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DIFENDERE LA VERA FEDE

Può la Chiesa cambiare dottrina? Il professor “Zagloba” risponde (blog Settimo cielo)

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    Caterina63
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    00 03/10/2012 21:38

    [SM=g1740733] Ricordando a tutti di sfogliare gli altri link relativi ai medesimi argomenti o simili e che troverete sempre in elenco CLICCANDO QUI


    vi offriamo ora un argomento spinoso ma molto, molto interessante e per quanto il tema sia difficile, l'articolo lo rende davvero fruibile nella lettura.....





    Può la Chiesa cambiare dottrina? Il professor “Zagloba” risponde

    zagloba

    Dopo sei mesi dalla sua prima apparizione, il misterioso “Giovanni Onofrio Zagloba” ricompare in Settimo Cielo inviandoci un suo nuovo scritto.

    Misterioso perché non vuole dirci chi si celi dietro questo nome da lui preso in prestito da un personaggio del romanzo storico di Henryk Sienkiewicz “A ferro e fuoco”: un uomo di ventura dell’epopea polacca del Seicento, più loquace che fattivo, trovatosi però determinante nello sconfiggere il peggior campione nemico.

    Dalla lettura del suo contributo, si ricava comunque che il nostro Zagloba è ferrato in filosofia, in teologia e in scienza della politica.

    Sei mesi fa, entrò nella discussione innescata dal libro-intervista di Benedetto XVI “Luce del mondo”, pro o contro l’uso del preservativo.

    Questa volta, Zagloba si tuffa in un’altra discussione d’alto livello in corso in Settimo Cielo e in www.chiesa, sulla questione se la Chiesa può cambiare la sua dottrina nel tempo, e come. Di nuovo sulla scia di un enunciato di papa Joseph Ratzinger, il criterio della “riforma nella continuità”, e della sua applicazione ai rapporti tra la Chiesa e lo stato nel caso della libertà religiosa, a partire dal Concilio Vaticano II.

    [SM=g1740733] L’ultima puntata di questa discussione, con i rimandi alle precedenti, è nel servizio di www.chiesa:Libertà religiosa. La Chiesa era nel giusto quando la condannava?

    La parola a Zagloba.

    *

    STATO E DEMOCRAZIA. COME CAMBIA IL MAGISTERO DELLA CHIESA

    di Giovanni Onofrio Zagloba

    Può la Chiesa cambiare la sua dottrina nel tempo? Io credo che si possa rispondere più o meno cosí: per mantenere invariata nel tempo la essenza della propria dottrina la Chiesa deve variare nel tempo le forme nelle quali la esprime. Stiamo qui parlando, ovviamente, non del nucleo kerygmatico ma della teologia ed anche delle formulazioni magisteriali che nel tempo lo accompagnano e lo spiegano (e anche, inevitabilmente, lo velano).

    La necessità di questa risposta poggia su due ragioni. Essa dipende sia dalla natura dell’avvenimento cristiano che dalla natura del linguaggio.

    L’avvenimento cristiano è, per l’appunto, un avvenimento di grazia, una forza che entra nella vita dell’uomo e nella storia del mondo, e le cambia. Naturalmente l’uomo deve dire l’avvenimento, deve comunicarlo con gesti e con parole, deve spiegarlo a chi chiede di capire di che cosa si tratta. L’avvenimento genera una dottrina. Rimane però una inevitabile eccedenza dell’avvenimento sulla dottrina, che corrisponde alla eccedenza della Parola increata sulla parola creata. La dottrina spiega l’avvenimento senza potere mai esaurirlo.

    Qui si situa una importante differenza fra il cattolicesimo ed il protestantesimo. I protestanti hanno affermato il criterio della “sola Scriptura”. La trasmissione della fede è affidata al solo documento scritto. Ogni testo, però, per essere compreso, deve essere letto in un contesto. Il contesto nel quale il testo deve essere letto è inevitabilmente offerto dallo spirito del tempo. Il risultato è che lo spirito del tempo inevitabilmente prevale sulla lettera. La interpretazione umana prevale sulla rivelazione divina.

    La posizione direttamente opposta a quella protestante la si ritrova non nel cattolicesimo ma nell’islam. Qui la parola va letta fuori del contesto, non deve essere interpretata ma proprio per questo non può illuminare un tempo diverso dal suo. Sembra che, almeno per le posizioni più rigoriste, per essere fedeli alla parola sia necessario rinunciare spiritualmente al proprio tempo per rifugiarsi spiritualmente nel tempo senza tempo che costituirebbe il tempo originario della parola. Il Corano non è parola umana ispirata da Dio. Il Corano è parola increata di Dio.

    La soluzione cattolica è diversa da ambedue. Essa ammette la interpretazione, anzi la richiede. Il contesto della interpretazione non lo dà però lo spirito del tempo ma lo spirito di Dio, lo Spirito Santo. Non si può ridurre la posizione cattolica semplicemente alla aggiunta, alla Scrittura, di una seconda fonte di conoscenza della Rivelazione, cioè la Tradizione. Come, attraverso quali fonti, si conosce la Tradizione? Attraverso una scrittura parallela? Sarebbe un po’ paradossale. Si tratta piuttosto della fede della Chiesa attestata da tradizioni ma riconosciuta nell’esperienza viva della Chiesa stessa. Questa fede è garantita dal sacramento. Dottore della fede non è, per eccellenza, il teologo ma, piuttosto, il vescovo, ovvero il titolare della autorità magisteriale. Il sacramento autorizza alla lettura ed interpretazione autentica della Scrittura. Lo Spirito Santo costituisce il contesto della interpretazione della Scrittura. Diciamo tutto questo non per negare la necessità di rileggere la Scrittura, di volta in volta, nel tempo, ma per mettere in evidenza che questa rilettura nel tempo non è una rilettura affidata semplicemente allo spirito del tempo.

    È interessante osservare come, in ambito cattolico, una lettura “statica” della Tradizione è stata proposta. È stato De Maistre ad affiancare alla Scrittura una tradizione da essa indipendente che risale ad un tempo originario che precede l’esistenza stessa della Chiesa. Diventa allora possibile pensare un conflitto delle tradizioni ed è altrettanto possibile giungere a pensare la superiorità di una di esse sull’altra. Pensata in questo modo la tradizione si pone su di un livello superiore rispetto al Magistero. La tradizione non interpretabile giudica il Magistero.

