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GLI INTERESSI BRITANNICI E QUELLI PIEMONTESI. MA IL PIEMONTE VOLEVA DAVVERO L’UNITÀ D’ITALIA?

Ma si accennava agli interessi britannici. Riassumendoli: il mantenimento del controllo sulle miniere siciliane di zolfo, l’irritazione per lo sviluppo della flotta borbonica, così come delle industrie manifatturiere napoletane, il malumore per i rapporti amichevoli tra il regno e l’impero russo e poi il decisivo: fermare la Francia attraverso l’unificazione dell’Italia.

Già, l’Unità. Ci sarà qualcuno a ricordare, nel gaio tempo delle feste, che, tanto per dirne una, la seconda Guerra d’indipendenza fu fatta soprattutto per conquistare il Lombardo-veneto e che il concetto di Unità d’Italia ai Savoia non interessò quasi per nulla, almeno fino al 1859?

Dove risiederebbe, dunque, l’illuminata monarchia? Il Piemonte non voleva unificare un bel nulla ma solo allargare il Piemonte stesso. Verità banali che, pur passando ancora quasi per eresie, appartengono solo alla storia (interessante la lettura de “Il Regno del Nord”, di Arrigo Petacco, Mondadori, 2010). Cavour, inoltre, era contrarissimo all’idea che fosse Garibaldi a “liberare” Napoli perché, ove ciò fosse avvenuto, diceva, “il sistema rivoluzionario prenderà il posto tenuto dal partito costituzionale monarchico”.

Due risorgimenti? Uno socialista (Mazzini e Garibaldi, pur con tutte le differenze tra i due), l’altro liberale (Cavour) e un altro ancora monarchico (i Savoia?).

Forse. Ma tutti, certo, anticattolici.

Dice e chiede bene Alberto Maria Banti, sul quotidiano “Il Foglio” (11.12.2010): “Che cosa vogliamo celebrare esattamente? Il Risorgimento moderato o quello democratico? Quello monarchico o quello repubblicano? Lo Statuto albertino o la costituzione della Repubblica Romana?”.

Ci sarà mai qualcuno dotato di quel coraggio che, nel lontano 1927, fece dire al tenace filosofo contrario a Croce Lorenzo Giusso che fu nient’altro che la cultura giacobina ad unire moti del primo ottocento e Risorgimento (nel testo “Le dittature democratiche dell’Italia”)?

 

SE SUL MERIDIONE SCRIVONO QUELLI DEL NORD…

I veli, fortunatamente, cadono ed ecco che occorre, necessariamente occorre, battere sulla consapevolezza di una storiografia sì di revisione ma pure profondamente meridionalista perché, come ben si sa, c’è stato un tempo in cui anche il meridionalismo (se così possiamo definirlo) non era fatto da meridionali ma da uomini della ricca borghesia del Nord. Si pensi a nomi come Arcangelo Ghisleri, Stefano Castagnola, Stefano Jacini, Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino. Dopo, solo dopo verranno Pasquale Villari, Giustino Fortunato, Napoleone Colajanni, lo stesso Benedetto Croce, Francesco Saverio Nitti, Antonio De Viti De Marco, Antonio Gramsci, don Luigi Sturzo, Gaetano Salvemini, Guido Dorso, Michele Viterbo, Manlio Rossi-Doria .

C’è anche da riconoscere come il livornese Franchetti e il lucano di Rionero in Vulture Fortunato abbiano fondato assieme l’Associazione Nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno d’Italia, ente culturale e morale meridionalista (primo presidente onorario fu il Villari).

Grandi intellettuali e politici, talvolta, i su citati, anche in contrasto tra loro: si pensi alla polemica occorsa, tra Salvemini e Fortunato da una parte e Nitti dall’altra, in merito alle cifre del disavanzo del Sud rispetto al Nord e ai relativi danni cagionati dall’unificazione del Paese.

I primi due arrivarono ad accusare il Nitti di aver falsificato i dati.

Egli, infatti, aveva denunciato con vigore, per primo in un’opera sistematica, le responsabilità, anche di tipo meramente economico, della classe dirigente post-unitaria nei ritardi del Sud, soprattutto nell’opera “Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97. Prime linee di un’inchiesta sulla ripartizione territoriale delle spese e delle entrate dello Stato in Italia”, Roux e Viarengo, Torino-Roma, 1900 -con un’edizione ridotta dal titolo “Nord e Sud”-.

