00 07/09/2012 17:42

CAPITOLO 5

Ove si spiega con un paragone in che cosa consiste l’unione dell’anima con Dio.

1. Da quanto è stato detto si può in qualche modo arguire che cosa s’intende qui per unione dell’anima con Dio; è possibile, così, comprendere meglio ciò che ora esporrò. Non è mia intenzione trattare delle sue distinzioni né delle sue parti, perché non finirei più se mi mettessi a spiegare che cosa sia l’unione dell’intelletto, quella della volontà o quella della memoria, o ancora che cosa sia l’unione transeunte o quella permanente di suddette facoltà o di tutte e tre prese insieme. Ne parlerò nel corso della trattazione, quando si presenterà l’occasione, perché ora non aiuterebbe a capire ciò che occorre dire di esse, mentre lo capiremo molto meglio a suo luogo, allorché, trattando questo argomento, avremo sotto mano l’esempio vivo insieme alla presente teoria; allora si potrà esaminare e comprendere meglio ogni cosa e se ne potrà meglio giudicare.

2. Ora voglio solo parlare dell’unione totale e permanente dell’anima, secondo la sua sostanza e le sue potenze, immerse nell’oscurità abituale di tale unione. In seguito, con l’aiuto di Dio, dirò che l’atto non può determinare un’unione permanente delle potenze in questa vita, ma solo transeunte.

3. Per comprendere, dunque, bene la natura dell’unione di cui sto parlando, occorre sapere che Dio dimora ed è presente sostanzialmente in qualsiasi anima, anche in quella del peggior peccatore del mondo. Questa sorta di unione tra Dio e tutte le creature sussiste sempre; per mezzo di essa, egli le sostiene nella loro esistenza; se la sua presenza negli esseri creati venisse meno, essi cadrebbero nel nulla e cesserebbero di esistere. Quando, perciò, parlo di unione dell’anima con Dio, non mi riferisco a quella sostanziale, che vige sempre, ma all’unione e trasformazione dell’anima in Dio, che si verifica solo quando viene a crearsi somiglianza d’amore. Questa, perciò, si può chiamare unione di somiglianza, l’altra, invece, unione essenziale o sostanziale: questa è naturale, quella soprannaturale e ha luogo quando le due volontà, quella dell’anima e quella di Dio, sono d’accordo tra loro, senza che nulla dell’una ripugni all’altra. Quando, dunque, l’anima cancella in sé tutto ciò che ripugna o non è conforme alla volontà divina, allora è trasformata in Dio per amore.

4. Tale spogliamento si riferisce non solo agli atti che ripugnano a Dio, ma anche alle abitudini. Così l’anima deve respingere non solo gli atti volontari imperfetti, ma deve annullare qualsiasi abitudine che ha relazione con essi. Poiché ogni cosa creata, azione e capacità umana non può raggiungere né avvicinarsi a ciò che è Dio, l’anima deve spogliarsi di ogni cosa creata, azione e capacità, cioè del suo modo di comprendere, di gustare e di sentire. Solo così, eliminato tutto ciò che non somiglia o non è conforme a Dio, non restandole altro che la sua volontà, essa può raggiungere la somiglianza con lui e la trasformazione in lui. Sebbene sia vero, come ho detto, che Dio è sempre nell’anima per darle e conservarle l’essere naturale con la sua presenza, tuttavia non sempre le comunica l’essere soprannaturale. Questo viene partecipato solo per amore e per grazia, che non tutte le anime possiedono in ugual misura; alcune hanno un grado maggiore di amore, altre un grado inferiore. Per questo, Dio si comunica maggiormente all’anima più avanti nell’amore, cioè quella che ha la volontà più conforme alla sua volontà. L’anima, la cui volontà è pienamente conforme e simile a quella di Dio, è completamente unita a lui e soprannaturalmente in lui trasformata. Da quanto è stato detto risulta che, quanto più un’anima è sedotta, affettivamente e abitualmente, dalle creature e dalle proprie capacità, tanto meno è disposta a tale unione, perché non offre totalmente a Dio la possibilità di trasformarla soprannaturalmente. L’anima, quindi, non deve fare altro che spogliarsi di quanto è opposto e dissimile, sul piano naturale, a Dio, perché questi, che le si è già comunicato naturalmente per mezzo della natura, le si conceda soprannaturalmente per grazia.

