Settimana Santa, Triduo Pasquale (Meditazioni)

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Caterina63
00mercoledì 1 aprile 2009 00:24
Ci siamo....come ogni anno eccoci giunti al cuore e nel cuore della Liturgia della Chiesa, della VITA STESSA della Chiesa, della storia stessa di Dio, delle gesta di Cristo Gesù che "fa nuove tutte le cose" ma per farle nuove doveva in qualche modo distruggere le vecchie....[SM=g1740717]

E così ha fatto...in questa Settimana detta SANTA, ripercorreremo gli attimi della "nuova creazione" in Cristo Gesù, dal suo ingresso trionfante in Gerusalemme (Domenica delle Palme), all'Istituzione della Eucarestia, del Sacerdozio (Giovedì Santo), alla adorazione della Croce, Venerdì Santo...fino a meditare il SILENZIO DI DIO, la morte...[SM=g1740720]  lo smarrimento dei Discepoli, la Vergine Madre Addolorata e Madre della Chiesa che lì, fra le ultime gocce di Sangue ed acqua scaturite dal costato trafitto, iniziava il suo cammino...fino al trionfo di Dio, alla Risurrezione del Cristo, al GIORNO DEL SIGNORE, LA DOMENICA....dopo aver vissuto LA MADRE DI TUTTE LE VEGLIE, LA NOTTE DI PASQUA...


Dal Blog:

Le potature della liturgia quaresimale e il loro senso mistico

Traduco e posto un articolo che ho colto sul blog di fr. Z. Mi è piaciuto molto per il tono spirituale e la lettura mistica della liturgia quaresimale e del Triduo Santo. L'originale è a questo link
La foto è di Orbis Catholicus, che ne ha parecchie altre splendide.

Durante la Quaresima perdiamo tante cose. Siamo come “potati” attraverso la liturgia. La Santa Chiesa sperimenta una sorta di “morte liturgica” prima della festa della Risurrezione. L’alleluia se ne va dalla Settuagesima per chi segue il rito antico (all’inizio della Quaresima per tutti). La musica e i fiori ci lasciano il mercoledì delle Ceneri. Con la domenica V (o di Passione) le statue e le immagine vengono coperte da drappi violacei.

Ancor oggi, l’Ordo della Chiesa Universale pubblicato dalla Santa Sede prevede che nella V domenica di Quaresima possano essere velate le immagini delle chiese. Tradizionalmente le croci restano velate fino alla fine della Celebrazione della Passione del Signore il Venerdì Santo, le immagini e le statue fino all’inizio della Veglia Pasquale.

Fr. Z riferisce che nella sua parrocchia nativa in Minnesota, la grande statuta della Pietà è disvelata, appropriatamente, anch’essa il Venerdì Santo.

Sempre come parte della potatura, nella forma straordinaria del rito romano, nella domenica di Passione scompaiono alcuni Gloria Patri alla fine di certe preghiere. Quando poi entriamo nel Sacro Triduo le potature aumentano. Dopo la Messa in Cena Domini del Giovedì Santo il Santissimo Sacramento è rimosso dal tabernacolo dell’altar maggior e l’altare stesso viene spogliato. Campane e campanelle sono rimpiazzate da rumorosi strumenti di legno (crepitacula).
Al Venerdì Santo non c’è neppure una Messa.

Infine, iniziamo la veglia pasquale privati perfino della stessa luce! E’ come se la Chiesa stessa fosse completamente morta, insieme al suo Signore nella tomba.
Questa morte liturgica della Chiesa rivela quanto Cristo abbia “svuotato” se stesso della sua gloria, al fine di salvarci dai nostri peccati e di insegnare a noi chi siamo veramente.

La chiesa, poi, ritorna d’improvviso, gloriosamente, alla vita nella Veglia Pasquale. Nell’antichità la Veglia era celebrata nella notte profonda. Nell’oscurità, una singola scintilla scaturita dalla pietra focaia si spandeva in fiamme. E le fiamme si spargevano per tutta la chiesa. Se ci mettiamo in connessione mente e cuore con la liturgia della Chiesa in cui questi sacri misteri sono ri-presentati, allora, per mezzo della nostra “attiva recettività”, diventiamo partecipi dei misteri di salvezza della vita, morte e risurrezione di Cristo.

Per essere iniziati a questa “attiva recettività” dobbiamo naturalmente essere membri battezzati della Chiesa e in stato di grazia.

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Caterina63
00mercoledì 1 aprile 2009 00:30
L'inno vespertino delle domeniche di quaresima: Audi benigne conditor
Ringraziando sempre per lo splendido lavoro il maestro Giovanni Vianini, ascoltiamo in questa quinta domenica di Quaresima, l'inno dei vespri Audi benigne conditor, registrato dal vivo dalla Schola gregoriana Mediolanensis.






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Caterina63
00mercoledì 1 aprile 2009 00:58
Canti per l'adorazione Eucaristica: l'intramontabile "Adoro te devote"
Un concentrato di dottrina e di poesia che accompagna dai tempi di San Tommaso d'Aquino (suo autore) i momenti dedicati all'adorazione eucaristica. In questo periodo, in molte parrocchie e chiese si attivano le tradizionali "Quarant'ore", giornate dedicate all'adorazione eucaristica intensiva per prepararsi alla settimana santa, o per viverne i primi tre giorni con particolare concentrazione, in attesa dell'inizio del Triduo pasquale.

Vi propongo tutto il materiale necessario a studiare e apprezzare questo canto, con la speranza che vogliate e possiate eseguirlo (al limite anche nella sua traduzione italiana: "O Gesù ti adoro")




Il testo Latino e Italiano

Adóro te devóte, latens Déitas,
Quae sub his figúris vere látitas:
Tibi se cor meum totum súbiicit,
Quia te contémplans totum déficit.

Visus, tactus, gustus in te fállitur,
Sed audítu solo tuto créditur.
Credo, quidquid dixit Dei Fílus:
Nil hoc verbo Veritátis vérius.

In cruce latébat sola Déitas,
At hic latet simul et humánitas;
Ambo tamen credens atque cónfitens,
Peto quod petívit latro paénitens.

Plagas, sicut Thomas, non intúeor;
Deum tamen meum te confíteor.
Fac me tibi semper magis crédere,
In te spem habére, te dilígere.

O memoriále mortis Dómini!
Panis vivus, vitam praestan hómini!
praesta meae menti de te vívere.
Et te illi semper dulce sápere.

Pie pellicáne, Iesu Dómine,
me immúndum munda tuo sánguine.
Cuius una stilla salvum fácere
Totum mundum quit ab omni scélere.

Iesu, quem velátum nunc aspício,
Oro fiat illud quod tam sítio;
Ut te reveláta cernens fácie,
Visu sim beátus tuae glóriae.

Amen.


[SM=g1740734]

Adoro Te devotamente, oh Dio nascosto,
Sotto queste apparenze Ti celi veramente:
A te tutto il mio cuore si abbandona,
Perché, contemplandoTi, tutto vien meno.

La vista, il tatto, il gusto, in Te si ingannano
Ma solo con l'udito si crede con sicurezza:
Credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio,
Nulla è più vero di questa parola di verità.

Sulla croce era nascosta la sola divinità,
Ma qui è celata anche l'umanità:
Eppure credendo e confessando entrambe,
Chiedo ciò che domandò il ladrone penitente.

Le piaghe, come Tommaso, non vedo,
Tuttavia confesso Te mio Dio.
Fammi credere sempre più in Te,
Che in Te io abbia speranza, che io Ti ami.

Oh memoriale della morte del Signore,
Pane vivo, che dai vita all'uomo,
Concedi al mio spirito di vivere di Te,
E di gustarTi in questo modo sempre dolcemente.

Oh pio Pellicano, Signore Gesù,
Purifica me, immondo, col tuo sangue,
Del quale una sola goccia può salvare
Il mondo intero da ogni peccato.

Oh Gesù, che velato ora ammiro,
Prego che avvenga ciò che tanto bramo,
Che, contemplandoTi col volto rivelato,
A tal visione io sia beato della tua gloria.










La figura del "pio pellicano" che si ferisce per nutrire i piccoli col suo sangue è simbolo di Cristo che accetta di versare il sangue per dar la vita a noi uomini e nutrirci col suo corpo.



La versione cantabile in italiano

O Gesù ti adoro, Ostia candida,
sotto un vel di pane, nutri l'anima.
Solo in te il mio cuore si abbandonerà,
perché tutto è vano se contemplo te.

L'occhio, il tatto, il gusto non arriva a te,
ma la tua parola resta salva in me:
Figlio sei di Dio, nostra verità;
nulla di più vero, se ci parli tu.

Hai nascosto in Croce la divinità,
sull'altare veli pur l'umanità;
Uomo Dio la fede ti rivela a me,
come al buon ladrone dammi un giorno il ciel.

Anche se le piaghe non mi fai toccar,
grido con Tommaso: “Sei il mio Signor”;
cresca in me la fede, voglio in te sperar
pace trovi il cuore solo nel tuo amor.

Sei ricordo eterno che morì il Signor,
pane vivo, vita, tu diventi in me.
Fa’ che la mia mente, luce attinga a te
e della tua manna porti il gusto in sé.

Come il pellicano nutri noi di te;
dal peccato grido: “Lavami, Signor”.
Il tuo sangue è fuoco, brucia il nostro error,
una sola stilla, tutti puoi salvar.

Ora guardo l'Ostia, che ti cela a me,
ardo dalla sete di vedere te:
quando questa carne si dissolverà,
il tuo viso, Luce, si disvelerà. Amen.


Grazie al Blog
antoniodipadova.blogspot.com/
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[SM=g1740733]
Caterina63
00sabato 4 aprile 2009 18:00
Nella Settimana Santa, possiamo davvero sperimentare che il nostro Dio non è lontano. Benedetto XVI mette in luce questa verità iscritta nel cuore di ogni uomo: Dio si è fatto carne per essere vicino alla nostra sofferenza e per aprirci la porta del Cielo. Con la Croce, spiega il Papa, “Gesù ha spalancato la porta di Dio, la porta tra Dio e gli uomini”. Nella Domenica delle Palme, con la quale si apre la Settimana Santa, ricorda il Santo Padre, “professiamo la regalità di Cristo”. Ma in cosa consiste questa regalità del Signore? Ecco la riflessione del Pontefice, il primo aprile del 2007:

“Riconoscerlo come Re significa: accettarlo come Colui che ci indica la via, del quale ci fidiamo e che seguiamo. Significa accettare giorno per giorno la sua parola come criterio valido per la nostra vita. Significa vedere in Lui l’autorità alla quale ci sottomettiamo. Ci sottomettiamo a Lui, perché la sua autorità è l’autorità della verità”.

All’ingresso di Gerusalemme, la folla lo acclama come figlio di Davide. Ma quando il Signore arriva al Tempio, trova commercianti di bestiame e cambiavalute che occupano con i loro affari il luogo di preghiera”. Un avvenimento che, sottolinea il 16 marzo dell’anno scorso, deve interrogarci anche oggi:

“Tutto ciò deve oggi far pensare anche noi come cristiani: è la nostra fede abbastanza pura ed aperta, così che a partire da essa anche i ‘pagani’, le persone che oggi sono in ricerca e hanno le loro domande, possano intuire la luce dell’unico Dio, associarsi negli atri della fede alla nostra preghiera e con il loro domandare diventare forse adoratori pure loro? (…) Non lasciamo forse in vari modi entrare gli idoli anche nel mondo della nostra fede?”

Nel tenere “sveglio il mondo per Dio”, combattendo i falsi idoli del nostro tempo, avverte il Papa, è fondamentale la figura del sacerdote. Il Pontefice si sofferma sul ministero sacerdotale nell’omelia della Messa Crismale, che la mattina del Giovedì Santo precede il Triduo Pasquale. Il 20 marzo dell’anno scorso, Benedetto XVI tratteggia con queste vibranti parole il modello di sacerdote, servo di Cristo nella verità e nell’amore:

“Il sacerdote deve essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Signore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della sua verità, del suo amore”.

Farsi carico l’uno dell’altro. Il Papa ribadisce che l’amore, un amore smisurato, è l’insegnamento più grande che il Figlio di Dio lascia all’umanità. E’ questo il testamento che Cristo ci consegna nell’Ultima Cena. E’ quello di Dio un amore che redime, purifica e risana. Nella Messa in Coena Domini del 13 aprile 2006, il Papa spiega il significato delle parole rivolte da Gesù ai discepoli nel Cenacolo:

“’Anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri’… significa soprattutto perdonarci instancabilmente gli uni gli altri, sempre di nuovo ricominciare insieme per quanto possa anche sembrare inutile. Significa purificarci gli uni gli altri sopportandoci a vicenda e accettando di essere sopportati dagli altri; purificarci gli uni gli altri donandoci a vicenda la forza santificante della Parola di Dio e introducendoci nel Sacramento dell'amore divino”.

