Una supplica di Benedetto XV al Sultano.... l'eccidio degli Armeni

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Caterina63
00venerdì 24 agosto 2012 20:07

Dalla lettera di Benedetto XV al sultano Mehmet V

Una supplica al sultano. Una lettera di Benedetto XV


 


 

Benedetto XV

Benedetto XV

Riportiamo un brano della lettera che papa Benedetto XV inviò, nel settembre del 1915, al sultano Mehmet V per supplicarlo di far cessare le violenze e le deportazioni a danno degli armeni.

«Ci giunge dolorosissima l’eco dei gemiti di tutto un popolo, il quale nei vasti domini ottomani è sottoposto a inenarrabili sofferenze. La nazione armena ha già veduto molti dei suoi figli mandati al patibolo, moltissimi, tra i quali non pochi ecclesiastici e anche qualche vescovo, incarcerati o inviati in esilio.
Ci vien riferito che intere popolazioni di villaggi e di città sono costrette ad abbandonare le loro case per trasferirsi con indicibili stenti e patimenti in lontani luoghi di concentrazione, nei quali oltre le angosce morali debbono sopportare le privazioni della più squallida miseria e le torture della fame.
Noi crediamo, sire, che tali eccessi avvengano contro il volere del governo di vostra maestà.

Ci rivolgiamo, pertanto, fiduciosi a vostra maestà e ardentemente la esortiamo di volere, nella sua magnanima generosità, avere pietà e intervenire a favore di un popolo, il quale, per la religione medesima che professa, è spinto a mantenere la fedele sudditanza verso la persona della stessa maestà vostra. Se vi sono tra gli armeni traditori o colpevoli di altri delitti, che essi siano legalmente giudicati e puniti.
Ma non permetta vostra maestà, nell’altissimo suo sentimento di giustizia, che nel castigo siano travolti gl’innocenti e anche sui traviati scenda la sovrana sua clemenza. Dica vostra maestà l’invocata e possente sua parola di pace e di perdono e la nazione armena, resa sicura da violenze e da rappresaglie, benedirà, al nome augusto del suo protettore».


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Nota dal TotusTuus
sullo stesso argomento:

Genocidio armeno, missionari testimoni










Caterina63
00venerdì 24 agosto 2012 20:10

Cronache di poveri eroi


Che ne fu dei quattromila armeni che grazie a un’eroica resistenza sul Mussa Dagh e all’intervento francese sfuggirono al genocidio del 1915? Un destino difficile e contrastato. Marco Tosatti e Flavia Amabile ne hanno ricostruito la storia in un libro. Intervista


Intervista a Marco Tosatti di Giovanni Ricciardi


Corpi di armeni trucidati da turchi. Dice Zekiyan: «Il genocidio rappresentò la prima tragica premessa della costruzione di una “nuova era” per la nazione turca»

Corpi di armeni trucidati da turchi. Dice Zekiyan: «Il genocidio rappresentò la prima tragica premessa della costruzione di una “nuova era” per la nazione turca»

Una bandiera bianca sventola sulla cima del Mussa Dagh. Non è una bandiera di resa, ma una richiesta d’aiuto.
È l’agosto del 1915. Nella tremenda cornice della Grande Guerra, un evento ancora più terribile si sta consumando nelle fertili terre dell’Anatolia orientale: lo sterminio di un milione e mezzo di armeni, il primo genocidio del XX secolo.


La bandiera è quella dei quattromila armeni che, rifiutando di obbedire all’ordine di deportazione intimato dai militari turchi – destinazione: il deserto siriano di Deir-es-Zor e la morte –, decisero di sostenere un assedio su quella montagna, a nord del Libano, vicino Antiochia, nel punto in cui la costa del Mediterraneo disegna quasi un angolo retto e marca il profilo della penisola anatolica separandola dal resto del Medio Oriente. Quarantacinque giorni di resistenza eroica, sorretta dalla disperazione e da una nebbia che impediva all’esercito turco le manovre più elementari. Finché la nave francese Guichen non avvistò la loro bandiera e li pose in salvo: un piccolo “resto” di fortunati nel mare della disperazione.

La loro vicenda era stata immortalata dal celebre romanzo dell’ebreo austriaco Franz Werfel, che vide la luce nel 1933, l’anno in cui Hitler sale al potere. E sarà proprio Hitler, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, a rimarcare ai suoi generali, prima di invadere la Polonia e accingersi allo sterminio di due milioni di ebrei polacchi: «Chi si ricorda oggi del massacro degli armeni?».
Per fortuna la previsione di Hitler non si è realizzata. Ma solo negli anni Ottanta in Italia hanno cominciato a vedere la luce i primi libri sul tema. Il merito va soprattutto alla casa editrice Guerini, che vi dedica da tempo una collana e che quest’anno, in occasione del novantesimo anniversario del genocidio, ha presentato l’ultima fatica di Marco Tosatti e Flavia Amabile: Mussa Dagh: gli eroi traditi. Un libro-inchiesta che racconta il seguito di quella storia: dove finirono gli eroi del Mussa Dagh, che vita fecero, quali speranze riuscirono a realizzare, a quali delusioni andarono incontro. Ne parliamo con uno dei due autori, da più di vent’anni vaticanista della Stampa.

Quando è sorto in lei l’interesse per la “questione armena”?
MARCO TOSATTI: A metà degli anni Novanta Flavia Amabile e io facemmo un viaggio in Siria, e giungemmo ad Aleppo; sapevo che c’era un albergo, il Baron Hotel, dove Lawrence d’Arabia aveva a lungo soggiornato, e dove c’erano degli oggetti che gli erano appartenuti. L’albergo era molto délabré, ma affascinante (e lo è ancora). Una sera, per caso, il padrone, Armen Mazloumian, ci raccontò la storia della sua famiglia e dell’albergo. Una storia affascinante. Rientrammo a Roma e decidemmo di scrivere un libro (previo un altro soggiorno ad Aleppo, per raccogliere il materiale). Nacque così I Baroni di Aleppo. E scoprimmo ciò che avevamo ignorato prima: che cosa erano gli armeni, che cosa era stato il genocidio del 1915 e degli anni seguenti, e il fatto che quell’orrore era un qualche cosa di ancora aperto, perché il governo di Ankara conduce una serrata politica negazionista, contro ogni evidenza. Abbiamo visto che in Italia (compresi i libri di storia sui quali avevamo studiato) non si parlava mai di questo problema, che non esistevano libri che affrontavano l’argomento, e abbiamo pensato che forse sarebbe stato giusto fare qualche cosa perché le cose cambiassero. Anche perché, come ha scritto Yossi Sarid, un «genocidio orfano è il padre di altri genocidi».

Come nasce l’idea di quest’ultimo libro?
TOSATTI: Abbiamo letto I quaranta giorni del Mussa Dagh, quel romanzo capolavoro scritto da Franz Werfel, un grande autore mitteleuropeo. E con Flavia abbiamo deciso di andare a vedere e verificare, da giornalisti, se era proprio andata così e, soprattutto, che cosa era successo “dopo” che quel piccolo popolo di montanari, circa quattromila persone, era stato salvato dalle navi francesi che li sottrassero allo sterminio. Purtroppo non esistevano documenti in nessun’altra lingua che l’armeno. Abbiamo passato un paio di estati a Venezia, dove il professor Boghos Levon Zekiyan organizza corsi estivi di armeno, continuando poi a studiare a Roma con Seta Martayan; così siamo stati in grado di tradurre i testi che ci interessavano. Ne abbiamo trovati, grazie all’aiuto di molti amici armeni, in Libano, a Beirut e ad Anjar, a Parigi, dove abbiamo fatto delle ricerche allo Shat (“Service Historique de l’Armée de Terre”) e abbiamo rintracciato dei testi alla Bibliothèque “Nubar Pashà” di Parigi, e altri ne abbiamo trovati negli Stati Uniti. Ci è sembrato giusto offrire al pubblico, almeno quello italiano, queste storie; sono belle, costituiscono una vera e propria saga, e soprattutto, secondo noi, rappresentano un inno alla vita e alla speranza anche in un contesto che più tragico e tremendo non potrebbe essere, quello di un genocidio assolutamente spietato, e per di più colorato da motivazioni religiose, perché se i mandanti erano sostanzialmente dei positivisti atei o agnostici, hanno saputo sfruttare molto bene una religione, quella musulmana, contro i cristiani.

Perché avete scelto come titolo Gli eroi traditi?
TOSATTI: Non c’è dubbio che il popolo del Mussa Dagh fosse composto in larga parte da eroi. Uomini, donne e bambini, piuttosto che accettare l’ordine di deportazione, che voleva dire morte sicura, sono saliti sulla loro montagna, prospiciente il mare, vicino ad Alessandretta, e hanno resistito per due mesi agli attacchi dell’esercito turco. E in seguito, una volta salvati, molti si sono arruolati nella Legione d’Oriente per andare a combattere. Sono stati traditi varie volte. La prima, nel 1939, quando la Francia ha ceduto il sangiaccato di Alessandretta e il Mussa Dagh alla Turchia per cercare di comprare la neutralità di Ankara nella Seconda guerra mondiale. Poi quando sono stati collocati a Basit, un luogo disperato sulla costa siriana, e poi ad Anjar, un altro posto desolato nella Valle della Bekaa che sono riusciti a trasformare in giardino. Più in generale, mi sembra che, dopo essere stati abbandonati dalle potenze vincitrici nel 1919, adesso, di recente, si sia consumato nei confronti degli armeni un altro tradimento. Il Parlamento europeo aveva posto come condizione per i negoziati di adesione della Turchia alla Ue il riconoscimento del genocidio. Ma la Commissione ha molto addolcito quello che era un “paletto” ben preciso. In fondo si tratta solo di un’ecatombe di cristiani accaduta novant’anni fa… La memoria è un lusso riservato ad altri.

F. Amabile-M. Tosatti, Mussa Dagh. Gli eroi traditi, Guerini e Associati, Milano 2005,154 pp., euro 14,00

F. Amabile-M. Tosatti, Mussa Dagh. Gli eroi traditi, Guerini e Associati, Milano 2005,154 pp., euro 14,00

Cercando materiale per il libro, ha avuto modo di raccogliere testimonianze degli ultimi sopravvissuti e di visitare luoghi legati alla vicenda del Mussa Dagh. Qual è il momento che più le è rimasto impresso?
TOSATTI: La visita ad Anjar. Vedere e toccare la bandiera, bianca con una grande croce rossa, che ha sventolato sul Mussa Dagh e che ha segnalato la presenza di quei cristiani alle navi francesi, è stato un momento indimenticabile.

Fino a quindici anni fa quasi nessuno in Italia si occupava del genocidio armeno. Come spiega l’ampio spazio che la stampa ha dato quest’anno al tema?
TOSATTI: Vari fattori hanno contribuito. Sono usciti – grazie anche a editori coraggiosi come Guerini – numerosi libri sull’argomento. Quando con Flavia abbiamo cominciato a interessarci al tema, c’erano uno o al massimo due titoli. Poi il problema dell’ingresso della Turchia in Europa ha acuito l’interesse e le sensibilità anche sul tema del riconoscimento del genocidio. L’Europa non è certamente un club cristiano, ma forse il problema del negazionismo di Ankara getta una luce inquietante su altri problemi: democrazia interna, libertà religiosa, libertà di espressione, multiculturalismo. E il fatto che tre università turche che avevano organizzato conferenze di studio sul tema abbiano rinviato sine die l’appuntamento, dopo che il ministro della Giustizia aveva apostrofato come “traditori” gli organizzatori, non può che accrescere le preoccupazioni. Chi stiamo per far entrare in Europa? È una cartina di tornasole importante, forse determinante. E il genocidio armeno non è assimilabile ad altre, sia pure crudeli, forme di spostamento di popoli quali ne abbiamo viste nel secondo dopoguerra, come invece sostenuto da qualcuno. È stato un vero e proprio genocidio, e secondo molti – fra cui, per esempio, il già citato Yossi Sarid – se la comunità internazionale l’avesse punito allora come avrebbe dovuto, forse non ci sarebbe stata la Shoah.


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Caterina63
00venerdì 24 agosto 2012 20:12
Articolo pubblicato su Millenovecento n.10 agosto 2003

di Mirella Galletti


I prodromi dei massacri degli armeni si devono ricercare nei mutamenti del quadro politico internazionale durante il XIX secolo. Fino ad allora i viaggiatori europei riportavano che il popolo armeno era considerato “Millet-i Sadica” (La comunità fedele), ma l’indebolimento dell’impero ottomano cambiò radicalmente la situazione. Il problema armeno esplose  nel XIX secolo, quando l’espansione russa  nel Caucaso e nei Balcani cambiò la storia degli armeni, come degli altri popoli della regione. Al termine di tre decenni di continue guerre contro l’impero persiano e quello ottomano la Russia annetté l’Armenia orientale: il Karabag (trattato di Gulistan, 1813), Erevan e Nakhicevan (1828), le regioni di Kars e Ardhan (1877-1878).
 
La frontiera con l’Iran fu stabilita nel 1828, quella con l’impero ottomano restò contesa fino al XX secolo. La Russia ottenne , nelle clausole incluse nei trattati,  che gli armeni sudditi persiani e ottomani fossero autorizzati a emigrare nelle province incluse nell’impero zarista, che spesso erano state in precedenza terre armene abbandonate nel corso delle guerre ottomano-persiane. Circa 150 mila armeni dell’Iran  settentrionale e dell’Anatolia orientale si trasferirono in queste regioni, dando vita alla formazione di un nuovo polo di presenza armena. nella provincia di Erevan erano circa 20 mila nel 1827 e salirono a 700 mila alla fine del secolo.

Alla vigilia della prima guerra mondiale la comunità armena in Russia contava  1,8 milioni di membri (1). Questo periodo è anche il tempo di rapide trasformazioni sociali. Mentre la vecchia aristocrazia, la classe degli amirà (titolo nobiliare ottomano), raggiunse il culmine di prosperità nella prima metà dell’ottocento  per poi iniziare la parabola discendente, emersero nuove classi di mercanti, professionisti, artigiani come gli orefici, e soprattutto una nuova classe di intellettuali. Di questi molti avevano frequentato le università occidentali ed erano spesso in conflitto ideologico o di interessi con gli amirà e i loro circoli.