Si veda, su questo, il volume “1912. La questione meridionale”, Palomar 2005, che raccoglie integralmente uno speciale “Quaderno della Voce”, uscito appunto nel 1912, della celebre rivista diretta da Giuseppe Prezzolini, dedicato alla questione meridionale con scritti dei già citati Fortunato, Nitti e Salvemini, ma anche di Giuseppe Cuboni, Agostino Lanzillo, Roberto Palmarocchi, Guglielmo Zagari, Alberto Caroncini, Giuseppe Donati, Gennaro Avorio, Ettore Ciccotti, Luigi Einaudi.

 

ALTARINI SCOPERTI. PER UNA REVISIONE SENZA COLORI

Come si è visto e si vedrà, non sono pochi, onestamente, i nomi di chi, serenamente e senza revanchismi di sorta, sta rivedendo e ha rivisto, ridiscusso ciò che si credeva acclarato, privando l’epoca risorgimentale della comoda coperta d’epopea e facendo tornare umani, troppo umani i supposti miti (di “Risorgimento senza eroi” parlava proprio Gobetti, in un’opera postuma pubblicata nel 1926).

Negli ultimi mesi ed anni, ad esempio, come non citare le opere di Gigi Di Fiore, già al “Giornale” di Montanelli ed oggi apprezzato opinionista del “Mattino”?

Da “Gli ultimi giorni di Gaeta”, Rizzoli, 2010 (Gaeta come momento di vero eroismo: cadde solo per inferiorità tecnologica), ai precedenti ed essenziali “Controstoria dell’Unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento”, Rizzoli, 2007; “1861, Pontelandolfo e Casalduni: un massacro dimenticato”, Grimaldi & C, 2005; “I vinti del Risorgimento”, Utet, 2004.

Altre opportune citazioni ci sembrano quelle dei lavori: “La Rivoluzione italiana. Come fu fatta l’unità della nazione”, di Patrick Keyes O’Clery, Ares, 2000; “O Roma o morte. Pio IX e il Risorgimento”, di Paolo Gulisano, Il Cerchio, 2000; “Dossier brigantaggio. Viaggio tra i ribelli al borghesismo e alla modernità”, di Francesco Maria Agnoli, Controcorrente, 2003; “Due Sicilie 1860. L’invasione”, di Bruno Lima, Fede e Cultura, 2008; “1861. La storia del Risorgimento che non c’è sui libri di storia”, di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo, Sperling e Kupfer, 2010.

Né il tema è politico. La revisione non ha colori, né recinti, ed ecco Antonio Ciano e Valentino Romano, apprezzati interpreti della storiografia antirisorgimentale da sinistra.

Divulgatore infaticabile degli aspetti più violenti del periodo, il primo (“I Savoia e il massacro del Sud”, 1996, Grandmelò edizioni), fervido indagatore e topo d’archivi, il secondo (“Nacquero contadini, morirono briganti”, 2010, Capone;“Le Brigantesse”, 2009, Controcorrente; a sua cura anche la ristampa del testo dello scrittore francese Alexandre Dumas “Cento anni di brigantaggio”, 2009, parziale pubblicazione delle ricerche del romanziere sul tema, edizione promossa ancora da Capone).

 

SUI BRIGANTI, LE BRIGANTESSE… E SU TUTTA LA QUESTIONE MERIDIONALE

Sulle cosiddette brigantesse da segnalare: “Il canto delle pietre. Briganti e brigantesse nella letteratura dei vinti e il destino di Maria Sofia”, opera a più voci (G. Picardo, N. de Giovanni, M. Cavallo, M. Bruni, P. Bruni, I. Rauti) e “Il bosco nel cuore. Lotte e amori delle brigantesse che difesero il Sud”, di Giordano Bruno Guerri, Mondadori, 2011.

Sul fenomeno dei briganti anche, di Raffaele Nigro, romanziere e studioso, “Il brigantaggio postunitario. Dalle cronache al mito”, per l’editore barese Adda .

Ricercatore rilevante è Lorenzo Del Boca: su tutti il suo “Maledetti Savoia”, Piemme, edito già nel 1999, ma anche “Indietro Savoia. Storia controcorrente del Risorgimento”, di nuovo Piemme, 2003.

