Visita Apostolica della Santa Sede presso gli Ordini religiosi Femminili in America

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Caterina63
00sabato 17 ottobre 2009 14:14
La Santa Sede ordina (dal Febbraio 2009) una visita apostolica presso gli Istituti religiosi femminili degli Stati Uniti d’America

CITTA’ DEL VATICANO - La Congregazione vaticana per gli Istituti di Vita Consacrata e le Societa' di Vita Apostolica ha avviato una visita apostolica per studiare gli istituti religiosi femminili degli Stati Uniti che attraversano una profonda crisi. Si tratta di una ''visita apostolica'' che seguira' le consuete regole canoniche ma per la prima volta sara' utilizzata anche Internet per avviare un dialogo con le religiose che potranno cosi' fornire informazioni sulla loro attivita' ma anche conoscere come procederanno le diverse fasi dell'ispezione.

La visita e' stata promossa dal prefetto del dicastero, il Cardinale sloveno Franc Rode' con decreto emesso il 22 dicembre scorso. Lo scopo e' ''osservare la qualita' della vita dei membri di questi istituti religiosi''.

La visita sara' condotta sotto la direzione di Madre Mary Clare Millea, nominata da Rode' Visitatore Apostolico. Madre Millea, originaria del Connecticut, e' superiora generale delle Apostole del Sacro Cuore di Gesu', un istituto religioso internazionale con base a Roma che ha circa 1250 suore professe nel mondo, di cui 135 negli Stati Uniti. Madre Millea raccogliera' e analizzera' dati e osservazioni sulla vita religiosa degli istituti apostolici, quelli impegnati attivamente nel servizio alla Chiesa e alla societa'. Le religiose contemplative, che hanno stili di vita diversi, non sono coinvolte nello studio.

 Al termine della visita, Madre Millea sottoporra' un rapporto privato al card. Rode'. Anche se non c'e' una scadenza, spera di concludere l'iniziativa entro il 2011. Le religiose cattoliche sono state coinvolte negli Stati Uniti in apostolati come l'istruzione, l'assistenza sanitaria e una serie di servizi pastorali e sociali da prima che la Nazione venisse fondata. Secondo il Centro per la Ricerca Applicata nell'Apostolato (CARA), con base a Washington, negli ultimi 40 anni il numero di religiose statunitensi e' diminuito, mentre l'eta' media continua ad aumentare.

In occasione dell'iniziativa, e' stato lanciato il sito
http://apostolicvisitation.org/en/index.html  per fornire informazioni sul progetto.

''Ho accettato molto umilmente e sono un po' sopraffatta'', ha detto madre Millea commentando la sua nomina. ''Se ho visitato ogni comunita' e missione della mia congregazione, il pensiero di raccogliere fatti e dati di quasi 400 istituti degli Stati Uniti puo' fare impressione''. ''Prego per tutte le suore che verranno coinvolte in questa visita, e spero nelle loro preghiere, sia per il successo dell'iniziativa che per il mio ruolo - ha aggiunto -. Chiedo anche le preghiere del clero e dei fedeli americani''.

Per la visitatrice apostolica, ''l'obiettivo di questa visita e' incoraggiare e rafforzare le comunita' apostoliche di religiose, per la semplice ragione che queste comunita' sono parte integrante della vita della Chiesa cattolica, negli Stati Uniti e fuori''. In proposito, madre Millea ha affermato di non sentirsi costretta a visitare ogni comunita' di religiose, ma di voler sapere e imparare meglio le tante dimensioni della vita religiosa femminile, cosi' come il suo prezioso contributo alla Chiesa e alla società''.