L’impatto politico e culturale  con l’Armenia russa da un lato, e le nuove idee nazionaliste e liberali provenienti dall’Europa dall’altro, influenzarono  profondamente gli armeni ottomani, soprattutto la nascente classe media, e stimolarono la crescita e stimolarono la crescita di un attivo movimento nazionalista armeno. Ma gli ottomani consideravano il movimento armeno come una minaccia mortale per l’impero. Si potevano abbandonare i territori europei, ma la rinuncia all’Armenia avrebbe comportato non solo la mutilazione, ma la dissoluzione dell’impero, in quanto la regione contesa si stende dal Caucaso al mar Mediterraneo, nel cuore dell’area turca.

CON IL DECLINO DELL’IMPERO OTTOMANO
, le condizioni si deteriorarono divenendo sempre più oppressive. la crescita demografica, le ondate successive di profughi musulmani (ceceni, lazi, circassi e altri) provenienti da Crimea, Balcani, Caucaso, la sedentarizzazione dei nomadi (curdi, circassi, ecc.) modificarono i rapporti tra le popolazioni, accentuarono la pressione sulla terra e moltiplicarono i problemi connessi alle proprietà terriere. Si aggravò così la situazione della popolazione armena, in grande maggioranza contadina.


Con la diffusione del modello dello stato-nazione, l’incrociarsi di popoli verso alcuni “santuari” modificò in profondità, a detrimento degli armeni, la carta etnica, i rapporti di forza, i modelli di coabitazione, la percezione dell’altro. Di fatto gli armeni, che all’inizio del XIX secolo si identificavano come una comunità religiosa, accolsero come liberatori le truppe zariste che talora erano condotte da generali armeni come Matatov o Lazarev. L’espansione russa concorse ad alimentare nuove speranze tra gli armeni, che a più riprese sollecitarono l’intervento russo nella speranza della formazione di un reame armeno sotto la protezione di San Pietroburgo.

Volontari armeni affiancarono l’esercito zarista nelle guerre russo-ottomane. All’indomani della guerra russo-ottomana, nel trattato di Santo Stefano (1877) l’art.16 previde nelle regioni  armene una serie di riforme garantite dai russi. Ma il trattato di Berlino (1878), in seguito a un rovesciamento delle alleanze, rese meno pesanti gli obblighi della Turchia e affidò alla Gran Bretagna la sorveglianza sull’approvazione delle riforme, le quali rimasero tuttavia lettera morta (2).

IL CONGRESSO DI BERLINO
segnò quindi l’ingresso ufficiale della questione armena nella diplomazia internazionale moderna. venne imposta per la prima volta l’internazionalizzazione della questione armena come elemento della questione d’oriente. Come condizione si degradarono le condizioni di vita degli armeni rimasti in Anatolia, poiché gli ottomani li consideravano agenti della potenza russa. Il sultano Abdül Hamid II promosse una politica di popolamento curdo delle regioni a maggioranza armena per modificare i rapporti etnici. L’impatto politico e culturale con l’Armenia russa, che godeva di una certa autonomia, e le nuove idee nazionaliste provenienti dall’Europa stimolarono lo sviluppo del movimento armeno.


Gli armeni furono così considerati una quinta colonna all’interno dell’impero e vennero decimati nell’arco di un ventennio. I massacri del 1894-96 provocarono 300 mila vittime, quelli di Adana nel 1909 circa 30 mila. Il sultano Abdül Hamid II cercò di contrastare il nazionalismo armeno strumentalizzando i curdi, che rivendicavano aree in comune con gli armeni, e a questo fine istituì l’Hamidiye, la cavalleria curda.

Avvennero massacri nel Kurdistan e anche a Istambul nel 1894.96. Questo massacro degli armeni determinò l’intervento europeo e russo in favore dei cristiani e l’impero ottomano fu costretto a promulgare nel 1895 una legge di riforme per migliorare le condizioni della popolazione armena. veniva impedita la liberaà di movimento delle tribù nomadi curde in Armenia e l’Hamidiye fu disarmata. Anche se le leggi non vennero interamente applicate, ebbero una profonda eco tra i curdi, i quali temevano sempre più che l’appoggio europeo alla causa armena si rivolgesse contro di loro. Inoltre la propaganda governativa sosteneva che in un’Armenia autonoma o indipendente i curdi sarebbero stati dominati e soggiogati dai cristiani.

Questa notizia sembrava avvalorata dallo stesso movimento armeno, che reclamava l’indipendenza per la grande Armenia,riferendosi così all’antico territorio armeno, senza considerare i mutamenti demografici intervenuti negli ultimi secoli per cui ora parte dell’area era abitata dai curdi. per i curdi questa richiesta era una provocazione (3).

1915: inizia lo sterminio / 2

La situazione si aggravò con lo scoppio del primo conflitto mondiale. Dall’inizio della guerra, gli armeni ottomani si comportarono in generale come sudditi leali e si arruolarono nell’esercito turco. Da parte loro gli armeni russi furono normalmente incorporati nell’esercito russo e mandati sui fronti europei. Durante i primi mesi della guerra alcuni armeni russi si arruolarono nei corpi di volontari che servivano da esploratori all’esercito zarista: replica russa del progetto turco proposto agli armeni  a Erzurum alcuni mesi prima.

Il rifiuto di Erzurum e la formazione di questi battaglioni di volontari convinsero i Giovani Turchi del tradimento armeno. L’esercito turco subì la disfatta del Caucaso. Ebbero così inizio i provvedimenti anti-armeni. A partire dal gennaio 1915, i soldati e gendarmi armeni sono privati delle armi, riuniti in gruppi da 500 a 1.000 uomini in battaglioni di lavoro, e progressivamente giustiziati in luoghi isolati. Da aprile venne applicato il piano di deportazione e sterminio della popolazione armena.

Il pretesto era fornito dalla resistenza degli armeni di Van che furono salvati da uno sfondamento russo condotto dai volontari armeni del Caucaso. Durante l’assedio turco a Van (18 aprile-16 maggio 1915), il console italiano a Sbordone, che era rimasto l’unico rappresentante delle potenze europee a Van, nutrì e alloggiò gratuitamente una sessantina di abitanti che sierano rifugiati presso il consolato italiano (6).
 
QUANDO LA NOTIZIA DEI MOVIMENTI ARMATI DI VAN raggiunse Istambul, circa 650 personalità, scrittori, poeti, avvocati, medici, religiosi, uomini politici, furono imprigionati tra il 24 e il 25 aprile 1915, poi deportati e assassinati nei mesi seguenti. Fu così eliminata quasi tutta l’intelligencija armena dell’epoca. A partire dal 24 aprile il governo ordinò la deportazione degli armeni dei vilayet  (province) orientali. Un’organizzazione speciale (Os) fu incaricata di eseguire l’impresa. era formata da condannati per delitti comuni, liberati dalle carceri. I responsabili locali dell’ Os beneficiarono di un potere discrezionale e potevano spostare a proprio piacimento qualsiasi funzionario recalcitrante.

IL METODO IMPIEGATO
, l’ordine di evacuazione delle città, l’itinerario delle colonne di deportati, tutto conferma l’esistenza  di un comando centralizzato che controllava lo svolgimento del programma. In ogni città, in ogni villaggio, l’ordine di deportazione era annunciato o affisso. le famiglie disponevano di due giorni per radunare gli effetti personali. I beni erano sequestrati o venduti. Notabili, membri dei partiti armeni, sacerdoti e uomini giovani furono arrestati, costretti a firmare confessioni inventate, poi giustiziati di nascosto in piccoli gruppi. I convogli di deportati erano composti di donne, vecchi, bambini. nei villaggi remoti, le famiglie massacrate e le case incendiate o occupate. da maggio a giugno le province orientali furono devastate, ogni protezione agli armeni fu severamente punita


LE NAZIONI DELL’INTESA
ingiunsero al governo turco, al partire dal 10 maggio, di porre fine ai massacri. la Turchia ufficializzò mediante decreto l’ordine di deportazione che era in realtà una forma di sterminio. la popolazione armena fu allontanata dai luoghi di origine, dovette raggiungere apiedi il deserto della Siria settentrionale e ben pochi sopravvissero alle marce forzate. Migliaia di cadaveri si ammucchiarono lungo i percorsi.  Alberi e pali del telegrafo erano carichi di impiccati.


Di 1,2 milioni di armeni presenti nei sette vilayet orientali circa 300 mila poterono raggiungere il Caucaso con l’aiuto russo. Gli altri uccisi o deportati, 200 mila donne e bambini rapiti. Non arrivarono più di 50 mila sopravvissuti ad Aleppo, punto di convergenza dei convogli dei deportati. A fine luglio 1915, fu attuata la deportazione degli armeni di Anatolia orientale e occidentale e di Cilicia, zone lontane dal fronte dove la presenza armena non poteva essere considerata un pericolo per la sicurezza. le colonne di deportati erano dirette  verso Aleppo e poi il deserto siriano o quello mesopotamico. I campi di raggruppamento siriani accolsero 120 mila rifugiati che saranno rimpatriati in Cilicia alla fine della guerra.

Duecentomila armeni giunsero a Dei al-Zor. Gli armeni, soprattutto protestanti e cattolici furono salvati grazie all’intervento delle missioni protestanti e del nunzio apostolico. Altri riuscirono a nascondersi presso amici curdi e turchi. Si cita l’esempio di una delegazione curda che andò al consolato britannico  ad Aleppo per chiedere aiuti per gli armeni  che avevano protetto, in quanto non avevano più i mezzi per continuare ad aiutarli (7). Viene riportato che alcuni ufficiali turchi, che avevano partecipato al saccheggio e al massacro dei villaggi  armeni dissero: «venendo abbiamo sterminato gli armeni, al ritorno ci sbarazzeremo dei curdi» (8).

LA DEPORTAZIONE COINVOLSE
gli armeni di tutte le province dell’impero ottomano, eccetto i residenti di istambul e Smirne. Ci furono delle resistenze a Urfa, Sabin, Mussa-Dagh. Venne attuato lo sradicamento totale del popolo armeno dal territorio anatomico, dove aveva abitato per oltre due millenni. Alla fine della guerra oltre metà del popolo armeno ottomano era scomparso. Il bilancio del genocidio  non è univoco. secondo Bernard Lewis (9)  causò 1,5 milioni di vittime.secondo statistiche del Patriarcato armeno, alla vigilia della guerra la popolazione armena nell’impero ottomano si attestava sui 2 milioni. tenuto conto dei rifugiati in Russia, la stima dei sopravvissuti è di 600 mila.


Nel 1915 da 700 a 800 mila armeni furono massacrati, e da 300 a 500 mila morirono durante la deportazione nei deserti di Siria e Mesopotamia. Infine circa 10 mila tra donne e bambini rapiti da turchi e curdi cambiarono definitivamente la loro identità. la rigogliosa comunità armena si ridusse a 50 mila unità a Istambul a gruppi sparsi in Anatolia. Al termine della guerra l’area armena era spopolata. era stata svuotata dal suo elemento etnico più antico e culturalmente più evoluto. Mancavano i servizi e le attività che erano prerogativa degli armeni; i curdi erano impreparati a sostituirli in queste attività produttive.

Delle circa 2 mila chiese e cappelle armene, di altrettante e più scuole, di innumerevoli istituzioni di beneficenza e cultura non resta quasi più traccia. Il genocidio si consumò in uno sradicamento totale, quello che vuole appunto indicare la lingua armena come “Metz Yeghern” (Grande crimine). Atto fondatore della diaspora moderna, ha spostato definitivamente il centro di gravità dell’Armenia a est del fiume Arasse, nel Caucaso. I sopravvissuti si dispersero nei cinque continenti, ma soprattutto nel Vicino e Medio oriente (Siria,Egitto, Libano, Persia), in Francia e Stati Uniti.

Gli armeni rimasti costituirono il 18 maggio  1918 la repubblica d’Armenia indipendente che resse fino al 1920. Il trattato di Sèvres riconobbe il diritto all’indipendenza  del popolo armeno che sperava di poter ricostituire la grande Armenia del Medioevo. ma le azioni militari turche indussero gli armeni ad optare per l’annessione all’Unione Sovietica, dove si è concentrata oltre la metà dei 6-7 milioni di armeni.

Il 2 dicembre 1920 viene proclamata la repubblica socialista sovietica d’Armenia, con capitale Erevan. E’ vanificata la realizzazione di uno stato indipendente armeno, ma gli armeni ritrovano una patria. Il trattato di Losanna del 24 luglio 1923 tra le grandi potenze e la nuova repubblica turca non fa menzione dell’Armenia o dei diritti del popolo armeno. la vita culturale armena viene incentivata dall’università di Erevan e l’Armenia diventa il riferimento degli armeni della diaspora. E negli anni cinquanta inizia l’espansione economica e demografica della giovane repubblica che nel 1991 proclama l’indipendenza.

Genocidio di un popolo. Il dibattito storiografico / 3

 Per  decenni la comunità armena si è battuta affinché fosse riconosciuto ufficialmente il genocidio da parte della Turchia e del consesso internazionale. Il dibattito sul genocidio armeno si è protratto per tutto il XX secolo, spesso in maniera strumentale, a dimostrazione di quanto l’argomento sia scottante. le corresponsabilità del governo tedesco sono documentate da Vahakn Dadrian, che ha svolto un’ampia ricerca negli archivi tedeschi, austriaci e ottomani.

Ufficiali e civili tedeschi presenti in Turchia durante la prima guerra mondiale parteciparono alla preparazione e alla giustificazione ideologica dei massacri. La Germania non volle esercitare pressioni sulle autorità turche per fermare i massacri e optò per una politica di non ingerenza  nella politica interna turca (10). Il dolore e l’angoscia del primo genocidio del XX secolo non sembrano stemperarsi con il passare dei decenni, anzi, i sopravvissuti e i loro discendenti con determinazione e caparbietà perseguono il riconoscimento ufficiale di quello sterminio. La negazione del genocidio viene considerata una seconda morte e definita «il crimine del silenzio».

