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Articolo pubblicato su Avvenire del 18 ottobre 2000 

Lo sterminio del popolo armeno tra il 1915 e il ’17 nella testimonianza di un missionario domenicano
 

di Marco Roncalli


E’ un nuovo tassello per quanti sono interessati ad approfondire le persecuzioni dei cristiani nell’impero ottomano durante la prima guerra mondiale, e, più in particolare a ricostruire la tragica sorte del popolo armeno: vicende note e documentate, e tuttavia ancora in parte da scrivere per le continue precisazioni tra quanti parlano di «olocausto cristiano» o di «genocidio armeno», per non dire della storiografia turca che contesta queste definizioni e polemizza sulle cause e le cifre dei massacri. 

E’ un invito a tenere desta la memoria su quel terribile capitolo del secolo appena concluso che vide l’«eliminazione» di un impressionante numero di persone, ma anche la fine di un mondo, lo sconvolgimento di un quadro politico, sociale, culturale, in cui pur in un contesto generalizzato di diseguaglianze fra maggioranza musulmana e minoranze cristiane ed ebraica - popolazioni diverse, da secoli, erano riuscite a convivere e tollerarsi. 

Stiamo parlando del libro Una finestra sul massacro, sottotitolo esplicativo «Documenti inediti sulla strage degli armeni 1915-1916» (Guerini e Associati. Pagine 254. lire 38.000). nel quale Marco Impagliazzo introduce e presenta con molto equilibrio l’edizione italiana di un testo inedito: un racconto del domenicano francese Jacques Rhétorè. testimone diretto (con altri due confratelli padre Simon e padre Berré, pure autori di analoghi memoriali) delle deportazioni e delle stragi nell’area di Mardin, una cittadina dell’Anatolia orientale in provincia di Diyarbakir, all’inizio della Grande Guerra. 

Di esse furono vittime numerosi armeni cattolici, ma anche caldei, siriaci ortodossi, nestoriani, siro-cattolici, protestanti e dunque quasi tutte le minoranze cristiane incompatibili con l’imperante politica di «nazionalizzazione» su base etnica turca e su base religiosa musulmana. 

In sintesi, resta vero che gli armeni furono le vittime principali dei massacri, ma la tragedia coinvolse tutti i cristiani. Per fermare le sacche di resistenza contro chi voleva «la Turchia ai turchi» e scongiurare la creazione di uno Stato almeno, non erano sufficienti nell’apparato (anche ideologico) utilizzabile dal governo dei Giovani Turchi, né bastavano i soli pretesti nazionalistici Bisognava far leva soprattutto su motivazioni di carattere religioso, attivare le masse sulla spinta di motivazioni «religiose», islamiche o anticristiane. Così, senza distinzioni, i cristiani dell’impero - a qualsiasi comunità appartenessero - diventavano nemici, ancor più pericolosi perché alleati naturali degli stranieri europei loro protettori. 

Ma torniamo al manoscritto di Rhètoré. Conservato nella biblioteca dei domenicani di Saulchoira Parigi, è intitolato «Les chrétiens aux bètes! Souvenirs de la guerre sainte proclamée par les turcs contre les chrétiens en 1915», e lungo i suoi 21 capitoli, nello stile appassionato dei più antichi apologeti cristiani, rende conto di quanto accade sotto le finestre e le terrazze dell’edificio dove l’anziano missionario ormai settantatreenne espulso da Mossul, riesce a trattenersi per ben due anni scampando alla deportazione. Una testimonianza dunque oculare, narrata a caldo e sul campo, da un osservatorio che - scrive Rhètoré- è «tra i luoghi più significativi per osservare gli spaventosi e incredibili avvenimenti di questi anni. Tra questi lo sterminio in massa dei migliori elementi dell’impero turco, nel momento in cui questo aveva bisogno di tutte le sue forze vive. 

In nessuna provincia - ne sono sicuro - i carnefici dei cristiani hanno compiuto la loro opera disumana, fatta di crudeltà organizzata e avidità insaziabile, come in quella di Diyarbakir». Dal suo osservatorio, dunque, Rhétoré assiste impotente agli effetti degli ordini di morte che arrivano via telegrafo ed esigono tributi di sangue cristiano per la costruzione di una nuova nazione etnicamente omogenea, riferisce di ecatombi da Dyarbakir ad Urfa, da Mardin a Nisibe, descrive l’esodo lugubre dei convogli dei deportati verso il deserto siriano (si veda il brano qui riportato), insegue da lontano le scorrerie verso i monasteri sparsi nel Tur Ab-din, la «montagna dei servi di Dio». Non è tutto, il domenicano registra poi le gravi perdite subite dal clero e dalla popolazione locale azzarda cifre di morti e dispersi. 

Narra inoltre, con i racconti degli scampati alle stragi, l’eroismo di chi è morto senza abiurare la fede - anche donne e giovanissimi - e la debolezza di chi s’è convertito all’islam per aver salva la vita. Nel testo si elencano storie di violenze, soprusi, orrori, torture, maltrattamenti,… storie di morte. Ma c’è spazio anche per toccanti episodi di solidarietà. Dei quali capita anche che siano protagonisti alcuni degli stessi funzionari civili turchi che si rifiutano di eseguire gli ordini, oppure musulmani retti che non si lasciano convincere dalla propaganda, come pure generosi yazidi (adoratori del Diavolo) che aprono le loro case ai fuggiaschi sulla montagna del Smdjar Persino tra i curdi - sovente complici dei turchi nei massacri- Rhétoré può registrare qualche offerta di asilo ai cristiani perseguitati. Sono tuttavia - questi ultimi- casi isolati. Le pagine delle memorie di Rhétoré ricordano quelle lontane degli «Atti dei martiri», ma rimandano a qualcosa che ancora oggi, con qualche variante, in alcune parti del mondo si sta ripetendo. 

Sullo stesso argomento:

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L’olocausto delle donne che insanguinò l’alba del ‘900

METZ YEGHERN Il Grande Male

Il massacro degli armeni

Nazionalismo turco & genocidio armeno




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)