    In tutta la questione della interpretazione del Concilio oggi è contenuta, in un modo più o meno consapevole, la questione della interpretabilità o non interpretabilità della Scrittura (e quindi a fortiori del Magistero). È interessante osservare che proprio a partire dalla questione della Tradizione e della interpretazione Renè Guenon giunge a sostenere la superiorità dell’islam sul cristianesimo. Nell’islam infatti  la rivelazione coincide con la Scrittura, il Corano non riferisce un avvenimento ma è una dottrina stabilita e scritta direttamente da Dio. Alla ricerca di una linea di resistenza contro la rivoluzione l’islam appare a Guenon superiore sia al protestantesimo che anche al cattolicesimo. Anche nel cattolicesimo, infatti, la Scrittura è interpretabile, anche se il contesto della interpretazione è dato dallo Spirito Santo. È pure interessante notare che Karl Barth vincola strettamente l’interpretazione con l’atto (sacramentale?) della predicazione, avvicinandosi in questo al cattolicesimo.

    Vi è anche, come già ho detto, una seconda ragione della necessità della interpretazione. La realtà umana cambia nel tempo e, insieme con la realtà, cambia il linguaggio che la riflette e cerca di esprimerla. Il Magistero, d’altro canto, deve riformulare la verità di fronte ad errori sempre nuovi e diversi. La formulazione della verità è condizionata di volta in volta dall’errore a cui essa si oppone oltre che dal contesto linguistico in cui essa viene formulata.

    Prendiamo una parola chiave come la parola democrazia. La democrazia di cui parla Gregorio XVI o Pio IX è la stessa democrazia di cui invece parla il Concilio Ecumenico Vaticano II? Etimologicamente democrazia significa potere del popolo. il popolo fa le leggi, le interpreta e dà loro esecuzione.
    Al tempo del Terrore, a Parigi, quando suonava la campana del comune il popolo scendeva in piazza ed era al tempo stesso legislatore, giudice e boia. I teorici “antidemocratici” opponevano il fatto che il popolo non sempre ha ragione. In fondo è il popolo ad avere condannato sia Socrate che Cristo. Già Platone aveva fatto una critica impietosa della democrazia. Il popolo  è tutto passione e furore. Gli manca la conoscenza. Può essere facilmente sviato e strumentalizzato dai sofisti e dai demagoghi. Prevale il relativismo etico (che allora si chiamava sofistica) e si perde l’idea di verità. Alla fine il livello della corruzione e lo scollamento fra governanti e governati raggiunge un livello tale che il popolo è pronto a cedere tutto il potere ad un uomo solo, il tiranno, solo che esso riporti un minimo di ordine sociale. È meglio infatti soffrire sotto un solo padrone che sotto molti perpetuamente in lite fra loro. Il primo bene della città è infatti la pace civile.

    La Chiesa non ha mai rinunciato a questa critica della democrazia. La si può ritrovare facilmente anche nella “Centesimus annus” o nella critica di Benedetto XVI al relativismo etico. Questa critica, del resto, non è propria solo della Chiesa. La ritroviamo, per esempio, in un pensatore come Benedetto Croce che certo non è sospetto di clericalismo. La democrazia degli inizi del secolo XIX è gravida di due fratelli nemici: le moderne liberaldemocrazie ed i regimi totalitari del secolo XX. Quando, dopo la seconda guerra mondiale, Stalin battezzava i regimi comunisti della Europa centrale e meridionale con il nome di “democrazie popolari” non aveva, da un punto di vista storico, tutti i torti. Jacob Talmon ha spiegato nel suo libro “Le origini della democrazia totalitaria” questa relazione di parentela che lega Rousseau ai totalitarismi.

    Con la parola democrazia (solo raramente usiamo la dizione più corretta liberaldemocrazia) noi intendiamo però oggi un’altra cosa. Nei suoi “Federalist Papers” A. Hamilton spiega che il modello della costituzione americana non è democratico ma si rifà piuttosto al modello del governo misto descritto da Polibio. Platone, che ci ha lasciato la critica corrosiva della democrazia che abbiamo sommariamente riassunto, non era più tenero con le altre due forme di governo del tempo suo, quella monarchica e quella aristocratica; anche quelle sono destinate a corrompersi e degenerare.
    A partire dalla tesi della necessaria corruzione di tutte le forme “pure” di governo e studiando la costituzione della repubblica romana, Polibio ha costruito una forma di governo “mista” che raccoglie elementi di tutte le forme di governo e li bilancia fra loro in modo da evitare il rapido decadimento nella corruzione, nell’anarchia e nella tirannide.
    Ispirandosi a Polibio, Hamilton dice che nella costituzione americana la camera dei rappresentanti (che si elegge ogni due anni)  è il momento democratico. Essa riflette l’umore momentaneo della pubblica opinione.
    Il senato (in cui i senatori hanno un mandato di sei anni e che si rinnova per un terzo ogni due anni) costituisce un momento aristocratico. In esso la maggioranza è stata eletta in momenti diversi da quello della elezione della camera dei rappresentanti e riflette stati diversi della pubblica opinione. Il senato non è soggetto alla opinione del momento e raffredda gli umori e le passioni prevalenti. È una sorta di freno che impedisce alla passione momentanea di diventare immediatamente legge del paese e consente di assoggettarla ad un esame razionale.
    Anche la corte suprema rappresenta un principio aristocratico. Nove grandi giuristi, nominati a vita dal presidente degli Stati Uniti e quindi non ricattabili, sono chiamati a difendere i diritti fondamentali che non possono essere abbandonati alla maggioranza del momento. Il presidente degli Stati Uniti, infine, incarna il principio monarchico. Egli è, in effetti, una specie di sovrano per un tempo determinato. I tre principi si limitano vicendevolmente e in questo modo a nessuno di essi è permesso di prevaricare e tutti insieme sono preservati dalla naturale tendenza a corrompersi di ciascuno di essi.

    Ci siamo soffermati sulla costituzione degli Stati Uniti perchè essa illustra bene i principi fondamentali del costituzionalismo moderno in generale. Esso ripristina il principio di autorità derivandolo però in diversi modi dalla elezione popolare. Potremmo dire che, in un certo senso, attraverso la costituzione il popolo vincola se stesso a deliberare secondo ragione e a non violare i diritti fondamentali.

    Questa evoluzione dello stato contemporaneo viene incontro alla critica della Chiesa. Questa non è formulata dal punto di vista della difesa della monarchia assoluta, bensí da quello del regime misto. Anche De Maistre, del resto, interpreta l’Ancien Régime  più come un regime misto che come una monarchia assoluta.

    L’evoluzione dei moderni regimi democratici pone la Chiesa davanti a un problema nuovo. Attraverso la costituzione il popolo si lega ad un insieme di valori che vengono posti, in un certo senso, fuori ed al disopra della sfera politica. Altri valori essenziali, tuttavia, vengono rimessi alla decisione politica. La costituzione determina le condizioni per una discussione razionale intorno a quei valori ma non predetermina l’esito della discussione.