Non nasconde l’intento commerciale, purtroppo, il meno brillante “Maledetti Savoia, Savoia benedetti”, firmato a quattro mani nientemeno che con il rampollo Emanuele Filiberto di Savoia (Piemme, 2010).

Nel 2011 ha invece pubblicato “Risorgimento disonorato”, edizioni Utet.

Una netta critica al processo d’Unità appare, ancora, nel libro del giornalista barese, ex direttore della “Gazzetta del Mezzogiorno”, Lino Patruno, “Fuoco del Sud. La ribollente galassia dei movimenti meridionali”, Rubbettino, 2011. Il volume dedica molto spazio all’esame di più realtà d’indirizzo storiografico, culturale e politico meridionalista.

Il giornalista e politico barese Federico Pirro, con “Uniti per forza”, Progedit 2010, ha pure detto la sua, in maniera analitica e sferzante al tempo stesso, sul periodo risorgimentale.

Più neutro, ma anche piuttosto corrosivo nell’evidenziare i limiti di ogni leggenda “nera”, nordista o meridionalista che sia, è Romano Bracalini, col suo “Brandelli d’Italia”, Rubbettino, 2010.

Approfondisce la questione meridionale anche lo storico docente a Palermo, ma di origini senesi, Salvatore Lupo, nel suo equilibrato “L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile”, Donzelli, 2011 (recensito con coraggio, sulle pagine del “Corriere della Sera”, da Paolo Mieli –“I moderati oltranzisti che piegarono il Sud”, 7.9.11-).

Una pietra miliare è lo studio “Mezzogiorno e questione meridionale. 1860-1980”, dello storico salernitano Francesco Barbagallo, Guida, 1980.

Davvero interessante, freschissima di stampa, l’opera “Un regno che è stato grande. La storia negata dei Borboni di Napoli e Sicilia”, del prolifico storico Gianni Oliva (Mondadori, 2012).

E come non ricordare, inoltre, le sintetiche ma utili pubblicazioni di Gianni Custodero, per anni giornalista culturale della “Gazzetta del Mezzogiorno”: “Storia del Sud. Dai normanni ai Borboni”, 2001; “Borboni & Briganti: Intervista con Gianni Custodero”, scritto con Silvano Trevisani, 2005; “Il mistero del brigante”, 2008, editi tutti da Capone.

Sui Borboni, piace segnalare anche un saggio apparso sulla rivista pugliese “Studi Bitontini”, nel 1997 (n.62), vergato da Giuseppe Planelli: “Un problema storiografico: la leggenda nera dei Borboni delle Due Sicilie”.

 

C’È ANCHE UN INTERESSE CATTOLICO MENO CRITICO E LA SINISTRA CHE LEGGE IL RISORGIMENTO COME RIVENDICAZIONE SOCIALE

L’area cattolica, nei decenni, ha saputo però dividersi.

Oltre ai tradizionalisti, non è mancata, anzi ha sperimentato robusta incisività, una componente meno critica e più conciliante, d’impostazione liberale o democratica: Arturo Carlo Jemolo, Ettore Passerin D’Entrèves, Gabriele De Rosa, Giorgio Rumi, Pietro Scoppola. Attribuibili ai loro nomi (come si vede, nomi prestigiosi e accademici della storiografia e del pensiero) notevoli pubblicazioni su temi più vasti come il ruolo dei cattolici nella vita italiana post-unitaria o il rapporto Stato-Chiesa.

Anche l’area di sinistra, cronologicamente in parallelo agli studi d’impostazione tradizionalista, ha “scoperto” il tema del brigantaggio e dei soprusi alle genti meridionali, in un’ottica, però, strettamente rivendicativa e sociale (interessante, in tal senso, il numero speciale sul Risorgimento della storica rivista “Il Calendario del Popolo”, diretta ed edita da Sandro Teti, uscito per il centocinquantenario. Ricordiamo, inoltre, che nonostante l’immagine garibaldina scelta dal Fronte popolare nel ’48 per presumibili ragioni di tipo propagandistico, in realtà, lo stesso Palmiro Togliatti leggeva nel periodo risorgimentale impronte reazionarie).