Un amore che vince la morte: questo lo straordinario insegnamento di Gesù nel suo percorso di sofferenza verso il Calvario. Un viaggio nel male e nella morte che risveglia in noi l’amore per i sofferenti e i bisognosi. Cosi, Benedetto XVI alla Via Crucis al Colosseo il 6 aprile 2007:

“Seguendo Gesù nella via della Sua passione vediamo non soltanto la passione di Gesù, ma vediamo tutti i sofferenti del mondo ed è questa la profonda intenzione della preghiera della Via Crucis: di aprire i nostri cuori e aiutarci a vedere con il cuore”.

Vedere con il cuore, aprirlo a Cristo lasciandoci interpellare dal Suo sacrificio sulla Croce. Un mistero, afferma il 21 marzo scorso, Venerdì Santo, che pone in crisi le nostre umane certezze:

“Tanti, anche nella nostra epoca, non conoscono Dio e non possono trovarlo nel Cristo crocifisso, tanti sono alla ricerca di un amore o di una libertà che escluda Dio, tanti credono di non aver bisogno di Dio … che il Suo sacrificio sulla croce ci interpelli; permettiamo a Lui di porre in crisi le nostre umane certezze, apriamogli il cuore. Gesù è la verità che ci rende liberi di amare”.

La Croce, dunque, è “segno di riconciliazione, segno dell’amore che è più forte della morte”. E proprio per questo, è l’esortazione di Benedetto XVI, non dobbiamo arrenderci al male, ma vincerlo con il bene:

“Ogni volta che ci facciamo il segno della Croce dobbiamo ricordarci di non opporre all'ingiustizia un'altra ingiustizia, alla violenza un'altra violenza; ricordarci che possiamo vincere il male soltanto con il bene e mai rendendo male per male.” (Domenica delle Palme, 9 aprile 2006)


Radio Vaticana
Caterina63
00sabato 4 aprile 2009 19:50
La «Passione» di Alessandro Manzoni
Il sangue «pioggia di mite lavacro»

di Inos Biffi

    Nell'inno sacro La Passione Manzoni - che vi attese a varie riprese dal marzo 1814 all'ottobre 1815 - volge in poesia "il mestissimo rito" del Venerdì Santo, con la sua rievocazione del "Giusto, deriso e offeso, ma in solitaria e dignitosa grandezza" (Valter Boggione), coi sentimenti suscitati all'ascolto degli annunzi profetici sui dolori inenarrabili di quell'"Afflitto" che muore sulla Croce:  sentimenti di timore per l'ira divina, ma alla fine, di confidente speranza in virtù del suo sangue innocente.

    La "lirica meditazione" (Alberto Chiari) - tra tutte quelle di Manzoni la più intimamente partecipata e sofferta - procede lentamente, e lo stesso metro del verso, il decasillabo, predispone a intercalare ampi spazi di silenzio, e a trattenere la considerazione e lo spirito sugli eventi tremendi che la liturgia - quella ambrosiana che il poeta lombardo ha di fronte - ripropone con la severa attrattiva, la forza potente dei suoi segni e l'"atmosfera cupamente solenne" (Clara Leri).

    L'inno si apre con la vista dei fedeli avviati alla chiesa per la celebrazione del Venerdì Santo. Anzi, lo stesso poeta, associandosi a loro, li esorta a mettersi in cammino con pensosa e trepida gravità, come a seguito della notizia inaspettata di una sciagura "O tementi dell'ira ventura, / Cheti e gravi oggi al tempio moviamo, / Come gente che pensi a sventura, / Che improvviso s'intese annunziar".

    Sono chiamati "tementi dell'ira ventura":  già il Battista ammoniva a non credere di poter "sfuggire all'ira imminente":  un tema ricorrente nell'inno, che farà posto a quello della fiducia, grazie all'immolazione di Cristo che da quell'ira "ci ha liberati" (1 Tessalonicesi, 1, 10). Il "rito" è definito "mestissimo":  e la definizione è perfetta. In tutto il corso dell'anno sacro il Venerdì è il giorno più spoglio e più dolente.

    "Non s'aspetti - avverte il poeta - di squilla il richiamo; / Nol concede il mestissimo rito":  veramente le campane potevano ancora richiamare a raccolta col loro suono, destinato poco dopo a spegnersi definitivamente - per essere sostituito dal martellare monotono e piatto del crotalo - dopo i rintocchi della morte di Gesù, a conclusione della lettura della Passio. Quanto all'altare:  è rivestito della veste che indossa una sposa in lutto per lo sposo scomparso:  "Qual di donna che piange il marito, / È la veste del vedovo altar":  vedovo, poiché in questo giorno "aliturgico", senza celebrazione eucaristica né comunione - com'è nella tradizione ambrosiana - Cristo, lo Sposo, è assente e la Chiesa è in gramaglie. Il Venerdì Santo non c'è l'Eucaristia. Lo rende noto il poeta:  "Cessan gl'inni e i misteri beati, / Tra cui scende, per mistica via, / Sotto l'ombra de' pani mutati, / L'ostia viva di pace e d'amor".

    E qui ogni parola è puntuale e rifinita e ne risulta una teologia dell'Eucaristia rigorosa e suggestiva, definita coi termini precisi, che il linguaggio della tradizione liturgica e biblica conoscono:  da "i misteri beati", dalla "mistica via" - una via piena di mistero -, dall'"ombra" delle specie eucaristiche, che nella transustanziazione hanno perso la loro sostanza, all'"ostia viva", cioè al Cristo "Pane vivo", immolato e pure vivente, che sulla croce ha riconciliato l'uomo con Dio e gli uomini tra loro, e recato nel mondo la carità.

    E dal silenzio - che viene a crearsi spontaneo alla fine del verso precedente - ecco risonare il "sacro lamento" dell'"intento Isaia", che sente gravare sul suo cuore affannato e impaurito la tragedia di quel servo di Dio:  "S'ode un carme:  l'intento Isaia/ Proferì questo sacro lamento, / In quel dì che un divino spavento/ Gli affannava il fatidico cor".




    Nelle umiliazioni di quel servo il profeta presagisce con realismo impressionante gli oltraggi stessi inflitti a Gesù e il seguito penoso dei momenti della sua straziante passione, rievocati dal poeta in versi di intensa ed emozionante potenza. Il "veggente di Giuda", paragonandola a un germoglio che viene alla luce da un suolo riarso, evoca un essere misterioso e conturbante:  una figura umana ridotta allo stremo, vilipesa, dal volto velato, come fosse colpita da un castigo divino, e rappresentasse l'ultimo e il più mirabile degli uomini. "Di chi parli, o Veggente di Giuda?/ Chi è costui che, davanti all'Eterno/ Spunterà come tallo da nuda/ Terra, lunge da fonte vital?/ Questo fiacco pasciuto di scherno/ Che la faccia si copre d'un velo/ Come fosse un percosso dal cielo, / Il novissimo d'ogni mortal?", domanda il poeta.

    Si tratta del "Giusto", ossia di Gesù, che - avverando la predizione di Isaia sull'agnello muto e mansueto condotto al macello e sul Servo del Signore - viene ignobilmente crocifisso, gravato delle colpe di tutti:  "Egli è il Giusto che i vili han trafitto, / Ma tacente, ma senza tenzone; / Egli è il Giusto; e di tutti il delitto/ Il Signor sul suo capo versò". Si tratta del "Santo", che come nuovo Sansone libera l'Israele nuovo e, morendo per l'umanità peccatrice - "sposa infedele" -, lascia alla Chiesa, non per inganno ma deliberatamente, "la fortissima chioma", ossia la forza redentrice del suo sacrificio.

    E a questo punto ripassano come in "diversi riquadri" (Valter Boggione), i vari e spaventosi momenti della passione del Figlio di Dio:  "Quei che siede sui cerchi divini" (Dante parla dei "cerchi superni", Paradiso, XXVIi, 144), divenuto uomo - "d'Adamo figliolo" - ha voluto condividere con "i fratelli tapini" la triste eredità del loro peccato:  il loro "funesto retaggio".

È l'affermazione di Paolo su Gesù, che, pur essendo di natura divina, annichilì se stesso, assumendo la condizione del servo (Filippesi, 2, 6). Seguono i momenti spaventosi di quella passione:  le ingiurie; il tormento dello spirito; la tristezza della morte; la paura che segue al peccato, pur essendo il Signore innocente; la dolente e inascoltata orazione nel Getsemani; l'abbandono del Padre; il bacio del tenebroso discepolo, traditore del sangue incolpevole; lo scherno della marmaglia al luminoso volto divino; l'atroce e insaziato piacere del male, che giunge fino al crimine più empio.

    A rendere questo, Manzoni scrive i suoi versi più drammatici:  "Né sdegnò coi fratelli tapini/ Il funesto retaggio partir:  / Volle l'onte, e nell'anima il duolo, / E l'angosce di morte sentire, / E il terror che seconda il fallire, / Ei che mai non conobbe il fallir". "La repulsa al suo prego sommesso, / L'abbandono del Padre sostenne:  / Oh spavento! l'orribile amplesso/ D'un amico spergiuro soffrì./ Ma simìle quell'alma divenne/ Alla notte dell'uomo omicida:  / Di quel Sangue sol ode le grida, / E s'accorge che Sangue tradì./ Oh spavento! lo stuol de' beffardi/ Baldo insulta a quel volto divino, / Ove intender non osan gli sguardi/ Gl'incolpabili figli del ciel./ Come l'ebbro desidera il vino, / Nell'offese quell'odio s'irrita; / E al maggior dei delitti gl'incita/ Del delitto la gioia crudel".

    In questa sequenza di raccapriccianti eventi si distingue, nel delirio della sua potenza, l'orgoglioso e stolto procuratore Pilato che - bassamente preoccupato solo di comprare e di salvare la propria carriera col sangue incolpevole di Cristo - ignora chi veramente fosse quel silente imputato, condotto come offerta sacrificale dinanzi al suo tribunale:  "Ma chi fosse quel tacito reo, / Che davanti al suo seggio profano/ Strascinava il protervo Giudeo, / Come vittima innanzi a l'altar, / Non lo seppe il superbo Romano; / Ma fe' stima il deliro potente, / Che giovasse col sangue innocente/ La sua vil sicurtade comprar".

    Ma soprattutto l'attenzione del poeta si sofferma con trepidazione sul "Sangue dai padri imprecato". La loro sacrilega domanda, che pervade il cielo di lutto e fa coprire il volto degli angeli inorriditi, è stata ascoltata - ritiene Manzoni - e dai padri continua a pesare sui figli:  "Su nel cielo in sua doglia raccolto/ Giunse il suono d'un prego esecrato:  / I celesti copersero il volto:  / Disse Iddio:  Qual chiedete sarà./ E quel Sangue dai padri imprecato/ Sulla misera prole ancor cade, / Che mutata d'etade in etade/ Scosso ancor dal suo capo non l'ha".

    Il pannello conclusivo della tragica scena ritrae la morte dell'"Afflitto" sul "letto nefando" della croce, il grande grido, l'esalazione dell'ultimo respiro, l'esultanza dei carnefici, e l'ira divina incombente, ravvisabile anche nei segni seguiti a quella morte:  lo squarcio del velo del tempio, le tenebre su tutta la terra, il terremoto e l'aprirsi delle tombe e l'apparizione dei trapassati. "Ecco appena sul letto nefando/ Quell'Afflitto depose la fronte, / E un altissimo grido levando, / Il supremo sospiro mandò:  / Gli uccisori esultanti sul monte/ Di Dio l'ira già grande minaccia; / Già dall'ardue vedette s'affaccia/ Quasi accenni:  Tra poco verrò".

    Ma sorprendentemente, proprio l'evocazione di quella sovrastante minaccia del Rex tremendae maiestatis fa scaturire nel poeta - dopo ancora una pausa propiziata dal verso - gli accenti della più commossa e confidente preghiera al "gran Padre", al Signore indulgente, perché, in virtù del sacrificio di Cristo, il Sangue scenda a purificare misericordiosamente quei medesimi che lo hanno follemente invocato. Anzi scenda su tutti:  "Tutti errammo". "O gran Padre! per Lui che s'immola/ Cessi alfine quell'ira tremenda; / E de' ciechi l'insana parola/ Volgi in meglio, pietoso Signor./ Sì, quel Sangue sovr'essi discenda; / Ma sia pioggia di mite lavacro:  / Tutti errammo; di tutti quel sacro-/ santo Sangue cancelli l'error". E pare di sentire in queste parole la confessione dello stesso Manzoni, l'eco  della sua recente conversione e della gioiosa esperienza del perdono ottenuto.

    Il tema dell'ira divina, ricorrente nell'inno, si trasforma in quello dell'"immensa pietà" (Ognissanti), mentre il tema ugualmente insistente del sangue che grida vendetta finisce in quello del sangue che deterge e redime.
    Si riflette in questi versi la visione misericordiosa degli uomini, che volge verso tutti occhi di largo compatimento e indulgenza. È la pietà manzoniana, che, mentre aborrisce e detesta "il secolo atroce", si sente vicino al "tristo esiglio" dei buoni.

