DIFENDERE LA VERA FEDE

Gravi abusi nelle traduzioni della Bibbia, scompare la parola GRAZIA

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    Caterina63
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    00 29/07/2012 23:22

    La parola “grazia” è quasi scomparsa dalla preghiera dei Salmi [SM=g1740730]


    Nei testi dei Salmi della Bibbia Cei del 1971 la parola “grazia” compare 52 volte; nei corrispondenti testi della Bibbia Cei del 2008 appare invece solo 7 volte, mentre per ben 35 volte è sostituita dalla parola “amore”.
    Alle 52 occorrenze della parola grazia nei Salmi della versione della Bibbia Cei 1971 corrispondono le seguenti parole nei Salmi della versione Cei 2008: amore 35, grazia 7, fedeltà 3, bontà 2, misericordia 1, alleato 1, beni 1, ricompensa 1, pietà 1


    di Lorenzo Bianchi


    <I>La guarigione dell’emorroissa</I>, catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, Roma [© Pontificia Commissione Archeologia Sacra, Roma]

    La guarigione dell’emorroissa, catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, Roma [© Pontificia Commissione Archeologia Sacra, Roma]

    Dalla prima domenica di Avvento del 2010 diventerà ufficiale la nuova traduzione della Bibbia in lingua italiana fatta dalla Cei. Data alle stampe nel giugno 2008, dopo più di vent’anni dall’inizio della sua preparazione, sarà obbligatoria per il Lezionario della Santa Messa (non dunque per il Breviario).

    Traduzione di un testo vuol dire interpretazione: questo vale in maniera particolare per la Bibbia. Ha detto recentemente papa Benedetto XVI: «Essendo la Scrittura una cosa sola a partire dall’unico popolo di Dio, che ne è stato il portatore attraverso la storia, conseguentemente leggere la Scrittura come un’unità significa leggerla a partire dal popolo di Dio, dalla Chiesa come dal suo luogo vitale e ritenere la fede della Chiesa come la vera chiave d’interpretazione. […] La Tradizione non chiude l’accesso alla Scrittura, ma piuttosto lo apre» (dal Discorso del santo padre Benedetto XVI ai docenti, agli studenti e al personale del Pontificio Istituto Biblico, 26 ottobre 2009).

    Tenendo conto delle parole di Benedetto XVI, vogliamo segnalare almeno una particolarità della nuova traduzione.

    Molte sono le espressioni che, sfogliando una accanto all’altra questa edizione e quelle Cei precedenti (1971 e 1974), risultano cambiate, in omaggio a un dichiarato tentativo di maggior fedeltà al tono e allo stile delle lingue originali. Al semplice fedele appariranno più evidenti i cambiamenti nei testi più noti, quelli che la Chiesa ha inserito nell’uso liturgico, come i Salmi, spesso conosciuti a memoria perché ripetuti nelle preghiere della santa messa e soprattutto nelle preghiere dell’ufficio delle Ore. E proprio leggendo, da semplici fedeli, i Salmi, non si può non notare la quasi totale scomparsa della parola cristiana più bella, la parola “grazia”.

    Nei testi dei Salmi della Bibbia Cei del 1971 la parola “grazia” compare 52 volte; nei corrispondenti testi della Bibbia Cei del 2008 appare invece solo 7 volte, mentre per ben 35 volte è sostituita dalla parola “amore”.
    Il quadro sinottico mostra come di queste 52 occorrenze, la quasi totalità (46) corrispondano al latino della Vulgata di san Girolamo misericordia, che ha un quasi esatto corrispettivo nelle ricorrenze (47) nel greco dei Settanta eleos (parola dal medesimo significato).
    Sia la Vulgata (con misericordia) che, ancor prima, i Settanta (con eleos) hanno interpretato e reso nella stessa maniera lo stesso termine, l’ebraico hesed, che le prime traduzioni Cei (1971 e 1974) hanno poi tradotto in italiano con “misericordia” o “grazia”.

    Leggiamo nella presentazione scritta da monsignor Giuseppe Betori, allora segretario generale della Conferenza episcopale italiana, per il web in occasione dell’evento “La Bibbia giorno e notte”, organizzato presso la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma e trasmesso dalla Rai dal 5 all’11 ottobre 2008: «Fedeltà al testo originale significa anche rispetto dei valori semantici del lessico ebraico. Così ad esempio per il termine hesed si è cercato di attenersi il più possibile al suo significato di “amore” o “bontà”, superando quello troppo restrittivo di “misericordia”, riservato invece alla traduzione del vocabolo rahamim».

