là si reagisce quando si sente parlare di "eresia", non considerando che, se l'eresia non è possibile, vuol dire che non esiste neppure la Verità e tutto si stempera in una materia cristiana confusa e informe. Quando, al contrario, la fede ha degli oggetti precisi e non interscambiabili.

In questa trasmissione lo sguardo della Chiesa è sempre volto soltanto al Signore, che le affida il Vangelo:  non a quello che una determinata cultura potrebbe gradire o approvare, e non limitatamente a quegli aspetti su cui si possa essere d'accordo e consenzienti dopo un accogliente dialogo. Non è fuori luogo sottolineare che il Verbo si è fatto carne non per istituire un disteso e lusinghiero dialogo con l'uomo, ma per creare e manifestare in sé l'unica immagine valida e riconoscibile dell'uomo.

A prescindere da Gesù Cristo semplicemente non c'è l'uomo conforme al progetto divino. Per non equivocare si potrebbe aggiungere che Gesù Cristo non va mai "aggiornato", perché è Lui il perenne e insuperabile Aggiornamento, che include in sé ogni tempo, quello presente, quello passato e quello futuro. Siamo noi che invece, per non perdere l'"attualità", ci dobbiamo aggiornare a Lui, siamo noi che, per essere veri credenti, ci dobbiamo aggiornare al Credo cristiano in sé inalterato e inaggiornabile.

Un rinnovamento nella Chiesa passa sempre e imprescindibilmente da un lucido annunzio anzitutto dell'assolutezza di Gesù Cristo, che rappresenta "il mistero di Dio Padre" (Colossesi, 2, 2). Del resto, i concili più importanti e impegnativi furono quelli dedicati all'ortodossa proposizione del mistero di Cristo, della identità di Gesù di Nazaret:  concili dottrinali e quindi, nel significato più alto, concili pastorali. A cominciare da Nicea.
 
La storia della Chiesa mostra con innegabile evidenza che una ripresa della condotta evangelica si innesta sempre su una energica riproposizione dell'ortodossia. Si pensi al Concilio di Trento, che fu prima di tutto un concilio dottrinale - sul peccato originale, sulla giustificazione, sui sacramenti - a cui seguì un meraviglioso rifiorire di vita e di santità cristiana.

La Riforma aveva colto, e giustamente stigmatizzato, comportamenti antievangelici nella Chiesa del suo tempo. Solo che alla base del risanamento pose un aggiornamento dell'ortodossia di fatto consistente in eresie, che spezzavano la comunione con la Tradizione. Si pensi alla negazione del sacerdozio ministeriale, alla contestazione del sacrificio della Messa, alla negazione di alcuni sacramenti, al carattere ecclesiale dell'intepretazione della Scrittura.

Sarebbe illuminante far passare analiticamente alcuni punti dell'ortodossia da riannunciare con vigore. Ma, prima di singoli dogmi, pare urgente la riproposizione del senso del "mistero", che sostiene tutto il Credo. La Parola di Dio manifesta il disegno, iscritto nell'intimo della Trinità e conoscibile soltanto per la condiscendenza divina e per la sua "narrazione" avvenuta in Cristo. Credere significa affidarsi a questa "narrazione" e quindi accogliere e annunciare un "altro mondo", il mondo invisibile e duraturo. Secondo quanto afferma Paolo:  "Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne" (2 Corinzi, 4, 18).

Lo smarrimento della "sensibilità al soprannaturale", razionalizzando il dogma, dissolve la fede; deteriora e dissipa l'evangelizzazione; altera e svuota la missione della Chiesa, che Cristo ha fondato come testimonianza della Grazia, e per il raggiungimento non del benessere e del fine terreno dell'umanità, ma della beatitudine eterna. Né per questo il Vangelo trascura o sottovaluta l'esistenza temporale dell'uomo, solo che questa esistenza, fragile e transitoria, è considerata nella sua destinazione e riuscita gloriosa.

Ovviamente, la conseguenza di un tale smarrimento è l'estinzione della teologia. A proposito del senso del mistero vengono in mente, e appaiono di sorprendente attualità, le luminose pagine che il più grande teologo dell'Ottocento, Joseph Matthias Scheeben, purtroppo dimenticato dall'esile riflessione dei nostri giorni, dedica nel primo capitolo de I misteri del cristianesimo, l'opera dogmatica a sua volta più originale e profonda dell'epoca:  "Quello che ci affascina è l'apparizione di una luce che ci era nascosta. I misteri pertanto devono essere verità luminose, splendide", che "si sottraggono al nostro sguardo per soverchia maestà, sublimità e bellezza".

E anche andrebbe letto, specialmente da chi si sta formando nei seminari, l'ultimo capitolo dell'opera di Scheeben, quello sulla teologia, "la scienza dei misteri", appoggiata tutta "al Lògos di Dio".

L'ortodossia, quindi, con le sue verità "visibili" agli "occhi illuminati del cuore" (Efesini, 1, 18):  ecco la condizione imprescindibile per un annunzio fedele del Vangelo e un rinnovamento nella Chiesa.


(©L'Osservatore Romano - 25 agosto 2010)




               Riforma nella chiesa Benedetto XVI su san Pio X



Caterina63
00lunedì 22 novembre 2010 10:05

Il magistero ordinario infallibile, l’Abbé Barthe difende la posizione di Mons. Gherardini


 

La nostra redazione ha ricevuto un’obiezione di un certo interesse da parte di uno dei nostri lettori in relazione al rapporto tra possibilità di critica teologica dei testi del Vaticano II e sottomissione dell’intelligenza al Magistero ordinario infallibile; si tratta di un dibattito annoso e particolarmente spinoso per l’esiguità di pronunciamenti sulla natura e sulle note del magistero ordinario, tuttavia cercheremo di abbordarne la complessità con una serie di interventi. Ringraziamo il contraddittore, che preferisce restare anonimo, per il suo intervento e invitiamo i nostri lettori che vogliano esprimere una diversa visione teologica a partecipare alla disputa.

Il testo del contraddittore :


Paolo VI definì, in un discorso del 12 gennaio 1966, il Magistero dell'ultimo Concilio come 'Magistero ordinario supremo'. Ebbene, il Magistero ordinario universale (se non si vorrà riconoscere come tale quello del Concilio si dovrà farlo rispetto al Magistero di tutti i vescovi sparsi per il mondo in unione con il Papa che da quarant'anni ha per oggetto le dottrine del Vaticano II), laddove proponga dottrine fondate sulla divina Rivelazione, è totalmente vincolante. Lo afferma il Concilio Vaticano I:

"Con fede divina e cattolica deve credersi tutto ciò che è contenuto nella parola di Dio scritta o tramandata, e che è proposto dalla chiesa come divinamente rivelato sia con giudizio solenne, sia nel suo magistero ordinario universale".

Dunque, come accade ad es. per la dottrina riguardante la libertà religiosa contenuta nella dichiarazione Dignitatis Humanae (I, 2), da parte del fedele vi è l'obbligo di credere, di esercitare l'atto di Fede e non solamente l'obbligo di avere per essa profondo rispetto.

L'argomento è oggetto di scontri teologici piuttosto accesi, specie se si valutano alcune scuole teologiche, entrambe di tendenza tradizionale. La nostra redazione ha chiesto un parere ad un teologo che ha a lungo studiato la problematica in questione l'Abbé Claude Barthe. Nato nel 1947, laureato in storia e diritto, ha studiato al seminario tradizionale di Econe e all'Istituto Cattolico di Tolosa; ordinato sacerdote nel 1979 ha fondato e cura tuttora la rivista "Catholica". Tra le numerose monografie ricordiamo "Propositions pour une paix de l'Eglise" ("Proposte per una pace della Chiesa"), sulla situazione teologica e liturgica della Chiesa di oggi, ma anche opere di filologia come "Le IV livre du Rationel de Guillaume Durand de Mende", così come l'edizione francese commentata del "Cerimoniale Episcoporum" voluto dal Concilio di Trento; il suo ultimo lavoro, raccoglie uno studio sulle tendenze odierne tra politica ecclesiastica e scuole teologiche: "Les oppositions romaines à Benoit XVI" ("Le opposizioni romane a Benedetto XVI"). Conosciuto per la rapida intelligibilità delle sue tesi, l'abbé Barthe è anche apprezzato per l'immediatezza concisa dei suoi interventi sempre congiunti ad una ricerca approfondita.


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CONSIDERAZIONI SUL MAGISTERO ORDINARIO INFALLIBILE

dell'Abbé Claude Barthe

(traduzione dall'originale francese di G. Lenzi)

Vorrei in questa sede fare qualche riflessione sulle chiare analisi teologiche che Mons. Brunero Gherardini, ha espresso su "Disputationes Theologicae", le quali hanno anticipato e riassumono quelle del suo libro apparso in questi giorni su questa capitale questione, "Concilio Ecumenico Vaticano II, una discorso da fare". Allo stesso tempo questi miei accenni già pubblicati in buona parte sulla rivista "Objections", vogliono essere una risposta all'obiezione che è stata mossa a Mons. Gherardini su queste stesse pagine.


Bisogna ricordare con fermezza i diversi gradi che impegnano l'insegnamento supremo del Papa solo o del Papa e dei vescovi uniti a Lui. E' necessario soprattutto specificare che il magistero più elevato deve collocarsi intorno a due gradi di autorità:


1) Quello delle dottrine irreformabili del Papa solo oppure del collegio dei Vescovi (Lumen gentium N. 25 § 2, 3). Questo magistero infallibile al quale bisogna " obbedire nella obbedienza della Fede", può essere a sua volta proposto sotto due forme:


a) Le dichiarazioni solenni del Papa solo o del Papa e dei vescovi riuniti in Concilio.

b) Il magistero ordinario e universale(Dz 3011).

2) Secondariamente quello degli insegnamenti del Papa o del Collegio dei Vescovi col Papa, senza intenzione di proporlo in maniera definitiva, ai quali è dovuto "un assenso religioso della volontà e dello spirito" (Lumen gentium N.25 § 1). Si parla in questo caso, in genere, di "magistero autentico", sebbene l'espressione non sia stata fissata in maniera assoluta.

Il contraddittore, come già l'aveva fatto notare l'Abbé Bernard Lucien, nel suo libro "Les degrès d'authorité du magistére", difende il magistero ordinario ed universale, magistero infallibile misconosciuto, schiacciato se così possiamo esprimerci, fra il magistero solenne infallibile ed il magistero autentico non infallibile. Questa giusta rivalutazione tuttavia non obbliga assolutamente a farvi rientrare tutto l'insieme dei testi del Vaticano II, né tutte le parti di ciascuno dei testi e specialmente le dottrine che sono state oggetto di molte discussioni, nello specifico:

a) Il passaggio dalla dottrina tradizionale della tolleranza a quella della libertà religiosa contenuta nel n. 2 della dichiarazione "Dignitatis Humanae" del Vaticano II;


b) La riverenza da portare alle religioni non cristiane nel n. 2 della dichiarazione "Nostra Aetate";


c) L'ecclesialità "imperfetta" che sembrerebbe essere accordata alle religioni cristiane non cattoliche nel numero 3 del decreto "Unitatis redintegratio".