    Che deve fare la Chiesa in questo contesto? Pio XII ha impostato con grande nettezza il problema nei suoi radiomessaggi di Natale. Se il popolo deve essere sovrano allora è necessario che il popolo apprenda le virtù del sovrano, le virtù politiche. La Chiesa dovrà dunque predicare al popolo anche queste virtù, che prima non lo riguardavano.

    Questo altera radicalmente i rapporti della Chiesa con la politica. La gerarchia non può più stringere un patto con il sovrano nel quale il sovrano garantisce il suo ruolo nella società e la Chiesa in cambio predica le virtù del suddito piuttosto che quelle del cittadino. I laici cristiani sono chiamati invece nello stato democratico ad esercitare la sovranità insieme con altri e anche in concorrenza con altri. Valori fondamentali possono essere messi in discussione e devono essere difesi sul terreno della politica. La gerarchia non deve politicizzarsi e ridursi a essere un partito politico, ma i laici invece devono esercitare responsabilità politica.

    Come questo debba avvenire, se con un unico partito o con una presenza in diversi partiti è questione che va definita ogni volta di nuovo al variare dei contesti politici e culturali. Se non vogliamo che la democrazia degeneri dobbiamo ancorarla a valori cristiani. È qui l’origine della idea di democrazia cristiana. Diventa anche necessario ridefinire il rapporto fra chierici e laici. Il compito di ordinare la società terrena al bene comune e anche quello di garantire la libertà della Chiesa non è più del re ma dei laici cristiani.

    Per affrontare questa fase nuova la Chiesa è inevitabilmente chiamata a declericalizzarsi, senza d’altro canto intaccare la propria struttura sacramentale.

    Entriamo insomma in un contesto assai diverso da quello precedente. È evidente che tutti i giudizi precedenti devono essere rivisti al variare del contesto. Nascono nuovi errori e la dottrina dovrà riformularsi appunto in relazione a questi errori nuovi. Vero è che la verità è eterna e non cambia ma è anche vero che essa non si lascia imprigionare in una formula e proprio per questo ha bisogno di essere riformulata. Questo naturalmente non vuol dire che non vada ricercata e spiegata la continuità e la non contraddittorietà fra diversi pronunciamenti del Magistero. Essi però, per essere intesi correttamente vanno collocati nel loro tempo.


    Veniamo adesso al problema della libertà di religione.


    La medesima evoluzione che abbiamo riscontrato nel concetto di democrazia si ritrova anche all’interno del pensiero liberale a riguardo dell’idea di libertà. È stata giustamente ricordata la distinzione fra “libertas maior” e “libertas minor”. La “libertas maior” è la possibilità di aderire alla verità. Se la verità non è presente e non c’è la possibilità di aderire ad essa la libertà umana resta senza contenuto, disperata solitudine. In questo senso solo la verità rende liberi.

    Per potere essere liberi in questo senso vi sono però due condizioni. La prima è che la verità deve rendersi prossima all’uomo, riconoscibile da lui. È il tema della rivelazione. L’altra condizione è che l’uomo cerchi la verità nella libertà. Qui incontriamo il tema della libertà “minor”. Per cercare, l’uomo deve essere libero da coazione esterna, altrimenti la sua ricerca non è vera. D’altro canto la libertà da coazione esterna non è sufficiente. Esiste anche una coazione interna che rende impossibile la ricerca della verità. Si tratta delle passioni disordinate del cuore.
    Esiste un liberalismo che ritiene che lo stato non sia tenuto a favorire la ricerca della verità e quindi nemmeno il dominio dell’anima razionale sulle passioni disordinate ed esiste un liberalismo che ritiene che lo stato debba favorire la ricerca della verità ma non sappia quale sia questa verità e non possa imporre una concezione della verità. In un caso la libertà “minor” è sciolta da qualunque nesso con la libertà “maior” e rimane quindi in balia delle passioni disordinate dell’anima. Nell’altro la connessione rimane, semplicemente si dice che lo stato non può predeterminare il risultato della ricerca.

    L’uomo capace di dominare le proprie passioni perchè si riconosce chiamato alla ricerca della verità è anche un buon cittadino. Le virtù che preparano al riconoscimento della verità sono contemporaneamente virtù civili. Senza giudicare quale sia la vera religione lo stato liberale coopererà con tutte le religioni che educano alle virtù civili con le modalità che saranno indicate dalla storia delle singole nazioni, sempre e comunque rispettando la libertà di coscienza e di religione.

    Uno stato che non riconosce il ruolo della libertà “maior” si condanna a quella dittatura del relativismo che abbiamo visto essere causa precipua della crisi delle democrazie, perchè si può facilmente rovesciare in pura volontà di potenza svincolata dalla idea di verità. Qui c’è forse anche il grande equivoco della interpretazione popperiana del totalitarismo moderno. Esso non nasce dalla imposizione di una verità ma semplicemente da quella di una volontà di potenza che strumentalizza tutte le verità. Non a caso Nietzsche rimane totalmente estraneo ad una ideale storia popperiana della filosofia.

    Avevano dunque ragione o torto Gregorio XVI (con la “Mirari vos”) e Pio IX (con  la “Quanta cura”) nelle loro condanne della democrazia e del liberalismo? Per rispondere a questa domanda bisogna essere ben consapevoli del fatto che i movimenti democratici e liberali del primo Novecento erano gravidi non solo degli sviluppi liberaldemocratici ma anche di quelli totalitari del secolo XX. Sono stati unilaterali nelle loro condanne? Può darsi. Attenti però anche noi a non cadere in un entusiasmo unilaterale per la democrazia e per il liberalismo, in una fase storica in cui gli elementi deteriori che giustificavano le condanne di allora minacciano di riprendere vigore.

    Roma, 6 giugno 2011

    [SM=g1740771]

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 04/10/2012 00:18

    Libertà, libertà di religione e libertà cristiana

     
     
    Il Vescovo di Trieste spiega l'Esortazione Apostolica "Ecclesia in Medio Oriente"
    di monsignor Giampaolo Crepaldi
     
    ROMA, giovedì, 27 settembre 2012 (ZENIT.org) - Il Santo Padre Benedetto XVI è tornato sul tema della libertà di religione nella recente Esortazione apostolica “Ecclesia in Medio Oriente”, dedicandovi soprattutto i paragrafi 25 e 27 a cui bisogna aggiungere i paragrafi 29 e 30 relativi a laicità e fondamentalismi.

    Ambedue i blocchi di paragrafi sono disponibili nella sezione Documenti del sito dell’Osservatorio Internazionale cardinale Van Thuan http://www.vanthuanobservatory.org. Sulla base di questi insegnamenti del Papa e di precedenti altri, vorrei proporre alcune osservazioni per  l’approfondimento e la discussione.