    La contemplazione e l'orazione del poeta non è terminata. Ritta, "immota", accanto alla croce, egli rimira la madre del Crocifisso e anche da questo sguardo scaturisce una confidente, toccante, implorazione alla "regina de' mesti" - che le litanie mariane invocano come "Consolatrice degli afflitti" e "Regina dei martiri" - perché associ i nostri dolori ai santi patimenti del Figlio, a caparra e in attesa della sua visione gloriosa:  "E tu, Madre, che immota vedesti/ Un tal Figlio morir sulla croce, / Per noi prega, o regina de' mesti, / Che il possiamo in sua gloria veder; / Che i dolori, onde il secolo atroce/ Fa de' boni più tristo l'esiglio, / Misti al santo patir del tuo Figlio/ Ci sian pegno d'eterno goder".

    Osserva il cardinale Giovanni Colombo:  "Il Manzoni in questo punto interpreta sant'Ambrogio, che, in un famoso commento, insiste sull'atteggiamento virile di Maria:  la dolce e santa Madonna sta in piedi accanto alla croce. La "perdolente" non si abbandona a un desolato lacrimare:  in silenzio ascolta gli insulti rivolti al divino agonizzante, e maternamente implora per tutti perdono e pace dal Padre misericordiosissimo".



(©L'Osservatore Romano - 5 aprile 2009)




I versi dell'inno



O tementi dell'ira ventura,
Cheti e gravi oggi al tempio moviamo,
Come gente che pensi a sventura,
Che improvviso s'intese annunziar.

Non s'aspetti di squilla il richiamo;
Nol concede il mestissimo rito: 
Qual di donna che piange il marito,
È la veste del vedovo altar.
Cessan gl'inni e i misteri beati,
Tra cui scende, per mistica via,
Sotto l'ombra de' pani mutati,
L'ostia viva di pace e d'amor.
 
S'ode un carme:  l'intento Isaia
Proferì questo sacro lamento,
In quel dì che un divino spavento
Gli affannava il fatidico cor.
Di chi parli, o Veggente di Giuda?
Chi è costui che, davanti all'Eterno
Spunterà come tallo da nuda
Terra, lunge da fonte vital?
Questo fiacco pasciuto di scherno
Che la faccia si copre d'un velo
Come fosse un percosso dal cielo,
Il novissimo d'ogni mortal?

Egli è il Giusto che i vili han trafitto,
Ma tacente, ma senza tenzone;
Egli è il Giusto; e di tutti il delitto
Il Signor sul suo capo versò.
Egli è il santo, il predetto Sansone
Che morendo francheggia Israele;
Che volente alla sposa infedele
La fortissima chioma lasciò.

Quei che siede sui cerchi divini,
E d'Adamo si fece figliolo,
Né sdegnò coi fratelli tapini
Il funesto retaggio partir: 
Volle l'onte, e nell'anima il duolo,
E l'angosce di morte sentire,
E il terror che seconda il fallire,
Ei che mai non conobbe il fallir.
 
La repulsa al suo prego sommesso,
L'abbandono del Padre sostenne: 
Oh spavento! l'orribile amplesso
D'un amico spergiuro soffrì.
Ma simìle quell'alma divenne
Alla notte dell'uomo omicida: 
Di quel Sangue sol ode le grida,
E s'accorge che Sangue tradì.
 
Oh spavento! lo stuol de' beffardi
Baldo insulta a quel volto divino,
Ove intender non osan gli sguardi
Gl'incolpabili figli del ciel.
Come l'ebbro desidera il vino,
Nell'offese quell'odio s'irrita;
E al maggior dei delitti gl'incita
Del delitto la gioia crudel.

Ma chi fosse quel tacito reo,
Che davanti al suo seggio profano
Strascinava il protervo Giudeo,
Come vittima innanzi a l'altar,
Non lo seppe il superbo Romano;
Ma fe' stima il deliro potente,
Che giovasse col sangue innocente
La sua vil sicurtade comprar.
 
Su nel cielo in sua doglia raccolto
Giunse il suono d'un prego esecrato: 
I celesti copersero il volto: 
Disse Iddio:  Qual chiedete sarà.
E quel Sangue dai padri imprecato
Sulla misera prole ancor cade,
Che mutata d'etade in etade
Scosso ancor dal suo capo non l'ha.

Ecco appena sul letto nefando
Quell'Afflitto depose la fronte,
E un altissimo grido levando,
Il supremo sospiro mandò: 
Gli uccisori esultanti sul monte
Di Dio l'ira già grande minaccia;
Già dall'ardue vedette s'affaccia
Quasi accenni:  Tra poco verrò.
 
O gran Padre! per Lui che s'immola
Cessi alfine quell'ira tremenda;
E de' ciechi l'insana parola
Volgi in meglio, pietoso Signor.
Sì, quel Sangue sovr'essi discenda;
Ma sia pioggia di mite lavacro: 
Tutti errammo; di tutti quel sacro-
santo Sangue cancelli l'error.

E tu, Madre, che immota vedesti
Un tal Figlio morir sulla croce,
Per noi prega, o regina de' mesti,
Che il possiamo in sua gloria veder;
Che i dolori, onde il secolo atroce
Fa de' boni più tristo l'esiglio,
Misti al santo patir del tuo Figlio
Ci sian pegno d'eterno goder.



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Caterina63
00domenica 5 aprile 2009 14:57
PER TUTTE LE FOTO DELLA DOMENICA DELLE PALME CON IL PAPA, ANDATE QUI:
Cosa veste il Papa per la Liturgia?


qui procediamo alla meditazione del Magistero benedettiano.... Occhiolino

Un magistero davvero sublime quello di oggi....

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

cari giovani!

Insieme con una schiera crescente di pellegrini, Gesù era salito a Gerusalemme per la Pasqua. Nell’ultima tappa del cammino, vicino a Gerico, Egli aveva guarito il cieco Bartimeo che lo aveva invocato come Figlio di Davide, chiedendo pietà. Ora – essendo ormai capace di vedere – con gratitudine si era inserito nel gruppo dei pellegrini. Quando, alle porte di Gerusalemme, Gesù sale sopra un asino, l’animale simbolo della regalità davidica, tra i pellegrini scoppia spontaneamente la gioiosa certezza: È Lui, il Figlio di Davide! Salutano perciò Gesù con l’acclamazione messianica: "Benedetto colui che viene nel nome del Signore", e aggiungono: "Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!" (Mc 11, 9s). Non sappiamo che cosa precisamente i pellegrini entusiasti immaginavano fosse il Regno di Davide che viene. Ma noi, abbiamo veramente compreso il messaggio di Gesù, Figlio di Davide? Abbiamo capito che cosa sia il Regno di cui Egli ha parlato nell’interrogatorio davanti a Pilato? Comprendiamo che cosa significhi che questo Regno non è di questo mondo? O desidereremmo forse che invece sia di questo mondo?


Il resto lo troviamo qui:

La Quaresima e la Pasqua 2009 qui, con Benedetto XVI

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Caterina63
00martedì 7 aprile 2009 22:27
Monsignor Guido Marini, maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie, spiega i riti della Settimana santa

Nel cuore
del mistero della salvezza


di Gianluca Biccini

Il Resurrexit prima dell'inizio della celebrazione eucaristica e una breve omelia di Benedetto XVI durante la messa. Nella liturgia della domenica di Pasqua alcune particolarità nei riti presieduti dal Papa durante la Settimana santa 2009. Le ha anticipate in quest'intervista al nostro giornale il Maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie, monsignor Guido Marini, che nella fedeltà alla tradizione continua a rinnovare le cerimonie papali.

Può indicarci un tema di fondo, l'idea guida del triduo sacro 2009?

È in una frase del vangelo di Giovanni "Li amò fino alla fine" (13, 1). I riti liturgici della Settimana Santa, del resto, ci conducono al cuore del mistero della salvezza, al centro del disegno provvidenziale mediante il quale Dio ha voluto salvare l'umanità. Ogni celebrazione, con la modalità propria del segno liturgico, fatto di parole, gesti, silenzi, immagini, musica e canto, intende condurre alla contemplazione dolorosa del mistero della miseria umana. Quest'ultimo a sua volta è illuminato dal mistero dell'infinita misericordia del Salvatore:  solo in Cristo risorto da morte, "via, verità e vita", trova luce il mistero dell'uomo. Tutto deve lasciare trasparire la bellezza del volto di Dio i cui tratti sono la verità e l'amore, la Verità che è Amore:  "li amò fino alla fine".

Quali risvolti possono avere queste considerazioni per i fedeli, nel vissuto di ogni giorno?

Dalla contemplazione si è condotti alla pratica della vita:  perché lo sguardo attento allo svolgersi del mistero della salvezza è autentico nella misura in cui ciascuno percorre, nella propria esistenza quotidiana, il passaggio dal peccato alla grazia, dalla lontananza da Dio alla vicinanza con Dio, dalla mediocrità alla santità.

Sta in questo l'attualità della Pasqua?

Direi di sì. In virtù della celebrazione liturgica il mistero della passione, morte e risurrezione del Signore non è solo un fatto della storia passata, ma è anche un avvenimento per l'oggi di ogni uomo e a cui tutti possono attingere per avere in dono la vita. Cristo risorto da morte è il Vivente.

A un mese dal viaggio del Papa in Terra Santa, appare anche evidente il riferimento ai luoghi dell'incarnazione, con un duplice richiamo.

È consuetudine che le offerte raccolte nel corso della messa crismale del Giovedì santo vengano devolute per prestare aiuto a qualche realtà bisognosa. Per quest'anno è stata individuata la comunità cattolica di Gaza.
Va inoltre aggiunto che alla Via Crucis al Colosseo, gli ultimi due a prendere in mano la grande croce lignea saranno due frati della Custodia francescana di Terra Santa.

Veniamo al calendario delle celebrazioni. Si inizia giovedì mattina, 9 aprile, con la messa crismale nella basilica di San Pietro. Quali sono le peculiarità di questo rito particolarmente importante per i preti?

Con Benedetto XVI concelebreranno 1.600 sacerdoti del clero secolare e religioso della diocesi di Roma e dei collegi romani. Nella circostanza rinnoveranno le promesse sacerdotali. Verranno inoltre benedetti gli oli dei catecumeni e degli infermi e il crisma. La presentazione degli oli dei catecumeni sarà accompagnata da alcuni neofiti che saranno battezzati la notte di Pasqua; quella degli oli degli infermi, da ammalati che riceveranno il sacramento dell'unzione; quella del crisma, da giovani cresimandi e da due diaconi in procinto di essere ordinati sacerdoti.
Tre delle anfore contenenti gli oli sono di Mario Toffetti, al quale si deve anche il fonte battesimale usato per la veglia pasquale e per i battesimi nella Cappella Sistina. Le altre tre, in argento, sono un dono di qualche anno fa, proveniente dalla Spagna. L'olio per la celebrazione è offerto dalla cooperativa "Arte e alimentaciòn sl" di Castelseras in Spagna; l'essenza profumata per il crisma, dal consorzio del bergamotto, di Reggio Calabria. Al termine della messa gli oli verranno portati a San Giovanni in Laterano, dove saranno distribuiti ai sacerdoti della diocesi di Roma per l'amministrazione dei sacramenti nel corso dell'anno.

E nella cattedrale di Roma il Papa celebrerà la messa nella Cena del Signore, destinando le offerte ai cattolici di Gaza. Oltre al gesto della lavanda dei piedi, quali saranno le altre caratteristiche di questa celebrazione?

Benedetto XVI siederà alla cattedra papale:  quella di San Giovanni è infatti la cattedra propria del vescovo di Roma. Il Pontefice inoltre compirà il gesto della lavanda dei piedi a dodici sacerdoti, canonici lateranensi. Viene dunque riproposto il gesto stesso di Gesù agli apostoli, rivelazione del mistero di Dio e segno di donazione totale della vita. Com'è consuetudine, inoltre, Benedetto XVI distribuirà la comunione ad alcuni membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Al termine si svolgerà la breve processione con la reposizione del Santissimo Sacramento all'altare della cappella di San Francesco.

Due gli appuntamenti per venerdì 10:  prima nella basilica Vaticana per la celebrazione della Passione del Signore; poi al centro di Roma, per la suggestiva Via Crucis al Colosseo. Cosa unisce i due momenti?

La centralità della croce. Le luci soffuse della basilica saranno il segno del clima penitenziale della prima celebrazione. All'inizio Benedetto XVI si inginocchierà alcuni minuti davanti alla croce pregando in silenzio, in segno di richiesta di perdono e di penitenza; poi ostenderà la croce, presentandola all'adorazione dei fedeli, e la bacerà togliendo le scarpe, sempre in segno di penitenza. Il crocifisso, austero e artistico, usato per l'ostensione risale al pontificato di Leone xiii. Il racconto della Passione sarà cantato da tre diaconi con il concorso della Cappella Sistina. L'omelia sarà tenuta dal predicatore della Casa Pontificia, il cappuccino Raniero Cantalamessa.
La sede papale, come già avvenuto in altre occasioni, sarà collocata di fronte alla statua di San Pietro, nella navata centrale della basilica. I cardinali diaconi che assisteranno il Pontefice sono Stanislaw Rylko e Giovanni Lajolo.
Per quanto riguarda la Via Crucis è già noto che i testi sono stati preparati dal vescovo salesiano di Guwahati, monsignor Thomas Menamparampil. Possiamo aggiungere che le immagini del libretto a uso dei fedeli sono un prodotto tipico dell'arte indiana. Ne è autrice suor Marie Claire Naidu, della chiesa dell'Assunzione della Beata Vergine Maria, a Bangalore.
Nell'anfiteatro le torce accanto alla croce saranno portate da due giovani della diocesi di Roma; mentre quest'ultima passerà tra le mani del cardinale vicario, Agostino Vallini, di una famiglia, di due religiose indiane e di una giovane indiana, di un disabile, di due ragazze africane, di un malato sulla sedia a rotelle accompagnato da due assistenti, dei due citati frati di Terra Santa.