Le autorità turche hanno sempre mantenuto un atteggiamento tetragono di negazione del genocidio, facendo ricadere sul «tradimento armeno» per la partecipazione, al fianco dell’esercito russo,  di battaglioni di volontari armeni provenienti dal Caucaso e dalla Turchia. negano i fatti, contestano il numero delle vittime, invocano il passare del tempo e pretendono l’impunità, anche perché il riconoscimento del crimine implicherebbe le dovute riparazioni. hanno cercato strenuamente di impedire ogni riferimento al genocidio del popolo armeno nei documenti dell’Onu.

La storiografia turca ha sempre sostenuto le tesi ufficiali che negano il genocidio. fanno eccezione pochissimi intellettuali turchi che affermano espressamente la veridicità del genocidio armeno: tra i più noti  Taner Akçam (11). la posizione negazionista turca è sempre stata confutata punto per punto dagli storici armeni (12). Come ha ricordato Claudio Magris «il primato del novecento nell’abominio (e, al suo interno, del nazismo) non consiste o non consiste solo nel numero delle vittime o nella volontà di distruzione, scatenata anche in passato da parte di alcuni popoli verso altri, bensì nella lucida ed esplicita pianificazione razionale dello sterminio, col suo connubio di alta razionalità scientifico-tecnologica e di immane barbarie…» (13).

Dalla fine del secondo conflitto mondiale gli armeni hanno moltiplicato le pressioni sull’Onu per riesaminare i crimini di guerra, mentre la Turchia è sempre più rigida a negare il genocidio, man mano che la sua posizione si consolida in occidente. Le divisioni tra i partiti armeni hanno impedito una strategia unitaria, per cui le attività armene all’Onu sono indebolite dalla mancanza di unità che ne inficia la credibilità. Inoltre gli anni ottanta sono stati caratterizzati dal terrorismo armeno contro obiettivi turchi con l’obiettivo di ottenere il riconoscimento internazionale del genocidio e con la velleità di liberare i territori dell’Armenia turca.

Dal 1975 un gruppo di armeni membri o simpatizzanti del Comité de défense de la cause arménienne (Cdca) segue regolarmente la questione del genocidio presso l’Onu a Ginevra, dove si tengono le sedute della commissione e della sotto-commissione, per allacciare i rapporti con le delegazioni degli stati,sviluppare i rapporti con i funzionari dell’Onu e le organizzazioni non governative. nell’agosto 1985, nel settantesimo anniversario del genocidio e dopo anni di scontri ed omissioni, la sotto-commissione dei diritti dell’uomo  delle Nazioni Unite nel Rapporto sul crimine del genocidio in un paragrafo ha riconosciuto il genocidio del popolo armeno, con l’approvazione a forte maggioranza del rapporto Withaker, che evidenzia la strategia delle autorità turche di eliminazione del popolo armeno.

Il genocidio fu pure riconosciuto dal Parlamento europeo nella seduta del 18 giugno 1987. in precedenza anche il tribunale permanente dei popoli aveva riconosciuto il genocidio armeno durante una sessione del 1984, decisione che ebbe vasta risonanza (14). Da un genocidio dimenticato,si è passati a un genocidio contestato, che perpetua i traumi di un evento che ha mutato radicalmente il corso della storia armena. Oltre ai turchi anche alcuni ebrei, per fare emergere nella sua unicità il genocidio commesso dai nazisti, tendono a relegare il genocidio armeno a massacri. esemplare il caso dello storico Bertrand Lewis, che in un’intervista a Le Monde (16 novembre 1994) aveva sostenuto che la qualificazione di genocidio era la «versione armena della storia». Questa dichiarazione aveva scatenato le proteste di docenti universitari, una serie di processi per aver negato un crimine contro l’umanità da parte di associazioni armene e gli è valsa una condanna dal tribunale di Parigi (21 giugno 1995) (15).

Note

(1) Claire Mouradian, L’Arménie, Paris, Press Universitaires de France, 1996, p.42
(2) Francesco Sidari, La questione armena nella politica delle Grandi Potenze dalla chiusura del Congresso di Berlino del 1878 al trattato di Losanna del 1923, Padova, CEDAM, 1962, pp.322
(3) kamal Mazhar Ahmad, Kurdistan fi sanawat al-harb al-‚alamiyyah al-ulà (Il Kurdistan negli anni della prima guerra mondiale), Baghdad, Magmà al-‘ilmi al-kurdi, 1977, p.268; trad. inglese: Kamal Madhar Ahmad, Kurdistan durung the First World War, London, Saqui Books, 1994, p.234
(4) Boghos Levon Zekiyan, La spiritualità armena. Il libro della lamentazione di Gregorio di Nazarek. Traduzione e note di Boghos Levon Zekiyan, Roma, Edizioni Studium, 1999, pp.25-26
(5) Idem, pp.126-127
(6) Fra Bernardo M.Goormachtigh, Dalle missioni domenicane d’oriente (appunti di un testimone), Il Rosario – memorie domenicane – a.34, serie III, vol. IV, 1917, pp.31-39
(7) Johannès Lepsius, Le Rapport secret di dr. Johannès Lepsius sur les massacres d’Armènie, Paris, Payot, 1918, pp.329 ; Arnold J. Toynbee, Armenian atrocities. The murder of the nation, New York-Toronto-London, Hodder&Stoughton, 1915, p.146
(8) Thomas Bois, Connaissance des Kurdes, Beyrouth, Khayats, 1965, p.146
(9) Bernard Lewis, The Emergence of Modern Turkey, Oxford, Oxford University Press, 1968, p.356
(10) Vahakn Dadrian, German Responsibility in the Armenian genocide, Watertown –Mass.- Blue Crane Books, 1996, pp.304
(11) Inayetullah Cemal Özkaya, Le peuple arménienne et les tentatives de réduire le peuple turc en servitude, Istambul, institut pour l’etude del la Turquie, 1971, pp.336; Mim Kemal Öke, The Armenian question 1914-1923, Oxford, K. Rustem & brother, 1988, pp.VII+295 ; Taner Akçam, Le tabou du gènocide armènien hante la sociètè turque, Le Monde Diplomatique, vol.48, n.568, julliet 2001, pp.20-21
(12) E.K. Sarkisian, RG Sahakian, Vital issues in modern Armenian history. A documented expose of misrepresentations in Turkish historiography, Watertown, Armenien studies, 1995.
(13) Corriere della Sera, 31 agosto 1996, p.27
(14) Tribunal permanent des peuoples, Le crime de silence. Le gènocide del Arméniens, Paris , Flammarion, 1984. Si veda anche: Tribunale permanente dei popoli. Le sentenze: 1979-1998. Cura e introduzione di Gianni Rognoni, Lecco, casa editrice Stefanori, Fondazione internazionale  Lelio Basso, 1998, pp.239-256.
(15) Claire Mouradian, op. cit. p.63 
 
* * *

ARMENIA, UNA STORIA MILLENIARIA

Gli armeni parlano una lingua del gruppo indo-europeo, scritta con l’alfabeto nazionale armeno, inventato secondo la tradizione nel 404-405 dal santo Mesrop Mashtots. Dall’antichità fino al primo conflitto mondiale hanno abitato l’Armenia, un altopiano di origine vulcanica caratterizzato da altitudini medie di 2.500-3.000 metri dominato dal monte Ararat (5164 m), dove si sarebbe posata l’arca di Noè.

La regione di circa 300 mila kmq si estende tra Kurdistan, Azerbaigian iraniano, Anatolia centrale e Caucaso. I confini non sono definiti perché continuamente modificati dalle guerre. La nazione armena grazie al re Trdat III (Tridate, IV sec. d.C.) adotta intorno al 301 il Cristianesimo come religione di stato e rivendica il titolo di prima nazione cristiana.

«Il Regno d’Armenia fu il primo stato ad accogliere ufficialmente la fede cristiana e a professarla da quel momento in poi in una continuità ininterrotta» (4). Ciò ha favorito il consolidamento della coscienza nazionale. La Chiesa apostolica armena è alla base dell’unità nazionale e la religione rappresenta anche la fonte della cultura armena nelle sue espressioni letterarie, artistiche, architettoniche.

L’Armenia rappresenta un crocevia dell’Asia occidentale, un’area di transito per i traffici commerciali.Gli abitanti sono stati coinvolti nei continui conflitti tra gli imperi orientali e quelli occidentali, tra persiani,  romani, bizantini, arabi, ottomani, russi. I brevi periodi di indipendenza politica nel I secolo a.C. e nel X secolo d.C. sono da ascrivere alla debolezza dei vicini. ma la popolazione cristiana ha sempre cercato di mantenere la propria identità religiosa, etnica, culturale. Però si è trovata progressivamente isolata: con la caduta dell’impero bizantino viene meno questo importante riferimento occidentale e viene conglobata nell’impero ottomano, dove la millet armena ortodossa (gregoriana, apostolica) era formalmente riconosciuta e il patriarca poteva negoziare direttamente con la Porta.

 LA PICCOLA PATRIA VENEZIANA

Nel periodo compreso tra il XV e il XVII secolo alcuni centri della diaspora divennero i poli catalizzatori della vita e delle attività delle varie comunità armene. In Italia furono Livorno, con la prima sede armena per il commercio in Europa fondata nel 1553, e Venezia.

Uno dei fattori principali di questa tendenza alla formazione di nuclei più consistenti è da ricercare nella posizione stessa di tali città all’interno dei sistemi socio-economici dei rispettivi paesi. Questi contatti furono alla base della stampa armena e, in particolare, della prima tipografia in questa regione e ben prima dei popoli limitrofi.

La maggior parte dei libri armeni  pubblicati nel XVI e nel XVII secolo fu stampata nelle città europee, soprattutto a Venezia, Parigi, Marsiglia e Amsterdam. nel 1512 a Venezia vede la luce il primo libro a stampa armeno il cui editore è un armeno, un certo Hakob. A partire da quella data una ventina di tipografie a Venezia svolse una notevole attività editoriale armena pubblicando circa 250 titoli in armeno fino al 1789, anno in cui s’inaugurò nell’isola di san Lazzaro la celebrata, poliglotta tipografia dei padri mechitaristi. Essa sarà in grado di stampare in ben 36 lingue con più di 10 alfabeti diversi.

Venezia manterrà così tra i vari centri storici dell’editoria armena un primato quasi assoluto, cui farà concorrenza solo Costantinopoli nel settecento e nell’ottocento. La Serenissima divenne senza dubbio il centro più importante della rinascita armena del seicento e del settecento. A Venezia è attecchita l’opera culturale e religiosa della congregazione mechitarista cattolica di San Lazzaro, sull’omonima isola, che nel 1715 venne concessa dal senato veneziano agli armeni.

Questo luogo è considerato «una piccola Armenia» da cui si diffuse la rinascita culturale che pervase nel XVIII secolo il mondo armeno. la grandezza della Serenissima, anche dopo la sua scomparsa, è molto presente tra gli armeni. «Sarà questa una tradizione costante di Venezia, della sua Chiesa in particolare, del suo patriarcato e clero, di stare sempre vicini a San Lazzaro nei momenti duri. Il clero di Venezia non esitò, quando se ne presentò la necessità, a inviare a Roma raccolte di firme con tanto di testimonianze, che non lasciavano adito ad alcun dubbio sulla fede, sulla correttezza, sull’affidabilità dei “Padri Armeni”.

In altre zone , inseno ad altri contesti ecclesiali, non sarebbe forse stata sempre così semplice né così facile la sopravvivenza di una comunità con caratteristiche alquanto “divaganti” rispetto alla “norma” dei tempi… Venezia è divenuta un fattore attivo, permanente ed efficacemente presente nella cultura non solo diasporica, ma anche patria degli armeni, e si è fatta di essa parte integrante (5)»

PARLA BOGHOS LEVON ZEKIYA

Sull’Armenia Millenovecento ha sentito Boghos levon Zekiyan, docente di lingua e letteratura armena a Ca’ Foscari a Venezia e soprattutto considerato il maggiore armenista operante in Italia.

Perché il popolo armeno persegue il riconoscimento del genocidio da parte della Turchia e perché Ankara si ostina a negarlo? perché ci tengono tanto gli armeni a definirlo “genocidio”? Non andrebbe altrettanto bene un termine come “sterminio”?

Zekiyan: Penso che sia innanzitutto un atto indispensabile di giustizia nei riguardi delle vittime. Inoltre il riconoscimento comporta la volontà di un risarcimento e può essere un fattore efficace per recuperare e restituire all’umanità e allo stesso paese quell’immenso patrimonio di monumenti che in grandissima parte sono ancora abbandonati alla loro sorte o usati per usi del tutto impropri, qualora non siano già del tutto distrutti.

Ovviamente il primo interlocutore per il riconoscimento dovrebbe essere lo stesso governo turco, il quale sino a questo momento agisce invece in senso contrario. ma vorrei ricordare che vi sono pure delle complicità da parte dell’impero germanico. negli anni ottanta durante un convegno di personaggi di altissimo,livello del governo della Repubblica democratica tedesca (la Germania comunista, Ddr) aveva riconosciuto il coinvolgimento tedesco. Purtroppo un simile riconoscimento sinora non è stato fatto né dalla Repubblica federale tedesca  né prima né dopo l’unificazione.

In quell’occasione fu detto: “Quel genocidio grava sulla nostra coscienza”. nella Germania  federale alcuni intellettuali lo hanno riconosciuto, ma a livello personale. E’ provata anche a livello di archivi, la complicità tedesca nel genocidio armeno durante il primo conflitto mondiale. in quel periodo il cappuccino armeno Padre Zohrabian aveva scritto a un confratello in Germania perché le autorità e i cittadini venissero sensibilizzati su quel che stava accadendo in Anatolia. La risposta agghiacciante è stata che “il clero, anche i cardinali, e i fedeli sono convinti che noi siamo degni di essere ammazzati”. Forse il governo tedesco non prevedeva l’ampiezza e la radicalità.