    Indubbiamente la libertà di religione è un diritto naturale della persona umana. Il Magistero ha più volte insegnato che, in un certo senso, è il primo e il principale. Affermare che esso è un diritto naturale significa che esso è “precedente” alla scelta per l’una o per l’altra religione.

    Ogni uomo ha il diritto di scegliere la sua religione, quella che egli ritiene la “vera religione”. Questo contiene un pericolo. Può indurre a pensare che la scelta per l’una o per l’altra religione sia indifferente rispetto alla libertà di religione e che questa rimanga tale e venga conservata e corroborata indifferentemente dalla scelta per l’una o per l’altra religione.

    La libertà di religione ci sarebbe prima ed indipendentemente dalla scelta concreta per l’una o per l’altra che il fedele dovesse fare in seguito, quindi la scelta, che ne so, per il cristianesimo o per il buddismo, non avrebbe ripercussioni sulla libertà di religione, che ne sarebbe ugualmente confermata nei due casi.
    Sostenere questo -  ossia l’indifferenza della scelta per l’una o l’altra religione rispetto alla libertà di religione – significa anche rinunciare alla “verità” delle religioni.
    Se l’uomo rimane libero comunque, indipendentemente dalla religione che sceglie, significa che tutte le religioni sono ugualmente vere. Tutte, infatti, rispettano la sua libertà. Non esistono religioni che, se scelte, comprometterebbero la libertà umana o comunque la inquinerebbero o la ridurrebbero. “La verità vi farà liberi”: ma se la libertà di religione c’è prima dell’incontro con le religioni e della scelta per una di esse, non potrà essere la verità della religione scelta a farci liberi.

    La dottrina cristiana ha sempre distinto tra “libero arbitrio” e “libertà”. Il primo è la pura facoltà di scegliere. Il secondo è la concreta scelta per il bene. Chi infatti sceglie il male non è più libero, anche se mantiene il libero arbitrio. Si può dire che diventi schiavo di se stesso. La scelta del bene, ossia la vera libertà, può essere fatta alla luce della ragione.

    Appartiene alla Rivelazione l’idea che l’uomo ha questa facoltà: nella sua coscienza razionale egli trova la luce del bene e il male. Però questa luce si appanna spesso e, dopo la caduta dei nostri progenitori, si inganna e devia dalla giusta strada. Senza la fede cristiana essa si perde. In altri termini: la ragione non è capace da sola di dare all’uomo la sua libertà, che pure egli ha per natura. Per farlo c’è bisogno della rivelazione e della fede.

    Come si vede non è possibile che le religioni siano equivalenti a confermare e corroborare la vera libertà umana. Nella scelta di una religione piuttosto che di un’altra il libero arbitrio è fatto salvo, ma non la vera libertà. Questo perché non tutte le religioni sono egualmente vere, ma solo una è “vera”. E solo questa permette veramente di essere liberi. Tutte le religioni permettono di essere liberi, ma una sola lo permette veramente. Non si è liberi, infatti, se non secondo verità.

    Torniamo allora al problema posto all’inizio. La libertà di religione non vuol dire che qualsiasi scelta religiosa conferma e verifica la libertà di religione. Saremmo in pieno relativismo religioso, che Benedetto XVI chiaramente condanna anche nella “Ecclesia in Medio Oriente”. Vuol dire che la libertà religiosa è un diritto naturale e che quindi non si può imporre con la forza una religione particolare.

    Ma quel diritto naturale non è il semplice libero arbitrio, non è indifferente alla verità, ma si nutre di verità e di bene, cui solo la vera religione può dare piena risposta. Solo essa rende veramente liberi. Se da un lato è giusto riconoscere la libertà di religione, dall’altro si deve riconoscere che ci sono religioni che, una volta scelte, la danneggiano.

    Se si pensa alla libertà solo come libero arbitrio, allora la libertà può essere esercitata anche senza avere rapporto con la verità. Ma se si pensa alla libertà come un diritto il cui esercizio è legato con il bene, allora la libertà non esiste fuori del rapporto con la verità. Se non esiste fuori del rapporto con la verità vuol dire che essa ha a che fare con essa fin da subito e non dopo, e quindi ha a che fare anche con Dio e quindi con la religione. Il nesso verità-religione si pone fin da subito e con esso il nesso tra libertà e religione vera.

    [SM=g1740733]

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 06/10/2012 11:11

    " Chi rema davvero contro la Chiesa e il Papa? "

    Da un rione romano ( ...) abbiamo ricevuto e pubblichiamo . 
     
    " Non se ne può davvero più! 
    E' un continuo tam-tam che davvero conduce alle affermazioni più assurde. 
    Stiamo parlando non della rievocazione, in se, dell'11 ottobre 1962, apertura del Concilio Vaticano II, ma di come viene ancora presentato questo evento in barba agli appelli ed agli insegnamenti del Pontefice Benedetto XVI che lo ha posto in una chiave di lettura - seppur conciliante - racchiusa in quella ermeneuta "della continuità"

    Veniamo ai fatti. TV2000 (Tv dei Vescovi della CEI) ha riproposto un video non proprio nuovo in cui le due voci principali fanno a gara per presentare l'evento come di qualcosa "mai avvenuta nella Chiesa", un fatto "nuovo", arrivando ad usare espressioni davvero inaccettabili. 
    Giovanni XXIII, il grande Papa che avrebbe finalmente "cambiato la Chiesa". Ma come, non è insegnato dalla dottrina che è la Chiesa che ci cambia interiormente? 
    Non è la Chiesa che santifica? 
    E che cosa significa "cambiare la Chiesa" per questi catto-progressisti duri a convertirsi? 
    Nell'Atto di Fede non diciamo forse di "credere in tutto ciò che la Chiesa ci propone a credere"? E come può una Chiesa insegnare infallibilmente se ad un certo punto della sua storia deve cambiare perché si vergogna del proprio passato? 
    Lo stesso simbolo della Fede è "Credo la Chiesa..." ma come si fa a credere ad una Chiesa che dovrebbe cambiare perché a qualche gruppo così, come Essa era, non piace più? 
    Ma se il Papa Benedetto XVI nel MP Porta Fidei scrive: 
    "E’ proprio in questo orizzonte che l’Anno della fede dovrà esprimere un corale impegno per la riscoperta e lo studio dei contenuti fondamentali della fede che trovano nel Catechismo della Chiesa Cattolica la loro sintesi sistematica e organica. 
    Qui, infatti, emerge la ricchezza di insegnamento che la Chiesa ha accolto, custodito ed offerto nei suoi duemila anni di storia. 
    Dalla Sacra Scrittura ai Padri della Chiesa, dai Maestri di teologia ai Santi che hanno attraversato i secoli, il Catechismo offre una memoria permanente dei tanti modi in cui la Chiesa ha meditato sulla fede e prodotto progresso nella dottrina per dare certezza ai credenti nella loro vita di fede", con quale criterio usare ancora termini ambigui come "cambiamento"? 