I padri conciliari non intesero mai innalzare questi propositi, così come altri, la cui formulazione è evidentemente incompiuta, a livello di magistero infallibile da riceversi nell'obbedienza della fede. Il fatto che essi non siano connessi alla professione di Fede Cattolica è quindi una questione di buon senso.

L'infallibilità del Concilio è paradossalmente un tema tradizionalista

In effetti la questione tanto discussa non è stata mai sollevata altrove se non nel mondo tradizionalista, di cui una parte di teologi, in maniera senza dubbio molto bene intenzionata, ma di cui in fin dei conti non si riesce a percepire l'utilità, vorrebbe che queste dottrine si accordassero perfettamente con il magistero anteriore.
 Ma a dire il vero mai nessuna istanza romana ha preteso la cosa ed ancor meno ha preteso farne una dottrina infallibile!

D'altro canto i teologi "non tradizionalisti" non sono obnubilati da "Dignitatis humanae", ma da "Humanae vitae". La loro letteratura a proposito dell'autorità del magistero è immensa, ma essa si occupa – o almeno si occupava fino a "Ordinatio sacerdotalis" sull'impossibilità di ordinare preti le donne – solo del valore dell'enciclica di Paolo VI sull'immoralità intrinseca della contraccezione. Certamente qualche rarissimo autore, tacciato di massimalismo, ha sostenuto che la dottrina del N. 14 di "Humanae vitae" fosse Magistero Ordinario Universale (espressa dal Papa ed approvata dai vescovi in comunione con Lui), magistero di conseguenza infallibile: si tratta dei moralisti C. Ford e Germain Grisez, ed del P. Ermenegildo Lio, i quali hanno inutilmente fatto pressione affinché questa infallibilità fosse riconosciuta ufficialmente.

Per tutti gli altri teologi, "Humanae vitae" non voleva essere altro che "magistero autentico" (e ciò ci appare come un fatto storicamente certo, anche se noi consideriamo, da parte nostra, che questa dottrina in sé stessa sia di fatto infallibile, in quanto conseguenza diretta della legge naturale).


I teologi della contestazione sostengono che una dottrina non sia vincolante se semplicemente autentica. I teologi, invece, favorevoli a "Humanae vitae", al seguito di Giovanni Paolo II, affermano che benché non sia infallibile, sia vincolante in maniera assoluta. Ma costoro hanno dovuto ammettere che può essere prudentemente discussa. Così anche S.E.R. Mons. William Levada, allora Arcivescovo di Portland: " Visto che l'insegnamento certo, ma non infallibile, non comporta l'assoluta garanzia a proposito della sua veridicità, è ben possibile, per una persona che sia arrivata a delle ragioni veramente convincenti, giustificare la sospensione dell'adesione."


Se quindi "Humanae vitae", che è nella linea della continuità con l'insegnamento anteriore a riguardo della condanna della contraccezione, non è stata mai proposta come infallibile, a maggior ragione "Dignitatis humanae", la quale propone in una maniera che può essere intesa in diversi modi, una dottrina che ha tutte le apparenze di una novità, non può avere questa pretesa. L'argomento, sicuramente insufficiente se preso in se stesso, ci rimanda ad un'inquietudine delle origini per quanto riguarda l'infallibilità, la quale é introdotta dal famoso fine semplicemente "pastorale" del Concilio.

Il contesto: un Concilio "semplicemente pastorale", cioè "semplicemente autentico"

All'origine di tutto c'è la dichiarazione preliminare di Giovanni XXIII nel suo discorso " Gaudet mater Ecclesia" del 11 Ottobre 1962: visto che una dottrina infallibilmente definita è già stata sufficientemente espressa dai concili precedenti, ora non resta che presentarla "nella maniera che corrisponde alle esigenze della nostra epoca" e dare attraverso quest'azione "un insegnamento di carattere soprattutto pastorale". Il punto cruciale è dunque sapere se il Concilio abbia potuto essere infallibile senza volerlo veramente e ciò per il solo fatto che pronunciava delle dottrine che adempivano oggettivamente le "condizioni" tipiche degli enunciati che devono esse fermamente accettati e creduti. Ma bisognerebbe anche valutare la reale pertinenza della questione.


Il Vaticano II è incontestabilmente un concilio eccezionale, unico nel suo genere, in tutta la storia della Chiesa, il quale ha provocato un sommovimento senza eguali nella fede e nella disciplina.
Non si può dubitare che richiami un certo numero di insegnamenti tradizionali (come quello dell'infallibilità per esempio), e che abbia prodotto dei bei testi (sulle missioni o sulla Rivelazione per esempio). Ma è impossibile ragionare teologicamente fuori dal contesto pregnante del suo svolgimento e delle sue conseguenze, nel quale il fatto di volere attenuare le chiusure della dottrina tradizionale sembrava naturale nonché necessario per realizzare una "apertura verso il mondo". In questo contesto "pastorale", i Padri conciliari, coltivando una certa ambiguità che permetteva di scioccare un po' meno i propri contemporanei, i quali giudicavano come "tirannico" per le coscienze moderne, il potere di "scogliere e legare", hanno dovuto semplicemente lasciarsi trasportare dalla corrente generale.

Questo Concilio ha si insegnato, ma "pastoralmente".

Si può fare un parallelo in chiave analogica (un po' lontano ma che può illuminarci) con i sacramenti. La loro validità è dipendente dell'uso "serio" fattone dal ministro e richiesto dal rito essenziale (materia e forma), uso che manifesta oggettivamente che ha l'intenzione di fare ciò che la Chiesa vuol fare. Un uso "serio", cioè grazie al quale è visibile, secondo il senso comune, che il ministro vuole veramente compiere il rito efficace. Così un prete che, nel contesto di una semplice lezione di catechismo, compie i gesti e pronuncia le parole di un sacramento ciononostante non compie l'atto sacramentale. Supponiamo, per favorire la nostra riflessione, che un sacerdote, in un contesto ambiguo, lasci intendere almeno come idea diffusa, che non vuole veramente compiere un atto sacramentale formale (cosa che d'altronde capita oggigiorno in certe cerimonie).

Quest'atto sarebbe almeno di validità discutibile. Mutatis mutandis, la situazione a-magisteriale che ha preceduto il Vaticano II rende almeno dubbia una delle specificità del Concilio, e non la meno importante, quella della volontà del Papa e dei vescovi sull' obbligo all'adesione. Invece, anche dopo tutte le dispute per l'interpretazione che conosciamo bene, è perfettamente presente la chiara volontà di "fissare una certa linea". Il Concilio Vaticano II ha creato una "disposizione dell'animo", ma non ha creato nessun corpo dottrinale. I teologi non-tradizionalisti, quasi unanimemente, non hanno mai smesso di conservare la spiegazione di "pastorale" come praticamente sinonimo di "autentico", cioè di non infallibile.


L'interpretazione degli autori: una chiara volontà di non definire

In ogni caso, le testimonianze ufficiali sono concordi sulla volontà di non "definire". A due riprese (6 marzo 1964, 16 novembre 1964), la Commissione Dottrinale, alla quale era stato chiesto quale dovesse essere la qualifica teologica della dottrina proposta nello schema sulla Chiesa (e la domanda mirava soprattutto alla dottrina della collegialità), rispose: "Tenendo conto della pratica conciliare e del fine pastorale dell'attuale Concilio, quest'ultimo definisce solo le cose concernenti la Fede e la Morale che esso stesso avrà esplicitamente dichiarato tali".


Paolo VI spiegò che la cosa non era avvenuta. Una volta terminato il Concilio ritornò in effetti due volte sulla questione.
Una prima volta, nel discorso di chiusura del 7 dicembre 1965: "Il Magistero (..), pur non volendo pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie, ha profuso il suo autorevole insegnamento sopra una quantità di questioni, che oggi impegnano la coscienza e l'attività dell'uomo". Una seconda volta nel discorso del 12 gennaio 1966: "Vi è chi si domanda quale sia l'autorità, la qualifica teologica, che il Concilio ha voluto attribuire ai suoi insegnamenti, sapendo che esso ha evitato di dare definizioni dogmatiche solenni, impegnanti l'infallibilità del magistero ecclesiastico (…), dato il carattere pastorale del Concilio, esso ha evitato di pronunciare in modo straordinario dogmi dotati della nota di infallibilità; ma esso ha tuttavia munito i suoi insegnamenti dell'autorità del supremo magistero ordinario; il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli, secondo la mente del Concilio circa la natura e gli scopi dei singoli documenti".


La redazione di questi testi è in certa misura imbarazzata. Li si può interpretare in due modi a seconda che si insista sull'uno o l'altro versante della dichiarazione essenziale:

1) il concilio non ha mai fatto uso di "definizioni dogmatiche solenni impegnanti l'infallibilità del magistero ecclesiastico", ma ha potuto far uso del magistero ordinario universale (infallibile). La cosa sarebbe sufficiente a fare del Vaticano II un Concilio "a parte" nella storia della Chiesa, il quale insegna su "materie nuove" (l'ecumenismo) ma rifiutando di definire;

2) il Concilio non ha mai fatto uso di "definizioni dogmatiche solenni impegnanti l'infallibilità del magistero ecclesiastico". Se non ha mai fatto uso di definizioni solenni è perché non ha voluto essere infallibile. Il che conferma il fatto che questi testi evitino accuratamente di parlare di "obbedienza della fede": "(Questo Concilio ha tuttavia) profuso il suo autorevole insegnamento sopra un quantità di questioni che oggi impegnano la coscienza e l'attività dell'uomo"….. "ha munito i suoi insegnamenti dell'autorità del supremo magistero ordinario; il quale magistero ordinario e così palesemente autentico deve essere accolto docilmente e sinceramente da tutti i fedeli". La qual cosa rinvia all' "assenso religioso della volontà e dello spirito" richiesto dal magistero "palesemente autentico", e non già all'"obbedienza della fede" richiesta dal magistero infallibile.


Il buon senso: il rifiuto di una "definizione forte" manifesta logicamente il rifiuto di una "definizione leggera"


Nel caso volessimo supporre che siano state scartate chiaramente soltanto le definizioni solenni, resterebbe tuttavia qualcosa di incomprensibile: il Vaticano II avrebbe rifiutato le "definizioni forti" secondo un'espressione chiara e incontestabile (il magistero solenne), nella volontà tuttavia di accrescere il contenuto del Credo facendo scivolare alcune "definizioni leggere" (il magistero ordinario e universale). Inoltre i testi del Concilio – prescindendo dal contesto generale e dalle interpretazioni degli autori - contengono dei tipi di proposizione che, in un altro concilio, aldilà di questa congiuntura nella quale ci si rifiuta di porre una regola di fede, si sarebbero potuti considerare come definizioni solenni.

