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Il catino dell’abside principale con al centro l’Agnello apocalittico circondato dai quattro viventi e dai ventiquattro vegliardi [© Paolo Galosi]

Il catino dell’abside principale con al centro l’Agnello apocalittico circondato dai quattro viventi e dai ventiquattro vegliardi [© Paolo Galosi]

Apocalittici o integrati? Di fronte a questa alternativa per nulla alternativa fra l’utopia e l’acquiescenza, l’Apocalisse da sempre pretende gettare una luce più vera sulle vicende della storia: un punto di vista incommensurabile eppure supremamente realistico, né apocalittico né integrato. Oggi di fronte ai tamburi di una guerra più grande di noi, ne sentiamo più che mai la necessità.

La parola “apocalisse”, come sa anche chi abbia una semplice infarinatura di Sacra Scrittura, significa rivelazione, una dimostrazione, uno svelarsi. «Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi servi le cose che devono presto accadere», recita il primo versetto programmatico, ripreso quasi identico in chiusura (Ap 1, 1 e 22, 6). Gesù Cristo, «il testimone fedele, il primogenito dei morti e principe dei re della terra» (Ap 1, 5), dopo la sua vittoria mostra all’apostolo Giovanni, che viene «rapito in estasi» al di fuori della storia, ciò che davvero accade in essa. Come scriveva il grande esegeta Heinrich Schlier all’inizio  di un noto saggio sull’Apocalisse: «l’Apocalisse di Giovanni è l’unico libro del Nuovo Testamento che abbia per tema la storia. È perciò meditando su di essa che si è essenzialmente sviluppata la riflessione cristiana intorno alla storia». Riflessione espressa lungo i secoli non solo attraverso le parole, ma anche con immagini e colori.

Ad Anagni, nella cripta della Cattedrale di questa fatidica città, in una serie di affreschi iniziati nello stesso torno di tempo in cui si cominciavano a diffondere le elucubrazioni sulla storia di Gioacchino da Fiore († 30 marzo 1202), si conserva la magnifica illustrazione di una concezione della storia che scaturisce, invece, ancora dalla tradizionale meditazione sul­l’Apo­ca­lis­se, che ha il suo paradigma nel De civitate Dei di Agostino. Fino alla rottura operata da Gioacchino con la sua tripartizione della storia in età successive, del Padre, del Figlio e dello Spirito, non si poteva neppure concepire che l’avvenimento storico di Cristo potesse essere superato nel tempo della storia da una successiva età dello Spirito apportatrice di una più grande grazia.

L’avvenimento di Gesù Cristo era concepito come l’inizio della fine del mondo. Per la riflessione di taglio agostiniano e tomistico, «Cristo non è il perno della storia con cui un mondo mutato e redento ha inizio e una storia irredenta durata fino a quel momento viene abbandonata; per esso Cristo è piuttosto il principio della fine. Egli è “redenzione” nella misura in cui con Lui la “fine” comincia a risplendere nella storia. La redenzione consiste (da un punto di vista storico) in questa fase iniziata mentre la storia, per così dire, procede “per nefas” ancora per un certo tempo, conducendo l’antico evo di questo mondo alla sua fine» (Joseph Ratzinger, San Bonaventura. La teologia della storia, p. 211).


Proprio perché vuole essere una lettura del tempo della Chiesa come tempo finale sub gratia e non l’immagine del superamento di tale tempo, il ciclo apocalittico anagnino è fatto solo di scene tratte dai primi dodici capitoli di Apocalisse, e, dei suoi successivi tre settenari (dei sigilli, delle trombe e delle coppe), sceglie di rappresentare solo quello dei sigilli, fermandosi alle soglie dell’apertura del settimo. Sceglie di fermarsi cioè alla proclamazione del giudizio, non si interessa di investigare negli aspetti più immaginifici della promulgazione e della esecuzione di esso. (Probabilmente non si erano perfezionati ancora quegli «strumenti politici e spirituali pieni di potenza e di degenerazione» [Schlier] che oggi sembrano realizzare alla lettera alcune profetiche visioni dei capitoli 13-18 di Apocalisse).

Così, in una versione pittorica piena di grazia, è rappresentata con suprema compostezza l’inesorabilità della vittoria riportata da Gesù Cristo insieme agli elementi di una lotta che, certo, si combatte ancora ma che non può far più paura. Infatti ad Anagni la guerra e la morte (Ap 6, 4-8) sbarrano gli occhi impaurite, gli astri che mutano colore (Ap 6, 12) sono due palline sottoposte al soffio pacato di un angelo, il drago dalle dieci corna (Ap 12, 3) è un draghetto sotto i piedi di un soave arcangelo, mentre tutto l’onore, la forza e la bellezza sono riservati a Colui che siede sul trono e all’Agnello e a coloro che condividono la sua vittoria e portano la corona regale dei vincitori, ai ventiquattro vegliardi, ai vergini e ai martiri allineati in bell’ordine quasi musicale.

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)