    In che cosa sarebbe cambiata se il Papa stesso si batte per l'ermeneutica della continuità? 
    Al n.30 del Compendio del Catechismo, alla voce noi crediamo si legge: " È infatti la Chiesa che crede: essa in tal modo, con la grazia dello Spirito Santo, precede, genera e nutre la fede del singolo cristiano. 
    Per questo la Chiesa è Madre e Maestra". 
    Come fa ad essermi quell'una Madre e Maestra che " precede, genera e nutre " se si pretende di cambiarla? E' ovvio che così si finisce per creare una nuova immagine di Chiesa che inevitabilmente andrà a scontrarsi con l'immagine della Chiesa del passato. 
    Un conto sono le riforme, il rinnovamento, l'arricchimento, e queste sono sempre benvenute, ma altra cosa è parlare di cambiamento. Una curiosità: in tutti i discorsi tenuti da Giovanni XXIII, sul Concilio, in nessuno egli parla di "cambiamento". 

    Veniamo all'altra frase odiosa ripetuta centinaia di volte , come una specie di messaggio subliminale, lungo il video: la Chiesa, dopo Giovanni XXIII non sarà più la stessa! 
    Senza dubbio molte cose sono cambiate ma questo perché la Chiesa visibile è fatta dalle membra che vivono il proprio momento storico: noi non siamo certo come i fedeli di trecento anni fa (esteriormente parlando), ne possiamo dire che rappresentiamo i fedeli del futuro, la modernità è proprio specifica al momento storico che vive, non è ne passato ne futuro, ma è il presente. 
    Noi forse potremmo dire che oggi siamo uguali alla Chiesa del secondo, quarto o decimo secolo? 
    O che al Concilio di Trento la Chiesa era uguale -parliamo sempre di esteriorità e modi- alla Chiesa che si presentava al Concilio di Efeso? 
    Forse che una santa Teresina del Bambin Gesù desiderava stare in una Chiesa diversa da quella che stava vivendo nel suo momento storico? 
    Tuttavia qui nel video si insinua proprio il dubbio che non sia cambiata semplicemente l'esteriorità, ma il contenuto, e questo è grave, ed è grave che TV2000, dei Vescovi italiani, non dica nulla in merito e senza portare avanti le correzioni fatte dal santo Padre, ma lascia che il tutto continui ad essere vissuto con disgustoso sentimentalismo, portando l'ingenuo fedele a credere che davvero prima del Concilio c'era una Chiesa odiosa, una matrigna, Papi cupi e cattivi. 
    Come se bastasse ripartire da una fiaccolata non per commemorare, attenzione, ma per "rivivere" quella serata "magica" del "discorso alla Luna"...., ma si dice anche "discorso della Luna", no scusate, ma il Papa era un esoterico, un astrologo? 
    Ci si raduna per ricordare quell'evento, ma non stiamo rasentando l'idolatria, il culto del sensazionalismo, magari anche con qualche goccia di fideismo, o paganesimo? 
    E' stato dato l'ordine di convogliare numerosi fedeli per la fiaccolata che ricorderà "il discorso alla Luna", mentre risulta da qualche parte che è stato boicottato il coinvolgimento di più persone per l'incontro a Loreto ( ??? ??? interessante argomento da approfondire al più presto N.d.R. ) con il Papa che affidava l'Anno della Fede alla Madonna di Loreto
    Lì avremmo dovuto vedere fiaccolate e fiumi di fedeli, sacerdoti e prelati, ma le immagini stesse rivelano la scarsissima partecipazione e la stessa TV2000 che ha solo trasmesso la diretta della Messa. 
    No! 
    Tutti a Roma invece per commemorare il "discorso alla Luna" e i Media ci bombarderanno con le dirette! Guardando in positivo, hai visto mai che con il flusso delle alte e basse maree, effettivamente, la Luna non finirà per dare una mano a sommergere questa sindrome delle commemorazioni sentimentaliste? 
    La voce nel video rincara la dose e dice: dopo che la Chiesa si era costituita in una torre d'avorio dentro la società, dopo aver guardato alla modernità con sospetto, condannandola, finalmente è arrivato un Papa, anziano, che ha avuto il coraggio di spezzare questa torre.... e scendere così, finalmente, nella modernità. 
    Qui c'è un errore di fondo, se non proprio malafede, la Chiesa non ha mai condannato la "modernità o il progresso" ma il "modernismo e il progressismo", termini che portano a problematiche completamento diverse. 
    Certo che si è guardato "con sospetto" alla modernità, proprio per valutare più saggiamente l'infiltrazione del modernismo, vera piaga per il mondo. 
    Quindi, prosegue il video che: questo Papa anziano, anche lui sospettoso verso la modernità, con coraggio ed anche con qualche spregiudicatezza.... 
    Ma che significa "con qualche spregiudicatezza"? 
    L'evento di un Concilio non era una novità per la Chiesa, così come non lo sarebbero stati i problemi che sarebbero sorti. 
    Nel Compendio al n.512, leggiamo: "Per questo la Chiesa rifiuta le ideologie associate nei tempi moderni al «comunismo» o alle forme atee e totalitarie di «socialismo». Inoltre, essa rifiuta, nella pratica del «capitalismo», l'individualismo e il primato assoluto della legge del mercato sul lavoro umano". 
    Ma questo fratelli e sorelle carissimi è il volto del modernismo che la Chiesa infatti rigetta, non è la modernità correttamente intesa nel suo benefico progresso! 
    Quindi in cosa sarebbe "cambiata la Chiesa" se quanto condannava ieri continua a condannare oggi? 

    Nel 29.Novembre.2007, in un Convegno tenuto alla Pontificia Università di san Tommaso per i Cento anni della Pascendi Dominicis grecis di San Pio X (8. Settembre 1907) monsignor Luigi Negri, Vescovo di San Marino e Montefeltro al quale è stato affidato il discorso di chiusura, ha riportato il problema dell’equivoco post-conciliare ricordando la condanna della “ermeneutica della discontinuità” da parte di Papa Benedetto XVI. “L'errore di una ermeneutica della rottura, della discontinuità, che vede il Vaticano II come l’alba di una nuova chiesa”, ha commentato. 
    San Pio X – ha affermato mons. Negri – ha dimostrato come tutte quelle correnti vicine al razionalismo e al modernismo portano inevitabilmente all’ateismo. 
    Esse rappresentano un impietoso tentativo di eliminare Dio dalla considerazione della vita e della società. Se si elimina il divino, l’uomo diventa oggetto di manipolazione in tutti i sensi (...) 
    I totalitarismi non sono stati ‘incidenti di percorso’ ma consapevoli e deliberate costruzioni di società senza Dio”. “Oggi ci troviamo di fronte a una battaglia epocale tra una concezione autentica e una concezione razionalista e ‘massonica’ della Chiesa – ha proseguito il presule –. 
    Parimenti c’è un ecumenismo giusto, quello che affianca al dialogo la missione e un ecumenismo ‘d’accatto’ che contrappone dialogo e missione”. 
    All’inizio del secolo attuale, nell’anno giubilare è stata pubblicata la dichiarazione Dominus Jesus che indica chiaramente nella Chiesa la fonte della verità: auspichiamo che insieme al Sillabo e alla Pascendi, anche la Dominus fra cento anni possa essere ricordato come il documento magisteriale che ha impedito la dissoluzione del cattolicesimo nel mondo”, ha poi concluso mon. Negri. 