I nomi più noti, tutti appartenenti all’impronta gramsciana: Franco Molfese, Franco Della Peruta (suo il recente lavoro “Il giornalismo italiano del Risorgimento”, Franco Angeli, 2011), Antonio Lucarelli, Tommaso Pedio, Giorgio Candeloro (a sua cura la monumentale “Storia dell’Italia moderna, undici volumi, Feltrinelli, 1956-1986), Ernesto Ragionieri, Francesco Gaudioso, Carlo Coppola, Salvatore Scarpino e Rosario Villari (il cui fratello Lucio ha dato alle stampe, per Laterza, il volume “Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento”, 2010).

In particolare, di Molfese, davvero una pietra miliare la sua “Storia del brigantaggio dopo l’Unità”, edita già nel lontano 1966 da Giangiacomo Feltrinelli. Un anno dopo, per Longanesi, ecco, di Mario Monti, l’imponente “I briganti italiani”, in due volumi (citato col Molfese per la mole del lavoro, ma dalla ben differente impostazione rispetto allo storico gramsciano).

Sul brigantaggio, utile anche, di Aldo De Jaco, “Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell’Unità d’Italia”, Editori Riuniti, 1969

Nonché, di Salvatore Scarpino, già autore di “Tutti a casa terroni” (Camunia, 1979), l’opera “La guerra «cafona». Il brigantaggio meridionale contro lo Stato unitario”, edita da Boroli molto più tardi, nel 2005.

Tommaso Pedio, invece, fra i tanti studi, ha curato l’edizione della storica “Relazione Massari” sul brigantaggio (nel 1982, per le edizioni Lacaita di Manduria, Ta).

 

IL BRIGANTAGGIO “VERA IMMONDIZIA DI PLEBE”: PAROLA DEI FILOGOVERNATIVI. LA LEGGE PICA

Giuseppe Massari, tarantino, oppositore politico del regime borbonico esule in Piemonte, fu relatore della commissione governativa sul caso dei resistenti al Sud. Fu ascoltata soltanto la voce dei filogovernativi e mai quella dei briganti carcerati o delle vedove degli uccisi.

Su di lui, nel 2011, lo storico barese Nico Perrone ha editato, per Rubbettino, il suo “L’agente segreto di Cavour. Giuseppe Massari e il mistero del diario mutilato”. (A proposito di agenti, si veda anche l’illuminante diario di Filippo Curletti: “La verità sugli uomini e sulle cose del Regno d’Italia. Rivelazioni di J. A., antico agente secreto del conte Cavour” (ripubblicato da Solfanelli nel 2010).

Il brigantaggio venne così declassato a volgare delinquenza comune, magari fomentata dai sostenitori dei Borboni. “Vera immondizia di plebe”, per tacere di tanti altri epiteti: questi erano i briganti per la commissione.

Nascerà da qui la famigerata legge Pica (promossa da Giuseppe Pica, deputato abruzzese: ancora una volta meridionali illustri e agiati in opposizione a meridionali poveri e disgraziati) contro gli insorgenti, pubblicata il 15 agosto 1863.

 

PER GRAMSCI, IL RISORGIMENTO È RIVOLUZIONE PASSIVA. MA NON TUTTI SONO D’ACCORDO

Antonio Gramsci, nella sua analisi, privilegia gli aspetti classisti del brigantaggio, rispetto a quelli patriottici o religiosi. Ma il suo ruolo è stato storicamente fondamentale nel creare la necessaria pluralità ideologica attorno ai temi d’indagine e revisione sui fenomeni post-unitari.

Donzelli ha dato alle stampe nel 2010 un volumetto che raccoglie tutti i testi del sardo sul tema risorgimentale (tratti dai Quaderni del Carcere e dalle pagine della rivista “Ordine Nuovo”), dal titolo “Il Risorgimento e l’Unità d’Italia”, a cura dello stesso Carmine Donzelli, editore e brillante intellettuale, fondatore dell’omonima casa editrice.

Operazione simile da parte della Einaudi, con la raccolta gramsciana “Il Risorgimento e l’Unità d’Italia”, sempre del 2010.

Le edizioni milanesi Mind hanno, invece, pubblicato alcuni testi di Gobetti e Gramsci nell’opera “Sul Risorgimento”, 2011, a cura di Enrico Mannari.

“Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e a fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti”: celebri queste parole del pensatore comunista, tratte da un articolo intitolato “Il lanzo ubriaco” (edizione piemontese dell’“Avanti!”, 18.2.1920). Il Risorgimento appare come “rivoluzione passiva”, termine che Gramsci prenderà in prestito da Vincenzo Cuoco e che adotterà nell’analisi e definizione di più fenomeni storici e politici. I limiti, a suo parere, furono in gran parte degli intellettuali mazziniani, supini e appiattiti di fronte alla monarchia e impotenti rispetto alla necessaria (e latente) spinta rivoluzionaria.

Alle conclusioni gramsciane s’opporrà con forza il lavoro di ricerca di Rosario Romeo, biografo di Cavour e storico dalla formazione liberale classica, che negherà, nel saggio “Risorgimento e capitalismo” (1959), la possibilità di una rivoluzione agraria nell’Italia meridionale.La proprietà contadina familiare, per i gramsciani (si ricordino le ricerche di Emilio Sereni) un lascito feudale, per Romeo non fu un ostacolo ma un sostegno allo stesso sviluppo industriale. Lo storico siciliano, esponente del Partito repubblicano e successivamente acuta firma culturale del “Giornale”, considerava le tesi gramsciane delle pure teorie, probabilmente suggestive, ma come tali intrise di ideologia e non fondate sulla ricerca storica. Romeo, incorreggibile difensore della Destra storica, scrisse le sue impressioni, molto spesso, sulle pagine di “Nord e Sud”, famosa rivista meridionalista fondata da Francesco Compagna, politico e ministro d’ascendenza liberale e repubblicana.

 

MASSE, EROI O FORZE REAZIONARIE: CHI FURONO I VERI PROTAGONISTI DEL RISORGIMENTO?

Il tema dell’assenza delle masse contadine nel percorso risorgimentale (già denunciato da pensatori classici del marxismo e del socialismo come Antonio Labriola e Rodolfo Mondolfo) sarà affrontato da Franco Della Peruta, noto come “il marxista innamorato di Mazzini” (“Corriere della Sera”, 9.5.2004), di cui ricordiamo, nel 1973, lo studio “Democrazia e socialismo nel Risorgimento”. Aveva detto, del resto, ben prima, Giuseppe Ferrari: “Non vale parlare di Repubblica se il popolo sovrano muore di fame”.

Per l’allievo di Gioele Solari e liberale di sinistra Piero Gobetti, già incontrato in queste pagine, nelle lotte risorgimentali mancò comunione tra il popolo e le classi che mossero gli eventi. Scrisse, come si è visto, “L’eresia del Risorgimento”, nel 1921, e, nel 1924, il famoso saggio “Rivoluzione liberale”.

Il Risorgimento fallisce nell’incapacità di rendere le masse “soggetti attivi sulla scena della storia”. Nel citato “Risorgimento senza eroi”, salverà soprattuttoCarlo Cattaneo e Cavour.

Il socialista Gaetano Salvemini, nello studio “Le origini della reazione”, pubblicato per la prima volta sulla rivista “Critica sociale” e poi, nel 1932, sui “Quaderni di Giustizia e Libertà”, metterà in evidenza come le forze “reazionarie”, legate alla monarchia piemontese, abbiano prevalso, nell’immaginario, rispetto alla figure di Mazzini, Garibaldi, Ferrari e Cattaneo (del pensatore e politico molfettese, nel 1961, uscì la raccolta “Scritti sul Risorgimento”, edizioni Feltrinelli).

 

RIDIMENSIONARE MAZZINI? SÌ, NO, FORSE…

Resterà poco noto, tre anni dopo, un acceso dibattito sul Risorgimento, che coinvolgerà i più noti intellettuali della sinistra liberalsocialista e azionista. Il confronto, tra la fine di marzo e il maggio del 1935, avrà luogo sulle pagine di “Giustizia e Libertà”, organo del movimento omonimo fondato a Parigi, nel ‘30, dall’antifascista Carlo Rosselli. La discussione prende le mosse da un articolo del socialista libertario Andrea Caffi, in cui si sosteneva come il mito “scolastico” del Risorgimento avesse ormai fatto il suo tempo e come bisognasse ridimensionare il valore di Mazzini (su cui, a tal proposito, segnaliamo il testo “L’apostolo a brandelli. L’eredità di Mazzini tra Risorgimento e fascismo”, edito da Laterza nel 2010, a firma di Simon Levis Sullam).