5. Questo è quanto ha voluto farci comprendere san Giovanni quando ha detto: Qui non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis, nec ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt (Gv 1,13). È come se volesse dire: ha dato potere di diventare figli di Dio, cioè di trasformarsi in lui, solo a coloro che non sono nati dal sangue, cioè dall’unione e composizione di elementi naturali, e neppure dalla volontà della carne, cioè dall’arbitrio dell’abilità e della capacità naturale, tanto meno dalla volontà dell’uomo. Simili espressioni alludono a tutti i modi umani di giudicare e di comprendere con la ragione. A nessuno di costoro, dunque, ha dato potere di diventare figli di Dio, ma solo a quelli che sono nati da lui, cioè a coloro che, morti a tutto ciò che è uomo vecchio e rinati, quindi, nella grazia, si elevano al di sopra di se stessi sino al soprannaturale, ricevendo da Dio tale rinascita e filiazione, superiore a tutto ciò che si possa immaginare. Per questo motivo, altrove lo stesso san Giovanni afferma: Nisi quis renatus fuerit ex aqua, et Spiritu Sancto, non potest videre regnum Dei, cioè: Se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio (Gv 3,5), che è lo stato di perfezione. Rinascere nello Spirito Santo in questa vita significa avere un’anima molto simile a Dio per purezza, senza avere in sé alcuna mescolanza d’imperfezione. Solo così può realizzarsi una pura trasformazione dell’anima in Dio per partecipazione d’unione, anche se ciò non avviene sul piano dell’essenza.

6. Per poter comprendere meglio questa verità, ricorro a un paragone. Un raggio di sole batte su una vetrata; se questa ha delle macchie o è appannata, il sole non può illuminarla e trasformarla totalmente nella sua luce, come accadrebbe, invece, se fosse nitida e senza tutte quelle macchie. Anzi, tanto meno la illuminerà quanto meno sarà smacchiata e pulita, e, viceversa, quanto più sarà tersa tanta maggior luce riceverà. Ciò si verifica non per colpa del raggio, ma della vetrata stessa. Se, infatti, questa fosse completamente limpida e tersa, il raggio la trasformerebbe e la illuminerebbe a tal punto da essere identificata con il raggio stesso e da riflettere la sua stessa luce. In tal caso, però, pur essendo la vetrata identificata con il raggio, conserva sempre la sua natura distinta da esso; potremmo, però, dire che essa è raggio o luce per partecipazione. L’anima è come questa vetrata che è sempre investita dalla luce dell’essere divino, o meglio tale luce dimora sempre in essa per natura, come ho detto.

7. Quando l’anima fa spazio, cioè elimina in sé ogni ombra e macchia di cosa creata, tenendo la volontà perfettamente unita a quella di Dio – perché amare vuol dire cercare di spogliarsi e privarsi per Dio di tutto ciò che non è lui –, viene immediatamente illuminata e trasformata in Dio. Questi, allora, le comunica il suo essere soprannaturale, in modo che quella sembra Dio stesso e possiede ciò che possiede Dio. L’unione che s’instaura, quando Dio concede all’anima tale grazia soprannaturale, produce una trasformazione partecipativa tale che tutte le cose di Dio e l’anima costituiscono una sola cosa. L’anima assomiglia più a Dio che a se stessa, addirittura è Dio per partecipazione. È pur vero, però, che il suo essere, anche se trasformato, resta per natura distinto da Dio come prima; proprio come la vetrata che, pur essendo illuminata dal raggio di sole, ne rimane pur sempre distinta.

8. Da ciò risulta più chiaro che i mezzi a disposizione dell’anima per arrivare a tale unione, come si diceva prima, non consistono nel capire, nel gustare, nel sentire, nell’immaginare Dio, né in qualsiasi altra attività umana, ma nella purezza e nell’amore, cioè nello spogliamento e nella rinuncia assoluta a tutto per amore di Dio. Ora, poiché non si può dare trasformazione perfetta se non vi è perfetta purezza, l’illuminazione e l’unione dell’anima con Dio saranno più o meno intense e proporzionate alla purezza dell’anima. Tale unione, ripeto, non sarà perfetta fintanto che l’anima non sarà del tutto perfetta, pura e limpida.