E' il caso della sacramentalità dell'episcopato (che nessuno, è vero, metteva più in dubbio), oppure a proposito della "sussistenza" della Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica (del tutto nuova, ma il cui senso oscuro è ancora da precisare).
Riguardo alla definizione della libertà religiosa, essa è formalizzata: "questa libertà consiste: ecc...; si fonda sulla dignità stessa della persona umana quale si conosce sia per mezzo della parola rivelata di Dio, sia mediante la stessa ragione", Dignitatis humanae, 2,1. Inoltre, ogni testo conciliare, ivi compresa la dichiarazione Dignitatis humanae è seguito da una formula come : "tutte e ciascuna delle cose proclamate in questa dichiarazione piacquero ai Padri del Concilio. E Noi in virtù del potere apostolico che abbiamo da Cristo, in unione con i venerabili Padri, Noi l'approviamo, stabiliamo e decretiamo nello Spirito Santo". A Firenze, Trento o al Vaticano I, non sarebbe stato impossibile che ci si fosse trovati in presenza di un dogma da credere.

Eppure il commento più autentico che sia possibile, in quanto emana dagli autori stessi dei documenti, lo afferma senza ambiguità: non sono dei dogmi. Malgrado le apparenze, o malgrado la necessita intrinseca. Joseph Ratzinger commentava in un complemento all'opera classica di riferimento in Germania, il Lexicon fur Theologie und Kirche : "il Concilio non ha creato nessun nuovo dogma su nessuno dei punti abbordati. (…) Ma i testi includono, ognuno secondo il proprio genere letterario, una proposizione ferma per la loro coscienza di cattolici".
Soltanto una "proposizione ferma": non l'obbligo a credere. Ciò che d'abitudine in un Concilio dovrebbe comportare l'impegno del magistero solenne non lo ha comportato nel caso del Vaticano II, quindi e a maggior ragione, se valutiamo il magistero non solenne, il quale, con la grande difficoltà che esso comporta nel discernimento del grado di impegno, si troverà al di sotto dell'infallibilità, altrimenti detto sarà semplicemente autentico.


Inoltre, qualunque ipotesi si voglia considerare, "nessuna dottrina è considerata come infallibilmente definita se la cosa non è stata stabilita in maniera manifesta" (CJC, can. 749 c. 3). L'importanza di questo canone è enorme perché legata all'appartenenza alla Chiesa. In effetti tutti sono obbligati a evitare ogni dottrina contraria", tenentur devitare (CJC, can. 750). E chiunque nega una verità cade nell'eresia (can. 751). (Allorché nulla di simile succede a colui che rifiuta una verità del "magistero autentico": "i fedeli avranno cura di evitare ciò che non concorda con questa dottrina", curent devitare, can. 752). La cosa deriva, del resto, dal principio generale che vuole che non si imponga mai un fardello senza motivo, e dunque che ciò che è più esigente non si presume: "le leggi che impongono una pena (…) sono di interpretazione stretta" (can. 18).

Provare a superare la difficoltà

In definitiva ci si potrebbe chiedere se il dibattito stesso, oltre al fatto che non interessa affatto il mondo della teologia "conciliare", seppur interessato in prima persona, non sia del tutto inutile. Tutti i partecipanti al dibattito, o quasi, sono d'accordo sul fatto che alcune precisazioni magisteriali sui punti apparentemente o realmente anti-tradizionali del Vaticano II, sarebbero in ogni caso qualcosa di estremamente opportuno. Noi siamo per parte nostra convinti che queste precisazioni non possono arrivare se non per mezzo del solo "gioco" dello sviluppo omogeneo del magistero (del magistero in quanto tale, infallibile) confrontato ad una crisi della fede, va detto che questo movimento è già in gestazione in atti tra l'altro come Veritatis splendor e Dominus Jesus.


Nell'attesa di queste precisazioni, che arriveranno ineluttabilmente, ma che è cosa buona sollecitare presso i pastori e i dottori, non si potrebbe parlare ad esempio di "magistero incompiuto"?
"Magistero incompiuto", nel senso che quando ha abbordato soggetti nuovi, la volontà di insegnare del Vaticano II non è andata fino in fondo, fino all'infallibilità, o che nel caso in cui sia pervenuto a questa infallibilità non ha emesso altro che dei "canovacci" ("brouillons") di dottrina infallibile?

Parlando di "magistero incompiuto" si lascerebbe ai teologi del futuro la possibilità di dibattere a piacimento sul fatto che il Vaticano II, a proposito di ecumenismo, di libertà religiosa, dello status delle religioni non cristiane, è stato in seguito sia rettificato, sia completato. Ciò che resta in ogni caso fondamentale per il bene della Chiesa è che la confessione della fede possa essere rimessa su un agevole cammino grazie ad un magistero preciso e chiaramente infallibile.


Pubblicato da Disputationes Theologicae

 dallo stesso vi ricordiamo questo interessante approfondimento:

La questione del "subsistit in" dal sito Disputationes Theologicae






Caterina63
00martedì 23 novembre 2010 08:36
[SM=g1740722] Intervento di Mons. Brunero Gherardini (1) – Canonico Vaticano
Su: “Quod et Tradidi Vobis”- La tradizione vita e giovinezza della Chiesa.
Sabato 20 novembre 2010
Presso: Aula Magna – Facoltà di Filosofia – Studio Domenicano – Piazza San Domenico 13 – Bologna
Incontro organizzato da: Centro Studi “Vera Lux” - Bologna-Ozzano
N.B.: Vedi registrazione AUDIO della Conferenza di Mons. Gherardini


intervento (1)
it.gloria.tv/?media=111884

intervento (2)
it.gloria.tv/?media=111949

intervento (3)
it.gloria.tv/?media=111943





[SM=g1740721]

[SM=g1740722]


[SM=g1740722]

[SM=g1740733]

Caterina63
00domenica 23 ottobre 2011 00:15
[SM=g1740733]Ringraziando il sito papalepapale.com inserisco anche qui il testo che mi hanno pubblicato....


E LA CHIESA

CADDE IN MANO

AGLI INTELLETTUALI 1

 

Teologi e pre-Concilio. Teologi e Concilio. Teologi e post-Concilio

Un breve tentativo di analisi. PARTE 1

Così nasce l’apologetica. Un po’ di storia. E sotto il trono di Pio XII covavano i modernisti sperando nella sua morte. In questa nuova teologia (che era una nuova ideologia) cadde anche Ratzinger. “Finalmente” Pio XII muore. Quei vescovi finirono fucilati a causa del sostituto Montini?

 

 

Negli anni del Concilio Vaticano II balzano agli onori delle cronache i più fulgidi esponenti della “Nouvelle Theologie” (e non solo), teologi francesci, tedeschi, svizzeri in genere. Il Concilio in un certo senso diventa “loro” (o così pensano). In altri concili, così come accadde per altre riforme liturgiche, l’opera di approfondimento e attualizzazione del dogma cattolico è sempre stata ad opera dei santi più che dei teologi. Perché questa improvvisa importanza degli intellettuali?

 

 

di Tea Lancellotti

 

 

COSÌ NASCE L’APOLOGETICA. UN PO’ DI STORIA

Prima di avventurarci nei particolari del nostro tempo, è fondamentale chiarire che cosa si intende per “Nouvelle Theologie” (nuova teologia). Una Teologia che si rispetti, infatti, non nasce dal giorno alla notte, ma segue uno sviluppo continuo che poi, a seconda di una più o meno fedele ortodossia, la Chiesa valuterà come attendibile oppure come erronea, quando non proprio eretica. Ricordiamoci che i teologi, seppur non tutti ortodossi e pochi dottori o canonizzati, sono sempre stati considerati i detentori della sapienza a seconda dei carismi “dati ad ognuno”, come spiega san Paolo, e che, a modo loro, hanno comunque aiutato la Chiesa nelle sue riforme storiche.

Faremo qui esclusivamente una breve, ma necessaria, ricostruzione storica. Il primo grande teologo che tutta la Chiesa contempla e mantiene come fondamento è san Paolo, per via delle lettere canoniche entrate nel Nuovo Testamento, quale materiale più antico e completo che abbiamo. Da qui si sviluppa la teologia della Chiesa in campo dottrinale, etico e morale: basti ricordare, come esempio, il primo Concilio di Gerusalemme a cui si accenna nel capitolo 15 degli Atti.

Nei tempi della “patristica”, si avrà uno sviluppo molto controllato della teologia a causa delle tante eresie che continuamente nascevano: severità soprattutto verso il giudaismo per una corretta comprensione alla fondamentale necessità della conversione senza la quale non vi può essere alcuna comunione; severità anche verso l’espansione del paganesimo, così come contro lo gnosticismo che pretendeva un cristianesimo mitologico e dualista. Da questo scaturisce, fin dal I secolo, la cosiddetta apologetica che non è altro che l’eloquenza in difesa della dottrina cristiana.

Non tratteremo qui di Origene e di altri scrittori ecclesiastici, spesso usati in modo distorto e contro la dottrina cattolica. Ci preme avanzare nel tempo per sottolineare come tutto questo fosse in comune, ed univa la chiesa cattolica da Oriente, la cui diversità si esprimeva nel rito greco, ad Occidente, la cui diversità si evidenziava nel rito latino. Con la fioritura dei monasteri e il conseguente avvicinamento agli studi dei monaci, la teologia compirà ulteriori sviluppi nella sua specifica caratteristica: “contemplatio, meditatio, ruminatio” della Sacra Scrittura attraverso gli scritti dei Padri e delle loro interpretazioni approvate dalla Chiesa. In questa nuova teologia, che non vuol dire inventata, ma si riferisce ad un nuovo modo di fare teologia, i monaci introducono le allegorie, figure retoriche in cui ad un’immagine corrisponde un concetto e a questa immagine viene data l’interpretazione necessaria alla sua comprensione, perseguendo costantemente l’ortodossia di tutta la Chiesa, arricchendola.

Con sant’Agostino, san Bernardo da Chiaravalle e con Ugo da san Vittore (tanto per citarne alcuni), agli inizi del XII secolo abbiamo una nuova aggiunta al modo di fare teologia. Senza mai distaccarsi da quella apologetica iniziale e da quanto la Chiesa aveva maturato fino a questo periodo, questi teologi inseriscono all’interno della teologia non più soltanto la Sacra Scrittura ma bensì anche tutto il supporto della tradizione orale e di conseguenza anche la cosiddetta “critica storica”.

Nascono le “scuole theologiche”, con la famosa “Scolastica”, che vedrà impegnati gli Ordini “Mendicanti” in nuovi approfondimenti teologici validi per affrontare con innovative predicazioni il proprio tempo, affranto da nuove forme di eresie come quella dei catari-albigesi o del protestantesimo ed altre. Notare come il termine “nuovo” si affaccerà in ogni epoca della Chiesa…

Con san Tommaso d’Aquino, infatti, nel XIII secolo si vedrà un ulteriore e, sostanzialmente, definitivo sviluppo in questo senso della “Sacra Doctrina”, nella quale la dimensione del senso del sacro irrompe nella teologia dandole quell’impronta fino a noi pervenuta. Impronta che sarà rimessa in discussione dalla cosiddetta “Nouvelle Theologie” che si affaccia nel Novecento per poi esplodere prepotentemente sfruttando il Concilio Vaticano II. Tutto questo, naturalmente, merita un approfondimento che ogni lettore potrà compiere per arricchirsi ulteriormente.