    È lo stesso ragionamento che ha portato anche alla sostituzione dell’altra traduzione di misericordia, cioè “grazia”: ce ne rendiamo conto leggendo ad esempio le note alla Bibbia Cei 2008 edita nel 2009 dalle Edizioni San Paolo (La Bibbia Via Verità e Vita; direzione per l’Antico Testamento di monsignor Gianfranco Ravasi, le note sulle modifiche introdotte dalla nuova versione sono dei biblisti Giacomo Perego, Filippo Serafini e Marco Zeppella), dove questo viene detto esplicitamente e anzi si sottolineano specificamente come eccezioni due occasioni in cui hesed continua ad essere tradotto “grazia” (Sal 109, 21 e Sal 119, 29): «... contrariamente al solito, non è stata corretta la versione precedente».

    Se forse si può discutere della effettiva corrispondenza del termine latino misericordia di san Girolamo con il senso attuale di “misericordia” in italiano, tra “amore” e “grazia” invece la differenza è immediata. “Amore” è un termine generico, tant’è che può anche indicare – e normalmente indica, soprattutto nel linguaggio comune, anche volendo tralasciare i significati più stantii e banali – un affetto dell’uomo.

    “Grazia” invece è l’amore gratuito di Dio, che precede, desta, accompagna e sostiene la risposta dell’uomo. Come insegna la preghiera della domenica XXVIII
    per annum: «Tua nos, quaesumus, Domine, gratia semper et praeveniat et sequatur, ac bonis operibus iugiter praestet esse intentos».


    Il rapporto del fedele con Dio è posto in atto in ogni istante dalla grazia di Dio. Il semplice fedele rimane perciò disorientato se legge, ad esempio nella nota a Sal 144, 2, «... l’ebraico hesed, che la versione del 1974 rende con “grazia”. Di solito tale termine viene tradotto con “amore”, perché indica la tensione positiva e favorevole fra i due partner dell’alleanza (specialmente di Dio nei confronti dell’uomo)...».

    Orante, cubicolo della <I>velatio</I>, catacombe di Priscilla, Roma [© Pontificia Commissione Archeologia Sacra, Roma]

    Orante, cubicolo della velatio, catacombe di Priscilla, Roma [© Pontificia Commissione Archeologia Sacra, Roma]

    Non Pater noster dunque, ma Partner...

    E ancora di più il fedele non comprende se legge, nella nota a Sal 142, 8: «”Mi avrai colmato di beni” traduce la medesima espressione che nel Sal 13, 6 è resa con “mi hai beneficato”, attenendosi al testo ebraico che non ha un sostantivo. La versione precedente (“mi concederai la tua grazia”) è forse influenzata dal linguaggio cristiano»

    Il linguaggio cristiano è dunque fuori luogo nella Bibbia? Ma perché il semplice fedele dovrebbe leggere la Bibbia, se non per riconoscervi Cristo?
    Lo dice sant’Agostino: «
    A Domino illa Scriptura sed nihil sapit nisi Christus intelligatur», «La Scrittura viene dal Signore, ma non ha nessun sapore [cioè nessun interesse umano] se non vi si riconosce la presenza di Gesù Cristo» (In Evangelium Ioannis IX, 5); e aggiunge in un altro passo: «Modo ergo tota intentio nostra est, quando psalmum audimus, quando prophetam, quando legem, quae omnia antequam veniret in carne Dominus noster Iesus Christus, conscripta sunt, Christum ibi videre, Christum ibi intelligere», «Quindi tutta la nostra attenzione, quando ascoltiamo i salmi, o i profeti, o la legge, cose che, tutte, sono state scritte prima che venisse nella carne il nostro Signore Gesù Cristo, deve essere rivolta a vedervi Cristo, a cogliervi Cristo» (Enarrationes in psalmos 98, 1).

    Henri de Lubac in Esegesi medievale riassume così il modo con cui i cristiani hanno letto e leggono la Bibbia: «Le due forme del Verbo abbreviato [il Verbo fatto carne, ndr] e dilatato [la Sacra Scrittura, ndr] sono inseparabili. Il Libro dunque rimane, ma nello stesso tempo passa tutt’intero in Gesù e per il credente la sua meditazione consiste nel contemplare questo passaggio» (Esegesi medievale. I quattro sensi della scrittura, vol. III, [Opera omnia 19], Jaca Book, Milano 1997, p. 271).

    [SM=g1740771]


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 29/07/2012 23:24

    Tabelle sinottiche


     


    di Lorenzo Bianchi

















     

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    Caterina63
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    00 24/11/2013 23:46

      Ritorna Padre Scalesi con un affondo.....
    DOMENICA 27 OTTOBRE 2013

    «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo»

    Il vangelo di oggi ci presenta la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18:9-14).