Le sue tesi scatenano la discussione, provocando la reazione di Franco Venturi, Umberto Calosso e dello storico inglese Josilyn Oswald Griffith, filomazziniani. D’accordo con Caffi sarà invece Nicola Chiaromonte, suo discepolo e interessante figura di filosofo e politico, successivamente collaboratore di Ignazio Silone.

Intermedia la posizione di Carlo Rosselli: distinguerà il mito falso del Risorgimento, cercando però di salvaguardarne la portata collettiva e popolare.

 

CROCE, GENTILE E, INFINE, LA DESTRA “ERETICA”: TUTTI A FAVORE DEL RISORGIMENTO E DEI SUOI “EROI”

Continuando il nostro percorso, passiamo all’area liberale più moderata, rappresentata da Benedetto Croce, che si limita a collocare il Risorgimento nelle vicende europee dell’800, secolo da lui approfonditamente scandagliato in più opere, in un quadro nettamente positivo, come espressione della continentale tensione alla “religione della libertà”.

Negli stessi anni, anche la destra intellettuale esprime i suoi rilievi.

Giovanni Gentile, filosofo dell’idealismo e ministro, scrisse, nel 1923, un’opera capitale: “I profeti del Risorgimento italiano”, in cui evidenzia un’unica matrice tra Risorgimento e Fascismo, all’insegna del mito “religioso” della nazione (sul tema, converrebbe leggere l’ottimo “Risorgimento in camicia nera. Studi, istituzioni, musei nell’Italia fascista”,di Massimo Baioni, Carocci, 2006). Mazzini, Garibaldi, De Sanctis, Rosmini, Cavour, Cuoco e Gioberti, dunque, nei loro propositi di dignità e unità, conducono all’esito fascista.

Gentile insiste sulla figura di Mazzini e sul suo pensiero, appunto, “religioso”, tema che fu di Gaetano Salvemini già in una pubblicazione del 1905 dedicata al famoso genovese.

Uomini illuminati, quelli di Gentile, espressione di minoranze elitarie che, se per Gramsci e per i critici del processo, anche della destra d’ispirazione cattolica, resteranno la causa prima del problema, per lo storico Gioacchino Volpe consisteranno nella “vera aristocrazia morale della nazione” (suo il saggio “L’Italia in cammino”, del 1927, ripubblicato, nel 1992, da Laterza).

Per non parlare, oltre che dei nazionalisti di Enrico Corradini, della vasta corrente dei fascisti “eretici” mazziniani, rivoluzionari e sansepolcristi: Delio Cantimori (illustre storico che da Gentile s’avvicinerà poi al Pci, da allievo del gentiliano di sinistra Giuseppe Saitta), Berto Ricci, Sergio Panunzio (molfettese d’origine socialista, preside della Facoltà di Scienze Politiche a Perugia, poi allontanatosi dal regime al momento delle leggi razziali del 1938), Armando Casalini. Ancora oggi, presso pubblicazioni di una destra eretica e dal vago sapore massonico-reghiniano, non è raro leggere sperticati elogi all’epopea garibaldina (si pensi al piccolo saggio dal titolo “Le basi dell’unità politica della nazione italiana”, apparso, a firma di Roberto Sestito, sulla rivista “Novum Imperium”, nel marzo del 2011 –ma la rivista accoglie nelle sue pagine anche visioni e conclusioni ideologiche dal differente tenore-).

 

L’ASSIMILAZIONE FASCISMO-RISORGIMENTO È POSSIBILE? PER ALCUNI NO

All’opposto di Volpe (contro di lui, sul quotidiano romano “Il Tevere”, si era già scagliato il fascista intransigente Telesio Interlandi, secondo cui l’idea di continuità col Risorgimento negava originalità al Fascismo) la visione del cavourriano Adolfo Omodeo: il Fascismo tradisce il sano spirito liberale del miglior Risorgimento (“L’età del Risorgimento italiano”, Vivarium, 1931; “Difesa del Risorgimento”, 1995, Einaudi, postumo).

Nella critica alla posizione pessimista di Gobetti, tacciò quest’ultimo di “orianesimo”, con riferimento allo scrittore Alfredo Oriani, controverso autore de La Lotta politica in Italia. Origini della lotta attuale”(Torino, 1892), per il repubblicano Giovanni Spadolini (autore a sua volta di una sterminata produzione bibliografica e giornalistica sulle vicende risorgimentali, spesso in relazione alla presenza cattolica), invece, “il massimo interprete del Risorgimento”.