 

E SOTTO IL TRONO DI PIO XII COVAVANO I MODERNISTI SPERANDO NELLA SUA MORTE

Alcuni santoni della Nouvelle Thelogie

Negli anni del Concilio Vaticano II balzano agli onori delle cronache i più fulgidi esponenti della “Nouvelle Theologie” (e non solo), teologi francesci, tedeschi, svizzeri in genere. Il Concilio in un certo senso diventa “loro” (o così pensano). In altri concili, così come accadde per altre riforme liturgiche, l’opera di approfondimento e attualizzazione del dogma cattolico è sempre stata ad opera dei santi più che dei teologi. Perché questa improvvisa importanza degli intellettuali?

Perchè questa improvvisa importanza degli intellettuali?

La “Nuova Theologia”, come concetto, non nasce con il Concilio Vaticano II. A fare i pignoli essa comincia a svilupparsi, come concetto moderno, con il Protestantesimo liberale e la sua devastante Sola Scriptura. Con l’Illuminismo (con tutti gli “ismi” raggruppati fino ad oggi), poi, troverà un terreno fertile che esploderà nei primi del Novecento tanto da far intervenire il pontefice san Pio X che, con autentico spirito profetico, condannerà quel concetto di modernismo. Del progressismo ci occuperemo invece più avanti perché i due termini non vanno affatto confusi. La crisi di questa insistente teologia modernista metterà a dura prova anche il venerabile Pio XII che porrà un freno al suo espansionismo con l’enciclica Humani Generis, ma più che un freno questa sarà solo un tamponamento. Tuttavia distingueremo più avanti anche la liceità di questa “nuova teologia” dall’errata strumentalizzazione scaturita dalla lotta fra cattolici conservatori e modernisti…

Alla morte di Pio XII, nel 1958, si presentò un grande dilemma nella Chiesa.

Da una parte il lungo pontificato di Pacelli era stato segnato dal prestigio indiscutibile di un papa che, più passavano gli anni, più concentrava potere nelle sue mani, anche perché era cosciente delle tensioni che crescevano all’interno del mondo cattolico e che Pacelli sepeva fronteggiare: aspetto, questo, che davvero non piaceva ai modernisti.

Dall’altra parte, la Seconda Guerra Mondiale, con i suoi totalitarismi ed orrori, aveva aperto il dilemma non soltanto su nuove possibili distruzioni a livello mondiale, ma soprattutto sulla necessità di un dialogo più aperto verso un mondo che voleva scardinare i valori tradizionali e perfino Dio…

In questo scenario, si rafforzarono alcuni quadri all’interno della Chiesa che credevano più importante aprirsi al dialogo con il mondo, sacrificando la parte magisteriale, dogmatica e dottrinale della Chiesa (i modernisti), mentre si fecero più pressanti quei gruppi definiti poi conservatori, che ritenevano più importante invece mantenere ad ogni costo la purezza del dogma e della morale cattolica, nonostante il pericolo di naufragare, lasciando annegare ciò che si sarebbe potuto invece salvare. In questi quadri si formarono anche gruppi più moderati che, fedeli al Pontefice ed alla Tradizione della Chiesa, sentivano tuttavia la necessità di sostenere un equilibrato progresso interno alla Chiesa e saranno loro, effettivamente, ad essere quell’ago della bilancia ma anche quel fermento che, sostenendo i conservatori ma lasciandosi fuorviare anche dalle iniziative tentatrici dei modernisti, contribuiranno non poco a portare la Chiesa verso un vistoso sbandamento che avrà il suo apice negli anni Settanta.

Nascono così, negli anni quaranta e cinquanta, dei movimenti come quello della Nouvelle Théologie e dei preti operai che mantennero prima una posizione d’avanguardia, tanto da essere tollerati dalla Chiesa, salvo poi, quando furono oggetto di condanna papale, agire più cautamente per poter muoversi efficacemente, cominciando ad infiltrarsi nelle file di coloro che, fedeli ad un corretto e legittimo progresso della Chiesa, diedero sfogo a ciò che venne poi definito progressismo.

Non è un segreto di oggi che molti all’epoca desideravano la morte di Pio XII, considerato il maggior ostacolo alla vera riforma della Chiesa… e non si può negare l’importante ruolo svolto dal cardinale Ottaviani, che si rivelò essere un vero e provvidenziale “angelo custode” per il Pontefice ma anche per la conservazione dottrinale della Chiesa contro la deriva “progressista e modernista”, due correnti che non sono affatto, come dicevamo, la stessa cosa per quanto li si voglia assimilare.

Aderirono alle idee della Nouvelle Théologie teologi come Pierre Teilhard de Chardin, i domenicani Yves Congar ed Edward Schillebeeckx, Hans Küng, Han Urs von Balthasar, Marie-Dominique Chenu, Karl Rahner, Louis Bouyer, Etienne Gilson.

 

IN QUESTA NUOVA TEOLOGIA (CHE ERA UNA NUOVA IDEOLOGIA) CADDE ANCHE RATZINGER…

i teologi conciliari Ratzinger e Congar

In questa ideologia vi caddero in un primo tempo anche Jean Daniélou e persino Joseph Ratzinger… ebbene, e come da lui stesso raccontato nel libro “La mia vita”, lui e Danièlou si dissociarono successivamente e lo stesso Ratzinger spiega bene come questo lo portò in conflitto, tutt’oggi aperto, con Hans Küng. Spiegò Ratzinger: «Mi si rimproverò di aver abbandonato la nuova teologia, in verità e come spiegai a Küng, fu lui a dissociarsi dalla Teologia della Chiesa che ha nell’Aquinate la massima espressione».

Il comune denominatore della Nuova Teologia lo possiamo ricondurre a questa spiegazione: l’ideale di una maggiore libertà della ricerca teologica, scardinata dalle dottrine esistenti, e un pluralismo teologico capace di rimettere in discussione la storia stessa della Chiesa e delle dottrine emanate. Un ripartire da capo con la possibilità di modificare…

Tutto questo non spiega ancora, anzi, non dà una risposta chiara alla domanda, e probabilmente non avremmo mai una risposta soddisfacente. É ancora oggi inspiegabile ed incomprensibile come sia stato possibile far approdare al Concilio questi moderni teologi in chiaro ed aperto dissenso con il Magistero Ecclesiale.

Ancora oggi Karl Rahner è offerto all’interno dei seminari come materiale da studiare ed imparare: sovente si trovano vescovi che negli scritti usano citarlo per suffragare le loro pastorali. Eppure è ben risaputo come egli si sia in qualche modo allontanato dalla teologia cattolica. Sembrano assai chiare le restrizioni e i richiami dei pontefici ad Hans Küng e al domenicano Schillebeeckx: strano, però, è l’atteggiamento che ebbero, invece, verso altri teologi come il domenicano Congar, e il gesuita de Lubac, premiati con il cardinalato, dei quali parleremo più avanti.

Ciò che possiamo dire è che già con il beato Pio IX ci furono scrittori, da lui incoraggiati, quali Sanseverino, Cornoldi, Gonzalez, ecc.. che diedero il via ad una “neo-scolastica”, attraverso cui riportare la fondamentale dottrina rifacendosi alla Scolastica del XIII secolo, dimostrando che le certe verità filosofiche, raggiunte dalla Chiesa, non sono affatto mutabili e non variano secondo le mode dei tempi. Inoltre questi scrittori spiegarono che, se i grandi teologi del Medioevo, come san Tommaso o san Bonaventura, erano riusciti ad armonizzare un sistema filosofico sulle fondamenta dei pensatori filosofi greci come Aristotele, per esempio, allora doveva essere possibile, anche ai giorni nostri, trovare un’armonia tra le verità ottenute, già raggiunte, e le nuovi correnti filosofiche. Tuttavia, proprio con il confronto dialettico con il pensiero moderno, la neo-scolastica, trovandosi di fronte a problemi sconosciuti nel tempo medievale al quale faceva riferimento, comincia a mutare il suo metodo di lavoro, allontanandosi dall’Aquinate, pur rimanendo ancora in linea con il pensiero costante della Chiesa. In tal senso si spiega l’Enciclica di Leone XIII Aeterni Patris del 1879 che dà “alla Neo-scolastica il suo carattere definitivo e ad accelerarne lo sviluppo, in un’ottica in cui si chiede la fusione di principi universali e immutabili con la sintesi delle nuove conoscenze in continuo progresso“.

 

FINALMENTE” PIO XII MUORE

L'ultimo papa interamente romano: Pio XII

Quale che sia la storia, comunque, il perché ci siamo ritrovati al Concilio Vaticano II questi personaggi va ascritto a Pio XII. Nella sua enciclica Humani Generis, è vero che esprime una chiarissima condanna alla Nouvelle Theologie, ma non fa nomi, non emette scomuniche, ma al contrario, tollera e sollecita coloro che esprimono una teologia inquieta, pur definendoli ribelli, a lavorare non per demolire il corpus dottrinale della Chiesa, «ma per arricchirlo». Se apparentemente questa enciclica fu un colpo durissimo per la Nouvelle Theologie e se è vero che questi teologi furono esclusi dall’insegnamento, va detto che già nel 1959 cominciarono ad essere riabilitati uno dietro l’altro, e non certo per opera di Pio XII, che nel ’58 era “finalmente” (per loro) morto. Tuttavia, se egli avesse apportato delle chiarissime condanne, facendo nomi e cognomi, e avesse espresso chiare scomuniche, probabilmente neppure Giovanni XXIII (e non Paolo VI) avrebbe potuto con tanta facilità farli entrare addirittura al Concilio, alcuni di loro persino come periti, spesso come veri leader e maitre a penser. E’ evidente, dunque, che già ai tempi di Pio XII, il concetto di una nuova teologia non era affatto del tutto condannato dalla Chiesa e non poteva esserlo, dal momento che in tutta la sua storia la Chiesa aveva sempre incoraggiato le “nuove” teologie purché aderissero e restassero fedeli all’insegnamento già in vigore, come spiega l’enciclica di Leone XIII sopra citata. Il vero scontro comincia con la Nouvelle Theologie poiché avanzerà, allontanandosi dal patrimonio dottrinale già acquisito, pretendendo, dello stesso, una mutazione radicale.

 

QUEI VESCOVI FINIRONO FUCILATI A CAUSA DEL SOSTITUTO MONTINI?

Pio XII e Montini, sostituto

Questi teologi hanno, del resto, la piena simpatia di Paolo VI, che sembra assai affine a certa cultura “francese”. Oltre a questa affinità letteraria, che altre affinità ha con loro? Perchè vi ripose tanta fiducia? E particolare predilezione mostrò a Congar, definendolo «la più grande testa della Chiesa». Tuttavia, Congar, ne fu anche il massimo demolitore della Chiesa.

Comprendere Paolo VI sarebbe come vincere un terno al Lotto! Perdonate il paragone che non nasce da una mancanza di rispetto, ma sorge spontaneo osservando la realtà dei fatti. E’ il Papa che ha combattuto, attraverso le udienze del mercoledì, il dilagare delle false interpretazioni del Concilio, ma al tempo stesso è colui che è sembrato tacere ed applaudire alla devastazione liturgica e, sistematicamente dottrinale, che avveniva sotto i suoi occhi. Quando andava, per esempio, in visita nelle Parrocchie, non vedeva forse come si celebrava la liturgia fra canti sguaiati e il suono delle chitarre? E’ stato il primo Papa a girare il mondo: non vedeva cosa accadeva nella Chiesa e il tutto suffragato proprio da quella Teologia moderna e “Nouvelle” da lui corteggiata attraverso i suoi amici teologi?