    La voce nel video dice ancora: Papa Giovanni XXIII credeva positivamente nelle novità del mondo, vedeva positivamente il progresso.... 
    Quale Papa in passato non ha mai guardato con sospetto, che noi definiamo teologicamente "prudenza" ciò che poi si univa al progresso della società in cui viveva? 
    E al contempo guardava con favore al vero progresso?

    Mons. Luigi Maria Carli (1914-1986) già Vescovo di Segni e Gaeta, ha scritto nel 1969 "Nova et Vetera, Tradizione e progresso nella Chiesa dopo il Concilio Vaticano II, ad un certo punto scrive: 
    "Si ripete spesso, con l’aria, quasi di chi alza la voce per farsi coraggio: “Non sono più i tempi degli scismi! Roba del passato!”. 
    Fosse vero. 
    Ma perché mai gli scismi non sarebbero oggi più possibili? 
    Dove sta scritto? 
    Chi l’ha decretato? E non dimentichiamo che, ancorché non più dichiarati formalmente, come un tempo, mediante la pubblica affissione di tesi ereticali da una parte e bolle di scomunica dall’altra, gli scismi più insidiosi e deleteri rimangono quelli negati a parole ma esistenti nei fatti. 
    La conclamata volontà di certi novatori di “andare avanti restando nella Chiesa” potrebbe anche significare il deliberato proposito di giuocare allo svuotamento del cristianesimo dal di dentro, di “portare l’infedeltà nel cuore stesso della Chiesa”
    Costoro potrebbero rimanere dentro le strutture, perché gli riesca più facile “non solamente interpretare la realtà della Chiesa, ma cambiarla, alla luce del vangelo di Gesù Cristo”. 
    Questo fenomeno — riconosciamolo pure, con sincerità — non avveniva dopo i Concili del passato, quando i contestatori del magistero ecclesiastico se ne separavano apertamente. 
    Così, almeno, la nettezza delle posizioni assicurava la purezza della fede dei cattolici!
    Trovo scritto che lo sbalordimento prodotto dai fenomeni che avvengono oggi nella Chiesa “non arriverà certo al vertice parossistico quale lo vide S. Girolamo, quando nel 350, dopo furiosi dibattiti politico-conciliari, rivelò che il mondo intero, addolorato, era stupito di ritrovarsi ariano”. 
    Non arriverà certo... 
    Ma donde tanta certezza? 
    Perché non potrebbe accadere, poniamo tra qualche decennio, che un secondo S. Girolamo fosse costretto a riconoscere, gemendo, che l’intera cristianità non si ritrova più cristiana?"

    ***
    Alla luce di queste parole ed ascoltando i Papi che parlano di scristianizzazione, apostasia, ed oggi l'indizione di un Anno della Fede, come non essere autorizzati a pensare come allora pensava san Girolamo e rivelare che il mondo intero non è neppure più stupito di ritrovarsi ateo? 
    A cosa mi serve il cortile dei gentili, sul sacrato di una Basilica, dove un cardinale non parla per convertire, ma per passare il tempo in amicizia, e dove l'ospite, felice di essere ateo, conversa amichevolmente con un principe della Chiesa di moralità e viene pur applaudito? 
    E' questo il cambiamento che voleva lo Spirito Santo? 
    Se è si, allora a cosa mi serve un Anno della Fede? 
    Per quale motivo dovrei impegnarmi se esiste una corte dei gentile nella quale posso esternare il mio ateismo ed essere applaudito per questo da un Cardinale della Chiesa? 
    Se è no, allora cosa mi serve andare a fare una fiaccolata per ricordare un discorso "alla Luna" mentre milioni di bambini continuano ad essere uccisi per la legge sull'aborto che l'ospite alla corte dei gentili non ha mai menzionato parlando di morale? 

    Scriveva con profetico monito mons. Carli sopra riportato: "
    Ma tra i “segni dei tempi” registriamo ancor questo, con stupore e dolore: il nessun conto che fanno molti cattolici, chierici e laici, della parola del Papa, quando non la coprono d’irriverente sarcasmo o non ne fanno segno di contraddizione!" 
     La regola dello sviluppo nella Chiesa tra il concetto di PROGRESSO E TRADIZIONE, la troviamo formulata -citata anche dallo stesso Benedetto XVI- fin dall’anno 434 in un’opera di S. Vincenzo Lirinense: 
    Dirà forse qualcuno: Non si dà, dunque, progresso alcuno della religione nella Chiesa di Cristo? 
    Altroché se si dà, e grandissimo! Chi vorrà essere tanto ostile agli uomini e tanto odioso a Dio da tentare di impedire un simile progresso? 
    Però avvenga in modo tale da esser veramente un progresso della fede e non un’alterazione. 
    Progredire, infatti, significa che una cosa si amplifica rimanendo se stessa; mutamento, invece, significa che una cosa passa a diventare un’altra cosa. 
    È necessario, dunque, che crescano — e crescano molto gagliardamente — col passare delle generazioni e dei tempi l’intelligenza e la scienza e la sapienza della fede sia nel singolo sia presso la comunità, sia in ciascun cristiano sia in tutta la Chiesa: però la crescita della fede avvenga soltanto ferma restando la sua propria natura, cioè entro l’ambito dello stesso dogma, nel medesimo significato e nella medesima sentenzain suo dumtaxat genere, in eodem scilicet dogmate, eodem sensu eademque sententia” (Commonitorium,23 -PL50,667). 

    Quello che rattrista è che proprio ai Vescovi della CEI, che non mandano in onda queste parole su TV2000, il Papa Benedetto XVI aveva ripetuto il 24 maggio 2012:
    «Quel che più di tutto interessa il Concilio è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace», affermava il Beato Papa Giovanni XXIII nel discorso d’apertura. E vale la pena meditare e leggere queste parole. 
    Il Papa impegnava i Padri ad approfondire e a presentare tale perenne dottrina in continuità con la tradizione millenaria della Chiesa, «trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti», ma in modo nuovo, «secondo quanto è richiesto dai nostri tempi» (Discorso di solenne apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962). 