    Essa è preceduta da un’introduzione (v. 9), con cui l’evangelista spiega il motivo per cui Gesú l’ha pronunciata:

    Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri.
    La vecchia traduzione della CEI suonava:
    Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri.
    Il testo originale greco ha:
    Εἶπεν δὲ καὶ πρός τινας τοὺς πεποιθότας ἐφ’ ἑαυτοῖς ὅτι εἰσὶν δίκαιοι καὶ ἐξουθενοῦντας τοὺς λοιποὺς τὴν παραβολὴν ταύτην.
    La traduzione latina della Vulgata (antica e nuova) rende l’originale nel modo seguente:
    Dixit autem et ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam.

    Anche chi non conosce il greco, semplicemente confrontando la traduzione latina con le due traduzioni italiane, si accorge della differenza: nella Vulgata (che riflette letteralmente il testo originale greco) si parla di «alcuni che confidavano in sé stessi come [se fossero] giusti» (alla Vulgata semmai si potrebbe rinfacciare una certa libertà nel tradurre ὅτι εἰσὶν δίκαιοι con tamquam justi, essendo la traduzione letterale «poiché sono [= erano] giusti»); nelle due traduzioni italiane si dice invece: «alcuni che presumevano di essere giusti» (1974); «alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti» (2008). È cambiata la forma, ma è rimasto immutato il significato.
    Ebbene, ho l’impressione che con tale traduzione, assai libera e apparentemente suggestiva, in realtà si tradisca il significato originario del testo e si privi la parabola che segue della sua chiave interpretativa.

    Tutto sta a interpretare correttamente l’espressione τοὺς πεποιθότας ἐφ’ ἑαυτοῖς. πεποιθότας è il participio perfetto di πείθω, verbo che significa appunto “persuadere, convicere”; ma, al perfetto (πέποιθα), assume valore intransitivo (“fidarsi, confidare, aver fiducia”). Si veda in proposito un qualsiasi dizionario di greco (p. es., il Rocci, p. 1451). Naturalmente i traduttori della CEI la loro interpretazione non se la sono inventata: il dizionario del Padre Zorell (Lexicon Græcum Novi Testamenti, col. 1023), dopo aver correttamente ricordato che il perfetto πέποιθα ha significato di presente (“fido, confido”), sostiene sorprendentemente che, seguíto da ὅτι (come nel nostro caso), πέποιθαsignificherebbe “avere la persuasione di…”, giustificando cosí la traduzione della Bibbia CEI.

    Si potrebbe far notare che quell’ὅτιpotrebbe avere valore causale piú che dichiarativo:

    È meglio tradurre hoti con “perché” invece che con il semplice “che”. I farisei erano completamente “giusti” di fronte alla legge; è per questo che essi avevano tanta fiducia in se stessi [2 Cor 1:9] (C.Stuhlmueller, “Il Vangelo secondo Luca”: Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia, 1973, p. 1018).

    Il testo citato da Stuhlmueller (2 Cor 1:9) è pressoché identico a quello evangelico: ἵνα μὴ πεποιθότες ὦμεν ἐφ' ἑαυτοῖς ἀλλ' ἐπὶ τῷ θεῷ τῷ ἐγείροντι τοὺς νεκρούς, questa volta tradotto correttamente dalla CEI: «perché non ponessimo fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti». A volere, si potrebbe far riferimento anche a un celebre testo del Vecchio Testamento: «Benedetto l’uomo che confida nel Signore» (Ger 17:7), che nel greco della Septuaginta suona:εὐλογημένος ὁ ἄνθρωπος, ὃς πέποιθεν ἐπὶ τῷ Κυρίῳ (si noti la medesima costruzione che troviamo nel vangelo e in San Paolo: πέποιθα + ἐπὶ + dativo).

    Dopo questa lunga (e forse arida e noiosa) analisi filologica, vi chiederete perché abbia sostenuto all’inizio che le due traduzioni della CEI avrebbero privato la parabola della sua chiave interpretativa. Semplicemente perché la colpa del fariseo sta proprio nel confidare in sé stesso, non nell’avere “l’intima presunzione di essere giusto” (sottinteso, senza esserlo). In realtà, il fariseo era “giusto”, ma la sua giustizia era quella derivante dalla legge e non quella proveniente da Dio (Fil 3:9) che invece “giustifica” il pubblicano (tra parentesi, si vedano, nel capitolo terzo della lettera ai Filippesi, i vv. 3-4, dove viene usato lo stesso verbo πέποιθα per parlare della “fiducia nella carne”).

    Come spesso capita, la liturgia coglie nella parola di Dio aspetti che agli esegeti, con tutta la loro acribía, sfuggono. L’antifona alBenedictus delle Lodi mattutine di questa XXX domenica durante l’anno, collegando sapientemente la conclusione della parabola (v. 14) con la sua introduzione (v. 9), canta:

    Descéndit publicánus justificátus in domum suam, ab illo, qui in se confidébat.




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)