Luigi Salvatorelli, storico del cristianesimo e poi attivo polemista azionista, autore di un’opera come “Pensiero e azione del Risorgimento” (Einaudi, 1943), pure confuterà l’assimilazione Risorgimento-Fascismo.

Tra Croce, Gentile e Volpe, si colloca la lezione dello storico Walter Maturi, dal 1948 al 1961 professore ordinario di Storia del Risorgimento all’Università di Torino. Suo il citatissimo “Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia”, pubblicato postumo, per Einaudi, nel 1962.

Fu nel 1936, intanto, in pieno regime, che nacque l’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, sulle ceneri della vecchia Società Nazionale per la Storia del Risorgimento (sorta, nel 1906, per volontà dell’allora ministro della Pubblica istruzione e futuro presidente del Consiglio, Paolo Boselli).

 

IL RISORGIMENTO È UN “MIRACOLO”?

La tradizione nazionale di Gioacchino Volpe vede oggi un coerente erede nella figura di Domenico Fisichella, docente ed ex ministro, autore del testo “Il miracolo del Risorgimento”, Carocci, 2010. Leggiamo: “Il Risorgimento è un miracolo perché prodotto e produttore di un discorso di dignità”, “espressione, formulazione di una nuova, inusitata tradizione, quella dell’unità della Nazione”. Il Risorgimento appare così come discontinuità: “La tradizione risorgimentale, dunque, è la tradizione della modernità, mentre la tradizione dell’eccesso regionalistico e localistico è tradizione della vecchiezza”.

Una corrente in cui hanno avuto un ruolo anche giornalisti e divulgatori di cose storiche per il grande pubblico: Indro Montanelli (quasi ancestralmente legato all’epoca: Giuseppe Montanelli, politico e scrittore federalista, era un suo avo), Mario Cervi, Marcello Staglieno.

Pur nel rifiuto di ogni dimensione convenzionale, il Risorgimento è comunque il momento in cui si compie l’unità del Paese, con protagonista la casa regnante dei Savoia, del tutto (o quasi) assolta da eventuali misfatti compiuti (è la linea anche dello storico e pubblicista Francesco Perfetti o, in maniera ancora più partigianalmente giustificante, di Aldo Alessandro Mola, ricercatore monarchico e giolittiano, esperto di massoneria).

Convinti elogi alla Destra storica, malgrado ogni feroce, inumana repressione verso le genti del Sud, arrivano da Giorgio Ruffolo, economista ed ex ministro di provenienza socialista, nel suo “Un Paese troppo lungo”, Einaudi, uscito sempre nel 2010.

 

CRITICHE ALLA DESTRA STORICA. E IL CINEMA DICE PURE LA SUA

D’altro avviso Raffaele Romanelli, autore del prezioso volume “L’Italia liberale. 1861-1900” (Il Mulino, datato 1990): “Gli intellettuali e i politici della Destra storica avevano un distacco culturale e politico prima ancora che biografico con la nazione che governavano”.

Critico su più aspetti del Risorgimento e sulla guerra al brigantaggio è, invece, l’altrove citato Giordano Bruno Guerri, storico e giornalista appartenente all’area della destra liberale e libertaria: suo “Il sangue del Sud”, Mondadori, 2010.

Tornando all’ala idealista e repubblicana, e ai suoi attuali risvolti, va ricordato un altro filone, spesso anche di natura letteraria ed artistica, ultimamente in vigore e ripresa. Ci riferiamo al notevole successo di critica del film “Noi credevamo”, di Mario Martone, tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice Anna Banti (1967). Oppure ad un altro romanzo, “I traditori” (Einaudi, 2010), a firma dello scrittore e magistrato tarantino Giancarlo De Cataldo (non a caso sceneggiatore del film di Martone), che però, in più interviste, ha sottolineato come non possa cancellarsi il fatto che “nei discorsi di Mazzini per convincere dei ragazzi al martirio si colgano echi inquietanti”.