C’è, a tal proposito, un aneddoto assai chiarificatore: lo scrittore Julien Green, un anglicano che si convertì al cattolicesimo – per altro, grazie proprio alla Messa antica che sottolineava quella Presenza Reale che fu causa di divisione – stupefatto nel verificare che il nuovo rito era così simile a quello che aveva conosciuto nella sua infanzia protestante, si girò verso la sorella, che gli stava accanto, e tristemente le disse: ” Ma allora, perché ci siamo convertiti?”

Me c’è di più! Padre Josè-Apeles Santolaria de Puey y Cruells, che è anche avvocato e giornalista, ha scritto un libro, “Papi in libertà” in cui descrive alcuni aspetti della situazione assai interessanti. Li riporto, anche e un poco condensati, perché vale la pena di leggerli.

Il vero scontro fra l’ala conservatrice e i due estremi della Chiesa, progressista e modernista, non avvenne con il Concilio Vaticano II come molti pensano, ma bensì nel conclave del 1958, durante il quale si pensò di eleggere un Pontefice innovatore… progressista, ma non modernista.

L’uomo chiave dell’ala innovatrice era Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano dal 1954. La sua era, tuttavia, un’elezione (quasi) impossibile, in quanto non era stato fatto cardinale poiché – ed anche qui non è un segreto – Pio XII gli negò la porpora per ragioni che ancora non sono state del tutto chiarite, ma che si possono individuare con il racconto di un vicenda che ci terrà impegnati per un poco ma che è importante conoscere per gettare luce sulla personalità di Montini.

Negli anni cinquanta, mons. Montini, all’epoca sostituto della Segreteria di Stato, mantenne dei colloqui segreti con il Cremlino, senza che Pio XII ne fosse al corrente.

I fatti furono questi.

Pio XII aveva mandato, in incognito, dall’altra parte della Cortina di ferro, alcuni vescovi, con l’intenzione di aiutare la Chiesa perseguitata nei Paesi dell’Est. A questi aveva anche dato l’incarico di fare alcune consacrazioni di altri vescovi.

Qualcosa, però, andò storto.

Improvvisamente, questi vescovi inviati dal Papa furono tutti arrestati dal governo moscovita: alcuni furono fucilati, altri furono mandati nei Gulag della Siberia, senza alcun processo e senza informare la Santa Sede.

Pio XII, appena lo seppe, ne fu profondamente costernato, e pianse lacrime amare. Non si dava pace e non capiva che cosa fosse accaduto, viste le mille precauzioni prese per mantenere segreta la presenza dei vescovi. Nel 1954, però, il mistero fu svelato. L’arcivescovo di Riga (Lettonia) comunicò personalmente a Pio XII una informazione importantissima ricevuta dal vescovo luterano di Uppsala (Svezia) che, a sua volta, l’aveva saputo direttamente dai servizi segreti occidentali: il KGB aveva saputo della presenza dei vescovi clandestini niente meno che da “informazioni dalla Segreteria di Stato”!

Sembra che Pio XII piangesse amaramente al solo pensiero di essere stato tradito dalla Segreteria più importante. Senza perdersi d’animo, tuttavia, aprì immediatamente un’indagine e scoprì i contatti che c’erano stati tra Montini e il governo dei “rossi” a sua insaputa, ossia “contatti non ufficiali”.

Fu questo il momento in cui, immediatamente e sotto l’apparenza di una promozione, predispose il repentino trasferimento di Montini alla sede ambrosiana. Inoltre, alla consacrazione del nuovo successore di sant’Ambrogio, che ebbe luogo a San Pietro, Pio XII non fu presente e Montini se ne andò appunto, senza il tradizionale “cappello rosso”, un fatto che stupì tutti in Vaticano, ma anche nella sede ambrosiana.

Rimane da chiedersi come mai Pio XII fu così buono con Montini, compiendo una scelta che, nonostante l’allontanamento da Roma, garantiva comunque un certo prestigio al futuro Paolo VI. Il fatto è che probabilmente Pio XII non aveva avuto le prove che cercava. Certo, sapeva che Montini intratteneva “contatti non ufficiali” con l’oltre Cortina, ma non aveva avuto le prove dell’alto tradimento tanto da incolparlo della morte dei vescovi inviati di nascosto dal Pontefice. Se Pio XII avesse avuto prove più sicure di certo avrebbe preso misure più drastiche del promoveatur ut amoveatur.

Dal canto suo e a onore del vero, Montini fu in un certo senso innocente della morte di quei vescovi, ma agì imprudentemente nel prendere la decisione di intrattenersi in colloqui non ufficiali alle spalle del Pontefice!

 

Il più ributtante e misterioso personaggio dell'ultimo mezzo secolo di storia vaticana: l'ex padre Alighiero Tondo, in arte "Cippico". In borghese, con altri due fresconi di chierici

Il vero colpevole della drammatica vicenda fu un padre gesuita, Alighiero Tondi, alias “Cippico”, per altro subordinato di Montini, che le guardie, messe da Pio XII a vigilare la Segreteria, scoprirono in fragrante nell’atto di fotocopiare dei documenti segreti. Così padre Tondi venne prima scomunicato e poi consegnato alla giustizia italiana che lo condannò a due anni di prigione, durante i quali si sposò – con rito civile – con l’amante Carmen Zanti, militante del Partito Comunista e obbediente tassativamente a Palmiro Togliatti.

Il seguito della vicenda, tutt’oggi, lascia sbigottiti. Inizialmente, infatti, il Tondi e la sua compagna emigrarono in Germania dell’Est, dove lui divenne segretario del dittatore comunista Walter Ulbricht ed ottenne anche la cattedra di ateismo nell’Università Marxista-Leninista. Poi, quando Paolo VI fu eletto, la coppia ritornò in Italia: mentre la Zanti ricevette incarichi prestigiosi nel Partito Comunista italiano, Tondi venne preso come funzionario civile in Vaticano. Inoltre, Paolo VI legalizzò quel matrimonio canonicamente nel 1965.

Ma non finisce qui: quando la Zanti morì (con il funerale che divenne il pretesto di una grande manifestazione comunista), il Tondi, rimasto vedovo, chiese di essere riabilitato come sacerdote. Concessione che gli venne data niente meno che da Giovanni Paolo II nel 1980! Inoltre, gli venne anche conferito il titolo di monsignore con la carica di “prelato d’onore” e mantenne un importante posto nella curia romana. Se le prostitute ci passano innanzi nel regno dei cieli, pare che pure sulla terra sia la stessa cosa: in Vaticano soprattutto.

Questo epilogo è, per certi versi, incomprensibile dal momento che Paolo VI non giustificò mai, attraverso uno scritto, l’evoluzione di questa situazione, né il Tondi formulò mai le proprie scuse né richieste di perdono, né fece mai abiura dei suoi anni vissuti da professore presso la cattedra ateistica dell’Università Marxista. Si dice solo che rimasto vedovo “si ravvide”: nulla di più, però, su tutta la vicenda.

Questa vicenda, seppur non fa luce sull’argomento del nostro colloquio, ci aiuta però a comprendere meglio la figura, assai complessa ed enigmatica, di Paolo VI. Ci sono, tuttavia, altre domande che tutti ci poniamo ma che probabilmente non troveranno mai una risposta eloquente: come mai lo stesso Giovanni Paolo II finì per promuovere le iniziative di Paolo VI come il cardinalato a de Lubac? o il posto in Vaticano al Tondi, nella Curia Romana con il titolo di monsignore?

L’atteggiamento incomprensibile e volubile della complessa personalità di Paolo VI lo si evince anche quando perfino l’ala progressista, già abbondantemente impregnata dai modernisti che vi si erano infiltrati (lupi travestiti, e neppure tanto, da agnelli) che lo aveva prescelto fin dal conclave del 1958, eleggendo Roncalli solo come transizione in attesa di avere Montini cardinale, rimase da lui profondamente delusa…

Paolo VI, che sembrava il grande innovatore e il propugnatore delle cause dell’ala modernista, si arrestò infatti di fronte alle questioni etiche e morali, difendendo la dottrina della Chiesa categoricamente fino a scrivere la Humanae Vitae, la Mysterium Fidei, la Marialis Cultus, con la proclamazione solenne di Maria Mater Ecclesiae, e pronunciando il famoso “Credo”, a chiusura del Concilio, che salverà lo stesso Pontefice da ogni dubbio circa l’ortodossia della fede, facendolo trasparire come il Papa del progresso della Chiesa, ma non certo modernista, come gli infiltrati avrebbero voluto. Da qui le loro delusioni, ma anche le delusioni da parte dell’ala conservatrice a causa delle ambiguità prodotte dalle azioni del Pontefice che sembravano contraddire, sovente, gli stessi atti ufficiali proclamati attraverso i documenti sopra citati.

In questo modo, Paolo VI si trovò completamente solo, incompreso sia dall’ala progressista (nella quale erano i modernisti a tirare le fila) che lo aveva eletto, sia dall’ala conservatrice che temeva le sue idee innovatrici, spesso improvvise e arbitrarie. Incompreso o meno, resta palese che Paolo VI agì tante volte in modo contraddittorio, con uno stile tutto suo spesso autonomo come quando, appunto, operò di nascosto, alle spalle di Pio XII.

I Papi che seguirono Paolo VI ebbero così a che fare con una eredità gravosa: rendere credibile un’ immagine di Chiesa che da una parte si mostrava come “amica del mondo”, rinunciando ai fasti e al simbolo del potere temporale e spirituale che era la tiara, e dall’altra parte ne condannava ancora una volta i vizi e i peccati. La capacità della Chiesa di essere credibile non partiva più dalla sua dottrina, ma dalla capacità del Pontefice di renderla credibile.

Quanto questa rivoluzione sia stata giusta o meno lo dirà la storia. Certo è che la crisi della Chiesa comincia proprio da quando ne venne intaccata l’immagine, specialmente a partire dalla Liturgia, ma questa è un altra pagina…

[PROSEGUE NELLA SECONDA E ULTIMA PARTE]

[SM=g1740771]
Caterina63
00venerdì 28 ottobre 2011 00:14

Ringraziando il sito papalepapale.com inserisco anche qui il testo che mi hanno pubblicato....