Sabato notte, alle ore 21, la veglia pasquale nella basilica Vaticana, che sant'Agostino chiamava la "madre di tutte le veglie". Qualche ulteriore dettaglio?

L'inizio della celebrazione avrà luogo nell'atrio antistante la basilica, dove avverrà il rito della benedizione del fuoco e dell'accensione del cero pasquale, preparato come di consueto dalla Comunità del cammino neocatecumenale. Nella basilica il passaggio dal buio alla luce simboleggerà l'ingresso della Luce che è Cristo, via, verità e vita, nel mondo tenebroso del peccato, della solitudine e della morte. Il Papa amministrerà il battesimo, la confermazione e la prima comunione a cinque catecumeni adulti preparati dal Vicariato di Roma:  due uomini e tre donne, tra le quali una cinese cinquantaseienne. I cinque riceveranno la comunione sotto le due specie del pane e del vino, Corpo e Sangue del Signore. La collocazione del fonte battesimale di Toffetti al centro ai piedi della Confessione con accanto il cero pasquale, intende anche sottolineare l'importanza simbolica del fonte battesimale, nella liturgia della Veglia di Pasqua.

Terminiamo con la Pasqua di Risurrezione e con le novità già accennate per i fedeli che troveranno piazza San Pietro addobbata, come di consueto, con i fiori offerti dagli olandesi.

All'inizio della celebrazione è previsto il rito del Resurrexit con l'apertura dell'immagine del Risorto. Si tratta della neo Acheropita, un'icona realizzata prestando la debita attenzione al prototipo medioevale. La nuova icona, come quella antica, è costituita dall'immagine dipinta del Salvatore - seduto in trono - con due sportelli laterali. Quest'anno, per una adesione maggiore al significato originale di questo rito, che anticamente era compiuto prima e al di fuori della messa, nella basilica lateranense, da cui il Papa procedeva processionalmente per recarsi in Santa Maria Maggiore dove celebrava l'eucaristia, il rito è collocato prima dell'inizio della celebrazione.
Il Papa, inoltre, compirà il rito dell'aspersione a ricordo del battesimo come atto penitenziale che introduce alla celebrazione dei Santi Misteri del Signore; e, a differenza degli anni scorsi, terrà una breve omelia.
Infine, al termine della messa - assistito dai cardinali Agostino Cacciavillan, protodiacono, e Julián Herranz - impartirà come di consueto la benedizione urbi et orbi dalla loggia centrale della basilica Vaticana.



(©L'Osservatore Romano - 8 aprile 2009)

Caterina63
00mercoledì 8 aprile 2009 18:21
Dedicata al Triduo pasquale la catechesi del Papa all'udienza generale

Cristo si carica del dolore
e del male dell'umanità


Con la sua passione e la sua morte Cristo si carica del dolore e del male dell'umanità di ogni tempo:  lo ha ricordato Benedetto XVI durante l'udienza generale di mercoledì 8 aprile, in piazza San Pietro. Nella catechesi il Pontefice ha riproposto il significato dei riti liturgici della Settimana Santa, che culmineranno nella solenne veglia pasquale.

Cari fratelli e sorelle,
la Settimana Santa, che per noi cristiani è la settimana più importante dell'anno, ci offre l'opportunità di immergerci negli eventi centrali della Redenzione, di rivivere il Mistero pasquale, il grande Mistero della fede. A partire da domani pomeriggio, con la Messa in Coena Domini, i solenni riti liturgici ci aiuteranno a meditare in maniera più viva la passione, la morte e la risurrezione del Signore nei giorni del Santo Triduo pasquale, fulcro dell'intero anno liturgico. Possa la grazia divina aprire i nostri cuori alla comprensione del dono inestimabile che è la salvezza ottenutaci dal sacrificio di Cristo. Questo dono immenso lo troviamo mirabilmente narrato in un celebre inno contenuto nella Lettera ai Filippesi (cfr. 2, 6-11), che in Quaresima abbiamo più volte meditato.
 

L'apostolo ripercorre, in modo tanto essenziale quanto efficace, tutto il mistero della storia della salvezza accennando alla superbia di Adamo che, pur non essendo Dio, voleva essere come Dio. E contrappone a questa superbia del primo uomo, che tutti noi sentiamo un po' nel nostro essere, l'umiltà del vero Figlio di Dio che, diventando uomo, non esitò a prendere su di sé tutte le debolezze dell'essere umano, eccetto il peccato, e si spinse fino alla profondità della morte. A questa discesa nell'ultima profondità della passione e della morte segue poi la sua esaltazione, la vera gloria, la gloria dell'amore che è andato fino alla fine.

Ed è perciò giusto - come dice Paolo - che "nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami:  Gesù Cristo è Signore!" (2, 10-11). San Paolo accenna, con queste parole, a una profezia di Isaia dove Dio dice:  Io sono il Signore, ogni ginocchio si pieghi davanti a me nei cieli e nella terra (cfr. Is 45, 23). Questo - dice Paolo - vale per Gesù Cristo. Lui realmente, nella sua umiltà, nella vera grandezza del suo amore, è il Signore del mondo e davanti a Lui realmente ogni ginocchio si piega.

Quanto meraviglioso, e insieme sorprendente, è questo mistero! Non possiamo mai sufficientemente meditare questa realtà. Gesù, pur essendo Dio, non volle fare delle sue prerogative divine un possesso esclusivo; non volle usare il suo essere Dio, la sua dignità gloriosa e la sua potenza, come strumento di trionfo e segno di distanza da noi. Al contrario, "svuotò se stesso" assumendo la misera e debole condizione umana - Paolo usa, a questo riguardo, un verbo greco assai pregnante per indicare la kénosis, questa discesa di Gesù.

La forma (morphé) divina si nascose in Cristo sotto la forma umana, ossia sotto la nostra realtà segnata dalla sofferenza, dalla povertà, dai nostri limiti umani e dalla morte. La condivisione radicale e vera della nostra natura, condivisione in tutto fuorché nel peccato, lo condusse fino a quella frontiera che è il segno della nostra finitezza, la morte. Ma tutto ciò non è stato frutto di un meccanismo oscuro o di una cieca fatalità:  fu piuttosto una sua libera scelta, per generosa adesione al disegno salvifico del Padre. E la morte a cui andò incontro - aggiunge Paolo - fu quella di croce, la più umiliante e degradante che si potesse immaginare.

Tutto questo il Signore dell'universo lo ha compiuto per amore nostro:  per amore ha voluto "svuotare se stesso" e farsi nostro fratello; per amore ha condiviso la nostra condizione, quella di ogni uomo e di ogni donna. Scrive in proposito un grande testimone della tradizione orientale, Teodoreto di Ciro:  "Essendo Dio e Dio per natura e avendo l'uguaglianza con Dio, non ha ritenuto questo qualcosa di grande, come fanno coloro che hanno ricevuto qualche onore al di sopra dei loro meriti, ma nascondendo i suoi meriti, ha scelto l'umiltà più profonda e ha preso la forma di un essere umano" (Commento all'epistola ai Filippesi, 2, 6-7).
 
Preludio al Triduo pasquale, che incomincerà domani - come dicevo - con i suggestivi riti pomeridiani del Giovedì Santo, è la solenne Messa Crismale, che nella mattinata il Vescovo celebra con il proprio presbiterio, e nel corso della quale insieme vengono rinnovate le promesse sacerdotali pronunciate il giorno dell'Ordinazione. È un gesto di grande valore, un'occasione quanto mai propizia in cui i sacerdoti ribadiscono la propria fedeltà a Cristo che li ha scelti come suoi ministri. Quest'incontro sacerdotale assume inoltre un significato particolare, perché è quasi una preparazione all'Anno Sacerdotale, che ho indetto in occasione del 150° anniversario della morte del Santo Curato d'Ars e che avrà inizio il prossimo 19 giugno. Sempre nella Messa Crismale verranno poi benedetti l'olio degli  infermi  e  quello  dei  catecumeni, e sarà consacrato il Crisma. Riti questi con i quali sono simbolicamente significate la pienezza del Sacerdozio di Cristo e quella comunione ecclesiale che deve animare il popolo cristiano, radunato per il sacrificio eucaristico e vivificato nell'unità dal dono dello Spirito Santo.
 
Nella Messa del pomeriggio, chiamata in Coena Domini, la Chiesa commemora l'istituzione dell'Eucaristia, il Sacerdozio ministeriale ed il Comandamento nuovo della carità, lasciato da Gesù ai suoi discepoli. Di quanto avvenne nel Cenacolo, la vigilia della passione del Signore, san Paolo offre una delle più antiche testimonianze. "Il Signore Gesù, - egli scrive, all'inizio degli anni cinquanta, basandosi su un testo che ha ricevuto dall'ambiente del Signore stesso - nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse:  "Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me".

Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo:  "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me" (1 Cor 11, 23-25). Parole cariche di mistero, che manifestano con chiarezza il volere di Cristo:  sotto le specie del pane e del vino Egli si rende presente col suo corpo dato e col suo sangue versato. È il sacrificio della nuova e definitiva alleanza offerta a tutti, senza distinzione di razza e di cultura. E di questo rito sacramentale, che consegna alla Chiesa come prova suprema del suo amore, Gesù costituisce ministri i suoi discepoli e quanti ne proseguiranno il ministero nel corso dei secoli.

Il Giovedì Santo costituisce pertanto un rinnovato invito a rendere grazie a Dio per il sommo dono dell'Eucaristia, da accogliere con devozione e da adorare con viva fede. Per questo, la Chiesa incoraggia, dopo la celebrazione della Santa Messa, a vegliare in presenza del Santissimo Sacramento, ricordando l'ora triste che Gesù passò in solitudine e preghiera nel Getsemani, prima di essere arrestato per poi venire condannato a morte.

E siamo così al Venerdì Santo, giorno della passione e della crocifissione del Signore. Ogni anno, ponendoci in silenzio di fronte a Gesù appeso al legno della croce, avvertiamo quanto siano piene di amore le parole da Lui pronunciate la vigilia, nel corso dell'Ultima Cena. "Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti" (cfr. Mc 14, 24). Gesù ha voluto offrire la sua vita in sacrificio per la remissione dei peccati dell'umanità. Come di fronte all'Eucaristia, così di fronte alla passione e morte di Gesù in Croce il mistero si fa insondabile per la ragione. Siamo posti davanti a qualcosa che umanamente potrebbe apparire assurdo:  un Dio che non solo si fa uomo, con tutti i bisogni dell'uomo, non solo soffre per salvare l'uomo caricandosi di tutta la tragedia dell'umanità, ma muore per l'uomo.

La morte di Cristo richiama il cumulo di dolore e di mali che grava sull'umanità di ogni tempo:  il peso schiacciante del nostro morire, l'odio e la violenza che ancora oggi insanguinano la terra. La passione del Signore continua nella sofferenze degli uomini. Come giustamente scrive Blaise Pascal, "Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante questo tempo" (Pensieri, 553).

Se il Venerdì Santo è giorno pieno di tristezza, è dunque al tempo stesso, giorno quanto mai propizio per ridestare la nostra fede, per rinsaldare la nostra speranza e il coraggio di portare ciascuno la nostra croce con umiltà, fiducia ed abbandono in Dio, certi del suo sostegno e della sua vittoria. Canta la liturgia di questo giorno:  O Crux, ave, spes unica - Ave, o croce, unica speranza!".

Questa speranza si alimenta nel grande silenzio del Sabato Santo, in attesa della risurrezione di Gesù. In questo giorno le Chiese sono spoglie e non sono previsti particolari riti liturgici. La Chiesa veglia in preghiera come Maria e insieme a Maria, condividendone gli stessi sentimenti di dolore e di fiducia in Dio. Giustamente si raccomanda di conservare durante tutta la giornata un clima orante, favorevole alla meditazione e alla riconciliazione; si incoraggiano i fedeli ad accostarsi al sacramento della Penitenza, per poter partecipare realmente rinnovati alle Feste Pasquali.