Fonte: Petrus

Caterina63
00sabato 17 ottobre 2009 14:15
A che punto siamo? Occhiolino

domenica 9 agosto 2009
La visitazione apostolica alle suore americane si fa interessante
 
commento da Messainlatino

Gli artritici ordini femminili statunitensi sono in buona misura una riserva del moribondo cattoprogressismo americano Sixties & Seventies. Qualcosa da cui le nostre care suore in Italia sono state maggiormente preservate. Non v'era dubbio che la visita apostolica decisa dal Vaticano avesse in vista proprio un 'richiamo all'ordine' di certe pasionarie settuagenarie, rimaste mentalmente alla generazione hippy e beat (come nella foto qui sopra). Quelle sempre arrabbiate, specie col Papa (quale che sia, beninteso), troppo retrogrado e "romano", con la politica, con la società, col maschilismo imperante e con l'oppressione femminile (di cui l'odiato velo è, chiaramente, un emblema: ma allora perché si son fatte suore? Mah: forse per il gusto di poterselo togliere come fosse un atto di sfida). Damian Thompson definisce salacemente questo genere di suore le "Sisters of perpetual Indignation". Ed ecco un articolo sulla visitazione apostolica in corso.


(a tal proposito vi rammentiamo il therad aperto da Daniele: PRIMA E DOPO )



Era stata presentata come una indagine sugli "stili di vita" delle suore degli Stati Uniti, ma la visitazione apostolica decisa dal Vaticano a fine 2008 ricomprende, via via che si definisce meglio, anche il tema della disobbedienza dottrinale e della fedeltà al magistero conciliare e post-conciliare della Chiesa cattolica. Partita in sordina, l'inchiesta ha attratto sempre più l'attenzione dei giornali americani, delle televisioni radiofoniche e dei forum su internet.
Gli ambienti progressisti del cattolicesimo Usa temono un giro di vite nei confronti delle congregazioni religiose più aperturiste. Ha dato la stura al dibattito, in particolare, quella che doveva essere una e-mail privata di suor Sandra M. Schneiders, docente di Nuovo Testamento e Spiritualità cristiana alla Scuola di teologia dei gesuiti di Berkeley (California).
"Non attribuisco assolutamente alcuna credibilità all'affermazione che si tratti di una visitazione amichevole, trasparente, tesa ad aiutarci, eccetera. E' una mossa ostile e le conclusioni sono già scritte", ha affermato la religiosa. "Non possiamo impedirgli di indagare. Ma possiamo riceverli, cortesemente e gentilmente, per quello che sono, ospiti non invitati che vanno ricevuti nell'anticamera e non vanno lasciati girare per casa", ha aggiunto nella mail divenuta pubblica.
Nei mesi scorsi la Santa Sede ha lanciato, oltre alla visitazione delle 59 mila suore impegnate nell'apostolato (sono esclusi, quindi, i monasteri di clausura), anche un 'accertamento dottrinale' sulla Leadership Conference of Women Religious, un'organizzazione progressista di religiose. Se il decreto approvato dal Papa e promosso dal card. Franc Rodé e da mons. Gianfranco A. Gardin, rispettivamente prefetto e segretario della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, stabiliva che l'iniziativa della Santa Sede "indaga la qualità di vita delle donne religiose negli Stati Uniti", ora si va delineando un campo di applicazione ben più ampio.
L'inviata vaticana, suor Clare Millea, ha pubblicato in questi giorni sul sito della visitazione (
http://www.apostolicvisitation.org/) le linee guida dell'indagine (in latino, 'Instrumentum laboris').
"Particolare attenzione - vi si legge - verrà data alla significativa testimonianza del voto di ogni religiosa all'interno dell'eredità del carisma di ogni istituto e fedelmente agli insegnamenti della Chiesa e al rinnovo indicato dal Concilio vaticano II e dai documenti post-conciliari".
La bozza vaticana prevede poi una serie di domande su sei argomenti diversi (identità, governo, promozione della vocazione, vita spirituale, missione e ministero, amministrazione finanziaria). Tra le domande, non mancano riferimenti all'obbedienza al magistero ecclesiastico.
"Qual è il processo per rispondere alle sorelle che dissentono pubblicamente o privatamente dall'insegnamento autoritativo della Chiesa? Qual è il processo per rispondere alle sorelle che non concordano pubblicamente o privatamente con le decisioni della congregazione, soprattutto per quanto riguarda le questioni di autorità della Chiesa?".