9. Il paragone seguente ci aiuterà a capire quanto ho detto. Pensiamo a un’immagine ben rifinita, dai numerosi e sublimi pregi e dai delicati e fini smalti, alcuni dei quali si possono appena distinguere per la loro delicatezza e perfezione. Ora, chi ha una vista poco chiara e imperfetta riuscirà a scorgere solo qualcosa dell’arte e della finezza di quell’immagine; chi, invece, ha una vista migliore vi scoprirà maggiori perfezioni; chi, infine, ha una vista molto acuta vi vedrà bellezze e perfezioni più degli altri. Nell’immagine, infatti, vi è tanto da vedere che, malgrado tutto quello che si è potuto ammirare, più si ammira, più resta da ammirare.

10. Possiamo dire che le anime si comportano con Dio allo stesso modo, quando vengono da lui illuminate e trasformate. Se è vero che ogni anima, a seconda della sua poca o molta capacità, può giungere a quest’unione, non tutte però vi pervengono con lo stesso grado d’intensità, perché ciò dipende dalla volontà del Signore. Accade loro come ai santi in cielo: alcuni contemplano più e altri meno, ma tutti vedono Dio e sono contenti, perché tutta la loro capacità ricettiva è appagata.

11. Da ciò risulta altresì che, quantunque in questa vita vi siano anime che nello stato di perfezione godono uguale pace e tranquillità e ognuna di esse è soddisfatta, tuttavia alcune possono essere molto più elevate di altre, ma tutte sono totalmente contente, in quanto tutta la loro capacità è soddisfatta. Ma l’anima che non raggiunge una purezza proporzionata alle sue capacità, non conseguirà mai la vera pace e soddisfazione, perché non ha operato quello spogliamento e quel vuoto nelle sue potenze, necessari per l’unione semplice con Dio.

 

CAPITOLO 6

Ove si spiega come le tre virtù teologali abbiano il compito di perfezionare le tre potenze dell’anima, producendo in esse il vuoto e le tenebre.

1. Esporrò ora il modo d’introdurre le tre potenze dell’anima, cioè l’intelletto, la memoria e la volontà, in questa notte dello spirito, che conduce all’unione con Dio. Per prima cosa è necessario spiegare, in questo capitolo, come le tre virtù teologali, fede, speranza e carità, che sono propriamente gli oggetti soprannaturali di dette potenze, mediante le quali l’anima si unisce a Dio, creano, ognuna nella rispettiva potenza, lo stesso vuoto e la stessa oscurità: la fede nell’intelletto, la speranza nella memoria e la carità nella volontà. In seguito si vedrà come l’intelletto debba perfezionarsi nelle tenebre della fede, la memoria nel vuoto della speranza e come la volontà si debba fortificare nell’assenza e nello spogliamento di ogni affetto per unirsi a Dio. Detto questo, apparirà chiaro quanto bisogno ha l’anima di percorrere sicura questo cammino spirituale, di passare per questa notte oscura, appoggiandosi a queste tre virtù, che la svuotano di tutte le cose e la tengono al buio nei loro confronti. Difatti, come ho già detto, l’anima in questa vita non si unisce a Dio per mezzo di ciò che può comprendere, godere o immaginare, né tramite qualsiasi altra sensazione, ma solo mediante la fede, la speranza e la carità in rapporto all’intelletto, alla memoria e alla volontà.

2. Queste tre virtù, ripeto, creano il vuoto nelle potenze: la fede crea il vuoto nell’intelletto, impedendogli di comprendere; la speranza spoglia di ogni possesso la memoria; e la carità opera il vuoto nella volontà per spogliarla di ogni affetto e piacere riguardo a tutto ciò che non è Dio. La fede, già lo sappiamo, ci parla di cose che non possiamo capire con l’intelletto. Di essa così si afferma nella lettera agli Ebrei: Fides est sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium (Eb 11,1). Per quanto riguarda il nostro argomento, queste parole vogliono dire che la fede è sostanza delle cose che si sperano. Sebbene l’intelletto aderisca alle cose sperate con ferma certezza, tuttavia non riesce a comprenderle, perché, se le penetrasse, non vi sarebbe più fede. Questa, infatti, benché dia certezza all’intelletto, non gli offre chiarezza, ma solo oscurità.