Il raccoglimento e il silenzio del Sabato Santo ci condurranno nella notte alla solenne Veglia Pasquale, "madre di tutte le veglie", quando proromperà in tutte le chiese e comunità il canto della gioia per la risurrezione di Cristo. Ancora una volta, verrà proclamata la vittoria della luce sulle tenebre, della vita sulla morte, e la Chiesa gioirà nell'incontro con il suo Signore. Entreremo così nel clima della Pasqua di Risurrezione.
Cari fratelli e sorelle, disponiamoci a vivere intensamente il Triduo Santo, per essere sempre più profondamente partecipi del Mistero di Cristo.

Ci accompagna in questo itinerario la Vergine Santa, che ha seguito in silenzio il Figlio Gesù fino al Calvario, prendendo parte con grande pena al suo sacrificio, cooperando così al mistero della Redenzione e divenendo Madre di tutti i credenti (cfr. Gv 19, 25-27). Insieme a Lei entreremo nel Cenacolo, resteremo ai piedi della Croce, veglieremo idealmente accanto al Cristo morto attendendo con speranza l'alba del giorno radioso della risurrezione. In questa prospettiva, formulo fin d'ora a tutti voi i più cordiali auguri di una lieta e santa Pasqua, insieme con le vostre famiglie, parrocchie e comunità.



(©L'Osservatore Romano - 9 aprile 2009)

    





 
Cattolico_Romano
00venerdì 10 aprile 2009 06:10
La messa crismale celebrata da Benedetto XVI nella basilica Vaticana

Il sacerdote, uomo donato a Dio
per servire gli altri


"Il sacerdote viene sottratto alle connessioni del mondo e donato a Dio, e proprio così, a partire da Dio, deve essere disponibile per gli altri, per tutti". Lo ha detto il Papa durante la messa crismale, celebrata nella mattina del Giovedì santo, 9 aprile, nella basilica Vaticana. Benedetto XVI ha ricordato che il sacerdozio "è un passaggio di proprietà, un essere tolto dal mondo e donato a Dio". Proprio per questo non si tratta di "una segregazione":  "essere consegnati a Dio - ha spiegato - significa essere posti a rappresentare gli altri".

Cari fratelli e sorelle,
Nel Cenacolo, la sera prima della sua passione, il Signore ha pregato per i suoi discepoli riuniti intorno a Lui, guardando al contempo in avanti alla comunità dei discepoli di tutti i secoli, a "quelli che crederanno in me mediante la loro parola" (Gv 17, 20). Nella preghiera per i discepoli di tutti i tempi Egli ha visto anche noi e ha pregato per noi. Ascoltiamo, che cosa chiede per i Dodici e per noi qui riuniti:  "Consacrali nella verità. La tua parola è verità. Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità" (17, 17ss). Il Signore chiede la nostra santificazione, la nostra consacrazione nella verità. E ci manda per continuare la sua stessa missione. Ma c'è in questa preghiera una parola che attira la nostra attenzione, ci sembra poco comprensibile. Gesù dice:  "Per loro io consacro me stesso". Che cosa significa? Gesù non è forse di per sé "il Santo di Dio", come Pietro ha confessato nell'ora decisiva a Cafarnao (cfr. Gv 6, 69)? Come può ora consacrare, santificare se stesso?
Per comprendere questo dobbiamo soprattutto chiarire che cosa vogliono dire nella Bibbia le parole "santo" e "santificare/consacrare". "Santo" - con questa parola si descrive innanzitutto la natura di Dio stesso, il suo modo d'essere tutto particolare, divino, che a Lui solo è proprio. Egli solo è il vero e autentico Santo nel senso originario. Ogni altra santità deriva da Lui, è partecipazione al suo modo d'essere. Egli è la Luce purissima, la Verità e il Bene senza macchia. Consacrare qualcosa o qualcuno significa quindi dare la cosa o la persona in proprietà a Dio, toglierla dall'ambito di ciò che è nostro e immetterla nell'atmosfera sua, così che non appartenga più alle cose nostre, ma sia totalmente di Dio. Consacrazione è dunque un togliere dal mondo e un consegnare al Dio vivente. La cosa o la persona non appartiene più a noi, e neppure più a se stessa, ma viene immersa in Dio. Un tale privarsi di una cosa per consegnarla a Dio, lo chiamiamo poi anche sacrificio:  questo non sarà più proprietà mia, ma proprietà di Lui. Nell'Antico Testamento, la consegna di una persona a Dio, cioè la sua "santificazione" si identifica con l'Ordinazione sacerdotale, e in questo modo si definisce anche in che cosa consista il sacerdozio:  è un passaggio di proprietà, un essere tolto dal mondo e donato a Dio. Con ciò si evidenziano ora le due direzioni che fanno parte del processo della santificazione/consacrazione. È un uscire dai contesti della vita del mondo - un "essere messi da parte" per Dio. Ma proprio per questo non è una segregazione. Essere consegnati a Dio significa piuttosto essere posti a rappresentare gli altri. Il sacerdote viene sottratto alle connessioni del mondo e donato a Dio, e proprio così, a partire da Dio, deve essere disponibile per gli altri, per tutti. Quando Gesù dice:  "Io mi consacro", Egli si fa insieme sacerdote e vittima. Pertanto Bultmann ha ragione traducendo l'affermazione:  "Io mi consacro" con "Io mi sacrifico". Comprendiamo ora che cosa avviene, quando Gesù dice:  "Io mi consacro per loro"? È questo l'atto sacerdotale in cui Gesù - l'Uomo Gesù, che è una cosa sola col Figlio di Dio - si consegna al Padre per noi. È l'espressione del fatto che Egli è insieme sacerdote e vittima. Mi consacro - mi sacrifico:  questa parola abissale, che ci lascia gettare uno sguardo nell'intimo del cuore di Gesù Cristo, dovrebbe sempre di nuovo essere oggetto della nostra riflessione. In essa è racchiuso tutto il mistero della nostra redenzione. E vi è contenuta anche l'origine del sacerdozio della Chiesa, del nostro sacerdozio.
Solo adesso possiamo comprendere fino in fondo la preghiera, che il Signore ha presentato al Padre per i discepoli - per noi. "Consacrali nella verità":  è questo l'inserimento degli apostoli nel sacerdozio di Gesù Cristo, l'istituzione del suo sacerdozio nuovo per la comunità dei fedeli di tutti i tempi. "Consacrali nella verità":  è questa la vera preghiera di consacrazione per gli apostoli. Il Signore chiede che Dio stesso li attragga verso di sé, dentro la sua santità. Chiede che Egli li sottragga a se stessi e li prenda come sua proprietà, affinché, a partire da Lui, essi possano svolgere il servizio sacerdotale per il mondo. Questa preghiera di Gesù appare due volte in forma leggermente modificata. Dobbiamo ambedue le volte ascoltare con molta attenzione, per cominciare a capire almeno vagamente la cosa sublime che qui sta verificandosi. "Consacrali nella verità". Gesù aggiunge:  "La tua parola è verità". I discepoli vengono quindi tirati nell'intimo di Dio mediante l'essere immersi nella parola di Dio. La parola di Dio è, per così dire, il lavacro che li purifica, il potere creatore che li trasforma nell'essere di Dio. E allora, come stanno le cose nella nostra vita? Siamo veramente pervasi dalla parola di Dio? È vero che essa è il nutrimento di cui viviamo, più di quanto non lo siano il pane e le cose di questo mondo? La conosciamo davvero? La amiamo? Ci occupiamo interiormente di questa parola al punto che essa realmente dà un'impronta alla nostra vita e forma il nostro pensiero? O non è piuttosto che il nostro pensiero sempre di nuovo si modella con tutto ciò che si dice e che si fa? Non sono forse assai spesso le opinioni predominanti i criteri secondo cui ci misuriamo? Non rimaniamo forse, in fin dei conti, nella superficialità di tutto ciò che, di solito, s'impone all'uomo di oggi? Ci lasciamo veramente purificare nel nostro intimo dalla parola di Dio? Nietzsche ha dileggiato l'umiltà e l'obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi. Ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta dell'uomo. Orbene, esistono caricature di un'umiltà sbagliata e di una sottomissione sbagliata, che non vogliamo imitare. Ma esiste anche la superbia distruttiva e la presunzione, che disgrègano ogni comunità e finiscono nella violenza. Sappiamo noi imparare da Cristo la retta umiltà, che corrisponde alla verità del nostro essere, e quell'obbedienza, che si sottomette alla verità, alla volontà di Dio? "Consacrali nella verità; la tua parola è verità":  questa parola dell'inserimento nel sacerdozio illumina la nostra vita e ci chiama a diventare sempre di nuovo discepoli di quella verità, che si dischiude nella parola di Dio.
Nell'interpretazione di questa frase possiamo fare ancora un passo ulteriore. Non ha forse Cristo detto di se stesso:  "Io sono la verità" (cfr. Gv 14, 6)? E non è forse Egli stesso la Parola vivente di Dio, alla quale si riferiscono tutte le altre singole parole? Consacrali nella verità - ciò vuol dire, dunque, nel più profondo:  rendili una cosa sola con me, Cristo. Lègali a me. Tìrali dentro di me. E di fatto:  esiste in ultima analisi solo un unico sacerdote della Nuova Alleanza, lo stesso Gesù Cristo. E il sacerdozio dei discepoli, pertanto, può essere solo partecipazione al sacerdozio di Gesù. Il nostro essere sacerdoti non è quindi altro che un nuovo e radicale modo di unificazione con Cristo. Sostanzialmente essa ci è stata donata per sempre nel Sacramento. Ma questo nuovo sigillo dell'essere può diventare per noi un giudizio di condanna, se la nostra vita non si sviluppa entrando nella verità del Sacramento. Le promesse che oggi rinnoviamo dicono a questo proposito che la nostra volontà deve essere così orientata:  "Domino Iesu arctius coniungi et conformari, vobismetipsis abrenuntiantes". L'unirsi a Cristo suppone la rinuncia. Comporta che non vogliamo imporre la nostra strada e la nostra volontà; che non desideriamo diventare questo o quest'altro, ma ci abbandoniamo a Lui, ovunque e in qualunque modo Egli voglia servirsi di noi. "Vivo, tuttavia non vivo più io, ma Cristo vive in me", ha detto san Paolo a questo proposito (cfr. Gal 2, 20). Nel "sì" dell'Ordinazione sacerdotale abbiamo fatto questa rinuncia fondamentale al voler essere autonomi, alla "autorealizzazione". Ma bisogna giorno per giorno adempiere questo grande "sì" nei molti piccoli "sì" e nelle piccole rinunce. Questo "sì" dei piccoli passi, che insieme costituiscono il grande "sì", potrà realizzarsi senza amarezza e senza autocommiserazione soltanto se Cristo è veramente il centro della nostra vita. Se entriamo in una vera familiarità con Lui. Allora, infatti, sperimentiamo in mezzo alle rinunce, che in un primo tempo possono causare dolore, la gioia crescente dell'amicizia con Lui, tutti i piccoli e a volte anche grandi segni del suo amore, che ci dona continuamente. "Chi perde se stesso, si trova". Se osiamo perdere noi stessi per il Signore, sperimentiamo quanto sia vera la sua parola.
Essere immersi nella Verità, in Cristo - di questo processo fa parte la preghiera, in cui ci esercitiamo nell'amicizia con Lui e anche impariamo a conoscerLo:  il suo modo di essere, di pensare, di agire. Pregare è un camminare in comunione personale con Cristo, esponendo davanti a Lui la nostra vita quotidiana, le nostre riuscite e i nostri fallimenti, le nostre fatiche e le nostre gioie - è un semplice presentare noi stessi davanti a Lui. Ma affinché questo non diventi uno autocontemplarsi, è importante che impariamo continuamente a pregare pregando con la Chiesa. Celebrare l'Eucaristia vuol dire pregare. Celebriamo l'Eucaristia in modo giusto, se col nostro pensiero e col nostro essere entriamo nelle parole, che la Chiesa ci propone. In esse è presente la preghiera di tutte le generazioni, le quali ci prendono con sé sulla via verso il Signore. E come sacerdoti siamo nella Celebrazione eucaristica coloro che, con la loro preghiera, fanno strada alla preghiera dei fedeli di oggi. Se noi siamo interiormente uniti alle parole della preghiera, se da esse ci lasciamo guidare e trasformare, allora anche i fedeli trovano l'accesso a quelle parole. Allora tutti diventiamo veramente "un corpo solo e un'anima sola" con Cristo.
Essere immersi nella verità e così nella santità di Dio - ciò significa per noi anche accettare il carattere esigente della verità; contrapporsi nelle cose grandi come in quelle piccole alla menzogna, che in modo così svariato è presente nel mondo; accettare la fatica della verità, perché la sua gioia più profonda sia presente in noi. Quando parliamo dell'essere consacrati nella verità, non dobbiamo neppure dimenticare che in Gesù Cristo verità e amore sono una cosa sola. Essere immersi in Lui significa essere immersi nella sua bontà, nell'amore vero. L'amore vero non è a buon mercato, può essere anche molto esigente. Oppone resistenza al male, per portare all'uomo il vero bene. Se diventiamo una cosa sola con Cristo, impariamo a riconoscerLo proprio nei sofferenti, nei poveri, nei piccoli di questo mondo; allora diventiamo persone che servono, che riconoscono i fratelli e le sorelle di Lui e in essi incontrano Lui stesso.
"Consacrali nella verità" - è questa la prima parte di quella parola di Gesù. Ma poi Egli aggiunge:  "Io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati in verità" - cioè veramente (Gv 17, 19). Io penso che questa seconda parte abbia un suo specifico significato. Esistono nelle religioni del mondo molteplici modi rituali di "santificazione", di consacrazione di una persona umana. Ma tutti questi riti possono rimanere semplicemente una cosa formale. Cristo chiede per i discepoli la vera santificazione, che trasforma il loro essere, loro stessi; che non rimanga una forma rituale, ma sia un vero divenire proprietà di Dio stesso. Potremmo anche dire:  Cristo ha chiesto per noi il Sacramento che ci tocca nella profondità del nostro essere. Ma ha anche pregato, affinché questa trasformazione giorno per giorno in noi si traduca in vita; affinché nel nostro quotidiano e nella nostra vita concreta di ogni giorno siamo veramente pervasi dalla luce di Dio.
Alla vigilia della mia Ordinazione sacerdotale, 58 anni fa, ho aperto la Sacra Scrittura, perché volevo ricevere ancora una parola del Signore per quel giorno e per il mio futuro cammino da sacerdote. Il mio sguardo cadde su questo brano:  "Consacrali nella verità; la tua parola è verità". Allora seppi:  il Signore sta parlando di me, e sta parlando a me. Precisamente la stessa cosa avverrà domani in me. In ultima analisi non veniamo consacrati mediante riti, anche se c'è bisogno di riti. Il lavacro, in cui il Signore ci immerge, è Lui stesso - la Verità in persona. Ordinazione sacerdotale significa:  essere immersi in Lui, nella Verità. Appartengo in un modo nuovo a Lui e così agli altri, "affinché venga il suo Regno". Cari amici, in questa ora del rinnovo delle promesse vogliamo pregare il Signore di farci diventare uomini di verità, uomini di amore, uomini di Dio. Preghiamolo di attirarci sempre più dentro di sé, affinché diventiamo veramente sacerdoti della Nuova Alleanza. Amen.