Fonte: Apcom, via Papa Ratzinger blog
Caterina63
00sabato 17 ottobre 2009 14:31
 Sorriso da padre Giovanni Scalese un nuovo aggiornamento molto interessante...

CLICCARE QUI per il collegamento


lunedì 12 ottobre 2009

Concilio e vita religiosa

Negli Stati Uniti è in corso una visita apostolica alle comunità di suore, segno questo della profonda preoccupazione della Santa Sede nei confronti la vita religiosa femminile in quel paese. Le reazioni contro della visita sono state spesso violente. Non è questo il caso di un articolo apparso sull’ultimo numero di America, la rivista dei Gesuiti americani, dal titolo “Confessioni di una suora moderna”, a firma di Sr. Ilia Delio, delle Suore Francescane di Washington. Potete trovare una traduzione italiana nel blog Messainlatino.it (consiglio chi conosce l’inglese di leggere direttamente l’originale, sia perché la traduzione è incompleta — manca della parte autobiografica, che svolge un ruolo non secondario nell’economia dell’articolo — sia perché dall’originale è piú facile cogliere il reale stato d’animo dell’autrice).

Nonostante una certa farraginosità, l’articolo è apprezzabile, perché l’autrice si mostra fondamentalmente onesta, non si lascia andare a sterili polemiche e si sforza di presentare obiettivamente la situazione della vita religiosa in America oggi. Attualmente si fronteggiano negli Stati Uniti due modi diversi di interpretare e vivere la vita religiosa: da una parte ci sono gli istituti che, dopo il Concilio, hanno attuato una radicale trasformazione, abbandonando buona parte delle tradizionali pratiche della vita religiosa (inclusa spesso la stessa vita comune), insistendo maggiormente su una immersione nel mondo; dall’altra, ci sono non poche nuove comunità che, pur non potendo essere ricondotte alla galassia tradizionalista, hanno riscoperto il valore di alcune forme tradizionali. I due schieramenti fanno riferimento a due distinte associazioni. Segno esteriore dell’appartenenza al primo o al secondo schieramento è l’uso (o il non-uso) dell’abito religioso.

Prendendo a prestito gli strumenti forniti da Padre Radcliffe, Sr. Delio individua il discrimine che divide le suore americane in «due differenti teologie basate su differenti interpretazioni del Vaticano II» (emblematicamente, l’ex-Maestro generale dei Domenicani riconduceva tali opposte teologie alle due riviste teologiche apparse in Europa nel postconcilio: Concilium e Communio). La prima interpretazione del Concilio è quella di chi sottolinea in esso l’aspetto di rottura con il passato; la seconda, quella di chi invece evidenzia soprattutto l’aspetto di continuità.

L’autrice dell’articolo, con molta onestà, riconosce che, se si deve dare retta ai numeri, il futuro appartiene alle comunità rimaste fedeli alla tradizione, dal momento che esse possono contare su nuove vocazioni, mentre quelle che hanno rotto col passato stanno subendo un forte invecchiamento e sono destinate, prima o poi, a scomparire.

Ma quel che meraviglia è che, nonostante il riconoscimento di tale situazione, Sr. Delio non mette in alcun modo in discussione le proprie scelte; anzi, le conferma, vedendo in esse una maggiore fedeltà al Vangelo. Non che con ciò voglia accusare lo schieramento opposto di infedeltà al Vangelo; anzi, si sforza di presentare le due opzioni come due modi diversi, entrambi legittimi di vivere la vita religiosa:

«Entrambi i gruppi contemporanei di religiose ... testimoniano il Vangelo rivelato in Gesú Cristo, ma le loro traiettorie differiscono. Le prime [le “tradizionaliste”] cercano innanzi tutto di essere spose di Cristo; la loro preoccupazione è una unione nuziale celeste. Il secondo gruppo [quello delle suore “postconciliari”] innanzi tutto segue Cristo liberatore, testimoniando Cristo in mezzo ai conflitti della storia. In ambedue i gruppi si possono trovare idoli, segreti e disfunzioni, cosí come santi, profeti e mistici. Entrambi i gruppi sono peccatori e redenti. Entrambi seguono il diritto canonico; entrambi hanno l’assicurazione contro le malattie, l’assicurazione per l’auto, i fondi pensione e un posto per la sepoltura».