3. Quanto alla speranza, non v’è dubbio che essa crei vuoto e oscurità anche nella memoria circa le cose di questa e dell’altra vita. Difatti la speranza ha per oggetto le cose che non si possiedono, perché, se si possedessero, non ci sarebbe più speranza. Per questo san Paolo dice nella lettera ai Romani: Spes, quae videtur, non est spes; nam quod videt quis, quid sperat?: Ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede o possiede, come potrebbe ancora sperarlo? (Rm 8,24). Anche questa virtù, quindi, crea vuoto, perché ha per oggetto ciò che non si ha, non ciò che si ha.

4. La carità crea, ugualmente, nella volontà il vuoto rispetto a tutte le cose create, perché ci obbliga ad amare Dio più di tutte le cose. Ciò si ottiene distaccando da esse ogni affetto per riporlo unicamente in Dio. In Luca Cristo dice: Qui non renuntiat omnibus quae possidet, non potest meus esse discipulus, che vuol dire: Chi non rinunzia a tutti i suoi averi, con la volontà, non può essere mio discepolo (Lc 14,33). È così che tutt’e tre queste virtù pongono l’anima nell’oscurità e nel vuoto rispetto a tutte le cose.

5. È bene ricordare a questo punto la parabola del Signore trasmessa nel vangelo di Luca, dove si parla di un uomo che andò da un suo amico a mezzanotte per chiedergli tre pani (Lc 11,5), che rappresentano le tre virtù. Il testo riferisce che l’amico andò a chiedere questi tre pani  a mezzanotte. Ciò significa che l’anima, al buio di tutte le cose, ove terrà le sue potenze, dovrà acquisire queste tre virtù e, in questa notte, dovrà perfezionarsi in esse. Nel capitolo 6 di Isaia (v. 2) leggiamo che il profeta vide due serafini ai lati di Dio, ognuno con sei ali, due delle quali coprivano i loro piedi, a significare la cecità e l’annullamento degli affetti della volontà in tutte le cose per amore di Dio; altre due coprivano i loro volti, e significano le tenebre dell’intelletto di fronte a Dio; mentre con le altre due volavano: questo è il volo della speranza verso le cose che non si possiedono, al di sopra di tutto ciò che non si può avere quaggiù e lassù, eccetto Dio.

6. Le tre potenze dell’anima, dunque, devono tendere verso queste tre virtù, in modo che ciascuna di quelle sia informata dalla virtù corrispondente; occorre tenere al buio e spogliare le potenze di tutto ciò che è estraneo a queste tre virtù. Tale è la notte dello spirito, che ho chiamato attiva, perché l’anima fa ciò che le è possibile per entrarvi. Come nella notte dei sensi ho indicato il modo per liberare, secondo l’appetito, le potenze sensitive dai loro oggetti sensibili, perché l’anima possa passare dal suo ambito verso il campo della fede, così in questa notte dello spirito spiegherò, con l’aiuto di Dio, il modo con cui le potenze spirituali si svuotano e si purificano da tutto ciò che non è Dio e si mantengono nell’oscurità di queste tre virtù, che, ripeto, sono il mezzo e la disposizione adeguata perché l’anima possa unirsi a Dio.

7. In tal modo l’anima troverà perfetta sicurezza contro le astuzie del demonio e contro la forza dell’amor proprio e le sue ramificazioni così sottili, da ingannare e ostacolare il cammino delle persone spirituali. In realtà, questa non sanno spogliarsi di ogni bene creato e regolarsi secondo queste tre virtù. Per questo non riescono mai a raggiungere il bene spirituale nella sua sostanza e nella sua purezza, né percorrono quel cammino diritto e breve che potrebbero seguire.

8. Occorre ricordare che ora vorrei rivolgermi specialmente a coloro che hanno cominciato a entrare nello stato di contemplazione, perché per i principianti sarà necessario trattare questo argomento più a lungo, come farò nel libro secondo, con l’aiuto di Dio, quando parlerò delle loro disposizioni.

 

CAPITOLO 7

Ove si mostra quanto sia angusto il sentiero che porta alla vita eterna e quanto spogli e liberi debbano essere coloro che vogliono percorrerlo. S’incomincia a parlare della notte dell’intelletto.