    Questa è l'unico "discorso" che dobbiamo commemorare, non il discorso alla Luna ".


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
    Post: 39.989
    Sesso: Femminile
    00 08/10/2012 18:50

    "Che se pure si vuole conservato il culto esterno secondo i placiti del simbolismo modernista, esso è ridotto a un'ombra, a un cadavere di culto, senza spirito nè vita, o più veramente a una forma d'impostura"

     

    La Civiltà Cattolica, anno 59°, vol. 4 (fasc. 1401, 29 ottobre 1908), Roma 1908, pag. 288-301.

    tratto da: http://progettobarruel.zxq.net/novita/11/modernismo_riformista.html

    IL MODERNISMO RIFORMISTA

    L'eretico - che è l'anarchico dell'ordine religioso e morale - insorge volentieri, come l'anarchico politico e sociale, a nome di qualche idea, o piuttosto di qualche parola sublime, particolarmente al suono grandioso di rinnovazione, di progresso, di riforma. Solo, quando dalle altezze della speculazione scende alle enormezze dell'applicazione, alla pratica, egli si scopre qual'è di fatto: sotto il manto del riformatore ardimentoso un abbietto e orgoglioso pervertitore. Tutta la storia dei secoli cristiani è piena di questo fatto: e il fatto, del resto, ha la sua radice nell'istinto, già sovente denunziato, dell'errore e del vizio, che è di trasfigurarsi nelle sembianze della verità e della virtù. È quindi sommamente benemerito chi strappandogli la maschera a tempo, ne mette a nudo la laida figura, prima che la simulazione gli abbia procacciato credito e potenza a danno della religione e della morale, della Chiesa e della società. Ora ciò è avvenuto al modernismo, grazie sopra tutto alla vigorosa enciclica Pascendi: esso apparve nella sua vergognosa nudità, non saggio riformatore, quale si vanta, ma distruttore insipiente, ma pervertitore. E tale dobbiamo ora mostrarlo anche noi, brevemente, su le tracce dell'enciclica, per conchiudere, con questa rapida occhiata, la nostra già troppo lunga trattazione del modernismo.

    I.

    Ma innanzi tratto avvertiamo - per dissipare un equivoco, futile ma assai comodo ai modernisti e però troppo abusato - avvertiamo che non dicesi il modernismo pervertitore e distruttore per ciò solo che denunzi abusi o dimandi riforme, tutt'altro: sarebbe questo anzi un gran merito di sincerità e di zelo, ove si facesse debitamente, come fu proprio sempre delle anime nobili, disinteressate e sante. Infatti o per abuso s'intende più propriamente l'uso disordinato di alcun potere o diritto legittimo, ovvero più largamente vi si comprende qualsiasi specie di disordine, di inconveniente, di difetto. Ora nell'un senso e nell'altro è troppo chiaro che l'abuso non può mancare mai, a lungo andare, d'insinuarsi per qualche parte in qualsiasi opera, società o istituzione di creature razionali e libere, ma insieme manchevoli e finite. Il denunziarlo dunque in modo convenevole e più l'adoperarsi a rimuoverlo è opera onesta: spesso è difficile, talvolta delicata, ma sempre necessaria. E questa è l'opera del riformatore.
    Nè l'opera, pertanto, di riforma è propria dell'età nostra, nè di questa o quella età: è di tutti i tempi. Nè vale solo per questa o quella condizione di società o di vita, ma è necessità, è legge, è quasi di essenza, della vita stessa umana, sia individuale o sociale. Più, la riforma è legge e condizione di progresso nelle cose tutte soggette a mutabilità o di scadimento o d'incremento: quindi riforma di studii e di idee nella vita scientifica, riforma di costumi e di leggi nella vita morale dell'individuo e della società, e via dicendo. Più ancora; per salire alla ragione ultima e profonda, questa legge o condizione della vita è ineluttabile e perpetua, siccome conseguenza intrinseca e necessaria della defettibilità per una parte, e per l'altra della perfettibilità dell'uomo e di quanto è soggetto all'uomo quaggiù. Dall'essere, cioè, defettibile viene che la creatura può scadere a mano a mano dalla sua nativa perfezione; dall'essere perfettibile segue che può essere ricondotta alla perfezione antica, che è quanto dire, riformata. La defettibilità fa l'uomo bisognoso; la perfettibilità lo fa capace di progresso, di emendazione o di riforma. Poichè, rispetto a ciò, è assioma ben vecchio nella vita dello spirito, che lo stesso non progredi retrogredi est.
    Nè perchè facciano parte della Chiesa gli uomini, siano semplici fedeli, siano pastori, perdono punto o l'una o l'altra proprietà loro intrinseca, onde vanno soggetti ad abusi o certo a deficienze, e restano quindi bisognosi sempre ed insieme sempre capaci di perfezionamento o di riforme. Ma questo elemento umano, così mutevole ed imperfetto, che va unito all'elemento divino, costante e immutabile nella Chiesa, non va però mai con esso confuso, nè mai lo altera per abusi nè per riforme lo modifica, bensì mantenendolo fra abusi e riforme immutato, ne comprova col fatto stesso della sua storia la natura e l'origine diversa, cioè divina.
    Ora nel confondere l'uno e l'altro elemento pecca anzitutto il modernismo riformista: esso chiama crisi della Chiesa, abusi e disordini della Chiesa quelli che sono nella Chiesa; e con ciò perverte il concetto della Chiesa stessa e ne rinnega l'origine e la vitalità divina, attribuendo a lei, alla sua essenza, al suo governo o costituzione essenziale gli abusi che sono proprii dei suoi membri infermi, con la conseguente necessità delle riforme. La Chiesa, in quanto società divina, quale uscì dalle mani di Cristo fondatore, non ha nè può avere macchia nè ruga nè altra imperfezione siffatta. Con lei è Cristo, maestro e autore della santità, fino alla consumazione dei secoli; e Cristo la preserva dalla corruzione della colpa come dal traviamento dell'errore, e così intatta egli la guida, fra la pestilenza del secolo e le torbide vicende della storia, serbandola sempre giovine e fiorente per le sponsalizie eterne.
    Quindi pure il corpo intero della Chiesa non è, nè può dirsi mai contaminato da abusi, nè che mai li approvi o li fomenti. Perchè, siccome scriveva al nostro proposito S. Agostino, «la Chiesa di Dio, così posta fra molta paglia e molta zizzania, molte cose tollera; ma quelle che sono contro la fede o la vita buona non approva, nè tace, nè fa» [1].
    A tale distinzione, elementare ma vitalissima, non ponendo mente il modernista, e talora anzi positivamente irridendola, egli si accosta, o peggio entra innanzi, agli eretici tutti dei secoli andati, nominatamente al protestante della pseudo-riforma del secolo decimosesto, al giansenista del decimosettimo, al filosofo e libertino del decimottavo, al liberale del decimonono. Tutti costoro infatti sono concordi a gridar tralignata la Chiesa per gli abusi di alcuni suoi figli, bisognosa quindi d'essere svecchiata o riformata a loro capriccio sotto l'uno o l'altro pretesto; sebbene per alcuni il pretesto è la necessità di ricondurla indietro alla semplicità dei primi secoli, alla sublime povertà delle catacombe - e il maligno aggiunge con sarcasmo, alla paglia di Betlem - per altri è il bisogno di sospingerla innanzi, a seconda della corrente impetuosa dei tempi, di ringiovanirla nella freschezza perenne del progresso; perchè, fatta piacente al secolo, stringa con lui il nuovo connubio.
    Fra questo doppio intento ondeggiano appunto i seguaci del modernismo riformista; e se discordano tra loro, ciò è solo nell'apparenza o in qualche proposito secondario: il principio onde muovono ad accusare la Chiesa stessa per gli abusi veri o supposti di alcuni suoi figli, è uno in tutti: lo spirito del mondo e il disamore della Chiesa. Quindi uno è pure in tutti l'esito finale: il pervertimento, non la riforma.