***

Tale equiparazione mi piace, perché la trovo molto cattolica: invita a non assolutizzare nulla e a guardare con estremo realismo a qualsiasi esperienza presente nella Chiesa. Eppure c’è qualcosa che non torna nel discorso di Sr. Ilia. Io sono il primo a riconoscere che nella Chiesa c’è posto per tutti, per le esperienze piú diverse. Non esiste un solo modo di vivere il Vangelo; lo Spirito soffia dove vuole e distribuisce a piene mani i suoi doni, e dobbiamo essere sempre pronti a riconoscere e valorizzare tali doni. Mi sta tutto bene. Ma nel caso presente, non mi sembra che si possa applicare un simile discorso. Perché in questo caso si tratta, come giustamente rileva l’autrice, dell’atteggiamento da tenere nei confronti del Concilio Vaticano II. E in questo ambito non mi sembra che ci sia possibilità di pluralismo. L’atteggiamento non può che essere uno solo: quello della “ermeneutica della continuità”, come ci ricorda Benedetto XVI. L’altro atteggiamento, quello della “ermeneutica della rottura”, è semplicemente da rigettare: non si tratta di una possibile opzione alternativa.

L’articolo in questione è un esempio lampante di quanto un atteggiamento di difesa a oltranza Concilio si traduca spesso in un completo tradimento di esso. Sr. Delio fa continuo riferimento al Vaticano II, senza mai citarlo: per lei (come per tanti altri) il Concilio si identifica piú con il cosiddetto “spirito del Concilio” che non con i suoi documenti. Basti questo passaggio rivelatore:

«La Leadershp Conference of Women Religious [l’associazione delle suore progressiste] ha continuato nello spirito del Vaticano II ad essere aperta al mondo, esplorando nuove strade, fra cui la teologia della liberazione, la teologia femminista e l’impegno per i poveri».

Per cui, secondo la nostra cara suorina, il Concilio si identificherebbe con la teologia della liberazione, la teologia femminista e l’impegno per i poveri. Ma ha mai letto Sr. Ilia il decreto Perfectae caritatis sulla vita religiosa? È proprio sicura che ci siano scritte queste cose?

Il colmo è poi quando incomincia a parlare di Teilhard de Chardin. Che tale teologo abbia avuto un certo influsso sul Vaticano II, non c’è dubbio; ma che egli possa essere considerato come la chiave di lettura del Concilio, avrei qualche dubbio.

Personalmente ho un grande rispetto per Sr. Delio e per tanti che, come lei, hanno fatto certe scelte. Tali scelte non sono state fatte, il piú delle volte, per motivi ideologici, ma sono il risultato di sofferte esperienze personali. Per questo dicevo che la parte autobiografica dell’articolo ha la sua importanza. Non ho alcuna difficoltà a comprendere le difficoltà incontrate da Sr. Ilia nella sua prima esperienza di vita religiosa:

«La mia visione idealizzata di vita religiosa cominciò a crollare nella clausura. Per giorni e giorni riconobbi quanto ero lontana da ogni nobile aspirazione di santità. Vivevo con donne che soffrivano di depressione maniacale, venivano da famiglie alcolizzate o erano diventate vedove da giovani. C’era poca condivisione personale e poco contatto con il mondo».

