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Vince in voi Lui, la cui divinità si riteneva che potesse essere messa in discussione

È a vittoria ottenuta, peraltro, che si può apprezzare come la fede che pur vince – e si vede: «Il nostro Dio non sopporta che resti celato quello che elargisce, perché mai i benefici celesti restano nascosti» (p. 183) – non ha niente a che fare con un progetto di annientamento dell’errante. Celestino resta fedele a quanto aveva fatto scrivere nel numero 8 dell’Indiculus: «Che certe cose siano chieste a Dio non in modo superficiale o inutilmente lo dimostra il risultato concreto, dal momento che Dio si degna di recuperare molti da ogni genere di errore, e, dopo averli strappati dal potere delle tenebre, li trasferisce nel regno del Figlio del suo amore, e da vasi d’ira li trasforma in vasi di misericordia.

E tutto questo è inteso come opera divina, tanto che a Dio che fa queste cose è sempre rivolto il rendimento di grazie e l’espressione di lode per aver illuminato e corretto costoro» (p. 82). Così, quando si tratta delle condanne dei seguaci di Nestorio, papa Celestino chiede che i padri conciliari di Efeso lo ascoltino: «Di coloro poi che risulta che abbiano condiviso con pari empietà la dottrina di Nestorio e si unirono come compagni dei suoi crimini, quantunque nella vostra sentenza si legga anche la loro condanna, tuttavia anche noi decretiamo ciò che sembra opportuno» (p. 188). E consiglia che si usi la stessa magnanimità che è stata usata con frutto verso i pelagiani: «In tali questioni bisogna tener conto di tanti elementi di cui la Sede apostolica ha sempre tenuto conto [non ultimo indizio della cattolicità è la capacità di tener presente la totalità dei fattori].

Quello che diciamo è documentato dai fatti di cui sono protagonisti i celestiani [i pelagiani], i quali hanno fin qui sperato nel Concilio. Essi, se si ravvedono, hanno la possibilità di tornare, cosa non permessa solo a quelli che consta, per la sottoscrizione di tutti i fratelli, essere stati precisamente condannati insieme agli autori dell’eresia. Infatti grazie alla misericordia di Dio siamo contenti che alcuni di loro siano già tornati da noi [...]. Consiglio la vostra fraternità a seguire questo esempio» (pp. 188-189).

Celestino non infierisce contro i poveri “pelagiani anonimi”, contro cui si erano scagliati strumentalmente i seguaci di entrambe le scuole contrapposte ad Efeso. Il fatto è che la vittoria di Efeso non è la vittoria di una teologia (quella alessandrina) su un’altra (quella antiochena). In realtà «vince in voi lui, la cui divinità si riteneva che potesse essere messa in discussione [...]. Secondo le parole del Signore, non poteva essere sradicata una piantagione che era stata piantata dal Padre e che in lui dimostrava di portare buoni frutti. Il Signore d’Israele ha conservato la propria vigna.

La vigna del Signore è la casa d’Israele, e perciò non bisogna meravigliarsi se la sua casa fu preservata dai ladri, il cui custode, come si legge, non dorme, né sonnecchia [...]. Perciò, fratelli carissimi, rimanete in colui che è in voi perché vinciate (permanete in eum qui est, ut vincatis, in vobis)» (pp. 168; 177; 181). Coloro che pretesero aver vinto in nome di una teologia andranno presto alla deriva. Morto Cirillo (444), il patriarca di Alessandria che a Efeso era stato il vero protagonista della riaffermazione della fede apostolica, prende il suo posto Dioscoro. Il nuovo patriarca, non appoggiandosi più alla fede di Pietro (che quella sede, fondata da san Marco evangelista, condivideva con Roma), ma alla genialità della scuola di Clemente, di Origene, di Apollinare, darà vita nel 449 a quel concilio passato alla storia come latrocinium ephesinum, che del Concilio di Efeso fu il più infame tradimento, non solo per la professione di una fede chiaramente eretica ma anche per l’intolleranza prevaricatrice che lì fu usata. Leone Magno che allora regnava (dopo essere stato, secondo la tradizione, fedele diacono di Celestino) si sarà ripetute le parole del suo predecessore: «È difficile che il bene duri a lungo. Infatti spesso gli succede e prende il suo posto il male».

 

 

L’adorazione dei Magi, mosaico dell’arco trionfale, Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma

L’adorazione dei Magi, mosaico dell’arco trionfale, Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma

Perciò, fratelli carissimi, rimanete in Colui che è in voi perché vinciate

Resta da trattare brevemente del­l’idea che Celestino aveva del ruolo dell’autorità politica nelle vicende della Chiesa. Lo faremo stavolta a partire dalla citazione non di Celestino, ma di un brano dell’Introduzione di Franco Guidi: «Celestino riconosce anche che l’autorità imperiale deriva da Cristo, ma il riconoscimento non è fatto per esaltarla, quanto piuttosto per insinuare che essa deve essere subordinata a Cristo e quindi agli interessi della Chiesa di Cristo. E nella stessa chiave va intesa l’esortazione all’imperatore a preoccuparsi più della causa della fede che delle sorti del­l’impero, che dipendono dalle sorti della Chiesa.

Come si vede, si tratta di una tesi contrapposta alla politica cesaropapista di Costantino e di Costanzo II, anche se non siamo ancora all’affermazione del primato dell’auctoritas sacrata pontificum, che tanta importanza avrà per la definizione dei rapporti tra Chiesa e potere imperiale nel Medioevo» (p. 33). Ci permettiamo dissentire e considerare anacronistica tale interpretazione. Sembra quasi che la concezione di Celestino preveda necessariamente lo sbocco egemonico gregoriano come contrapposizione speculare al cesaropapismo bizantino.

Celestino sembra preoccupato di imbrigliare un potere politico ribelle. In realtà, se si leggono i testi, si trova una concezione molto più laica: Celestino non riconosce l’autorità politica né «per esaltarla», né «per insinuare...», la riconosce e basta. Tutto ciò è molto più corrispondente all’inizio del tredicesimo capitolo della Lettera ai Romani o alla prima Lettera di Pietro o alla Città di Dio di Agostino che certo, per vicinanza ideale e temporale, Celestino doveva conoscere meglio... delle pretese gregoriane. Celestino a Cirillo di Alessandria, 7 maggio 431: «Non è inutile, soprattutto nel caso di questioni divine, l’attenzione dell’autorità imperiale riguardo a Dio, che fedelmente dirige i cuori dei regnanti» (p. 141). Celestino al Concilio di Efeso, 15 marzo 432: «Né stupisce che il cuore del re, che è nelle mani di Dio, sia in sintonia con coloro che sa essere suoi sacerdoti» (p. 185).

 

A testimonianza di quale fosse stata da vivo «la ragione di ogni sua speranza» (p. 116), Celestino volle riposare da morto ad nymphas sancti Petri, presso le catacombe di Priscilla, nel luogo che l’antica tradizione vuole fosse stato deputato da san Pietro al battesimo dei primi cristiani a Roma. Chiunque l’abbia composto, il suo epitaffio riecheggia quella «fiducia che nasce dalla semplicità» (p. 176) che aveva accompagnato il Papa in vita: «Qui è il sepolcro del corpo: ossa e ceneri riposano, né muore nulla; la carne tutta risorge nel Signore».



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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)