Nota:
Sullo stesso argomento:

Una finestra sul massacro degli armeni

L’olocausto delle donne che insanguinò l’alba del ‘900

METZ YEGHERN Il Grande Male

Voci dal genocidio dimenticato


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Caterina63
00giovedì 16 gennaio 2014 21:13
 la foto NON è un falso..... 1917 - Massacro, tortura e crocifissione di migliaia di donne armene da parte dell'esercito turco - Foto recentemente pubblicata, custodita nell'Archivio Segreto del Vaticano 









Mondo e Missione n.4 Aprile 2010

I dispacci dei religiosi pubblicati su «Le Missioni cattoliche»
 
di Chiara Zappa


«DA TRE GIORNI cristiani massacrati, saccheggiati, incendiati. Enormi perdite. I superstiti affamati. Miseria estrema. Soccorsi urgenti. Nostro podere annientato». Era il 19 aprile del 1909 quando monsignor Boghos Bedros XIII Terzian, vescovo armeno cattolico di Tarso e Adana, così scriveva in un telegramma spedito dalla Turchia e pubblicato da Le Missioni cattoliche, «antenata» della nostra rivista. 

Sfogliando quelle pagine stampate un secolo fa, ci siamo imbattuti in testimonianze straordinarie, che raccontano in prima persona i prodromi di quello che si sarebbe trasformato nel primo genocidio del XX secolo, il «Grande male» che si abbattè sulla popolazione armena che in Anatolia viveva da quasi tremila anni. Tra un milione e un milione e mezzo vittime - così dicono le ricostruzioni -, migliaia di donne e bambini «infedeli» inglobati come servi in focolari musulmani, famiglie intere (le più fortunate...) fuggite all'estero e mai più ritornate nella loro terra.

Della genesi del genocidio armeno, su cui ancora la politica non ha permesso di scrivere una storia condivisa, i missionari furono testimoni eccezionali. A cominciare dagli eccidi divenuti noti come «i massacri di Adana», quando - era l'aprile 1909 - orribili violenze si scatenarono ai danni degli armeni nel capolouogo della Cilicia e in tutta la provincia, fino alla regione di Tarso.

«Il mio ultimo dispaccio vi ha informato in poche parole del disastro di cui fu vittima la popolazione cristiana di Adana nelle giornate del 14,15 e 16 aprile, come la nostra masseria fu distrutta e tutto il personale massacrato», scrive monsignor Terzian in una lettera datata 3 maggio 1909 (pubblicata sul numero 1819 di Le Missioni cattoliche). «Stavo per informarvi dettagliatamente dell'accaduto, quando, il 25 aprile, una nuova esplosione di fanatismo musulmano finì per annientare completamente tutti i nostri stabilimenti di Adana. La nostra chiesa, il nostro collegio, la nostra scuola femminile, il convento delle religiose, il presbiterio, il vescovado, tutto insomma fu preda delle fiamme, senza che potessimo porre in salvo la minima cosa».

LA TESTIMONIANZA del vescovo da voce dall'interno a un momento di forte tensione per la società turca. Sul trono di Istanbul siede il sultano Abdul Hamid II, ma il governo è in mano ai Giovani Turchi, movimento iper-nazionalista che propugna la laicizzazione dello Stato ma anche, soprattutto in certe frange, la pulizia etnica e religiosa dell'Anatolia. 

In molti ambienti turchi e curdi non viene vista di buon occhio la possibilità che alle minoranze non islamiche siano riconosciuti gli stessi diritti dei musulmani. Da qui a trasformare gli armeni, comunità che parla una propria lingua e pratica una fede «sospetta» affine a quella della Chiesa ortodossa di Mosca, in un capro espiatorio accusato di tentazioni indipendentiste e di simpatie filorusse, il passo è purtroppo breve. 

Già a fine '800, gli armeni di Turchia erano stati oggetto di persecuzioni. Ma i primi anni del nuovo secolo - mentre in Europa soffiano venti di guerra e l'impero ottomano, prossimo al tramonto, subisce duri colpi nel conflitto con la Russia -segnano tra i turchi un intensificarsi del fanatismo religioso e della xenofobia, particolarmente proprio in Cilicia. Un crescendo di provocazioni contro la popolazione armena a partire dagli ultimi mesi del 1908, con la diffusione di notizie false circa una loro presunta insurrezione, sfocerà, nella primavera seguente, nello scoppio delle violenze vissute in prima persona da monsignor Terzian. 

«Si valuta a 30 o 40 mila il numero delle vittime in tutto il vilayet continua il testo pubblicato sulla rivista -, è impossibile però ancora dare una cifra esatta approssimativamente. Ad Adana quasi tutto il quartiere armeno non presenta più che un mucchio di ceneri; tutta la popolazione cristiana, terrorizzata, si trova riunita in due o tre luoghi, dove spera protezione ma dove pure si trova esposta alla fame e presto forse all'epidemia. Per giunta a tutte queste miserie e per più aggravarle, non è permesso ad alcuno di allontanarsi da una città, che non è più che un mucchio di rovine».

LA CRONACA, fin qui asciutta, risparmia al lettore i particolari della mattanza. Quella che, nella sola residenza dello stesso vescovo Terzian, vide centosessanta persone barbaramente massacrate, «e i cadaveri gettati nei pozzi». Ma, nei successivi numeri di Le Missioni cattoliche, le voci dei missionari, religiosi e suore, dall'interno della tragedia fanno rivivere tutto il terrore di un genocidio per troppo tempo rimasto sepolto nel silenzio. A cominciare dall'episodio che, ad Adana, scatenò le violenze, il cui racconto conferma - e arricchisce di macabri particolari - le altre, rarissime, testimonianze coeve.

«Il martedì di Pasqua - scrive il gesuita francese padre Lucien Benoit nel dispaccio pubblicato sul numero 1822 (2 luglio 1909) - essendo i nostri quattro fratelli maristi usciti, notarono un'insolita animazione nei quartieri turchi. Essi erano invasi da una folla di musulmani venuti dalle circostanti campagne, avevan tutti il capo coperto del turbante, mentre ordinariamente s'accontentano, come i cristiani, del fez tarbuck degli arabi. Questi forastieri portavan fucili e scimitarre. Da qualche tempo le relazioni tra armeni e musulmani erano molto tese. Il venerdì santo, 9 aprile, avendo tre musulmani brutalmente assalito un armeno di quindici anni, il giovane aveva estratto il suo revolver, steso morti due de' suoi aggressori e ferito il terzo. Ecco un pretesto... Il sangue musulmano era corso, ci volevano flotti di sangue cristiano per placare la collera dell'Islam».

LE PAROLE del gesuita padre Goudard suonano come il presagio della catastrofe: «Nei susseguenti giorni vi fu gran rumore nella città. Il martedì di Pasqua i cristiani non osarono uscir di casa. Rassicurati però dalle autorità, finirono per aprire le loro botteghe come al solito: era quello che si aspettava». Un accenno soltanto, che riporta però al centro la grave questione della connivenza di notabili e funzionari statali non solo nel non impedire ma nello spianare la strada ai massacri. 

«Quando all'orologio della città, che segna le ore turche, suonarono le 4 (le 11 e 1/2 circa), improvvisamente incominciò sul mercato poi in tutta la città una scarica di fucilata. Uno degli armeni più in vista, sig. David Urfelan, vien ucciso in pubblica via da un turco, che gli dice: "In nome del Dio sommo, incominciamo da te". In tutta fretta, intanto che i padri Rigal e Tabet organizzano la difesa del collegio (il collegio S. Paolo dei gesuiti, ndr), due altri missionari, i padri Benoit e Sabatier, corrono dalle suore per rassicurarle.

Al loro arrivo trovano la casa già invasa dai cristiani affollati». Si tratta della scuola e della cappella delle Sorelle di Saint-Joseph di Lyon, poi data alle fiamme il 2 maggio 1909. Ecco il racconto di una delle religiose presenti: «Al segnale dei massacri, molti di noi si buttano in ginocchio, le braccia in croce, e si raccomandano a Dio. Cinque minuti dopo giungono i nostri vicini atterriti e si precipitano per le nostre tre porte. Le fucilate aumentano; nelle vie gli uomini cadono come mosche. Dalle finestre del dormitorio se ne vedono stesi morti. Il saccheggio si fa in regola. I banditi sforzano la porta a colpi di ascia e invadono la casa, donde si odono subito uscire urla di disperazione. Sono le vittime che si sventrano, che si affettano e si torturano. Quando tutte son morte, si gettano mobili, abiti, oggetti diversi nel fondo d'un carro che staziona nella via; si da il petrolio alla casa per mezzo d'una pompa, vi si appicca il fuoco e si passa alla casa che segue».

A PERPETRARE le violenze - raccontano le corrispondenze dall'inferno - sono soprattutto i «basti buzuck», i cavalieri dell'esercito turco, arruolati in tempo di guerra. Dopo quattro giorni di orrore, ad Adana sembra tornare un minimo di calma. «Ma - scrive padre Benoit - se le uccisioni cessarono nella città, proseguirono però nei dintorni. Tutte le masserie cristiane furono saccheggiate, e ve n'erano 360. (...) Lo stesso avvenne, non solo nelle altre masserie, ma anche nelle tre grosse villeggiature o vigneti, che i cristiani possedevano nei dintorni di Adana. Dopo aver ammazzato e saccheggiato, i turchi incendiavano le abitazioni… Certi particolari fanno fremere. Alcuni armeni venivano inchiodati in croce sui pavimenti, sulle porte o su tavole: delle giovanette venivano denudate e sventrate a colpi di coltelli: indicibili delitti eran perpetrati sopra ragazzette da 7 ad 8 anni. I carnefici giocavano colle teste di fresco recise e perfin sotto gli occhi dei genitori lanciavano per aria i bambini, che ricevevano poi sulla punta dei coltellacci. Quanti altri orrori la penna si rifiuta di descrivere! "Vieni - diceva un musulmano a suo figlio di 12 o 13 anni - vieni, prendi questo coltello, e faccia Allah ch'esso sia ben tagliente per sgozzare i cristiani!"...».
 
DOPO QUALCHE giorno di calma apparente, le stragi proseguono in tutta la zona, come raccontano molti altri dispacci, che nelle settimane e nei mesi seguenti continueranno a giungere alla redazione di Le Missioni Cattoliche. Il bilancio approssimativo dei morti e delle distruzioni - da Tarso ad Antiochia, da Missis a Hamidie e in decine di altre città e villaggi - è puntuale quanto spaventoso: in totale, le vittime risultano almeno trenta, forse quarantamila, molti di più quelli rimasti «senza tetto e senza rifugio».
 
Migliala le case, le masserie, le vigne, i possedimenti distrutti e razziati. E la rovina avrà effetti anche fuori dalla Cilicia. Sulla rivista pubblicata il 16 luglio 1909, una lettera del padre Gransault, missionario a Cesarea, in Cappadocia, racconta: «I massacri scoppiarono proprio nell'epoca dell'anno in cui la mietitura della ricca pianura di Adana attira da 15 ai 20 mila lavoratori, che vengono da tutti i punti dell'Anatolia e fanno dieci, venti e anche trenta giorni di viaggio. Orbene, la maggior parte di questi disgraziati furono scannati come gli altri di Adana. Perciò i massacri hanno avuto una dolorosa ripercussione dappertutto. Tutti i villaggi cristiani posti tra Sivas e Cesarea sono stati assai provati». 

In un articolo sul numero del 16 dicembre 1910, che tenta di fare il punto sui funesti avvenimenti di un anno e mezzo prima, si nota che «è un fatto molto singolare che degli alti ufficiali turchi responsabili di tante crudeltà e massacri, nemmeno uno fu processato». Nello stesso articolo, si scrive che «le condizioni degli armeni sono tuttavia migliori e forse col nuovo governo i massacri diventeranno una storia del passato». Quattro anni e mezzo dopo, sarebbe divampata la «soluzione finale» della questione armena, il primo genocidio del Novecento.

* * *

Armenia-Turchia oggi
Passi storici tra mille ostacoli

«Per diversi anni, in questo Paese sono avvenuti vari fatti a danno delle minoranze etniche che vivevano qui. Vi è stata pulizia etnica nei loro confronti. È arrivato il momento di interrogarci sul perché è avvenuto tutto questo e che cosa ci ha insegnato. Sinora non abbiamo mai fatto una seria analisi». Le parole del primo ministro turco RecepTayyp Erdoan, pronunciate lo scorso maggio durante un congresso del suo partito, hanno spinto la stampa turca a parlare di «storica autocritica» verso la tragedia che coinvolse gli armeni (ma anche i greci) di Turchia all'inizio del Novecento. 

Dopo quasi un secolo di negazione, gli ultimi anni hanno visto per la prima volta politici, intellettuali e parte dell'opinione pubblica turca confrontarsi apertamente con quello che è un vero e proprio tabù, che da sempre espone chi osa violarlo al rischio di essere perseguito ai sensi dell'articolo 301 del codice penale sull'«oltraggio all'identità turca» (tra le vittime eccellenti della norma, lo scrittore Nobel Orhan Pamuk e il giornalista armeno Hrant Dink, assassinato nel 2007 - vedi M.M., novembre 2008, pp. 62-63). 

Ma se proprio il rifiuto di Ankara di parlare di «genocidio» ha sempre rappresentato uno dei principali ostacoli al riavvicinamento tra Turchia e Armenia, il 2009 si è rivelato in questo senso un importante anno di svolta. A settembre, Erevan e Ankara si sono accordate per stabilire relazioni diplomatiche e riaprire i loro confini. I protocolli, che devono essere ratificati dai rispettivi parlamenti, prevedono anche la nascita di una commissione comune incaricata di esaminare «la dimensione storica» dei disaccordi tra i due Paesi. 

Se riaprire i confini con l'Armenia guadagnerà ad Ankara punti preziosi per l'ingresso nella Ue, ciò rischia di provocare ritorsioni da parte dell'Azerbaijian, che rivendica la soluzione del nodo del Nagorno Karabakh, regione separatista sostenuta dall'Armenia. Ancora una volta, il governo turco si trova tra i due fuochi della comunità internazionale - Usa in testa, con cui a marzo è scoppiata una crisi diplomatica dopo che una Commissione parlamentare americana ha definito «genocidio» il massacro armeno - e delle frange nazionaliste del Paese. Frange da cui, tuttavia, l'opinione pubblica turca si sente sempre più lontana.