(©L'Osservatore Romano - 10 aprile 2009)
Cattolico_Romano
00venerdì 10 aprile 2009 10:16

Settimana Santa. Una guida d'autore

L'introduzione a ciascun momento del triduo sacro fatta da Joseph Ratzinger in persona, papa e teologo. La catechesi da lui rivolta ai fedeli nell'udienza generale di mercoledì 8 aprile 2009

di Benedetto XVI




Cari fratelli e sorelle, la Settimana Santa, che per noi cristiani è la settimana più importante dell'anno, ci offre l’opportunità di immergerci negli eventi centrali della redenzione, di rivivere il mistero pasquale, il grande mistero della fede. A partire da domani pomeriggio, con la Messa "in Coena Domini", i solenni riti liturgici ci aiuteranno a meditare in maniera più viva la passione, la morte e la risurrezione del Signore nei giorni del santo triduo pasquale, fulcro dell'intero anno liturgico. Possa la grazia divina aprire i nostri cuori alla comprensione del dono inestimabile che è la salvezza ottenutaci dal sacrificio di Cristo.

Questo dono immenso lo troviamo mirabilmente narrato in un celebre inno contenuto nella lettera ai Filippesi (cfr. 2, 6-11), che in Quaresima abbiamo più volte meditato. L’apostolo ripercorre, in modo tanto essenziale quanto efficace, tutto il mistero della storia della salvezza accennando alla superbia di Adamo che, pur non essendo Dio, voleva essere come Dio. E contrappone a questa superbia del primo uomo, che tutti noi sentiamo un po' nel nostro essere, l'umiltà del vero Figlio di Dio che, diventando uomo, non esitò a prendere su di sé tutte le debolezze dell'essere umano, eccetto il peccato, e si spinse fino alla profondità della morte. A questa discesa nell'ultima profondità della passione e della morte segue poi la sua esaltazione, la vera gloria, la gloria dell'amore che è andato fino alla fine. Ed è perciò giusto – come dice Paolo – che "nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore!" (2, 10-11). San Paolo accenna, con queste parole, a una profezia di Isaia dove Dio dice: Io sono il Signore, ogni ginocchio si pieghi davanti a me nei cieli e nella terra (cfr. Is 45, 23). Questo – dice Paolo – vale per Gesù Cristo. Lui realmente, nella sua umiltà, nella vera grandezza del suo amore, è il Signore del mondo e davanti a Lui realmente ogni ginocchio si piega.

Quanto meraviglioso, e insieme sorprendente, è questo mistero! Non possiamo mai sufficientemente meditare questa realtà. Gesù, pur essendo Dio, non volle fare delle sue prerogative divine un possesso esclusivo; non volle usare il suo essere Dio, la sua dignità gloriosa e la sua potenza, come strumento di trionfo e segno di distanza da noi. Al contrario, "svuotò se stesso" assumendo la misera e debole condizione umana. Paolo usa, a questo riguardo, un verbo greco assai pregnante per indicare la "kénosis", questa discesa di Gesù. La forma (morphé) divina si nascose in Cristo sotto la forma umana, ossia sotto la nostra realtà segnata dalla sofferenza, dalla povertà, dai nostri limiti umani e dalla morte. La condivisione radicale e vera della nostra natura, condivisione in tutto fuorché nel peccato, lo condusse fino a quella frontiera che è il segno della nostra finitezza, la morte. Ma tutto ciò non è stato frutto di un meccanismo oscuro o di una cieca fatalità: fu piuttosto una sua libera scelta, per generosa adesione al disegno salvifico del Padre. E la morte a cui andò incontro – aggiunge Paolo – fu quella di croce, la più umiliante e degradante che si potesse immaginare. Tutto questo il Signore dell’universo lo ha compiuto per amore nostro: per amore ha voluto "svuotare se stesso" e farsi nostro fratello; per amore ha condiviso la nostra condizione, quella di ogni uomo e di ogni donna. Scrive in proposito un grande testimone della tradizione orientale, Teodoreto di Ciro: "Essendo Dio e Dio per natura, e avendo l’uguaglianza con Dio, non ha ritenuto questo qualcosa di grande, come fanno coloro che hanno ricevuto qualche onore al di sopra dei loro meriti, ma nascondendo i suoi meriti, ha scelto l’umiltà più profonda e ha preso la forma di un essere umano» (Commento all’epistola ai Filippesi 2, 6-7).


GIOVEDÌ SANTO


Preludio al triduo pasquale, che incomincia con i suggestivi riti pomeridiani del Giovedì Santo, è la solenne Messa Crismale, che nella mattinata il vescovo celebra con il proprio presbiterio, e nel corso della quale insieme vengono rinnovate le promesse sacerdotali pronunciate il giorno dell’Ordinazione. È un gesto di grande valore, un’occasione quanto mai propizia in cui i sacerdoti ribadiscono la propria fedeltà a Cristo che li ha scelti come suoi ministri. Questo incontro sacerdotale assume inoltre un significato particolare, perché è quasi una preparazione all’Anno Sacerdotale, che ho indetto in occasione del 150.mo anniversario della morte del santo Curato d’Ars e che avrà inizio il prossimo 19 giugno. Sempre nella Messa Crismale verranno poi benedetti l’olio degli infermi e quello dei catecumeni, e sarà consacrato il Crisma. Riti questi con i quali sono simbolicamente significate la pienezza del sacerdozio di Cristo e quella comunione ecclesiale che deve animare il popolo cristiano, radunato per il sacrificio eucaristico e vivificato nell’unità dal dono dello Spirito Santo.

Nella Messa del pomeriggio, chiamata "in Coena Domini", la Chiesa commemora l’istituzione dell’Eucaristia, il sacerdozio ministeriale ed il comandamento nuovo della carità, lasciato da Gesù ai suoi discepoli. Di quanto avvenne nel cenacolo, la vigilia della passione del Signore, san Paolo offre una delle più antiche testimonianze. "Il Signore Gesù, – egli scrive, all'inizio degli anni Cinquanta, basandosi su un testo che ha ricevuto dall’ambiente del Signore stesso – nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me" (1 Corinzi 11, 23-25). Parole cariche di mistero, che manifestano con chiarezza il volere di Cristo: sotto le specie del pane e del vino Egli si rende presente col suo corpo dato e col suo sangue versato. È il sacrificio della nuova e definitiva alleanza offerta a tutti, senza distinzione di razza e di cultura. E di questo rito sacramentale, che consegna alla Chiesa come prova suprema del suo amore, Gesù costituisce ministri i suoi discepoli e quanti ne proseguiranno il ministero nel corso dei secoli. Il Giovedì Santo costituisce pertanto un rinnovato invito a rendere grazie a Dio per il sommo dono dell’Eucaristia, da accogliere con devozione e da adorare con viva fede. Per questo, la Chiesa incoraggia, dopo la celebrazione della Santa Messa, a vegliare in presenza del Santissimo Sacramento, ricordando l’ora triste che Gesù passò in solitudine e preghiera nel Getsemani, prima di essere arrestato per poi venire condannato a morte.


VENERDÌ SANTO


E siamo così al Venerdì Santo, giorno della passione e della crocifissione del Signore. Ogni anno, ponendoci in silenzio di fronte a Gesù appeso al legno della croce, avvertiamo quanto siano piene di amore le parole da Lui pronunciate la vigilia, nel corso dell’Ultima Cena. "Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti" (cfr. Marco 14, 24). Gesù ha voluto offrire la sua vita in sacrificio per la remissione dei peccati dell’umanità. Come di fronte all’Eucaristia, così di fronte alla passione e morte di Gesù in Croce il mistero si fa insondabile per la ragione. Siamo posti davanti a qualcosa che umanamente potrebbe apparire assurdo: un Dio che non solo si fà uomo, con tutti i bisogni dell'uomo, non solo soffre per salvare l’uomo caricandosi di tutta la tragedia dell’umanità, ma muore per l’uomo.

La morte di Cristo richiama il cumulo di dolore e di mali che grava sull’umanità di ogni tempo: il peso schiacciante del nostro morire, l’odio e la violenza che ancora oggi insanguinano la terra. La passione del Signore continua nella sofferenze degli uomini. Come giustamente scrive Blaise Pascal, "Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante questo tempo" (Pensieri 553). Se il Venerdì Santo è giorno pieno di tristezza, è dunque al tempo stesso, giorno quanto mai propizio per ridestare la nostra fede, per rinsaldare la nostra speranza e il coraggio di portare ciascuno la nostra croce con umiltà, fiducia ed abbandono in Dio, certi del suo sostegno e della sua vittoria. Canta la liturgia di questo giorno: "O Crux, ave, spes unica!", Ave, o croce, unica speranza!


SABATO SANTO E VEGLIA PASQUALE


Questa speranza si alimenta nel grande silenzio del Sabato Santo, in attesa della risurrezione di Gesù. In questo giorno le Chiese sono spoglie e non sono previsti particolari riti liturgici. La Chiesa veglia in preghiera come Maria e insieme a Maria, condividendone gli stessi sentimenti di dolore e di fiducia in Dio. Giustamente si raccomanda di conservare durante tutta la giornata un clima orante, favorevole alla meditazione e alla riconciliazione; si incoraggiano i fedeli ad accostarsi al sacramento della Penitenza, per poter partecipare realmente rinnovati alle feste pasquali.

Il raccoglimento e il silenzio del Sabato Santo ci condurranno nella notte alla solenne Veglia Pasquale, "madre di tutte le veglie", quando proromperà in tutte le chiese e comunità il canto della gioia per la risurrezione di Cristo. Ancora una volta, verrà proclamata la vittoria della luce sulle tenebre, della vita sulla morte, e la Chiesa gioirà nell’incontro con il suo Signore. Entreremo così nel clima della Pasqua di risurrezione.

Cari fratelli e sorelle, disponiamoci a vivere intensamente il triduo santo, per essere sempre più profondamente partecipi del mistero di Cristo. Ci accompagna in questo itinerario la Vergine Santa, che ha seguito in silenzio il Figlio Gesù fino al Calvario, prendendo parte con grande pena al suo sacrificio, cooperando così al mistero della Redenzione e divenendo Madre di tutti i credenti (cfr. Giovanni 19, 25-27). Insieme a Lei entreremo nel cenacolo, resteremo ai piedi della croce, veglieremo idealmente accanto al Cristo morto attendendo con speranza l’alba del giorno radioso della risurrezione. In questa prospettiva, formulo fin d’ora a tutti voi i più cordiali auguri di una lieta e santa Pasqua, insieme con le vostre famiglie, parrocchie e comunità.

www.chiesa.espresso.repubblica.it
Caterina63
00lunedì 13 aprile 2009 18:29
La preghiera di Benedetto XVI per le popolazioni abruzzesi al termine della Via Crucis al Colosseo

Appaia la stella della speranza
nella notte oscura dei terremotati


È stato per le popolazioni terremotate d'Abruzzo il pensiero con il quale Benedetto XVI ha concluso la tradizionale pia pratica della Via Crucis al Colosseo, nella notte del Venerdì santo. Il Papa ha seguito lo svolgimento dell'itinerario della passione restando in ginocchio sul Colle Palatino.