E LA CHIESA

CADDE IN MANO

AGLI INTELLETTUALI 2

Teologi e pre-Concilio. Teologi e Concilio. Teologi e post-Concilio

Un breve tentativo di analisi. PARTE 2

Contrordine compagni: la crocifissione “è un fiasco”; Schillebeeckx, il Catechismo Olandese. Giovanni XXIII fece il vero guaio, non Paolo VI. Henri de Lubac. Dio confonde i sapienti o i “sapienti” confondono Dio? Dice il Signore: “E’ necessario che gli scandali avvengano”… ma “guai” a chi dà scandalo. Essere “progressisti” è doveroso… nel senso: “Quanto ora io vi dico lo comprenderete a poco a poco”. Che il progresso non sia mutamento. Il guaio è che i modernisti e non i progressisti si impadronirono del Concilio

Il “Catechismo Olandese” è la modernità dei suoi concetti di religione e fede, adattata alle esigenze dell’uomo moderno, che deve diventare una vera catechesi. Con questo testo, si scatenò un putiferio. Paolo VI lo definì “il grande scandalo” e un esame del Sant’Uffizio vi identificò 10 gravi eresie e 48 medie eresie miste ad ambiguità di linguaggio. Eppure, ecco un altro paradosso ed un’altra contraddizione montiniana: il “Catechismo” non viene distrutto, se ne lascia la libera pubblicazione con il solo obbligo di una aggiunta di note atte a spiegare gli errori rilevati. Ma, santa pazienza! E’ un catechismo eretico, 10 gravi eresie, 48 medie (“medie” che vuol dire poi? un’eresia è eresia e basta, così come il bianco o è bianco o non è), lo definisci un grande scandalo e tu, Sommo Pontefice, non salvi il piccolo gregge dalla contaminazione? Lo lasci pubblicare solo con l’aggiunta di “note”? Così, la Verità viene fornita nelle note e l’errore viene lasciato nelle pagine dette di catechismo. E ai vescovi “ribelli” non fu richiesta alcuna abiura, non fu fatta alcuna verifica della loro fede. A cosa mirarono? Ad una “Nouvelle Eglise”, la quale, per essere tale, necessita anche di una nuova dottrina, di un nuovo culto, di nuovi movimenti, di un clero che venga pasturato con le loro idee innovatrici. Una “Eglise”, una Chiesa, trasfigurata, che ormai non solo non ha più nulla di cattolico, ma nemmeno di cristiano: è già post-cristiana.  Credo che Chesterton abbia risposto bene alla domanda con due righe: Uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e dell’umanità, finiscono per combattere anche la libertà e l’umanità pur di combattere la Chiesa”.

di Tea Lancellotti

CONTRORDINE COMPAGNI: LA CROCIFISSIONE “È UN FIASCO”. SCHILLEBEECKX, IL CATECHISMO OLANDESE

Bastarono queste pagine sataniche ad annientare per sempre nell'arco 12 mesi l'intera gloriosa chiesa d'Olanda

L’intento principale di questi teologi appare spesso più quello di “razionalizzare” la fede che quello di rendere ragione della stessa. E la “razionalizzazione” non è esattamente nel senso tomistico del termine. Questo nel migliore dei casi; nel peggiore si hanno vere e proprie dottrine parallele, che di cattolico hanno ormai ben poco. È il caso, per dirne una, del “Catechismo Olandese” pubblicato a Concilio appena chiuso, e che in pochissimi mesi distrusse l’intera chiesa olandese. Ma questi teologi che che “razionalizzano”, che persino riscrivono a loro arbitrio dottrine e catechismi, a cosa mirano davvero?

Sostanzialmente, molti di questi teologi innovatori miravano a riscrivere la storia della Chiesa. La loro idea non era quella di rinnegare la dottrina, ma… di modificarla completamente!

E’ assai probabile che i pontefici, da Pio XI in poi, siano stati influenzati in parte da questa idea innovatrice, ben vedendo quanto la Chiesa avesse bisogno di una riforma dopo la Questione Romana, dopo il Concordato, dopo le grandi dittature.

L’azione dei pontefici fu effettivamente in buona fede, ma i frutti furono devastanti.

Prendiamo, per esempio, Schillebeeckx Edward Cornelis Florentius Alfonsus, domenicano, amico e confratello di Congar. Egli ha una visione particolare della crocifissione e morte di Gesù, che, calata nel contesto storico, non è da considerare salvatrice. Anzi, per lui, la crocifissione di Gesù è storicamente un fiasco, poiché appare come una vittoria dell’ingiustizia umana, in cui spicca il silenzio di Dio. Inoltre, Schillebeeckx mette in dubbio la “tomba vuota”. Tutte teorie dalle quali Congar prenderà le dovute distanze. Il problema è che non se le tiene per sé. Come domenicano, infatti, si sente in dovere di dirlo alla Chiesa, si sente in diritto di essere ascoltato ed ha infine la superbia e la presunzione che la dottrina debba cambiare secondo le sue personali convinzioni. Non è un caso che Schillebeeckx sia anche uno degli ispiratori del famoso ed eretico Catechismo Olandese – che riceve l’imprimatur dell’arcivescovo di Utrecht, Bernard Alfrink – nel quale è la modernità dei suoi concetti di religione e fede, adattata alle esigenze dell’uomo moderno, che deve diventare una vera catechesi. Con questo testo, si scatenò un putiferio. Paolo VI lo definì “il grande scandalo” e un esame del Sant’Uffizio vi identificò 10 gravi eresie e 48 medie eresie miste ad ambiguità di linguaggio. Eppure, ecco un altro paradosso ed un’altra contraddizione montiniana: il Catechismo non viene distrutto, se ne lascia la libera pubblicazione con il solo obbligo di una aggiunta di note atte a spiegare gli errori rilevati. Ma, santa pazienza! E’ un catechismo eretico, 10 gravi eresie, 48 medie (“medie” che vuol dire poi? una eresia è eresia e basta, così come il bianco o è bianco o non è), lo definisci un grande scandalo e tu, Sommo Pontefice, non salvi il piccolo gregge dalla contaminazione? Lo lasci pubblicare solo con l’aggiunta di note? Così, la Verità viene fornita nelle note e l’errore viene lasciato nelle pagine dette di catechismo. E ai vescovi ribelli non fu richiesta alcuna abiura, non fu fatta alcuna verifica della loro fede: in compenso Schillebeeckx pagò per tutti. Anche se solo in apparenza, visto che nel 1979 Giovanni Paolo II tentò di venire incontro a lui e a Kung, aprendo un’inchiesta la quale, ovviamente, scatenò il dissenso del mondo protestante, dell’ala modernista e ormai anche progressista cattolica; reazione spinta a tal punto che sembra si riverberi ancora oggi su oltre il 50% di quel che resta dello sciagurato clero olandese, nonché di qualche vescovo, seguaci tuttora del pensiero teologico di Schillebeeckx.

L'indegno primate d'Olanda durante il Concilio: Bernard Alfrink, massimo devastatore della sua chiesa nazionale

A cosa mirarono? Ad una “Nouvelle Eglise”, la quale, per essere tale, necessita anche di una nuova dottrina, di un nuovo culto, di nuovi movimenti, di un clero che venga pasturato con le loro idee innovatrici. Una “Eglise”, una Chiesa, trasfigurata, che ormai non solo non ha più nulla di cattolico, ma nemmeno di cristiano: è già post-cristiana. Credo che Chesterton abbia risposto bene alla domanda con due righe: “Uomini che cominciano a combattere la Chiesa per amore della libertà e dell’umanità, finiscono per combattere anche la libertà e l’umanità pur di combattere la Chiesa”.

Quanto alla questione tomista, in realtà essi non vollero e non vogliono neppure ora cancellare san Tommaso. Pensano piuttosto di averlo superato: loro, del resto, si ritengono figli dell’Illuminismo e qui sta anche la chiave per comprendere ciò che stiamo vivendo oggi.

GIOVANNI XXIII FECE IL VERO GUAIO, NON PAOLO VI. HENRI DE LUBAC

Non v’è dubbio che questi teologi saranno, con tutti i loro filistei, i grandi protagonisti del post-concilio. E che la “deviazione” deriverà anche da loro. I loro nomi sono altisonanti, abbiamo visto: i più “grandi” agli occhi del mondo: Congar, Rahner, De Lubac; a seguire Balthasar, Danielou, Haring, Kung, diversi altri. Quando come e perchè decisero di “deviare”? Soprattutto ne erano consapevoli? Qual era la loro visione ecclesiologica?

Con la confusione raggiunta oggi, non è facile rispondere a queste domande perché chi ha provato a farlo, ha ceduto spesso, per stare o da una parte o dall’altra. Ciò che manca al momento è una valutazione ufficiale che, ponendosi al di sopra delle parti, chiarisca una volta per tutte. Magari facendo anche una lista di nomi con tanto di spiegazioni, per chi è rimasto nell’ortodossia e chi no. Con l’avvento del Concilio è stato modificato anche il senso della critica e spesso si confonde una giusta critica con l’ingiusta accusa del “voler giudicare gli altri”: così ti sbattono in faccia il versetto biblico del “non giudicare”! Il punto è che questi teologi non credono di aver deviato quanto piuttosto che sia la Chiesa ad avere avuto la necessità di una deviazione. O peggio: che la Chiesa era deviata e loro l’hanno rimessa in riga. Consapevoli? Senza dubbio sì, naturalmente in nome della “buona fede” e, naturalmente, in nome “dell’umanità e della libertà dell’uomo”. Come se la Chiesa, in questi duemila anni, non avesse fatto nulla o peggio, come se avesse tenuto nascosta all’uomo la verità.

Il volto della Superbia. Il vecchio scarpone domenicano Schillebeeckx, il teologo deviato. Nella sua vecchiaia dissennata

C’è un particolare che va sottolineato. Non fu proprio con Paolo VI che queste persone trovarono spazio nella Chiesa, ma con l’elezione di Giovanni XXIII. Fu proprio il Papa “buono”, infatti, a riabilitare il gruppo che bene o male Pio XII riuscì a tenere a freno e a dare la porpora cardinalizia a Montini che Pio XII non ritenne opportuno dare. Giovanni XXIII fu il vero artefice del rinnovamento e della riforma nella Chiesa: fu lui a riabilitare de Lubac nel 1958 e fu sempre lui a volerlo, nel 1960, quale consulente teologo per la preparazione del Concilio. Ciò che non viene mai spiegato, però, è se de Lubac abbia accettato l’enciclica di Pio XII Humani Generis, nella quale il pontefice condannava le sue teorie pur senza mai nominarlo. Dal momento della sua riabilitazione, diventa il teologo vivente più ascoltato, gli sarà facile avere anche gli altri del gruppo al suo seguito e, nel 1983, Giovanni Paolo II lo nominerà cardinale. Tutto sommato, a de Lubac si attribuisce la massima espressione della Nouvelle Theologie e di aver inciso più d’altri nel Concilio: di fatto, però, de Lubac non fu affatto il “peggiore”, tanto è vero che – come abbiamo detto – persino lui finirà per dissociarsi dalle teorie del domenicano Schillebeeckx, arrivando a ringraziare Giovanni Paolo II “per aver compreso le sue interpretazioni teologiche” e per averle trovate “equilibrate anche se provocatorie”. Dunque, il Papa, di recente beatificato, era d’accordo con la teologia di de Lubac? Sembrerebbe di si. In fondo è de Lubac stesso che affermerà che “un umanesimo esclusivista è un umanesimo disumano perché pretende di essere umano senza l’incarnazione di Dio”, un concetto che riprenderà sovente Ratzinger per parlare del vero umanesimo di oggi e delle sue false interpretazioni e derive.