Caterina63
00giovedì 27 marzo 2014 14:15
Articolo pubblicato su Avvenire del 18 ottobre 2000 

Lo sterminio del popolo armeno tra il 1915 e il ’17 nella testimonianza di un missionario domenicano
 

di Marco Roncalli


E’ un nuovo tassello per quanti sono interessati ad approfondire le persecuzioni dei cristiani nell’impero ottomano durante la prima guerra mondiale, e, più in particolare a ricostruire la tragica sorte del popolo armeno: vicende note e documentate, e tuttavia ancora in parte da scrivere per le continue precisazioni tra quanti parlano di «olocausto cristiano» o di «genocidio armeno», per non dire della storiografia turca che contesta queste definizioni e polemizza sulle cause e le cifre dei massacri. 

E’ un invito a tenere desta la memoria su quel terribile capitolo del secolo appena concluso che vide l’«eliminazione» di un impressionante numero di persone, ma anche la fine di un mondo, lo sconvolgimento di un quadro politico, sociale, culturale, in cui pur in un contesto generalizzato di diseguaglianze fra maggioranza musulmana e minoranze cristiane ed ebraica - popolazioni diverse, da secoli, erano riuscite a convivere e tollerarsi. 

Stiamo parlando del libro Una finestra sul massacro, sottotitolo esplicativo «Documenti inediti sulla strage degli armeni 1915-1916» (Guerini e Associati. Pagine 254. lire 38.000). nel quale Marco Impagliazzo introduce e presenta con molto equilibrio l’edizione italiana di un testo inedito: un racconto del domenicano francese Jacques Rhétorè. testimone diretto (con altri due confratelli padre Simon e padre Berré, pure autori di analoghi memoriali) delle deportazioni e delle stragi nell’area di Mardin, una cittadina dell’Anatolia orientale in provincia di Diyarbakir, all’inizio della Grande Guerra. 

Di esse furono vittime numerosi armeni cattolici, ma anche caldei, siriaci ortodossi, nestoriani, siro-cattolici, protestanti e dunque quasi tutte le minoranze cristiane incompatibili con l’imperante politica di «nazionalizzazione» su base etnica turca e su base religiosa musulmana. 

In sintesi, resta vero che gli armeni furono le vittime principali dei massacri, ma la tragedia coinvolse tutti i cristiani. Per fermare le sacche di resistenza contro chi voleva «la Turchia ai turchi» e scongiurare la creazione di uno Stato almeno, non erano sufficienti nell’apparato (anche ideologico) utilizzabile dal governo dei Giovani Turchi, né bastavano i soli pretesti nazionalistici Bisognava far leva soprattutto su motivazioni di carattere religioso, attivare le masse sulla spinta di motivazioni «religiose», islamiche o anticristiane. Così, senza distinzioni, i cristiani dell’impero - a qualsiasi comunità appartenessero - diventavano nemici, ancor più pericolosi perché alleati naturali degli stranieri europei loro protettori. 

Ma torniamo al manoscritto di Rhètoré. Conservato nella biblioteca dei domenicani di Saulchoira Parigi, è intitolato «Les chrétiens aux bètes! Souvenirs de la guerre sainte proclamée par les turcs contre les chrétiens en 1915», e lungo i suoi 21 capitoli, nello stile appassionato dei più antichi apologeti cristiani, rende conto di quanto accade sotto le finestre e le terrazze dell’edificio dove l’anziano missionario ormai settantatreenne espulso da Mossul, riesce a trattenersi per ben due anni scampando alla deportazione. Una testimonianza dunque oculare, narrata a caldo e sul campo, da un osservatorio che - scrive Rhètoré- è «tra i luoghi più significativi per osservare gli spaventosi e incredibili avvenimenti di questi anni. Tra questi lo sterminio in massa dei migliori elementi dell’impero turco, nel momento in cui questo aveva bisogno di tutte le sue forze vive. 

In nessuna provincia - ne sono sicuro - i carnefici dei cristiani hanno compiuto la loro opera disumana, fatta di crudeltà organizzata e avidità insaziabile, come in quella di Diyarbakir». Dal suo osservatorio, dunque, Rhétoré assiste impotente agli effetti degli ordini di morte che arrivano via telegrafo ed esigono tributi di sangue cristiano per la costruzione di una nuova nazione etnicamente omogenea, riferisce di ecatombi da Dyarbakir ad Urfa, da Mardin a Nisibe, descrive l’esodo lugubre dei convogli dei deportati verso il deserto siriano (si veda il brano qui riportato), insegue da lontano le scorrerie verso i monasteri sparsi nel Tur Ab-din, la «montagna dei servi di Dio». Non è tutto, il domenicano registra poi le gravi perdite subite dal clero e dalla popolazione locale azzarda cifre di morti e dispersi. 

Narra inoltre, con i racconti degli scampati alle stragi, l’eroismo di chi è morto senza abiurare la fede - anche donne e giovanissimi - e la debolezza di chi s’è convertito all’islam per aver salva la vita. Nel testo si elencano storie di violenze, soprusi, orrori, torture, maltrattamenti,… storie di morte. Ma c’è spazio anche per toccanti episodi di solidarietà. Dei quali capita anche che siano protagonisti alcuni degli stessi funzionari civili turchi che si rifiutano di eseguire gli ordini, oppure musulmani retti che non si lasciano convincere dalla propaganda, come pure generosi yazidi (adoratori del Diavolo) che aprono le loro case ai fuggiaschi sulla montagna del Smdjar Persino tra i curdi - sovente complici dei turchi nei massacri- Rhétoré può registrare qualche offerta di asilo ai cristiani perseguitati. Sono tuttavia - questi ultimi- casi isolati. Le pagine delle memorie di Rhétoré ricordano quelle lontane degli «Atti dei martiri», ma rimandano a qualcosa che ancora oggi, con qualche variante, in alcune parti del mondo si sta ripetendo. 

Sullo stesso argomento:

Una finestra sul massacro degli armeni

L’olocausto delle donne che insanguinò l’alba del ‘900

METZ YEGHERN Il Grande Male

Il massacro degli armeni

Nazionalismo turco & genocidio armeno




Caterina63
00giovedì 27 marzo 2014 14:19


Articolo pubblicato su Il Corriere del Sud n. 6/2002 - Anno XI - 16 -31 marzo

 
Un milione e mezzo di armeni massacrati nel 1915-16 

di Piero Mainardi


"Chi parla ancora oggi del massacro degli armeni?" vaticinava Hitler nel 1939. La stessa domanda riformulata oggi (pur con altre intenzioni) non troverebbe una risposta diversa, cioè: ben pochi. E sarebbero ancora meno se la casa editrice Guerrini e Associati non proseguisse in quest’opera di preservazione della memoria rispetto a un evento che ha rappresentato il primo genocidio del XX secolo (oltre ad una parallela opera di riscoperta della storia della presenza armena in Europa) che il popolo armeno ha dovuto partire nel 1915-16 nel quale si calcola siano morti circa tre quarti della popolazione armena in territorio ottomano, ossia circa un milione e mezzo di persone. Nonostante ciò la Turchia continua a negare il carattere di genocidio a questi massacri. 

Dunque assume un rilievo particolare, perché mette alle corde le tesi negazioniste turche, la pubblicazione delle memorie, finora inedite, del padre domenicano Jacques Rhétoré raccolte nel volume Una finestra sul massacro corredato da un’ampia introduzione di Marco Impagliazzo, docente di storia contemporanea alla Pontificia Università Urbaniana. Lo scenario della tragedia è un impero ottomano in decomposizione, coinvolto nel primo conflitto mondiale a fianco degli Imperi centrali, sotto la guida del partito rivoluzionario dei Giovani turchi che nel 1908 si erano impadroniti del potere agitando ideali nazionalisti e "modernizzanti" che andavano a sostituire quell’ "universalismo" ottomano che, pur in un quadro confessionale musulmano, aveva garantito una certa convivenza religiosa ed etnica tra popoli notevolmente diversi. 

Gli stessi ideali avevano fatto breccia anche nelle popolazioni cristiane portando in taluni casi alla conquista dell’indipendenza ma in altri rovesciandosi in terribile boomerang: e questo fu il caso degli armeni. I turchi negano che vi sia stato un piano di sterminio (e non riconoscono autentici i documenti armeni) argomentando che si trattò di una deportazione a scopo difensivo in un momento bellico nel quale gli armeni avrebbero potuto costituire una sponda interna per il nemico e facendo notare che anche le stesse popolazioni musulmane ebbero da soffrire le conseguenze della guerra. Padre Rhétoré  fu un osservatore "privilegiato" di quegli eventi, in quanto deportato lui stesso e poi trattenuto a Mardin, una piccola città dell’Anatolia orientale dove viveva una consistente comunità cattolica. La sede del patriarcato di Mardin fu per padre Rhétoré "la finestra sul massacro". 

Qui transitavano gli interminabili convogli umani destinati al deserto mesopotamico: in realtà, per i più, e tra sofferenze inenarrabili, la morte fu la vera meta del viaggio. Il racconto del domenicano francese diventa a un certo punto una sorta di lugubre rosario animato dalla varietà dei modi con cui si ripetevano spoliazioni, violenze bestiali e gratuite (in collaborazione con curdi e circassi), torture, vendite di donne e di bambini come schiavi. Davanti a una simile ondata di violenza unica via di scampo poteva essere la conversione all’islam: ma i cristiani, nella stragrande maggioranza, seppero rifiutare scegliendo eroicamente il martirio. Una storia che fa ancora rabbrividire e che genera nel lettore impotente un senso di commozione ed indignazione per massacri oltretutto negati e rimossi dalla memoria. 

A Mardin erano presenti 17.000 cristiani, poco meno della metà degli abitanti, nessuno dei quali era armeno-gregoriano (la confessione maggioritaria degli armeni che rifiuta il Concilio di Calcedonia), ai quali i turchi imputavano velleità indipendentiste. Se tra gli armeni cattolici le suggestioni nazionaliste avevano avuto poca presa, queste furono addirittura ignorate dai Giacobiti (siriaci) che storicamente non conobbero mai un regime di cristianità (a suo tempo accolsero i musulmani come liberatori dai bizantini) e che si erano perfettamente integrati nel sistema sociale ottomano, disinteressandosi delle vicende politiche. 

Dunque i turchi non avrebbero avuto niente da temere da questa comunità eppure anch’essi, come i gregoriani, come i cattolici (e tra questi anche l’arcivescovo Maloyan recentemente proclamato santo) e come tutte le altre confessioni cristiane, furono trucidati, spazzati via. Perché accadde ciò? Perché il progetto di turchizzazione dello stato ottomano rendeva necessario (essendo l’unico elemento storicamente identitario) la caratterizzazione islamica come fattore di identificazione anche etnica. 

Il carattere religioso della persecuzione, seppur strumentale, è sottolineato anche dalla proclamazione della jihad voluta da un governo sostanzialmente composto da atei che sapeva che solo con una guerra religiosa avrebbe potuto scagliare le popolazioni musulmane contro quei cristiani, con i quali si erano ormai abituati a convivere pacificamente. E accanto alla guerra religiosa, come rivela padre Rhétoré, si usò anche l’arma dell’invidia sociale: gli armeni e i cristiani in generale pur in condizione di inferiorità giuridica, furono capaci di ritagliarsi condizioni di vita superiori alle popolazioni musulmane incapaci persino, sottolinea il padre domenicano, di sfruttare quel che avevano sottratto con la forza ai cristiani. 

Anche allora, non diversamente dai giorni nostri, la combinazione Islam-modernità generò orribili tragedie. Ma padre Rhétorè rivela un ulteriore particolare della vicenda che fa riflettere: i turchi erano stretti alleati dei tedeschi, molti ufficiali dei quali comandavano reparti turchi; ebbene il sospetto quanto meno di complicità nei massacri è davvero forte. Se davvero fossero confermati certi atteggiamenti nei confronti degli armeni da parte di taluni ufficiali tedeschi sarebbe allora molto facile comprendere su quale terreno il nazismo abbia potuto affermarsi così facilmente. 

Sullo stesso argomento:

L’olocausto delle donne che insanguinò l’alba del ‘900

METZ YEGHERN Il Grande Male

Il massacro degli armeni

Voci dal genocidio dimenticato




Articolo pubblicato su Avvenire del 18 ottobre 2000

di Jacques Rhetore


I convogli dei deportati attraversarono il vilayet di Diyartxzkir passando, quasi tutti, per la città di Mardin da dove sono stati osservati da vicino. È di questi convogli che vorrei adesso trattare. Mi dispiace di non poter dare, sul loro numero e sul numero dei deportati in genere, altro che cifre vaghe, quelle che circolavano pubblicamente. Nonostante ciò, attraverso le cifre e i fatti che le accompagnano, il lettore potrà, aggiungendovi quello che di suo conosce dei massacri di A’Jardin e Diyarbakir, farsi un‘idea dell’immensità del disastro che la politica disumana dei Giovani Turchi fece subire alla popolazione cristiana negli anni fatali 1915-1916. In generale, come ho già accennato, questi convogli composti da donne, bambini e anziani provenienti dai paesi di Erzurum, Vlouch, Bitlis, Van, Kharput, Sivas, Angora, Brusse, Konia, Urfa, Cesarea ed erano destinati a Ras-el-Ain, Deror e Mossul dove arrivavano solo in pochi.
Questi sfortunati porta vano con loro, quasi sempre, soltanto gli abiti custoditi dentro borse in cui nascondevano anche il denaro necessario. I pacchi, le valigie venivano regolarmente rubati dai soldati o dai curdi durante il tragitto. Alcuni prigionieri di Brusse hanno raccontato che il governo gli aveva detto: «Avete cinque giorni per vendere le vostre abitazioni e i vostri beni alfine di ritirare il denaro per soddisfare i vostri bisogni nel paese in cui abiterete» Tutti raccolsero, in questo modo, somme di denaro che portarono con loro, poi a qualche giornata di cammino da Brusse i soldati, dopo essersi informati di quelli che erano più ricchi li massacrarono impossessandosi dei loro beni. Lo stesso raccontavano anche quelli che facevano parte del convoglio di Angora. La libertà lasciata ai conduttori del convoglio sulle persone loro affidate aveva fatto nascere in loro una sete insaziabile d’oro e un’abominevole crudeltà da soddisfare.