Cari fratelli e sorelle!
Al termine del drammatico racconto della Passione, l'evangelista san Marco annota:  "Il centurione, che si trovava di fronte a lui avendolo visto spirare in quel modo disse:  "Davvero quest'uomo era Figlio di Dio !" (Mc 15, 39). Non può non sorprenderci la professione di fede di questo soldato romano, che aveva assistito al succedersi delle varie fasi della crocifissione. Quando le tenebre della notte si apprestavano a scendere su quel Venerdì unico nella storia, quando ormai il sacrificio della Croce si era consumato e i presenti si affrettavano per poter celebrare regolarmente la Pasqua ebraica, le poche parole, carpite dalle labbra di un anonimo comandante della truppa romana, risuonarono nel silenzio dinanzi a quella morte molto singolare.

Questo ufficiale della truppa romana, che aveva assistito all'esecuzione di uno dei tanti condannati alla pena capitale, seppe riconoscere in quell'Uomo crocifisso il Figlio di Dio, spirato nel più umiliante abbandono. La sua fine ignominiosa avrebbe dovuto segnare il trionfo definitivo dell'odio e della morte sull'amore e sulla vita. Ma così non fu! Sul Golgota si ergeva la Croce da cui pendeva un uomo ormai morto, ma quell'Uomo era il "Figlio di Dio", come ebbe a confessare il centurione - "vedendolo morire così", precisa l'evangelista. 

La professione di fede di questo soldato ci viene riproposta ogni volta che riascoltiamo il racconto della Passione secondo san Marco. Questa sera anche noi, come lui, ci soffermiamo a fissare il volto esanime del Crocifisso, al termine di questa tradizionale Via Crucis, che ha riunito, grazie ai collegamenti radiotelevisivi, molta gente da ogni parte del mondo. Abbiamo rivissuto la vicenda tragica di un Uomo unico nella storia di tutti i tempi, che ha cambiato il mondo non uccidendo gli altri, ma lasciandosi uccidere appeso ad una croce. Quest'Uomo, apparentemente uno di noi, che mentre viene ucciso perdona i suoi carnefici, è il "Figlio di Dio", che - come ci ricorda l'apostolo Paolo - "non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo... umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce" (Fil 2, 6-8).

La dolorosa passione del Signore Gesù non può non muovere a pietà anche i cuori più duri, poiché costituisce l'apice della rivelazione dell'amore di Dio per ciascuno di noi. Osserva san Giovanni:  "Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna" (Gv 3, 16). È per amore nostro che Cristo muore in croce! Lungo il corso dei millenni, schiere di uomini e donne si sono lasciati affascinare da questo mistero e hanno seguito Lui, facendo a loro volta, come Lui e grazie al suo aiuto, della propria vita un dono ai fratelli. Sono i santi ed i martiri, molti dei quali restano a noi sconosciuti.

Anche in questo nostro tempo, quante persone, nel silenzio della loro quotidiana esistenza, uniscono i loro patimenti a quelli del Crocifisso e diventano apostoli di un vero rinnovamento spirituale e sociale! Cosa sarebbe l'uomo senza Cristo? Osserva sant'Agostino:  "Ti saresti trovato sempre in uno stato di miseria, se Lui non ti avesse usato misericordia. Non saresti ritornato a vivere, se Lui non avesse condiviso la tua morte. Saresti venuto meno, se Lui non fosse venuto in tuo aiuto. Ti saresti perduto, se Lui non fosse arrivato" (Discorso 185, 1). Perché allora non accoglierLo nella nostra vita?

Fermiamoci questa sera a contemplare il Suo volto sfigurato:  è il volto dell'Uomo dei dolori, che si è fatto carico di tutte le nostre angosce mortali. Il suo volto si riflette in quello di ogni persona umiliata ed offesa, ammalata e sofferente, sola, abbandonata e disprezzata. Versando il suo sangue, Egli ci ha riscattati dalla schiavitù della morte, ha spezzato la solitudine delle nostre lacrime, è entrato in ogni nostra pena ed in ogni nostro affanno.

Fratelli e sorelle! Mentre svetta la Croce sul Golgota, lo sguardo della nostra fede si proietta verso l'alba del Giorno nuovo ed assaporiamo già la gioia e il fulgore della Pasqua. "Se siamo morti con Cristo, - scrive san Paolo - crediamo che anche vivremo con Lui" (Rm 6, 8). Con questa certezza, continuiamo il nostro cammino. Domani, Sabato Santo, veglieremo in preghiera. Ma fin d'ora preghiamo insieme con Maria, la Vergine Addolorata, preghiamo con tutti gli addolorati, preghiamo soprattutto con tutti i sofferenti della zona terremotata dell'Aquila:  preghiamo perché anche a loro in questa notte oscura appaia la stella della speranza, la luce del Signore risorto.

Fin d'ora auguro a tutti:  Buona Pasqua  nella  luce  del  Signore  risorto!









La Passione del Signore nella basilica Vaticana e la Via Crucis al Colosseo

Le celebrazioni del Venerdì santo
presiedute dal Papa


Enorme, pesante la Croce mostrata venerdì notte dal Papa sul Colle Palatino. Su di essa, abbracciate al Cristo crocifisso, le vittime dell'immane tragedia che ha sconvolto l'Abruzzo. Ai suoi piedi un popolo affranto dal dolore. Capisce, ma fa difficoltà ad accettare. Lungo il percorso migliaia di Cirenei pronti a prodigarsi nell'aiutare a sostenerne il peso. E non sono mancate novelle Veroniche. Non avevano teli, ma coperte, tende e un pasto caldo.
È stata senza dubbio la riproposizione più lunga della Via Dolorosa quella vissuta ieri, Venerdì santo, 10 aprile. Alle 11 del mattino nella scuola della Guardia di finanza a Coppito, in provincia dell'Aquila, la prima stazione. Poco dopo le 22.40, sul Colle Palatino, a Roma, la quattordicesima e ultima. 



La croce, una volta di più venerdì sera, e con una forza incredibile, si è mostrata protagonista nella storia dell'umanità. Da quelle bare allineate sul campo della città dell'uomo, ferita ma non distrutta, la croce si è innalzata tra le mani del Papa, mostrata al mondo intero come simbolo della Città di Dio, nella luce eterna della indomita speranza cristiana.

Ha assunto toni particolari la tradizionale celebrazione della Via Crucis con il Papa tra il Colosseo e il Colle Palatino. Un appuntamento che solitamente richiama centinaia di milioni di persone collegate in mondovisione. Ieri poi c'era un motivo in più per essere in qualche modo presenti. C'era da pregare per le vittime del terremoto. Con il Papa. Ed è straordinario come la prima delle meditazioni che hanno accompagnato la pia pratica, composte più di un mese fa da monsignor Thomas Menamparampil, arcivescovo di Guwahati, India, sembrava essere stata scritta proprio all'indomani di questa immane tragedia. "Siamo venuti qui - si legge tra l'altro - a cantare insieme un inno di speranza. Vogliamo dire a noi stessi che tutto non è perduto nei momenti di difficoltà. Quando le cattive notizie si susseguono... quando la disgrazia ci colpisce da vicino... quando una calamità fa di noi le sue vittime... In tempi difficili non vediamo nessun motivo per credere e per sperare. Eppure crediamo. Eppure speriamo".

La croce era nelle mani del cardinale Vicario di Roma Agostino Vallini, all'interno dell'Anfiteatro Flavio. Il Papa era inginocchiato sul Colle Palatino. La preghiera corale delle migliaia di persone che gremivano tutta l'area attorno al Colosseo - tra i presenti il sindaco di Roma e il direttore del nostro giornale - ha scandito i passi dell'itinerario della croce, passata di mano di stazione in stazione.

Da quelle del cardinale Vallini a quelle di Simon Pugsley, diversamente abile, la cui sedia a rotelle era spinta da un medico e da un infermiere del Sovrano Militare Ordine di Malta, a quelle di Piero e Paola Fusco che avevano attorno Matteo, Elena e Marco i loro tre piccoli bambini; a quelle di Mauro Libianchi, anch'egli sofferente per una grave malattia; a quelle di tre religiose asiatiche Suor Lidia e le novizie Philomina Solomon e Jincy, a quelle di Maureen e Cèdric, due giovani del Burkina Faso, per essere poi sorretta nell'ultima stazione da due frati della Custodia di Terra Santa, Gianfranco Pinto Ostuni e Jihad Krayen. È stato poi il cardinale Vallini a consegnare la croce nelle mani del Papa perché la mostrasse al mondo con il suo carico di dolore ma nella luce della speranza.

Di fronte a quella stessa croce Benedetto XVI aveva poco prima sostato in silenziosa adorazione durante la celebrazione della Passione del Signore svoltasi nel pomeriggio nella basilica Vaticana. Scalzo, vestito solo con il camice bianco e la stola rossa, il Pontefice si è inginocchiato e ha baciato l'antico crocifisso ligneo - risalente al pontificato di Leone xIII - posto davanti all'altare della Confessione, spoglia di fiori e di arredi. Un gesto ripetuto poi da cardinali, arcivescovi, vescovi, prelati della Curia romana, canonici della basilica, e da una rappresentanza di sacerdoti, religiosi e laici. 



La venerazione della croce è stata il momento centrale del rito che il Papa ha presieduto dalla cattedra posta dinanzi alla statua di san Pietro nella navata centrale della basilica, le cui luci soffuse hanno dato il senso del clima penitenziale della celebrazione. Ad assistere Benedetto XVI i cardinali diaconi Lajolo e Rylko, che insieme con lui si sono inginocchiati in silenziosa preghiera davanti all'altare della Confessione all'inizio della liturgia. Il racconto della passione del Signore, tratto dal vangelo di Giovanni (18, 1 - 19, 42), è stato cantato in latino da tre diaconi, con intermezzi della Cappella Sistina diretta dal maestro Liberto. Successivamente il predicatore della Casa Pontificia padre Raniero Cantalamessa ha tenuto l'omelia.
 



Al termine il Pontefice ha guidato la preghiera universale:  dieci intenzioni tramandate dall'antica liturgia romana e proclamate in francese, inglese, polacco, russo, tedesco, portoghese, filippino, swahili, arabo e spagnolo. Quindi un diacono ha portato all'altare il crocifisso velato da un drappo rosso, che il Papa ha scoperto mentre per tre volte è risuonato nella basilica l'Ecce lignum Crucis. Al termine Benedetto XVI ha alzato la croce presentandola all'adorazione dei fedeli. Il rito si è concluso con la comunione, amministrata ai fedeli dal Pontefice e da novanta sacerdoti.
Alla celebrazione hanno partecipato ventisette cardinali, tra i quali Sodano, decano del collegio cardinalizio, Bertone, segretario di Stato, e Re, prefetto della Congregazione per i Vescovi. Con il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede erano gli arcivescovi Filoni, sostituto della Segreteria di Stato, e Mamberti, segretario per i Rapporti con gli Stati, i monsignori Caccia, assessore, Parolin, sotto-segretario per i Rapporti con gli Stati, e Nwachukwu, capo del Protocollo. Tra i numerosi presuli presenti, gli arcivescovi Viganò, nunzio apostolico, delegato per le Rappresentanze Pontificie, e Sardi, nunzio apostolico con incarichi speciali.

Accanto alla cattedra del Papa avevano preso posto gli arcivescovi del Blanco Prieto, elemosiniere di Sua Santità, e Harvey, prefetto della Casa Pontificia, il vescovo De Nicolò, reggente della Prefettura, e i monsignori Gänswein, segretario particolare di Benedetto XVI, e Xuereb, della segreteria particolare.

 


(©L'Osservatore Romano - 12 aprile 2009)
Caterina63
00lunedì 13 aprile 2009 19:18
Giovedì Santo: giornata sacerdotale ed eucaristica
  

Giovedì Santo: giornata sacerdotale ed eucaristicaIl giorno del Giovedì, nella storia, non è mai appartenuto al Triduo. La riforma liturgica del Concilio Vaticano II lo considera una introduzione. Il giovedì santo è l'ultimo giorno della Quaresima, e con la Messa In Coena Domini, da l’avvio in qualche modo al Triduo pasquale dei tre giorni «Passionis et Resurrectionis Domini». Diciamo che la memoria dell’ultima Cena è l’annuncio globale degli eventi pasquali e della loro finalità come appare chiaramente nel discorso di Gesù riportato da Giovanni.Giovedì santo è il giorno sacerdotale, dell’eucarestia e dell’amore fraterno. E’, altresì, il giorno - o per meglio dire la notte – dell’agonia del Getsemani e inizio definitivo della passione e della pasqua di risurrezione.Nel giorno del giovedì santo si celebrano due messe: al mattino nella Chiesa cattedrale il vescovo concelebra con tutto il suo presbiterio al Missa Chrismalis. Nella sera in ogni comunità parrocchiale si celebra la Missa in Coena Domini.