1. Per trattare ora in modo adeguato dello spogliamento e della purezza delle tre potenze dell’anima sarebbero necessarie una mente e una scienza superiore a quelle che possiedo io, così da far capire alle persone spirituali quanto stretto sia questo cammino che, secondo le parole del Signore, conduce alla vita. Una volta persuase di questa verità, esse non si meraviglieranno del vuoto e della nudità in cui devono lasciare le potenze dell’anima durante questa notte.

2. A tale proposito è opportuno considerare le parole del Signore riportate in san Matteo circa questo cammino: Quam angusta porta, et arcta via est, quae ducit ad vitam, et pauci sunt qui inveniunt eam, cioè: Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita e quanto pochi sono quelli che la trovano! (Mt 7,14). Occorre notare che all’autorità di queste parole si aggiunge l’efficacia intensiva contenuta nella particella quam. È come se il Signore volesse dire: è davvero molto stretta, più di quanto pensiate! Va inoltre osservato come egli in primo luogo affermi che stretta è la porta, il che permette di capire che per entrare in questa porta di Cristo, che è l’inizio del cammino, l’anima deve anzitutto mortificare e spogliare la sua volontà di tutte le cose sensibili e temporali, amando Dio al di sopra di tutto. Questo lavoro si compie nella notte dei sensi, di cui si è già parlato.

3. Subito dopo aggiunge che angusta è la via, cioè quella della perfezione. Con tale espressione vuol far capire che per avanzare nel cammino della perfezione l’anima non solo deve passare attraverso la porta stretta, privandosi dei beni sensibili, ma deve altresì mortificarsi, espropriarsi e sbarazzarsi completamente dei beni spirituali. Ciò che dice della porta stretta va, quindi, riferito alla parte sensitiva della persona, e a quella spirituale o razionale ciò che dice della via angusta. La causa, poi, dell’espressione: Pochi sono quelli che la trovano, va ricercata nel fatto che pochi sanno e vogliono entrare in questa estrema nudità e vuoto dello spirito. Poiché questo sentiero verso il sublime “Monte della perfezione” sale verso l’alto ed è angusto, può essere percorso soltanto da viandanti che non portano pesi aggravanti la parte inferiore, cioè i sensi, né impedimenti che ingombrano quella superiore, cioè lo spirito. Poiché si tratta di un impegno in cui si cerca e si raggiunge solo Dio, Dio solo va cercato e posseduto.

4. Da ciò risulta chiaro che l’anima deve sbarazzarsi non solo di ogni affezione verso le cose create, ma deve altresì essere libera e distaccata dai beni riguardanti il suo spirito. Per istruirci e guidarci in questo cammino il Signore, nel vangelo di san Marco, c’insegna quella mirabile dottrina che è tanto meno praticata dalle persone spirituali quanto più è loro necessaria. Per questo motivo e poiché fa al nostro caso, la riporto tutta, spiegandone il genuino e spirituale significato. Il Signore afferma, dunque, così: Si quis vult me sequi, deneget semetipsum, et tollat crucem suam, et sequatur me. Qui enim voluerit animam suam salvam facere, perdet eam: qui autem perdiderit animam suam propter me… salvam faciet eam, cioè: Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà (Mc 8,34-35).

5. Oh!, chi potrà far comprendere, praticare e gustare tutta l’importanza di questo consiglio del nostro Salvatore? Egli chiede di rinnegare se stessi, affinché le persone spirituali vedano quanto il modo di comportarsi in tale cammino sia diverso da quello che molte di loro immaginano. Alcune, infatti, pensano che basti una qualsiasi forma di ritiro o di riforma della vita; altre si limitano a esercitarsi in qualche modo nella virtù, nella pratica dell’orazione e della mortificazione, ma senza arrivare allo spogliamento e alla povertà, all’abnegazione e alla purezza spirituale – che sono un tutt’uno – consigliatici qui dal Signore. Si preoccupano, infatti, più di nutrire e ricoprire la loro natura di consolazioni e sentimenti spirituali che di spogliarla e privarla di ogni conforto per amore di Dio. Pensano che basti mortificarla nei piaceri del mondo e non che debba essere annientata e purificata anche nella sua parte spirituale. Avviene dunque che, quando si presenta loro l’opportunità di compiere un atto di virtù solido e perfetto, come l’annullamento di ogni soavità in Dio, la permanenza nell’aridità, nelle avversioni, nelle sofferenze – cose in cui consiste la pura croce spirituale, la nudità e la povertà di spirito del Cristo –, tali persone rifuggono tutto questo come se fosse la morte e vanno solo in cerca di dolcezze e soavità nei rapporti con Dio. Ma questo non è rinnegare se stessi né nudità di spirito, bensì golosità spirituale! Agendo così, esse si rendono nemiche della croce di Cristo (Fil 3,18), perché il vero spirito cerca nel Signore più l’amaro che il dolce, propende più per la sofferenza che per la consolazione, più per la mancanza di ogni bene per amore di Dio che per il possesso, più per le aridità e le afflizioni che per le dolci comunicazioni, sapendo che questo significa seguire Cristo e rinnegare se stessi; il resto, invece, è cercare se stessi in Dio, cosa molto contraria all’amore. Infatti, cercare se stessi in Dio significa ricercare i doni e le consolazioni di Dio, mentre cercare unicamente Dio non è solo voler rinunciare a tutto per amore di Dio, ma essere propensi a scegliere per Cristo quanto di più disgustoso vi possa essere, sia da parte di Dio che del mondo. Questo è amore di Dio.