Tuttavia, al di là degli omicidi, suscitati a volte dalla sete d’oro, i prigionieri testimoniavano in generale di non essere stati troppo maltrattati lungo il percorso, dal loro paese alla frontiera di Diyarbakir: li si proteggeva anche contro la rapacità dei curdi e quelli che non riuscivano a seguire il convoglio venivano semplicemente abbandonati per la strada ma non uccisi.

Per loro tutto cambiava alla frontiera del vilayerdi Diyarbakir. Hanno raccontato che era come se si aprisse l’inferno con i suoi demoni. Era come l’inferno: i soldati li maltrattavano in tutti modi e li uccidevano soltanto per rubare o per alleggerire il convoglio. Era come l’inferno: un caldo insopportabile per il clima torrido e una sete impossibile da placare. Così molti tra loro, soprattutto i bambini, morivano lungo il cammino. Alle volte i soldati imponevano al convoglio una marcia precipitosa che gente debole o indebolita in tutti i modi non poteva sopportare; allora su di loro piovevano colpi, mentre i ritardatari venivano raggruppati sulla strada per formare nuovi convogli. La strada era disseminata di cadaveri annegati nelle riviere mentre il resto era stato rapito dai curdi, autorizzati a far tutto contro i deportati Alcuni soldati cristiani provenienti da Erzurum, nel novembre 1915, raccontarono di aver attraversato, al di sopra di Diyarlikir, due valli piene di cadaveri di donne armene, sdraiate le une accanto alle altre come fossero montoni a riposo, I soldati stimarono il numero di quelle donne intorno alle 50.000. Anche se la cifra sembra esagerata indica comunque un numero molto elevato. In seguito questi cadaveri, che infettavano l’aria, vennero bruciati. 


   



Caterina63
00giovedì 8 maggio 2014 14:53

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
A SUA SANTITÀ KAREKIN II, 
PATRIARCA SUPREMO E CATHOLICOS 
DI TUTTI GLI ARMENI E SEGUITO

Giovedì, 8 maggio 2014


 

Santità, Fratello Caro,
Cari Fratelli in Cristo

sono molto lieto di porgere a Lei, Santità, e alla distinta delegazione che La accompagna, il più cordiale benvenuto. Nella persona di Vostra Santità estendo un rispettoso e affettuoso pensiero ai membri della famiglia del Catholicosato di tutti gli Armeni, diffusa nel mondo. È una grazia speciale poterci incontrare in questa casa, vicino alla tomba dell’Apostolo Pietro, e condividere un momento di fraternità e di preghiera.

Benedico con voi il Signore, perché i legami della Chiesa Apostolica Armena con la Chiesa di Roma si sono consolidati negli ultimi anni, grazie anche ad avvenimenti che rimangono scolpiti nella nostra memoria, quali il viaggio del mio santo Predecessore Giovanni Paolo II in Armenia, nel 2001, e la gradita presenza di Vostra Santità in Vaticano per numerose occasioni di speciale rilievo, tra cui la visita ufficiale a Papa Benedetto XVI nel 2008, e la celebrazione di inizio del mio ministero di Vescovo di Roma, lo scorso anno. 

Ma qui vorrei ricordare un’altra celebrazione, densa di significato, alla quale Vostra Santità prese parte: la Commemorazione dei Testimoni della fede del XX secolo, che ebbe luogo nel contesto del Grande Giubileo del 2000. In verità, il numero dei discepoli che hanno sparso il loro sangue per Cristo nelle tragiche vicende del secolo scorso è certamente superiore a quello dei martiri dei primi secoli, e in questo martirologio i figli della nazione armena hanno un posto d’onore. Il mistero della croce, Santità, così caro alla memoria del vostro popolo, rappresentato nelle splendide croci in pietra che adornano ogni angolo della vostra terra, è stato vissuto da innumerevoli vostri figli come diretta partecipazione al calice della Passione. La loro testimonianza, tragica e alta insieme, non deve essere dimenticata.

Santità, cari fratelli, le sofferenze patite dai cristiani negli ultimi decenni hanno portato un contributo unico ed inestimabile anche alla causa dell’unità tra i discepoli di Cristo. Come nella Chiesa antica il sangue dei martiri divenne seme di nuovi cristiani, così ai nostri giorni il sangue di molti cristiani è diventato seme dell’unità. L’ecumenismo della sofferenza, l’ecumenismo e del martirio, l’ecumenismo del sangue è un potente richiamo a camminare lungo la strada della riconciliazione tra le Chiese, con decisione e fiducioso abbandono all’azione dello Spirito. Sentiamo il dovere di percorrere questa strada di fraternità anche per il debito di gratitudine che abbiamo verso la sofferenza di tanti nostri fratelli, divenuta salvifica perché unita alla passione di Cristo.  

A questo riguardo, desidero ringraziare Vostra Santità per l’effettivo sostegno dato al dialogo ecumenico, in particolare ai lavori della Commissione congiunta per il Dialogo teologico fra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali, e per il qualificato contributo teologico offerto in quella sede dai rappresentanti del Catholicosato di tutti gli Armeni.

«Sia benedetto Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio» (2 Cor 1,3-4). Corriamo con fiducia nella corsa che ci sta davanti, sostenuti da un così grande numero di testimoni (cfr Eb 12,1) e imploriamo dal Padre quell’unità per la quale Gesù Cristo stesso pregò nell’Ultima Cena (cfr Gv17,21).

Preghiamo gli uni per gli altri: possa lo Spirito Santo illuminarci e guidarci  verso il giorno tanto desiderato in cui potremo condividere la mensa eucaristica. Lodiamo il Signore con le parole di San Gregorio di Narek: «Accogli il canto di benedizione delle nostre labbra e degnati di concedere a questa Chiesa i doni e le grazie di Sion e di Betlemme, perché possiamo essere degni di partecipare alla salvezza». Interceda per il popolo armeno la Tutta Santa Madre di Dio, ora e per sempre. Amen.








Caterina63
00giovedì 9 aprile 2015 14:23

Papa: massacro armeni, gesti di pace per risanare ogni ferita




Il Patriarca della Chiesa Armeno-cattolica, Nerses Bedros XIX - RV





09/04/2015 



Solo con “gesti  concreti di riconciliazione e di pace” sarà possibile avere una “lettura” condivisa del massacro del popolo armeno avvenuto 100 anni fa. È la considerazione principale del discorso che Papa Francesco rivolto al Sinodo patriarcale della Chiesa Armeno-Cattolica, a tre giorni dalla Messa che domenica prossima, nella Basilica di San Pietro, il Papa presiederà per commemorare quella drammatica pagina di storia. Il servizio di Alessandro De Carolis:


“Metz Yeghern”, il “Grande Male”: è scarno il nome attribuito a un dolore devastante, piantato esattamente da 100 anni nel cuore di un popolo antichissimo, quello armeno. È l’epoca dell’Impero Ottomano quando la storia registra il massacro di un milione e mezzo di cristiani armeni, che si rifiutano di rinnegare la propria fede. Un dolore che Francesco intende condividere con i vescovi della Chiesa armeno-cattolica, un anticipo del momento più ampio e pubblico che vedrà il Papa sull’altare di Piazza San Pietro domenica prossima:


“Invocheremo la Divina Misericordia perché ci aiuti tutti, nell’amore per la verità e la giustizia, a risanare ogni ferita e ad affrettare gesti concreti di riconciliazione e di pace tra le Nazioni che ancora non riescono a giungere ad un ragionevole consenso sulla lettura di tali tristi vicende”:


Antiche diaspore e moderne insicurezze
La strage di un secolo fa innesca l’esodo e la diaspora di una Chiesa e di una popolazione oggi sparsa dagli Stati Uniti, alla Russia, dal Sudamerica all’Ucraina, passando per l’Europa. E le conseguenze del passato per la popolazione armena sono acuite oggi, , specie nella “Madrepatria”, riconosce Francesco, dai rivolgimenti che stanno modificando gli assetti mediorientali:

“Penso con tristezza in particolare a quelle zone, come quella di Aleppo - il vescovo mi ha detto 'la città martire' - che cento anni fa furono approdo sicuro per i pochi sopravvissuti. Tali regioni, in questo ultimo periodo, hanno visto messa in pericolo la permanenza dei cristiani e non solo armeni”.

Forze oscure, Passione redentrice
Lo sguardo del Papa si appunta poi sulla sanguinosa pagina della storia armena. “È importante – afferma – chiedere a Dio il dono della sapienza del cuore: la commemorazione delle vittime di cento anni fa ci pone infatti dinanzi alle tenebre del ‘mysterium iniquitatis’. Non si capisce se non con questo”:

“Come dice il Vangelo, dall’intimo del cuore dell’uomo possono scatenarsi le forze più oscure, capaci di giungere a programmare sistematicamente l’annientamento del fratello, a considerarlo un nemico, un avversario, o addirittura individuo privo della stessa dignità umana. Ma per i credenti la domanda sul male compiuto dall’uomo introduce anche al mistero della partecipazione alla Passione redentrice”.

Fare memoria per testimoniare la carità
Francesco ricorda i martiri di 100 anni fa e lega la solidità della loro fede anzitutto alla storia bimillenaria degli armeni, i primi a convertirsi al cristianesimo nel 301. “Le pagine sofferte della storia del vostro popolo continuano, in certo senso, la passione di Gesù, ma in ciascuna di esse – sottolinea il Papa – è posto il germoglio della sua Resurrezione”:

“Non venga meno in voi Pastori l’impegno di educare i fedeli laici a saper leggere la realtà con occhi nuovi, per giungere a dire ogni giorno: il mio popolo non è soltanto quello dei sofferenti per Cristo, ma soprattutto dei risorti in Lui. Per questo è importante fare memoria del passato, ma per attingere da esso linfa nuova per alimentare il presente con l’annuncio gioioso del Vangelo e con la testimonianza della carità”.

Gregorio di Narek, Dottore della Chiesa
Fu Benedetto XV a intervenire “presso il Sultano Mehmet V per far cessare i massacri degli armeni” e lo stesso Pontefice, rammenta ancora Francesco, volle iscrivere Sant’Efrem il Siro tra i Dottori della Chiesa Universale. Domenica prossima Francesco compirà un gesto analogo con San Gregorio di Narek e questa decisione “inaspettata” è stata salutata con gratitudine dal Cathlicos armeno, Nerses Bedros XIX. “Ve ne siamo immensamente riconoscenti”, ha detto. Gregorio di Narek, vissuto mille anni fa, è “il Santo armeno più amato e più letto”, il cui “Libro delle Lamentazioni” ha affermato il Patriarca degli armeni, era al “capezzale di ogni famiglia armena accanto al Santo Vangelo”.

È stato anche reso noto che il 12 aprile Papa Francesco celebrerà, nella Basilica di San Pietro, la Messa in occasione del centenario del genocidio armeno.




DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
AL SINODO PATRIARCALE DELLA CHIESA ARMENO-CATTOLICA

Giovedì, 9 aprile 2015

[Multimedia]



 

Beatitudine, Eccellenze!

Vi saluto fraternamente e vi ringrazio per questo incontro, che si colloca nell’imminenza della celebrazione di domenica prossima nella Basilica Vaticana. Eleveremo la preghiera del suffragio cristiano per i figli e le figlie del vostro amato popolo, che furono vittime cento anni orsono. Invocheremo la Divina Misericordia perché ci aiuti tutti, nell’amore per la verità e la giustizia, a risanare ogni ferita e ad affrettare gesti concreti di riconciliazione e di pace tra le Nazioni che ancora non riescono a giungere ad un ragionevole consenso sulla lettura di tali tristi vicende.

In voi e attraverso di voi saluto i sacerdoti, i religiosi e le religiose, i seminaristi e i fedeli laici della Chiesa Armeno-Cattolica: so che in tanti vi hanno accompagnato in questi giorni qui a Roma, e che molti di più saranno uniti spiritualmente a noi, dai Paesi della Diaspora, come gli Stati Uniti, l’America Latina, l’Europa, la Russia, l’Ucraina, fino alla Madrepatria. Penso con tristezza in particolare a quelle zone, come quella di Aleppo - il Vescovo mi ha detto "la città martire" - che cento anni fa furono approdo sicuro per i pochi sopravvissuti.  Tali regioni, in questo ultimo periodo, hanno visto messa in pericolo la permanenza dei cristiani, non solo armeni.

Il vostro popolo, che la tradizione riconosce come il primo a convertirsi al cristianesimo nel 301, ha una storia bimillenaria e custodisce un ammirevole patrimonio di spiritualità e di cultura, unito ad una capacità di risollevarsi dopo le tante persecuzioni e prove a cui è stato sottoposto. Vi invito a coltivare sempre un sentimento di riconoscenza al Signore, per essere stati capaci di mantenere la fedeltà a Lui anche nelle epoche più difficili. È importante, inoltre, chiedere a Dio il dono della sapienza del cuore: la commemorazione delle vittime di cento anni fa ci pone infatti dinanzi alle tenebre del mysterium iniquitatis. Non si capisce se non con questo atteggiamento.

Come dice il Vangelo, dall’intimo del cuore dell’uomo possono scatenarsi le forze più oscure, capaci di giungere a programmare sistematicamente l’annientamento del fratello, a considerarlo un nemico, un avversario, o addirittura individuo privo della stessa dignità umana. Ma per i credenti la domanda sul male compiuto dall’uomo introduce anche al mistero della partecipazione alla Passione redentrice: non pochi figli e figlie della nazione armena furono capaci di pronunciare il nome di Cristo sino all’effusione del sangue o alla morte per inedia nell’esodo interminabile cui furono costretti.