A proposito di film, coraggioso, anni fa (1999), fu il regista Pasquale Squitieri, ancor più di rottura col suo “Li chiamarono… briganti!”, inevitabilmente sospeso nelle sale e ritirato dal commercio. Discusso e non meno coraggioso, nel 1972, il regista Florestano Vancini, con “Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato”, sui tristi fatti dell’8 agosto 1860 (e dunque sulle chiare responsabilità criminali di Garibaldi e Nino Bixio), ispirato alla novella “Libertà” di Giovanni Verga e realizzato con la collaborazione di Leonardo Sciascia alla stesura della sceneggiatura (anche lo scrittore di Racalmuto, in numerosi interventi, ha espresso dure critiche sulle modalità attraverso cui fu conseguita l’Unità d’Italia, che egli riteneva chiaramente negative per il Sud).

 

ORGOGLIOSI DELL’UNITÀ D’ITALIA. MA MICA TANTO

Assai didascalico e deludente, con tratti di aperta superficialità, ci è parso, invece, il libello del giornalista del “Corriere della Sera” Aldo Cazzullo, dall’emblematico titolo “Viva l’Italia” e dal programmatico sottotitolo: “Risorgimento e Resistenza: perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione” (della Resistenza come “secondo Risorgimento” ha sempre parlato la cultura antifascista di stampo azionista).

Un disegno, quello dell’autore, sul filo del tifo e non della ricerca.

Nella prefazione, affidata al cantautore Francesco De Gregori, si riesce a leggere: “E la stessa casa Savoia non seppe forse rinunciare in qualche modo a se stessa in nome di un sogno che sembrava impossibile, e combattere insieme al popolo per la riunificazione di un’Italia che si voleva ridotta a pura espressione geografica?”.

Al centro di polemiche tra storici e giornalisti anche le riflessioni del già citato studioso Alberto Maria Banti, autore del volume “Nel nome dell’Italia”, Laterza, 2010. L’ottica è contraria al nazionalismo: Banti si oppone al ricordo del Risorgimento perché convinto che, “pur non avendo causato il Fascismo”, quel periodo ha dato al regime mussoliniano “una parte essenziale dei suoi simboli e dei suoi valori”. Da qui numerose critiche da parte, tra gli altri, di Giovanni Belardelli, Lucio Villari, Massimo Salvadori (di cui è uscito, nel 2011, per Laterza, “L’Italia e i suoi tre stati. Il cammino di una nazione”), Ernesto Galli della Loggia (a sua difesa, invece, Giovanni Sabbatucci). La discussione è apparsa sulle pagine de “Il Foglio”, in più interventi nel dicembre 2010, a cura di Marina Valensise, secondo cui il merito di Banti è di aver superato l’impostazione dello storico valdostano Federico Chabod sull’idea di nazione, “in cui si distingueva il nazionalismo cattivo alla tedesca, nativista e reazionario, dal nazionalismo democratico, alla francese, iniziato con le rivoluzioni del XVIII secolo e continuato nel Risorgimento italiano”.

Da leggere, per rimanere alle opinioni di storici apprezzabili e profondi, il libro-intervista, a cura di Simonetta Fiori, di Emilio Gentile, Laterza 2011, “Italiani senza padri. Intervista sul Risorgimento”.

Diceva il politico britannico Benjamin Disraeli –la citazione ci sembra opportuna, giunti al termine delle nostre divagazioni- che “il mondo è governato da personaggi ben diversi da quelli creduti da coloro che non sanno guardare dietro le quinte”. A molti italiani, per tanto tempo, è stato impedito di poter guardare dietro le quinte della spacciata verità.

Massimo Taparelli, marchese d’Azeglio, ad esempio, passa per essere stato un padre della patria, eppure, al solo pensiero di unirsi a Napoli, rispose che sarebbe stato “come mettersi a letto con un vaioloso”.

A patrioti così, soprattutto da meridionali, sarebbe più giusto preferirne altri di segno diverso. Uno di questi, futuro presidente della Repubblica italiana, piemontese di Carrù (Cn), ebbe l’animo di dire e riconoscere: “Sì, è vero che noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dallo stato italiano dopo la conquista dell’Unità e dell’indipendenza nazionale, peccammo di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio ed ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale, con la conseguenza di impoverire l’agricoltura, unica industria del Sud; è vero che abbiamo spostato molta ricchezza dal Sud al Nord con la vendita dell’asse ecclesiastico e del demanio e coi prestiti pubblici”.

Parole di Luigi Einaudi, statista.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)