Che questa possa essere la situazione di molti monasteri non faccio fatica ad ammetterlo. Anche nella vita religiosa non claustrale sperimentiamo quotidianamente i limiti della nostra umanità. Il problema è quello di essersi illusi che tali problemi dipendessero esclusivamente dalle strutture della vita religiosa e che si potessero risolvere intervenendo, appunto, sulle strutture. Fino ad arrivare al punto di abbandonare la stessa vita comune. Mi sembra una soluzione piuttosto comoda: siccome incontro difficoltà a vivere con gli altri, mi metto per conto mio. Alla faccia di tanti bei discorsi! Che ci fosse bisogno di un adattamento delle strutture, fu il Concilio stesso a riconoscerlo, ma senza stravolgere la natura della vita religiosa. Anzi, il Concilio invitava i religiosi a tornare «alle fonti di ogni forma di vita cristiana e alla primitiva ispirazione degli istituti» (Perfectae caritatis, n. 2). Il vero rinnovamento, secondo il Concilio, doveva essere, prima che rinnovamento delle strutture, un «rinnovamento spirituale» (ibid.).

Se leggete con attenzione l’articolo, vi accorgerete che torna continuamente il discorso sull’uso dell’abito (io ho contato ben 12 ricorrenze). Si direbbe che il pensiero dell’abito, in queste suore che lo hanno abbandonato, sia diventato una specie di ossessione. La giustificazione che per lo piú viene portata per l’abbandono dell’abito, è che esso sarebbe un ostacolo che impedisce di rapportarsi con gli altri. Chi fa uso di un abbigliamento religioso sa benissimo che non è vero: se incontriamo difficoltà a rapportarci agli altri, ciò dipende assai piú probabilmente dal nostro carattere che non dal modo come siamo vestiti. Se c’è un motivo recondito che ci spinge ad abbandonare l’abito religioso, questo è solo quello di passare inosservati, di mimetizzarci nella massa, di non aver noie. Ma, a parte tali considerazioni, mi piacerebbe sapere dove le suore progressiste trovino nel Concilio, a cui continuamente si appellano, l’indicazione ad abbandonare l’abito religioso? Il decreto Perfectae caritatis afferma:

«L’abito religioso, segno della consacrazione, sia semplice e modesto, povero e nello stesso tempo decoroso, come pure rispondente alle esigenze della salute e adatto sia ai tempi e ai luoghi, sia alle necessità dell’apostolato. Gli abiti dei religiosi e delle religiose che non concordano con queste norme, siano modificati» (n. 17).

Il Concilio dice di modificare gli abiti non corrispondenti ai criteri indicati, non di sopprimere l’abito religioso. Ecco un bell’esempio di fedeltà al Concilio! Alla vita religiosa è successo qualcosa di simile a ciò che è accaduto alla liturgia: in nome del Concilio, ci si è infischiati di quanto il Concilio aveva detto.

Il caso dell’abito religioso mi pare emblematico. Si è fatto di tutto per convincerci che si trattava di una questione secondaria (e in effetti lo è: non basta portare un abito per essere un buon religioso!); salvo poi assolutizzarla in senso contrario, al punto che in molti casi è diventato un tabú fare uso dell’abito. Oggi ci accorgiamo che quelle comunità che ne fanno ancora uso hanno le vocazioni; quelle che lo hanno abbandonato, no. Mi sembra assai significativo; l’abito continua a svolgere il ruolo che il Concilio gli aveva attribuito: quello di essere “segno”. Ha ragione Sr. Delio: l’abito continua a essere segno sia quando lo si usa, sia quando non lo si usa; il segno di due modi diversi di intendere la vita religiosa; uno in comunione con la Chiesa e in continuità con la tradizione; l’altro secondo i nostri schemi mentali e un’interpretazione ideologica del Concilio.

Da ultimo, mi pare che non vada tralasciato un elemento semplicissimo ma importantissimo: l’obbedienza alla Chiesa. Se essa, attraverso un Concilio ecumenico, ci dice di fare in un certo modo, perché noi cerchiamo tutte le scuse per fare di testa nostra? Ci meravigliamo poi che la realtà si mostra diversa dalle nostre aspettative? Se invece di ideologizzare il Concilio e lanciarci nell’elaborazione di astratte teorie, ci fossimo limitati ad attuare, con umiltà e semplicità, ciò che il Concilio aveva stabilito, non sarebbe stato molto meglio per tutti?

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