6. Chi potrà far comprendere fin dove il Signore vuole che arrivi questa rinuncia? Essa dev’essere, certamente, come una morte e un totale annientamento temporale, naturale e spirituale in relazione alla volontà, nella quale si opera ogni rinuncia. Ciò è quanto intende dirci il Signore quando afferma: Chi ama la sua vita la perde (Gv 12,25), cioè: chi vorrà possedere qualcosa o ricercarla e tenerla gelosamente per sé, la perderà. Ma chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà (Mt 10,39, cioè: chi per amore di Cristo rinuncia a tutto ciò che può desiderare e gustare, scegliendo ciò che più assomiglia alla croce – il Signore stesso nel vangelo di san Giovanni chiama quest’atteggiamento odiare la propria vita (Gv 12,25) –, costui la guadagnerà. Tale è l’insegnamento che il Signore offrì a quei due discepoli che gli chiedevano di sedere alla sua destra e alla sua sinistra. Egli non diede loro alcuna speranza di raggiungere la gloria richiesta, ma offrì il calice, che egli stesso avrebbe bevuto, come la cosa più preziosa e più sicura su questa terra, piuttosto che il godimento (Mt 20,20-22).

7. Bere questo calice significa morire alla propria natura, spogliandola e mortificandola in tutto ciò che riguarda i sensi, come ho detto, e in tutto ciò che riguarda lo spirito, come ora dirò, cioè nel suo modo d’intendere, di gustare e di sentire, perché la persona possa camminare per lo stretto sentiero. Così non solo sarà liberata da ciò che viene dai sensi e dallo spirito, ma, in ciò che riguarda quest’ultimo, essa non inciamperà in nessun ostacolo lungo l’angusto cammino. Qui, infatti, c’è posto solo per l’abnegazione – come lascia intendere il Signore – e per la croce, il bastone cui appoggiarsi, che rende il cammino più facile e agevole. Per questo il Signore afferma nel vangelo di san Matteo: Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero (Mt 11,30). Il giogo è la croce che l’uomo deve impegnarsi a portare, il che significa decidersi davvero a voler cercare e sopportare ogni sorta di fatiche per amore di Dio. Solo così troverà in esse grande sollievo e dolcezza nel percorrere questo cammino, privo di tutto, senza volere nulla. Se, invece, pretende di appropriarsi di qualcosa, proveniente da Dio o da altrove, non procede spoglio e distaccato da tutto e, pertanto, non potrà imboccare né percorrere questo stretto sentiero sino alla vetta.

8. Per questo motivo vorrei convincere le persone spirituali circa il fatto che questo cammino che porta a Dio non consiste nella molteplicità delle meditazioni, nei metodi, negli esercizi, nei gusti – sebbene tutto questo sia in qualche modo necessario ai principianti –, ma in una sola cosa indispensabile: nel saper rinnegare davvero se stessi, esteriormente e interiormente, offrendosi alla sofferenza per amore di Cristo e annientandosi in tutto. Esercitandosi in tali cose, si possono acquisire tutti quei beni e di più grandi; se, invece, si trascurano, siccome esse sono compendio e radice delle virtù, ogni altra pia pratica è dispersione inutile, anche se quelle persone abbiano meditazioni e comunicazioni pari a quelle degli angeli. In realtà, si fa progresso solo imitando Cristo, che è la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me, come dice egli stesso nel vangelo di Giovanni (Gv 14,6). E altrove: Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo (Gv 10,9). Di conseguenza, non riterrei per buono quello spirito che volesse camminare attraverso dolesse e agiatezze, e rifiutasse d’imitare Cristo.