Eppure tutto questo ci appare incomprensibile perché, come ha spiegato de Lubac stesso, egli prese le distanze dalla teologia di san Tommaso d’Aquino quando, contemporaneamente ai fatti che abbiamo letto – e paradossalmente, aggiungo – sia Paolo VI che Giovanni Paolo II difendevano ad oltranza la teologia dell’Aquinate, definendola «il parametro verso il quale ogni moderna teologia doveva ritrovarsi».

Possiamo pensare ad un de Lubac strumentalizzato? Forse sì. Se, per esempio, prendiamo questa sua frase: “Non è vero che l’uomo, come sembra talvolta si dica, non possa organizzare il mondo terreno senza Dio. È vero però che, senza Dio, non può alla fin dei conti che organizzarlo contro l’uomo”, e ne estrapoliamo solo la prima parte troviamo l’eresia; se la lasciamo integrale troviamo una “ovvia” verità! Ma per dire delle “ovvie” verità era proprio necessario inventarsi una Nouvelle Theologie?

DIO CONFONDE I SAPIENTI O I “SAPIENTI” CONFONDONO DIO?

Il bel volto di Henri de Lubac

Non v’è neppure dubbio che le università cattoliche e i seminari, dove questi teologi andavano per la maggiore, fino agli anni ’80 e anche dopo, si ridurranno nel luogo deputato dell’opinione, della confusione, dell’apostasia vera e propria. Dove tutto era smarrito: l’ecclesiologia, la teologia, il concetto di peccato, il senso della natura dei sacramenti e Dio stesso, il Dio cattolico. Ne rimase solo cenere e fumo. Spesso questi teologi saranno loro in persona a gettare, dalle loro cattedre, benzina sul fuoco, rivendicando teologie ormai palesemente post-cristiane, ribelli.

Eppure in tutti questi casi che dilagarono (prima sui giornali, nelle librerie e poi direttamente sulle cattedre e dai pulpiti) di deviazionismo, Roma sembrò voler rinunciare a punire. Salvo il caso eclatante di Kung. Come non servisse più a niente rivendicare anche canonicamente i diritti della verità. Perché Roma finito il Concilio rinunciò a punire? Perché lasciò queste persone alle loro cattedre a propalare eresie e non le rimosse? Forse condivideva? Forse riteneva fosse inarrestabile questo movimento?

Quanto abbiamo detto in precedenza, ci porta a fare questa riflessione: che necessità avevamo di complicare la dottrina della Chiesa quando, prima, era più facilmente comprensibile, seminava a pieno ritmo e sfornava fiumi di santi, vocazioni, conversioni e saggi maestri? Se penso, tanto per fare un esempio, alla conversione dell’ebreo Ratisbonne per mezzo di Maria Santissima e alla storia di una medaglia prodigiosa con la teologia bellissima e pura dell’Immacolata Concezione, mi viene in mente una fragrante cascata in mezzo ad un magnifico e sereno paesaggio collinare dove una semplice ragazzina di nome Bernardette diventerà la più grande “teologa” della Vergine, senza per nulla stravolgere il percorso della Chiesa; se penso invece ai frutti di certe moderne teologie e alle loro complicazioni nelle disamine dottrinali, mi vengono in mente un uragano o un fiume che rompe gli argini portando morte e devastazione, il cielo grigio e i vortici delle trombe d’aria a spazzare via tutto ciò che fino ad oggi era stato faticosamente costruito. Quante conversioni sono scaturite dai loro ragionamenti e quanta apostasia, invece, hanno prodotto?

L'immagine dell'Orgoglio. Nei tratti e nelle movenze di Congar c'era un misto di volgarità ed effemminatezza tutte francesi. Fu uno degli astri del deviazionismo conciliare e post

Un’altro esempio? La bellissima storia della Madonna delle Tre Fontane, a Roma, detta anche Madonna della Rivelazione nel cui messaggio, riconosciuto da Pio XII e dal Vicariato di Roma, c’è una sublime dottrina sulla Trinità Santissima, che converte senza troppi giri di parole il protestante Bruno Cornacchiola, la cui moglie, cattolica e con tre figli, passava il tempo a perdonare il marito e a fare i Primi Venerdì del mese al Cuore di Gesù come atto riparatore ma anche per chiedere la conversione del marito. E così avvenne perché le promesse di Gesù sono fedeli! E, ancora, nelle verdi praterie del Portogallo, a Fatima, dove tre bambini di 8, 9 e 10 anni, ricevono le confidenze della Vergine del Rosario, vedono l’Inferno – che questi teologi modernisti spesso rinnegano o che ritengono, a loro giudizio, vuoto – ricevono dalla Madre di Dio drammatiche profezie sulle sorti della Chiesa e sono “custodi” di una promessa: se vogliono andare in Paradiso e piacere a Gesù, devono pregare e fare sacrifici. Dice loro Maria: «Pregate incessantemente per le anime dei peccatori, perché non c’è nessuno che preghi per loro, e molte di queste vanno all’inferno»

Con l’arrivo di certi teologi, invece, tutto è stato rimesso in discussione. Negato financo, con aria di sufficienza, per giunta.

Ma la fede non era dei semplici? Quanti del piccolo gregge” passano davvero il tempo a leggere questi teologi? Il fatto è che questa ci sembra una guerra fra titani, fra i grandi del sapere del nostro tempo, e, quando questi si scontrano, a rimetterci poi sono sempre i piccoli.

E’ evidente che con il Concilio Vaticano II si è data la cattedra anche al suo pensiero opposto. Laddove bastava dire: “O Maria concepita senza peccato originale, pregate per noi, che ricorriamo a Voi”, si è andato a complicare tutto, con una tolleranza, spesse volte inaudita, da parte di certi pastori che non hanno trovato ostacoli nella Chiesa. Una tolleranza esasperata che ha raggiunto lo scopo di far desistere il fedele dalla sua pietà, e, anziché tranquillizzarlo con queste giaculatorie e con le pratiche devozionali, non ha fatto altro che smantellare, con delle pastorali complesse perché infarcite dei vani ragionamenti di questi teologi modernisti, l’autentica fede del credente.

Abbiamo le prove di tutto questo e sono l’insistenza sia di Giovanni Paolo II quanto maggiormente oggi di Benedetto XVI per un ritorno alla semplicità della fede attraverso l’adorazione eucaristica, il ritorno al sacro, la riforma della liturgia, la pratica del santo rosario. Un’insistenza che ci fa ritornare in mente il sogno “delle sue colonne” di san Giovanni Bosco.

DICE IL SIGNORE: “E’ NECESSARIO CHE GLI SCANDALI AVVENGANO”. MA GUAI A CHI DÀ SCANDALO

Giovanni XXIII celebra la sua messa privata secondo il rito di sempre

Il paradosso o, se volete, la contraddizione che viviamo è che in realtà dallo stesso Giovanni XXIII in poi, nessun Papa voleva questa deriva, ma ognuno di loro ha messo del suo, abbassando di fatto la guardia, perché alla fine avvenisse. Di fronte a queste incomprensioni, non possiamo far altro che tirare in causa Nostro Signore e pensare, ragionevolmente, che Egli stesso abbia permesso questi fatti per cause a noi ignote e che forse risultano chiarissime all’interno del Suo progetto. Rammentiamo infatti il monito di Gesù: “E’ necessario che gli scandali avvengano” (mentre fulmina coloro che scandalizzano).

Gli scandali all’interno della Chiesa sono nati con la Chiesa stessa, come maturano insieme grano e gramigna, come esistono servi giusti e servi infingardi, come crescono senapi rigogliosi e fichi sterili. I Vangeli non nascondono l’uomo all’uomo, anzi, preannunciano un cammino tortuoso e difficile, per nulla agevolato dall’appartenere alla Chiesa.

E questa Santa Chiesa non ha mai conosciuto isole di tranquillità nel suo navigare sulle correnti della storia. Anzi, spesso i venti contrari sono stati più numerosi di quelli favorevoli. Tuttavia, questa Chiesa continua ostinata per la sua strada, rispondendo al mandato di Cristo.

Il problema è che ogni epoca pone in risalto le sue debolezze. Un tempo, la più grande tentazione per i prelati era il potere; poi vennero i soldi e, col Rinascimento, anche la lussuria fece capolino. Comunque, in ogni epoca si saranno consumati, magari a percentuali variabili, i grandi peccati capitali, ora uno, ora l’altro: nulla di nuovo sotto il sole. Oggi assistiamo ad un ritorno della superbia e della presunzione di saperne più di Dio, più della Tradizione della Chiesa, in tema di teologia.

Ha ragione Rino Cammilleri nel voler vedere, nel peccato di turno, la tentazione di turno.

La tentazione coglie l’essere umano là dove le sue difese sono più deboli, le sue mura presentano qualche crepa, la preghiera vigile cede al sonno il suo sguardo verso il fine. Oggi la maggior tentazione è il sapere, la conoscenza, o peggio, la scienza, senza minimamente riflettere sulla autentica “conoscenza dell’uomo stesso” con lo sguardo di Dio, specialmente attraverso i santi che ne furono i confidenti. Si pretende di avanzare con la propria e sola ragione condendola, ogni tanto, di un pizzico di fede giusto per darle quel sapore che possa far riconoscere tale ragione come legittima all’interno della Chiesa. Chi dà, dunque, scandalo, commette un attentato verso il prossimo, commette un atto ingiusto verso i “semplici e i puri di cuore”, verso i piccoli, per i quale se l’Amore di Dio opera per metterli a riparo, è anche vero che la Sua giustizia condannerà a suo tempo l’empietà.

Giovanni XXIII pochi mesi prima della morte

Noi, veri piccoli, non abbiamo risposte a queste domande, noi che viviamo di devozioni come il Santo Rosario quotidiano o come gli appuntamenti dei Primi Sabati e Venerdì del mese per trovare nei Cuori di Gesù e Maria quella vera Pace che altrove non troviamo. Non sappiamo neppure come siamo finiti a dover discutere di eventi più grandi di noi ma che, senza alcun dubbio, sono eventi che non avrebbero dovuto farci sentire così distanti dalla Chiesa, eventi che hanno prodotto l’apostasia. Teologi senza scrupoli che tentando di razionalizzare il nostro umanesimo hanno finito per non farci più credere in Cristo; teologi modernisti come Rahner (ancora oggi insegnato nei seminari), che invece di essere allontanati da noi sono stati premiati e promossi senza però spiegarci come questo sia stato possibile. Teologi le cui dottrine continuano ad annacquare la purezza di quella fede dei santi che tanto seppero fare per guadagnare anime al Divino Crocefisso tanto da farci domandare oggi: ma questi teologi, quante anime hanno portato alla salvezza? O forse dovremmo chiederci: quante anime a causa delle loro speculazioni teologiche si sono rovinate dannandosi?