Le pagine sofferte della storia del vostro popolo continuano, in certo senso, la passione di Gesù, ma in ciascuna di esse è posto il germoglio della sua Resurrezione. Non venga meno in voi Pastori l’impegno di educare i fedeli laici a saper leggere la realtà con occhi nuovi, per giungere a dire ogni giorno: il mio popolo non è soltanto quello dei sofferenti per Cristo, ma soprattutto dei risorti in Lui. Per questo è importante fare memoria del passato, ma per attingere da esso linfa nuova per alimentare il presente con l’annuncio gioioso del Vangelo e con la testimonianza della carità. Vi incoraggio a sostenere il cammino di formazione permanente dei  sacerdoti e delle persone consacrate. Essi sono i vostri primi collaboratori: la comunione tra loro e voi sarà rafforzata dall’esemplare fraternità che essi potranno scorgere in seno al Sinodo e col Patriarca.

Il nostro pensiero riconoscente va in questo momento a quanti si adoperarono per recare qualche sollievo al dramma dei vostri antenati. Penso specialmente a Papa Benedetto XV che intervenne presso il Sultano Mehmet V per far cessare i massacri degli armeni. Questo Pontefice fu grande amico dell’Oriente cristiano: egli istituì la Congregazione per le Chiese Orientali e il Pontificio Istituto Orientale, e nel 1920 iscrisse Sant’Efrem il Siro tra i Dottori della Chiesa Universale. Sono lieto che questo nostro incontro avvenga alla vigilia dell’analogo gesto che domenica avrò la gioia di compiere con la grande figura di San Gregorio di Narek.

Alla sua intercessione, affido specialmente il dialogo ecumenico tra la Chiesa Armeno-Cattolica e la Chiesa Armeno-Apostolica, memori del fatto che cento anni fa come oggi, il martirio e la persecuzione hanno già realizzato “l’ecumenismo del sangue”. Su di voi e sui vostri fedeli invoco ora  la benedizione del Signore, mentre vi chiedo di non dimenticare di pregare per me! Grazie!


MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO 
AGLI ARMENI

 

Cari fratelli e sorelle armeni,

un secolo è trascorso da quell’orribile massacro che fu un vero martirio del vostro popolo, nel quale molti innocenti morirono da confessori e martiri per il nome di Cristo (cfr Giovanni Paolo II e Karekin II, Dichiarazione comune, Etchmiadzin, 27 settembre 2001). Non vi è famiglia armena ancora oggi, che non abbia perduto in quell’evento qualcuno dei suoi cari: davvero fu quello il “Metz Yeghern”, il “Grande Male”, come avete chiamato quella tragedia. In questa ricorrenza provo un sentimento di forte vicinanza al vostro popolo e desidero unirmi spiritualmente alle preghiere che si levano dai vostri cuori, dalle vostre famiglie, dalle vostre comunità.

Ci è data un’occasione propizia di pregare insieme nell’odierna celebrazione, in cui proclamiamo Dottore della Chiesa san Gregorio di Narek. Esprimo viva gratitudine per la loro presenza a Sua Santità Karekin II, Supremo Patriarca e Catholicos di Tutti gli Armeni, a Sua Santità Aram I, Catholicos della Grande Casa di Cilicia, e a Sua Beatitudine Nerses Bedros XIX, Patriarca di Cilicia degli Armeni Cattolici.

San Gregorio di Narek, monaco del X secolo, più di ogni altro ha saputo esprimere la sensibilità del vostro popolo, dando voce al grido, che diventa preghiera, di un’umanità dolente e peccatrice, oppressa dall’angoscia della propria impotenza ma illuminata dallo splendore dell’amore di Dio e aperta alla speranza del suo intervento salvifico, capace di trasformare ogni cosa. «In virtù della sua potenza, io credo con una speranza che non tentenna, in sicura attesa, rifugiandomi nelle mani del Potente ... di vedere Lui stesso, nella sua misericordia e tenerezza e nell’eredità dei Cieli» (San Gregorio di Narek, Libro delle Lamentazioni, XII).

La vostra vocazione cristiana è assai antica e risale al 301, anno in cui san Gregorio l’Illuminatore guidò alla conversione e al battesimo l’Armenia, la prima tra le nazioni che nel corso dei secoli hanno abbracciato il Vangelo di Cristo. Quell’evento spirituale ha segnato in maniera indelebile il popolo armeno, la sua cultura e la sua storia, nelle quali il martirio occupa un posto preminente, come attesta in modo emblematico la testimonianza sacrificale di san Vardan e dei suoi compagni nel V secolo.

Il vostro popolo, illuminato dalla luce di Cristo e con la sua grazia, ha superato tante prove e sofferenze, animato dalla speranza che deriva dalla Croce (cfr Rm 8,31-39). Come ebbe a dirvi san Giovanni Paolo II: «La vostra storia di sofferenza e di martirio è una perla preziosa, di cui va fiera la Chiesa universale. La fede in Cristo, redentore dell’uomo, vi ha infuso un coraggio ammirevole nel cammino, spesso tanto simile a quello della croce, sul quale avete avanzato con determinazione, nel proposito di conservare la vostra identità di popolo e di credenti» (Omelia, 21 novembre 1987).

Questa fede ha accompagnato e sorretto il vostro popolo anche nel tragico evento di cento anni fa che «generalmente viene definito come il primo genocidio del XX secolo» (Giovanni Paolo II e Karekin II, Dichiarazione Comune, Etchmiadzin, 27 settembre 2001). Il Papa Benedetto XV, che condannò come «inutile strage» la Prima Guerra Mondiale (AAS, IX [1917], 429), si prodigò fino all’ultimo per impedirlo, riprendendo gli sforzi di mediazione già compiuti dal Papa Leone XIII di fronte ai «funesti eventi» degli anni 1894-96. Egli scrisse per questo al sultano Maometto V, implorando che fossero risparmiati tanti innocenti (cfr Lettera del 10 settembre 1915) e fu ancora lui che, nel Concistoro Segreto del 6 dicembre 1915, affermò con vibrante sgomento: «Miserrima Armenorum gens ad interitum prope ducitur»,  (AAS, VII [1915], 510).

Fare memoria di quanto accaduto è doveroso non solo per il popolo armeno e per la Chiesa universale, ma per l’intera famiglia umana, perché il monito che viene da questa tragedia ci liberi dal ricadere in simili orrori, che offendono Dio e la dignità umana. Anche oggi, infatti, questi conflitti talvolta degenerano in violenze ingiustificabili, fomentate strumentalizzando le diversità etniche e religiose. Tutti coloro che sono posti a capo delle Nazioni e delle Organizzazioni internazionali sono chiamati ad opporsi a tali crimini con ferma responsabilità, senza cedere ad ambiguità e compromessi.

Questa dolorosa ricorrenza diventi per tutti motivo di riflessione umile e sincera e di apertura del cuore al perdono, che è fonte di pace e di rinnovata speranza. San Gregorio di Narek, formidabile interprete dell’animo umano, sembra pronunciare per noi parole profetiche: «Io mi sono volontariamente caricato di tutte le colpe, da quelle del primo padre fino a quello dell’ultimo dei suoi discendenti, e me ne sono considerato responsabile» (Libro delle Lamentazioni, LXXII). Quanto ci colpisce questo suo sentimento di universale solidarietà! Come ci sentiamo piccoli di fronte alla grandezza delle sue invocazioni: «Ricordati, [Signore,] … di quelli che nella stirpe umana sono nostri nemici, ma per il loro bene: compi in loro perdono e misericordia (...) Non sterminare coloro che mi mordono: trasformali! Estirpa la viziosa condotta terrena e radica quella buona in me e in loro» (ibid., LXXXIII).

Dio conceda che si riprenda il cammino di riconciliazione tra il popolo armeno e quello turco, e la pace sorga anche nel Nagorno Karabakh. Si tratta di popoli che, in passato, nonostante contrasti e tensioni, hanno vissuto lunghi periodi di pacifica convivenza, e persino nel turbine delle violenze hanno visto casi di solidarietà e di aiuto reciproco. Solo con questo spirito le nuove generazioni possono aprirsi a un futuro migliore e il sacrificio di molti può diventare seme di giustizia e di pace.

Per noi cristiani, questo sia soprattutto un tempo forte di preghiera, affinché il sangue versato, per la forza redentrice del sacrificio di Cristo, operi il prodigio della piena unità tra i suoi discepoli. In particolare rinsaldi i legami di fraterna amicizia che già uniscono la Chiesa Cattolica e la Chiesa Armena Apostolica. La testimonianza di tanti fratelli e sorelle che, inermi, hanno sacrificato la vita per la loro fede, accomuna le diverse confessioni: è l’ecumenismo del sangue, che condusse san Giovanni Paolo II a celebrare insieme, durante il Giubileo del 2000, tutti i martiri del XX secolo. Anche la celebrazione di oggi si colloca in questo contesto spirituale ed ecclesiale. A questo evento partecipano rappresentanze delle nostre due Chiese e si uniscono spiritualmente numerosi fedeli sparsi nel mondo, in un segno che riflette sulla terra la comunione perfetta che esiste tra gli spiriti beati del cielo. Con animo fraterno, assicuro la mia vicinanza in occasione della cerimonia di canonizzazione dei martiri della Chiesa Armena Apostolica, che avrà luogo il 23 aprile prossimo nella Cattedrale di Etchmiadzin, e alle commemorazioni che si terranno ad Antelias in luglio.

Affido alla Madre di Dio queste intenzioni con le parole di san Gregorio di Narek:

«O purezza delle Vergini, corifea dei beati,
Madre dell’edificio incrollabile della Chiesa,
Genitrice del Verbo immacolato di Dio,
(…)
rifugiandoci sotto le ali sconfinate di difesa della tua intercessione,
innalziamo le nostre mani verso di te,
e con indubitata speranza crediamo di essere salvati».
(Panegirico alla Vergine)

Dal Vaticano, 12 aprile 2015

Francesco


 


Caterina63
00domenica 12 aprile 2015 15:42
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  Il discorso di Sua Santità Karekin II, Patriarca Supremo e Catholicos di Tutti gli Armeni


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In occasione della Santa Messa celebrata nella Basilica di San Pietro per i fedeli di Rito Armeno


Sua Santità e amato Fratello in Cristo,


Grazie alla volontà misericordiosa del Signore, abbiamo l’opportunità di visitare ancora una volta la città di Roma. Siamo venuti con il Presidente della Repubblica di Armenia, Serge Sargsyan, con il Catholicos della Grande Casa di Cilicia, Aram I, con i Vescovi della Chiesa Armena e con i rappresentantidei fedeli armeni sparsi in tutto il mondo, portando nella nostra anima la gioia della Resurrezione, retaggio della nostra tradizione cristiana, per porgere alla Sua Santità i nostri saluti fraterni e i nostri migliori auguri, e per partecipare, con le nostre preghiere, alla Santa Messa celebrata nella Basilica di San Pietro in ricordo delle vittime del Genocidio Armeno.


Esprimiamo la profonda soddisfazione Nostra e del nostro popolo, per il conferimento da parte della Chiesa Cattolica del titolo di “Dottore della Chiesa” secondo la definizione della Chiesa Cattolica a San Gregorio di Narek, uno dei padri della Chiesa Armena, durante questa cerimonia che testimonia l’amicizia delle nostre due Chiese sorelle. Nel X secolo San Gregorio di Narek, maestro di preghiere e illuminatore dell'universo, rivolse ‘‘dal profondo del cuore colloquio con Dio’’ la preghiera di penitenza e di confessione di tutte le generazioni dell’umanità. Il santo monaco con il suo ‘Libro vivente’, adorato dal popolo armeno, indicò ai ‘‘peccatori e onesti, superbi e umili, buoni e cattivi (Parola 3) la via della salvezza per grazia di Cristo, guidando i devoti di tutti i tempi verso il Signore.


Il nostro popolo, che diede i natali a Gregorio di Narek, durante la sua storia, fu sottoposto a molte vicissitudini e affrontò parecchie tentazioni in nome della sua fede e della sua identità.


Un secolo fa, la Turchia ottomana perpetrò il genocidio del nostro popolo. Secondo un piano premeditato, un milione e mezzo di Armeni furono sterminati con una crudeltà indicibile. Il nostro popolo antico fu sradicato dalla sua culla, dalla sua Patria storica e si disperse nel mondo. Il nostro patrimonio cristiano secolare fu demolito, distrutto e saccheggiato.


Pero, né la sofferenza, né le persecuzioni scossero il nostro popolo che accettò di morire piuttosto che ripudiare la propria Santa Fede e la propria nazione.


Oggi appare davanti ai nostri occhi la grandezza della bravura spirituale di fronte al martirio che la nostra nazione manifestò, proclamando di nuovo la formula dell’identità stabilita ancora nel V secolo, e ricordando di possedere la cristianità non come un abito, ma come colore della nostra pelle. (Storico Eghishe).


Con la caritatevole misericordia del Signore, il nostro popolo, dopo parecchie atrocità e privazioni, raddrizzò la propria schiena, portando avanti una nuova vita nelle comunità della Diaspora e sotto l’egida dello Stato ristabilito nella parte orientale dell’Armenia. Il nostro popolo segui il suo percorso di recupero con uno straordinario coraggio nell’affrontare le numerose privazioni e le difficoltà. E anche oggi la nostra nazione vive nel blocco delle frontiere imposte da parte di Turchia e dall'Azerbaijan, lotta per la vita libera in Nagorno-Karabakh, continua a impegnarsi per il riconoscimento del Genocidio degli Armeni e rivendica il diritto alla memoria, alla verità storica. All’epoca, l’umanità non riuscì a impedire il Genocidio degli Armeni, di sopprimere le conseguenze e fu il testimone dell’Olocausto, dei genocidi di Cambogia, di Ruanda, di Darfur e altri.


Ancora oggi l’umanità e le singole nazioni, a causa dei conflitti armati, delle guerre e degli atti di terrorismo, vive in privazioni e in difficoltà e paga per la sua fede versando il proprio sangue. Noi siamo convinti che il riconoscimento universale del Genocidio degli Armeni, come un esempio importante di realizzazione della giustizia, della protezione dei diritti umani, contribuirà alla creazione di un mondo più sicuro e legittimo.