9. Ho detto che Cristo è la via, e questa via è la morte alla nostra natura sia sensitiva che spirituale. Ora voglio far comprendere come questo avvenga in noi, a imitazione di Cristo nostro modello e nostra luce.

10. In primo luogo è certo che egli morì ai sensi, in modo spirituale, durante la sua vita, e fisicamente, alla fine della sua vita, poiché, come egli stesso afferma, in vita non aveva dove posare il capo (Mt 8,20) né tanto meno lo ebbe in croce.

11. In secondo luogo è certo che Cristo al momento della morte fu annientato anche nell’anima, quando fu lasciato senza conforto e sollievo alcuno, abbandonato dal Padre nella più profonda aridità affettiva. Allora egli sentì il bisogno di gridare: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mt 27,46). Questo fu l’abbandono più desolante, a livello affettivo, da lui provato durante la sua vita. In esso, però, compì l’opera più grande di tutta la sua vita, quella che sorpassa i miracoli e ogni altro evento compiuto sulla terra e in cielo, cioè la riconciliazione del genere umano la sua unione con Dio per mezzo della grazia. Come dico, tutto questo accadde nel tempo e nel momento in cui nostro Signore toccò il massimo dell’annientamento: nella stima degli uomini, che vedendolo morire, anziché apprezzarlo, si burlavano di lui; nella natura, per mezzo della quale si annientò morendo; nel sostegno e nel conforto spirituale del Padre, che in quella circostanza lo abbandonò, affinché pagasse interamente il debito e unisse l’uomo a Dio, lasciandolo annientato e ridotto quasi a nulla. Davide dice di lui: Ad nihilum redactus sum, et nescivi: Ero ridotto un niente e non capivo (Sal 72,22). Comprenda, perciò, l’uomo spirituale il mistero della porta e della via di Cristo per unirsi a Dio e sappia che quanto più per amor suo si annienterà, nelle sue parti sensitiva e spirituale, tanto più si unirà a Dio e più grande sarà la sua opera. Quando si sarà ridotto al nulla, avrà cioè raggiunto l’estrema umiltà, allora realizzerà la sua unione spirituale con Dio, che è lo stato più grande ed elevato al quale si possa pervenire in questa vita. Tale unione non consiste, quindi, nelle gioie, nelle consolazioni o nei sentimenti spirituali, ma in una vera morte di croce, sensitiva e spirituale, cioè esteriore e interiore.

12. Non voglio dilungarmi oltre su questo argomento, anche se non smetterei mai di parlarne, perché vedo che Cristo è assi poco conosciuto da coloro che si considerano amici suoi. Li vediamo, infatti, cercare in lui dolcezze e consolazioni e amare molto se stessi, piuttosto che cercare le sue amarezze e la sua morte, segno di coloro che lo amano molto. Parlo di quelli che si ritengono suoi amici, non degli altri che vivono lontano e separati da lui, grandi letterati, potenti e tutti gli altri che vivono là nel mondo, preoccupati di soddisfare le loro ambizioni e le loro manie di grandezza, perché di costoro posso dire che non conoscono Cristo e che avranno una fine, per quanto buona, molto amara. Non parlo di loro in questo scritto. Di essi si parlerà nel giorno del giudizio, perché costoro soprattutto avevano il dovere di annunciare la parola di Dio, essendo stati da lui posti in alto dinanzi agli uomini per cultura e dignità.

13. Ora, però, parlo all’intelligenza dell’uomo spirituale, soprattutto di colui al quale Dio ha fatto il dono di elevarlo allo stato di contemplazione. Come ho già detto, ora parlo specialmente a queste persone, dicendo come devono indirizzarsi a Dio nella fede, purificando il loro intelletto da ciò che a lui è contrario e mortificandosi, per poter entrare in questo sentiero stretto della contemplazione oscura.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)