C’è una promessa di Gesù che ci consola: “Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio.” (Mt 13, 27)

Dunque sembra quasi fatale e inspiegabile quanto abbiamo visto. Ma non agli occhi del Signore, che già tutto aveva “visto” in anticipo. E, infatti, proprio quando ormai questi fenomeni, raggiunto l’acme negli anni ’80, volgevano verso un’agonia oscena ma inevitabile, che però trascinava nell’agonia anche un intero sistema e tutte le istituzioni accademiche cattoliche, proprio allora, invece che essere puniti o almeno rimossi dalla memoria, questi teologi (si pensi a de Lubac, Congar, von Balthasar, e anni prima Danielou ecc.) furono in massa elevati da Giovanni Paolo II alla porpora. Perché? Che senso aveva? Per cosa li premiava? Forse sta proprio nella parole della parabola sopra citata, il senso.

ESSERE “PROGRESSISTI” E’ DOVEROSO. NEL SENSO: “QUANTO ORA IO VI DICO LO COMPRENDERETE A POCO A POCO”

Paolo VI. Solennissima liturgia

Attenzione a quanto abbiamo detto fino a qui, ora è necessario terminare con alcuni basilari chiarimenti che potranno aiutarci a trovare le risposte a queste difficili domande.

E’ fondamentale per noi oggi non rischiare una totale chiusura nei confronti del Concilio stesso, nelle sue intenzioni originali, anche a favore di quella apertura che non mise affatto in pericolo la Verità, le dottrine e i dogmi. Sarebbe infatti assurdo pensare o affermare che la Verità stessa (con la V maiuscola) possa essere uccisa dagli uomini e con i loro ragionamenti. Senza dubbio, chi attenta alla Verità stessa, la perde, ma non può mai eliminarla. San Paolo stesso, mentre ci mette in guardia dalle false dottrine, avverte i fedeli di “conservare ciò che è buono, di non gettare via tutto, perché ciò che è buono viene da Dio“: è il famoso discernimento di cateriniana memoria. Si tratta di trovare quel corretto equilibrio che non elimina la ragione stessa, né impedisce alla Chiesa il suo proprio legittimo progresso, anche dottrinale. La Verità stessa infatti, arricchisce chi l’accoglie, ma a sua volta si incrementa per sbriciolare nel tempo l’intera comprensione delle Scritture (“quanto ora io vi dico, lo capire a poco a poco”, disse il Signore), fino al ritorno glorioso di Cristo, come indica il versetto: “Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13, 52). Quando una teologia è ben fatta e non rigetta la Verità già acquisita, il concetto di nuovo non è affatto illegittimo o illecito: al contrario, diventa una continuità nella Verità e, basandosi sulla Tradizione, l’arricchisce rendendola viva in ogni tempo.

Quando diciamo progressisti, dunque, occorre fare attenzione, invece, a chi ha a cuore l’autentico progresso della Chiesa insito anche e soprattutto nella nuova comprensione del Vangelo all’interno di problematiche tipiche del proprio tempo: ai suoi tempi san Tommaso fu definito un innovatore, bocciato come eretico dal vescovo francese. L’Aquinate aveva incomprensioni anche con san Bonaventura e non è un segreto che tra francescani e domenicani c’è sempre stata una chiara distinzione nell’innovazione stessa. Viviamo in un tempo in cui i termini si sprecano e spesso vengono usati senza rifletterci troppo, rischiando di usarli come etichette o come slogan che invece di aiutare alla comprensione, finiscono per confondere ulteriormente i fedeli.

Diverso è quando parliamo di modernisti: non sono la stessa cosa dei progressisti come si tende a far credere e la condanna di questa ideologia è incisa a chiare lettere nell’Enciclica di san Pio X, Pascendi Dominicis Gregis, con il suo Giuramento antimodernista e, a seguire, la condanna della sua “Nouvelle Theologiae” denunciata da Pio XII nella Humani Generis.

Nel gruppo di coloro che furono a favore di questo progresso troviamo di fatto tutti i pontefici, specialmente a partire dal beato Pio IX, Leone XIII con la Rerum Novarum, in particolare, oggi, Giovanni Paolo II e lo stesso Ratzinger, i quali si batterono, e si batte oggi Benedetto XVI, perché tale “progresso” non si trasformasse piuttosto in progressismo o in modernismo mascherato da progresso. Questo infatti, significò quella rottura con la Tradizione, sfruttando le porte aperte del Concilio, mentre in tutti i documenti troviamo chiara la condanna ad ogni forma di modernismo che si voleva far infiltrare nel concetto di nuovo.

In tal senso, si può comprendere la posizione favorevole dei pontefici nei confronti di alcuni teologi come de Lubac, Congar, von Balthasar, Danielou e lo stesso allora giovane Ratzinger, il quale sarà invece un punto di riferimento importante per valutare fino a che punto avrebbe dovuto e potuto spingersi la “Nova Theologia” e non la “Nouvelle Theologie”. Basta leggere le catechesi, i discorsi, le stesse encicliche di Benedetto XVI per comprendere non solo queste differenze, ma il concetto stesso dell’ermeneutica della continuità.

CHE IL PROGRESSO NON SIA MUTAMENTO

Due volte Pietro. Paolo VI e il neo-cardinale di Monaco Joseph Ratzinger

Un modernista è, per esempio, Karl Rahner oppure il domenicano Schillebeeckx o Hans Kung, i quali pretendono di trasformare il Vangelo a seconda delle necessità della modernità, a seconda delle mode del momento (lo stesso vuole anche la Teologia della Liberazione).

Un progressista se inteso correttamente come a favore del progresso, si muove secondo i parametri estesi da san Vincenzo Linirense che diceva:

Dirà forse qualcuno: non si dà, dunque, progresso alcuno della religione nella Chiesa di Cristo? Altroché se si dà, e grandissimo! Chi vorrà essere tanto ostile agli uomini e tanto odioso a Dio da tentare di impedire un simile progresso? Però avvenga in modo tale da esser veramente un progresso della fede e non un’alterazione. Progredire, infatti, significa che una cosa si amplifica rimanendo se stessa; mutamento, invece, significa che una cosa passa a diventare un’altra cosa. È necessario, dunque, che crescano — e crescano molto gagliardamente — col passare delle generazioni e dei tempi l’intelligenza e la scienza e la sapienza della fede sia nel singolo sia presso la comunità, sia in ciascun cristiano sia in tutta la Chiesa: però la crescita della fede avvenga soltanto ferma restando la sua propria natura, cioè entro l’ambito dello stesso dogma, nel medesimo significato e nella medesima sentenza — in suo dumtaxat genere, in eodem scilicet dogmate, eodem sensu eademque sententia” (Commonitorium,23 -PL50,667).

Un vero progressista, dunque, è colui che progredisce ma senza mutare la dottrina. Chi modifica le dottrine, invece, non è un progressista, ossia a favore del progresso, ma è un modernista che si finge progressista, la cui ideologia rimane condannata dalla Chiesa senza mezze misure.

IL GUAIO È CHE I MODERNISTI E NON I PROGRESSISTI SI IMPADRONIRONO DEL CONCILIO

Due volte Pietro. Giovanni Paolo II e il futuro Benedetto XVI, suo successore

In sostanza il vero danno sta nella confusione fra coloro che sono per il progresso autentico della Chiesa – e che vengono chiamati erroneamente progressisti – e i modernisti, vera piaga della Chiesa. Senza dubbio l’ultimo Concilio portò con sé questo legittimo progresso che, strumentalizzato da modernisti senza scrupoli, ha dato origine all’uso di termini altrettanto strumentalizzati. Il Concilio fu progresso e non progressismo; il Concilio si aprì alle tematiche del mondo moderno, ma non era modernista!

In tal senso è doveroso fare discernimento sui teologi che vi parteciparono e comprendere così perché alcuni di questi furono protetti dalla Chiesa, furono appunto premiati. Lo stesso Ratzinger dice: “Sempre più cresceva l’impressione che nella Chiesa non ci fosse nulla di stabile, che tutto può essere oggetto di revisione. Sempre più il Concilio pareva assomigliare a un grosso parlamento ecclesiastico, che poteva cambiare tutto e rivoluzionare ogni cosa a modo proprio. Evidentissima era la crescita del risentimento nei confronti di Roma e della Curia, che apparivano come il vero nemico di ogni novità e progresso. Le discussioni conciliari venivano sempre più presentate secondo lo schema partitico tipico del parlamentarismo moderno [...].

Per i credenti si trattava di un fenomeno strano: a Roma i loro vescovi parevano mostrare un volto diverso da quello di casa loro. Dei pastori che fino a quel momento erano ritenuti rigidamente conservatori apparvero improvvisamente come i portavoce del progressismo – ma era farina del loro sacco?” (Card. J. Ratzinger, La mia vita. pp. 97-99.). Non abbiamo risposte alle mille domande che ci siamo posti e che continuano a sorgere. Abbiamo, però, un segno tangibile della Verità della Chiesa: Ratzinger è divenuto Pontefice!

Teologi del suo spessore e spesso etichettati erroneamente, con fare dispregiativo e confuso, come progressisti dai modernisti, sono invece a favore del legittimo progresso della Chiesa, favorevoli ad una comprensione sempre più nuova del Vangelo, attenti a quell’autentico Spirito Santo che “fa nuove tutte le cose”. Un concetto di nuovo che Benedetto XVI ha spiegato bene nel creare il nuovo Dicastero dedicato alla nuova evangelizzazione: seppur questo termine nuovo lo riscontriamo in ogni pastorale e in ogni documento ufficiale, non significa sempre un fatto negativo. Il Papa spiega nel MP Ubicumque et semper:

“La diversità delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di nuova evangelizzazione non significa, infatti, dover elaborare un’unica formula uguale per tutte le circostanze. E, tuttavia, non è difficile scorgere come ciò di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente cristiani sia un rinnovato slancio missionario, espressione di una nuova generosa apertura al dono della Grazia. Infatti, non possiamo dimenticare che il primo compito sarà sempre quello di rendersi docili all’opera gratuita dello Spirito del Risorto, che accompagna quanti sono portatori del Vangelo e apre il cuore di coloro che ascoltano. Per proclamare in modo fecondo la Parola del Vangelo, è richiesto anzitutto che si faccia profonda esperienza di Dio”.

Dalle stesse parole del Papa, ecco le priorità di questa evangelizzazione:

“…promuovere e favorire, in stretta collaborazione con le Conferenze Episcopali interessate, che potranno avere un organismo ad hoc, lo studio, la diffusione e l’attuazione del Magistero pontificio relativo alle tematiche connesse con la nuova evangelizzazione”.

Insomma, a certe domande non si può rispondere con un sì o con un no, con una condanna o con una promozione: la situazione assai complessa necessita di sano discernimento e di immensa prudenza, senza, spregiudicatamente, dover rigettare tutto. Dare delle specifiche risposte sarebbe presuntuoso da parte nostra, ma ci auguriamo di aver dato del materiale per riflettere, materiale attraverso il quale ognuno potrà trovare la risposta che cerca, non una risposta qualsiasi o risposte sincretiste questo no! Piuttosto delle risposte che possano aiutarci ad alimentare in noi la fede nella Chiesa sulla quale le parole del Cristo, Sommo Pontefice, sono la garanzia che le “porte degli inferi non prevarranno”; fiducia nei Vicari di Cristo che legittimamente si sono succeduti in tutti i duemila anni di storia ecclesiale, specialmente in Benedetto XVI che, senza esagerare, possiamo definire il più grande “Dottore della Chiesa” del nostro tempo!


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