In questo senso il 100anniversario del Genocidio degli Armeni è un potente richiamo al mondo a non essere indifferenti di fronte ai patimenti e ai martiri odierni e a fare più sforzi per fermare le aggressioni ingiuste e per prevenire le violenze che temprano la gente nella sofferenza. Ecco il frutto che deve germogliaredalla radice del martirio.


Durante questa Santa Messa, offerta in occasione del Centenario del Genocidio Armeno, in ricordo delle anime per le nostre vittime innocenti, noi ricordiamo i Venerandi Predecessori di Sua Santità, Papa Benedetto XV, che fece sentire la sua voce di protesta riguardante il Genocidio degli Armeni, e il Santo Papa Giovanni Paolo II, che nel 2001, con una dichiarazione congiunta, riconobbe e condannò il Genocidio degli Armeni. A questo riguardo la pubblicazione deidocumenti inediti, custoditi negli Archivi Vaticani è di grande importanza.


Il nostro popolo esprime la sua profonda gratitudine alle nazioni, organizzazioni e individui che ebbero il coraggio e la convinzione di non solo riconoscere e condannare ad alta voce il genocidio armeno, ma anche di realizzare missioni umanitarie, prendendo cura degli orfani, dando rifugio ai sopravvissuti e aiutandoli a superare parecchie difficoltà.


Il 23 Aprile 2015, in occasione del 100º anniversario del genocidio degli Armeni, in Santa Sede di Etchmiadzin, con la partecipazione orante delle nostre Chiese sorelle, inclusi irappresentanti di Sua Santità, illustri ospiti e fedeli armeni di tutto il mondo, sarà annunciata la canonizzazione di innumerevoli vittime del genocidio che scelserola corona delmartirio in nome della propria fede e della propria patria. Chiederemo l’intercessione di questi nostri santi martiri che aderiscano all’esercito delle schiere celesti, affinché la pace divina propaghi sulla vita umana e che le tragedie del genocidio non abbiano più luogo nel mondo.


Amato Fratello in Cristo, condividiamo la Sua opinione che il martirio non conosce differenze confessionali. Infatti, i martiri ci uniscono come figli e servitori di un unico Signore Gesù Cristo affinché impariamo e ci impegniamo a stabilire l’amore, la giustizia, la pace nel mondo e ad avviare un dialogo tra le religioni e le civiltà come ci insegna il messaggio scritturale: Facciamo attenzione gli uni agli altri per incitarci a carità e a buone opere (Ebrei 10:24).


Ci auguriamo che la nostra preghiera e le nostre suppliche rivolte al cielo, da questa Sacra Basilica di San Pietro, siano udite dal Nostro Padre e la Sua grazia e la Sua benedizione sostengano i nostri sforzi per il nostro cammino nell’instaurazione della pace nel mondo. Preghiamo Dio per il benessere della Sua Santità, per la prosperità della Chiesa Cattolica e chiediamo che la misericordia, l'amore e le grazie di Dio siano con noi e con tutti,invocando le parole esternate dal cuoredi San Gregorio di Narek, Dottore della Chiesa e l'Illuminatore dell'Universo :


"Tu che sei potente per trovare tutte le soluzioni necessarie,


donami uno spirito di salvezza,


una destra di protezione,


una mano caritatevole,


un ordine di bontà,


una luce di misericordia,


una parola di rinnovamento,


un motivo di perdono,


un bastone di aiuto per conservare la vita.


Perché Tu sei speranza di rifugio, oh Signore Gesù Cristo,


benedetto con il Padre per il Tuo Spirito Santo


nei secoli dei secoli.” ( Gregorio di Narek, Parola 59)


Amen


    



L'INAUDITA RISPOSTA DELLA TURCHIA.....


2015-04-12 Radio Vaticana

In seguito alle parole del Papa pronunciate questa mattina nella Basilica di San Pietro durante la Messa per il centenario del “martirio” armeno, il governo turco ,da sempre sensibile all’uso del termine "genocidio" per quanto riguarda l’eccidio armeno tra il 1915 e il 1917, ha richiamato l'ambasciatore presso la Santa Sede per consultazioni  e ha convocato il nunzio apostolico ad Ankara, monsignor Antonio Lucibello, a cui ha manifestato il proprio disappunto.

(Da Radio Vaticana)


Parole su "genocidio" armeno: protesta dell'ambasciata turca

Papa Francesco in San Pietro per il centenario del martirio armeno - ANSA

13/04/2015 

L'ambasciata della Turchia presso la Santa Sede definisce "inaccettabile" quanto detto dal Papa ieri nella Basilica di San Pietro in occasione della Messa per il centenario del “martirio” armeno. Papa Francesco, citando testualmente la Dichiarazione Comune di Giovanni Paolo II e Karekin II, risalente al 2001, aveva parlato del massacro degli armeni, iniziato nel 1915, come «il primo genocidio del XX secolo» durante il quale vennero “uccisi vescovi, sacerdoti, religiosi, donne, uomini, anziani e persino bambini e malati indifesi”. Ankara ha richiamato l'ambasciatore presso la Santa Sede per consultazioni e ha convocato il nunzio apostolico in Turchia, mons. Antonio Lucibello, a cui ha manifestato il proprio disappunto.

 
 
Genocidio armeno, vittime
 

Nel saluto prima della Messa in San Pietro per i fedeli di rito armeno, Papa Francesco definisce apertamente "genocidio" quello subito dagli armeni nella Turchia del 1915. Il termine genocidio non è casuale e non è affatto scontato. L'avvocato polacco Lemkin lo coniò nel 1944 e venne applicato per la prima volta al caso della Shoah. Il precedente più celebre pre-XX Secolo, è lo sterminio dei cattolici in Vandea da parte dei giacobini.

di Marco Respinti

Le parole pronunciate dal Papa sul genocidio degli armeni hanno provocato una dura reazione da parte delle autorità turche. Il nunzio della Santa Sede ad Ankara Antonio Lucibello è stato convocato dal Ministero degli Esteri per esprimere il «disappunto» e la protesta del governo. Ankara ha poi richiamato il proprio ambasciatore presso il Vaticano.

Le parole e i gesti di un pontefice ‒ cioè del pontefice ‒ non sono mai solo di circostanza, nemmeno quando sono le circostanze a imporlo; ma le parole pronunciate e i gesti compiuti da Papa Francesco domenica 12 aprile nel saluto prima della Messa in San Pietro per i fedeli di rito armeno sono di una gravitas eccezionale. Proclamando dottore della Chiesa l’armeno san Gregorio di Narek (951-1003), alla presenza del presidente dell’Armenia Serž Sargsyan, del Patriarca e Catholicos di tutti gli armeni Karekin II, del Catholicos della Grande Casa di Cilicia Aram I e del Patriarca di Cilicia degli armeni cattolici Nerses Bedros XIX, il pontefice ha infatti ricordato solennemente ilMetz Yeghérn (“Il grande male”), ovvero l’olocausto di 1 milione e 400mila cristiani armeni, compiuto dai Giovani Turchi tra 1915 e 1923 a pochi giorni dal centenario esatto, la notte tra il 23 e il 24 aprile, dell’inizio del massacro.

Non ha domandato il permesso a nessuno, il Papa, e senz’alcun giro di parole ha definito «genocidio» quell’eccidio. Lo ha fatto ben due volte in un messaggio in sé davvero breve. Una prima volta denunciando quella «sorta di genocidio causato dall’indifferenza generale e collettiva, dal silenzio complice di Caino», in cui viviamo oggi, ovvero tempi di colossale menzogna e di cristianofobia davvero senza precedenti; e una seconda utilizzando le parole usate nella Dichiarazione comune sottoscritta nella cattedrale di Etchmiadzin dal Papa della Chiesa Cattolica san Giovanni Paolo II (1920-2005) e del Patriarca e Catholicos di tutti gli armeni Karekin II il 27 settembre 2001 nel 1700° anniversario della proclamazione del cristianesimo quale religione dell’Armenia: «il primo genocidio del XX secolo».

Attraversando come un rasoio le dispute degli storici e bypassando le controversie dei filologi, Francesco si è assunto la responsabilità culturale (e, da Papa, non solo quella culturale) di definire così il massacro dei cristiani armeni, per di più chiamando a testimone e vincolo il Magistero immutabile della Chiesa qui nella forma delle parole di san Giovanni Paolo II.

“Genocidio”, infatti, è un termine pesante, scomodo, addirittura tabù. Da usare con il contagocce, e giustamente. Perché non è mero sinonimo di “massacro”, ma un che di qualitativamente diverso. “Genocidio” è un neologismo, coniato ad hoc per supplire alle carenze della lingua di fronte a quel che i nazionalsocialisti fecero agli ebrei: che non era un eccidio, come i tanti purtroppo narratici dalla storia, ma il progetto cosciente e preciso di annientare per sempre un’intera porzione del genere umane e la sua relativa messa in atto. Non esisteva il vocabolo e l’avvocato polacco Raphael Lemkin (1900-1959) lo creò nel 1944 lavorando di cesello con il sostantivo greco genos e il latino genus, “popolo”, “stirpe”, “famiglia”, “parentela”. “Genocidio” ha dunque un preciso valore legale definito da un criterio oggettivo che invece “massacro” ed “eccidio”, per quanto gravi, non hanno: lo documenta acribicamente Carmelo Domenico Leotta in Il genocidio nel diritto penale internazionale. Dagli scritti di Raphael Lemkin allo Statuto di Roma (Giappichelli, Torino 2013). Perché vi sia “genocidio” non è sufficiente che un gran numero di vittime e una particolare efferatezza: serve che le vittime siano identificabili oggettivamente, oltre la parti in causa, come “gruppo umano” sufficientemente omogeneo e comunque identitario sul piano etnico, culturale o religioso, e che nei loro confronti venga progettato e tentativamente realizzato uno sterminio totale, sistematico ed esplicito in odio a quella loro omogeneità identitaria.

Grazie a ciò la storia ha dunque potuto trascinare in tribunale i nazisti per il genicidio degli ebrei e può accusare i turchi del genocidio dei cristiani armeni. La definizione di Lemkin ha infatti il vantaggio di essere retroattiva. Creata per colpire il Terzo Reich per un crimine creduto nuovo, è indispensabile per colpire crimini in realtà vecchi. Dato che il caso armeno ne soddisfaceva le condizioni, “genocidio” fu applicato al Metz Yeghérn e prima di esso al genocidio della Vandea, una regione dell’Ovest francese identitariamente cattolica a cui la benedetta cocciutaggine e la grande scienza storica di cui è dotato lo specialista Reynald Secher hanno dimostrato (non senza difficoltà, incomprensioni e guai) applicarsi le condizioni giuridiche richieste da Lemkin in opere imprescindibili quali Il genocidio vandeano (con una Prefazione di Pierre Chaunu [1923-2009] e unaPresentazione di Jean Meyer, trad. it., Effedieffe, Milano 1991) e La guerra di Vandea e il Sistema di Spopolamento (trad. it., Effedieffe, Milano 1991) di Jean-Noël “Gracchus” Babeuf (1760-1797), da lui curato assieme a Jean-Joël Brégeon.

Da allora, pur fra polemiche incessanti (e da quelle di basso cabotaggio, magari anche tra i “buoni”, non è proprio necessario lasciarsi distrarre), quella del genicidio vandeano è divenuta una scienza (quasi esatta), dotata di un formidabile strumento qual è il Centre Vendéen de Recherches Historiques di La Roche-sur-Yon, fondato nel 1994, e forte di pietre miliari come le 700 pagine di Vendée. Les archives de l’extermination (Éditions du CVRH, 2013) firmate dal suo fondatore, lo storico Alain Gérard docente alla Sorbona.

E il riferimento alla Vandea è obbligato perché non uno ma ben due Papi, san Giovanni Paolo II e Francesco, definiscono lucidamente quello armeno «il primo genocidio del XX secolo». Vale a dire che il secolo XX ha conosciuto, dopo, altri genocidi, per esempio quello degli ebrei ma non solo; e che quello armeno è il primo genocidio del Novecento ma non il primo in assoluto della storia, essendolo invece (questo è parte della “scienza quasi esatta” di cui sopra) quello vandeano. Papa Francesco lo sa bene e lo dice al mondo. Il Novecento ha cominciato con gli armeni, ha proseguito con gli ebrei e ha continuato indisturbato «in Cambogia, in Ruanda, in Burundi, in Bosnia». Il Pontefice ha del resto avuto la profonda finezza storica di precisare che assieme al popolo armeno, «prima nazione cristiana», la follia genocida turca ha massacrato anche siri cattolici e ortodossi, assiri, caldei e quei greci che amano ancora definirsi antiocheni; non tutti lo sanno, non tutti lo vogliono sapere.

Ma il Papa non si è fermato ancora. Ha pure “osato” mettere sullo stesso piano, in modo politicamente scorretto quanto concettualmente precisissimo, nazismo e stalinismo, genocidi entrambi. Per il secondo la memoria va certamente almeno all’Holodomor, il genocidio ucraino per carestia indotta tra 1929 e 1933.

E la specchiata, riconosciuta superiorità del Papa a qualsiasi (malevolo) sospetto taglia del resto già le gambe a ogni eventuale quanto maliziosa critica: la retroattività del termine “genocidio” non relativizza affatto la gravità della Shoah ebraica allo scopo di cancellarla. Anzi. Se ogni genocidio è infatti certamente unico, comprendere e far comprendere che purtroppo il crimine genocida si è più volte ripetuto nella storia ‒ nella storia dell’evo moderno definito dalla secolarizzazione e delle ideologie ‒ serve a rafforzare la guardia. Avere dimenticato la Vandea, ha permesso l’Armenia e la Shoah, dice bene Secher in un suo libro del 1991, Juifs et Vendéens, d'un génocide à l'autre, la manipulation de la mémoire (Olivier Orban, Parigi).
E lo stesso dice oggi al mondo il presidente dell’Armenia Sargsyan: «il Santo Padre ha lanciato un vigoroso messaggio alla comunità internazionale», che «i genocidi non condannati rappresentano un pericolo per l’intera umanità». Ovvio, dal suo punto di vista, che la Turchia scossa tra retaggio del nazionalismo laicistico e islamismo incipiente vada su tutte le furie. Ma ha torto marcio come tutti gli ideologi genocidi.





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