La Missa Chrismalis è la celebrazione eminentemente sacerdotale e rende visibile la comunione del Vescovo con il suo presbiterio. In essa i sacerdoti rinnovano nelle mani del proprio Vescovo le promesse sacerdotali.Si chiama Missa Chrismalis poiché il Vescovo in quella celebrazione consacra gli oli santi che distribuirà a tutti i sacerdoti perché in ogni comunità cristiana vi sia a disposizione l’olio dei catecumeni, (battesimo), il sacro crisma (battesimo, confermazione e ordine sacro) e l’olio degli infermi (per l’unzione dei malati).

La Messa Crismale è così la Mesa sacerdotale per eccellenza. Questo aspetto sacerdotale è altresì messo in evidenza da un elemento di grande bellezza e significato: il prefazio che esprime il parallelismo tra i sacerdozio di Gesù Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote e la vita e il ministero dei presbiteri.
 
La Messa in Coena Domini
 
La messa vespertina del Giovedì Santo si chiama in Coena Domini. Essa attualizza e commemora l’Ultima Cena di Gesù, durante la quale il Signore Gesù istituisce il sacerdozio e l’eucarestia.
Anche il rito della lavanda dei piedi si colloca nei fatti dell’Ultima Cena durante la quale Gesù affida il comandamento dell’amore fraterno. La carità deve essere il segno distintivo del cristiano e simbolizza il cuore e l’anima della fede e della vita cristiana.

Ricorda l’amato papa Benedetto: “Oltre all’istituzione del Sacerdozio, in questo giorno santo si commemora l’offerta totale che Cristo ha fatto di Sé all’umanità nel sacramento dell’Eucaristia. In quella stessa notte in cui fu tradito, Egli ci ha lasciato, come ricorda la Sacra Scrittura, il "comandamento nuovo" - "mandatum novum" - dell'amore fraterno compiendo il gesto toccante della lavanda dei piedi, che richiama l’umile servizio degli schiavi. Questa singolare giornata, evocatrice di grandi misteri, si chiude con l’Adorazione eucaristica, nel ricordo dell’agonia del Signore nell’orto del Getsemani. Preso da grande angoscia, narra il Vangelo, Gesù chiese ai suoi di vegliare con Lui rimanendo in preghiera: "Restate qui e vegliate con me" (Mt 26,38), ma i discepoli si addormentarono. Ancora oggi il Signore dice a noi: "Restate e vegliate con me". [13.4.2006]. 
 
L’Altare della Riposizione
 
La Messa si conclude con la riposizione della Santissima Eucarestia consacrata nel corso della Santa Messa nell’Altare chiamato – appunto – della Riposizione. Non si tratta del “Santo Sepolcro”! Gesù non è ancora morto! Al contrario si conserva l’Eucarestia in un luogo degno, adornato di lumi e veli: Eucarestia che sarà distribuita nel corso del Venerdì Santo quando la Chiesa non celebra la Santa Messa
 
Per antica tradizione la breve processione eucaristica verso l’Altare della Riposizione, il popolo fedele ricorda il cammino gerosolimitano di Gesù dal monte Sión, dove Egli ha celebrato l’Ultima Cena al monte degli Olivi, dove si ritirò in orazione e agonia.
Questi giorni e questi riti sono preludio al Triduo sacro del Venerdì Santo, del Sabato Santo e della Notte Pasquale della Risurrezione del Signore.


mons. Tommaso Stenico


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Un'antica tradizione interrotta con il soggiorno avignonese dei Romani Pontefici e ripresa nel 2000

Il rito del «Resurrexit» nella domenica di Pasqua


di Juan José Silvestre Valor
Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice

A Roma, nel medioevo la messa pasquale aveva un solenne preludio nella storica cappella di San Lorenzo al Laterano (oggi santuario della Scala Santa). L'oratorio chiamato ancora oggi comunemente Sancta Sanctorum, era considerato uno dei luoghi più sacri della città di Roma. In esso con la preziosa reliquia della Croce, si custodiva l'immagine Acheropita del Salvatore.


L'immagine era chiamata acheropita perché creduta non dipinta da mano d'uomo (è una parola di origine greca:  da a privativo, chèir ("mano") e poièin ("fare"), il cui significato è "non fatto da mano umana". L'origine di questa immagine è sconosciuta, ma probabilmente fu portata a Roma dall'Oriente. La prima menzione si trova nel Liber Pontificalis nella biografia di Stefano ii (752-757). Riproduce l'immagine completa del Salvatore, in grandezza quasi naturale, seduto in trono, dipinta su tela applicata sopra una tavola di legno delle dimensioni di circa 1,50 X 0,70 centimetri. 

        
sanctasanctorum.jpg image by plumedargent
(Icona originale conservata alla Scala Santa)

L'icona è stata restaurata diverse volte. Innocenzo III (1198-1216) fece coprire con un rivestimento d'argento tutta la figura, a eccezione del volto. Inoltre, più tardi, fu aperta una porticina all'altezza dei piedi, la quale permetteva di fare la lavanda rituale e l'unzione dei medesimi in talune circostanze (come nella processione del giorno dell'Assunta) e di baciarli quando il Papa si recava a venerare l'immagine.

Nel dodicesimo secolo, secondo un'antica tradizione, che già san Girolamo faceva risalire ai primi secoli cristiani, l'annuncio della Risurrezione veniva dato dal Papa, prima di recarsi a cantare la messa solenne a Santa Maria Maggiore, la basilica stazionale di Pasqua. Lo attestano il Liber politicus (anche Ordo Romanus XI), cerimoniale scritto nel 1143-1144, e il Liber censuum Romanae Ecclesiae (anche Ordo Romanus XII), redatto intorno al 1192 da Cencio Camerario, il futuro Papa Onorio III. Eccone la descrizione che riportiamo dall'Ordo Romanus xii seguendo la traduzione di Schuster:  "Il mattino di Pasqua, dopo Prima, il Pontefice Romano, rivestito di piviale bianco, con i diaconi cardinali che indossano le dalmatiche e le mitre, i suddiaconi in tunicella e gli altri ordini inferiori di chierici e i suoi cappellani, va alla cappella di San Lorenzo (...) Qui fatta orazione, (il Papa) riveste i paramenti sino alla dalmatica, quindi si reca ad adorare il Salvatore. Apre l'immagine, bacia i piedi del Salvatore dicendo tre volte:  Surrexit Dominus de sepulchro, a cui tutti rispondono:  Qui pro nobis pependit in ligno. Alleluia.

Baciato il Salvatore, si reca al trono e dà la pace all'arcidiacono, il quale dopo di lui ha baciato il piede dell'immagine, dicendogli:  Surrexit Dominus vere; questi risponde:  Et apparuit Simoni. Il secondo diacono, baciati i piedi del Salvatore, si accosta a ricevere la pace dal Sommo Pontefice e dall'arcidiacono e si pone in fila. Gli altri cardinali fanno egualmente (...) In tanto la schola canta:  Crucifixum in carne e Ego sum alpha et omega. Terminata la pace il Pontefice indossa la pianeta bianca, il pallio e la mitra solenne e in processione si va a Santa Maria Maggiore per la messa pontificale".


Col trasporto della sede in Avignone, la funzione del Resurrexit dinanzi all'Acheropita decadde e quando i Papi tornarono a Roma, la stazione di Pasqua venne trasferita nella basilica di San Pietro. Solo nella Domenica di Pasqua dell'anno 2000 il Resurrexit, l'antico rito della testimonianza di fede del Papa di fronte all'icona del Salvatore, è ripreso di nuovo.
Nello svolgimento di questo momento di preghiera, espressione di fede nella risurrezione, troviamo almeno tre elementi molto antichi, di cui il terzo non è stato ripreso nel 2000:  l'annunzio della risurrezione, la venerazione dell'icona e il bacio di pace.

Il primo elemento, l'annunzio festoso della risurrezione "Christus Dominus resurrexit!" che a Gerusalemme, come sappiamo dal suo Typicon, già nel quarto secolo era dato nell'Anastasis dal Patriarca il mattino di Pasqua, si constata comune, sebbene con forme diverse, in tutte le comunità occidentali. E così si fa tuttora nel rito bizantino.

Questo gioioso annunzio trova l'autentico significato nel testo del vangelo di Luca, che descrive lo stupore di Pietro nel vedere il sepolcro vuoto e l'attestazione degli undici che il Signore era davvero risorto ed era apparso a Simone (Luca, 24, 12.34; cfr. Giovanni, 20, 3-10). L'apparizione del Risorto a Pietro e agli altri testimoni è il fondamento teologico della fede pasquale. Così lo ricorda il Catechismo:  "Le donne furono così le prime messaggere della risurrezione di Cristo per gli stessi Apostoli. A loro Gesù appare in seguito:  prima a Pietro, poi ai Dodici. Pietro chiamato a confermare la fede dei suoi fratelli, vede dunque il Risorto prima di loro ed è nella sua testimonianza che la comunità esclama:  "Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone" (Luca, 24, 34)".

Il Papa, vescovo di Roma e successore di san Pietro, incontra il Signore risorto nell'icona del Santissimo Salvatore e con la semplicità e la spontaneità della Sacra Scrittura grida:  "Surrexit Dominus de sepulchro". Nel giorno di Pasqua, il Romano Pontefice diventa il primo testimone, davanti a tutta la Chiesa, della risurrezione del Signore.

       

Il secondo elemento, la venerazione dell'icona, risulta parimenti antico. In realtà non possiamo dimenticare che un'espressione di grande importanza nell'ambito della pietà popolare è l'uso di immagini sacre che, secondo i canoni della cultura e la molteplicità delle arti, aiutano i fedeli a porsi davanti ai misteri della fede cristiana. La venerazione per le immagini sacre appartiene, infatti, alla natura della pietà cattolica.

Ambedue gli elementi, l'annunzio della risurrezione e la venerazione dell'icona, caratteristici di questa sosta di preghiera adorante e di fede, che il Romano Pontefice fa nella mattina di Pasqua, ci collegano al linguaggio della pietà popolare. "Il linguaggio verbale e gestuale della pietà popolare, pur conservando la semplicità e la spontaneità d'espressione, deve sempre risultare curato, in modo da far trasparire in ogni caso, insieme alla verità di fede, la grandezza dei misteri cristiani (...) Una grande varietà e ricchezza di espressioni corporee, gestuali e simboliche caratterizza la pietà popolare. Si pensi esemplarmente all'uso di baciare o toccare con la mano le immagini, i luoghi, le reliquie e gli oggetti sacri. Simili espressioni, che si tramandano da secoli di padre in figlio, sono modi diretti e semplici di manifestare esternamente il sentire del cuore e l'impegno di vivere cristianamente".

Così la religiosità, come la pietà popolare, "costituisce un'espressione della fede - affermò Giovanni Paolo II il 21 settembre 2001 - che si avvale di elementi culturali di un determinato ambiente, interpretando ed interpellando la sensibilità dei partecipanti in modo vivace ed efficace. La religiosità popolare (...) ha come sorgente la fede e dev'essere, pertanto, apprezzata e favorita. Essa, nelle sue manifestazioni più autentiche, non si contrappone alla centralità della Sacra Liturgia, ma, favorendo la fede del popolo, che la considera una sua connaturale espressione religiosa, predispone alla celebrazione dei sacri misteri". Nel quadro di queste parole s'inserisce tale particolare annunzio della Risurrezione da parte del successore di Pietro, prima della celebrazione eucaristica.

       

Il rito del Resurrexit, come atto di fede, di pietà e di devozione del Romano Pontefice davanti all'icona del Santissimo Salvatore, trova il suo spazio al di fuori della celebrazione dell'Eucaristia, sebbene abbia il suo naturale coronamento nella celebrazione liturgica che si svolge subito dopo. Questa sosta di preghiera adorante, e lieto annunzio del Risorto, prepara la celebrazione.

Come ricordava Benedetto XVI il 29 giugno 2007, "la fede dei discepoli ha dovuto adeguarsi progressivamente. Essa ci si presenta come un pellegrinaggio che ha il suo momento sorgivo nell'esperienza del Gesù storico, trova il suo fondamento nel mistero pasquale, ma deve poi avanzare ancora grazie all'azione dello Spirito Santo. Tale è stata anche la fede della Chiesa nel corso della storia, tale è pure la fede di noi, cristiani di oggi. Saldamente appoggiata sulla "roccia" di Pietro, è un pellegrinaggio verso la pienezza di quella verità che il Pescatore di Galilea professò con appassionata convinzione:  "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Mt 16, 16)". E possiamo domandarci, com'è arrivato Pietro a questa fede? E che cosa viene chiesto a noi, se vogliamo metterci in maniera sempre più convinta sulle sue orme? La risposta è chiara:  "Solo l'esperienza del silenzio e della preghiera - ha scritto Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte - offre l'orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera, aderente e coerente, di quel mistero". Il rito del Resurrexit ci dispone a essere testimoni e contemplatori di questo grande mistero:  Surrexit Dominus vere et apparuit Simoni. Alleluia, alleluia, alleluia.




(©L'Osservatore Romano - 12 aprile 2009)


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