    II.

    E ciò appare altresì, con troppo trista evidenza, dallo strano contegno e dal modo con cui questi nuovi falsi riformatori, a somiglianza degli antichi, si fanno denunziatori di scandali e di abusi. Qui parliamo di cose a tutti note, in Italia e fuori di Italia: e senza che noi li ripetiamo ne ricorrono alla mente di ognuno gli autori. Come quelli antichi, così questi moderni o inventano o aggravano o propalano ingiustamente; come quelli antichi, appaiono quasi invasati da una smania, da una frenesia morbosa di calunnia, di esagerazione, di pettegolezzo. E questa frenesia mette lingua in ogni cosa; ogni cosa maledice o deprime, nè ha riguardo a persona, se non sia modernista o in qualche modo anticattolica; e che è peggio, scambia le ombre con la realtà, dà come veri fatti i sogni delle stravolte immaginazioni e i macchinamenti degli animi inveleniti, o infine sopra una tenuissima trama di verità viene ricamando tutta una tela fantastica di accuse, d'insinuazioni, di esagerazioni, insomma d'ingiustissime denunzie; le quali poi, ingrossate sformatamente, va propalando contro ogni ragione di giustizia, nonchè di carità e di convenienza. Tutto ciò a nome della sincerità e della lealtà; di cui si attribuiscono essi il vanto e per poco il monopolio. Ma noi qui diremo solo con ogni mitezza ciò che si scriveva, già, oltre un secolo fa, dei modernisti d'allora, del pari smaniosi di propalare scandali ed abusi:
    «Può darsi che questa specie di mania sia zelo: ma può darsi altresì che sia avversione ed amor proprio. S'ella è zelo, dee trar la sua origine da un cuor retto, deve accompagnarsi colla carità e colla imparzialità. In tal caso non si udranno fremere le nostre labbra, quando ci verrà occasione di parlare dei disordini del clero, non si tingeranno di sangue i nostri occhi, non cercheremo compagni nelle nostre impetuose declamazioni, e non crederemo troppo volentieri a tutto quello che ci si racconta di tali disordini. Ma s'ella poi è avversione e amor proprio, le invettive si affolleranno con disordine su le nostre labbra, volgeremo le spalle a chiunque osi difendere la fama del clero, e si proverà una segreta compiacenza de' suoi mali e delle sue sventure. Gli Ebrei, i Turchi, gli eretici saranno nostri teneri fratelli, perchè non mettono nessun ostacolo alle nostre passioni, e perchè con noi accoppiano la lingua a maledire i preti e i claustrali», ecc..
    Così scriveva il dotto e pio Alfonso Muzzarelli [2], all'entrare del secolo passato, e le sue parole sembrano di ieri: tanto bene si applicano ai modernisti; se non che questi ai teneri fratelli, nominati sopra, aggiungono atei, socialisti, massoni ed ogni simile generazione di nemici della Chiesa e con loro accoppiano la lingua a maledire non solo il clero, ma ciò che vi è di più sacro e reverendo nel magistero, nel culto, nel governo, nella morale in ogni cosa.
    Nè occorre che andiamo qui in citazioni: sono bene, per via di esempio, alla memoria di tutti le maldicenze del «Santo» modernista e dei suoi devoti: «la Chiesa contrasta la ricerca della verità»... la Chiesa «incatena e soffoca tutto che dentro di lei vive giovanilmente»... la Chiesa «è ostile a chi vuole contendere ai nemici di Cristo la direzione del progresso sociale»... Peggio ancora - assai peggio di ciò che bestemmiavano i giansenisti - la Chiesa è inferma, se non moribonda addirittura, come altri la vogliono: quattro spiriti maligni «sono entrati nel suo corpo per farvi guerra allo Spirito Santo» e sono spirito di menzogna, spirito di dominazione del clero, spirito di avarizia, spirito d'immobilità. E quasi tanto non bastasse, un'altra gran piaga si aggiunge: il «difetto di coraggio morale» ; onde «piuttosto di mettersi in conflitto coi superiori, ci si mette in conflitto con Dio...» ; e con questo un cumulo di altri disordini e abusi.
    Ma notisi che qui, come altrove, lo scrittore, degno di miglior soggetto, è un'eco semplice delle declamazioni appassionate di uomini ambiziosi e frivoli, i quali da anni, da oltre un decennio, venivano riempiendo di simili brutture le colonne dei loro giornali e periodici, quale, ad es., la Cultura Sociale, abusando della longanime tolleranza dei calunniati e dell'autorità stessa della Chiesa. Su quelle colonne, per darne un saggio, si poteva scrivere (agosto 1905) che «dall'epoca della Santa Alleanza... la nostra vita pubblica è stata e continua ad essere una grande menzogna, diretta contro gli interessi degli umili, del popolo, della verità e della giustizia, e contro il contenuto sociale del cristianesimo, soffocato dalle parvenze della reazione»! Così un maestro di vita pubblica modernista, che sogna l'alleanza col socialismo ateo. E altre insolenze non meno belle si avventavano periodicamente contro gli abusi della vita privata dei cattolici, e in genere di tutta la vita religiosa, dallo stesso maestro di modernismo riformista, il quale riserbava invece mille carezzevoli blandizie pei «teneri fratelli», nemici di Dio e di ogni religione.
    Del resto, su tali insipienze dei riformisti nuovi non occorre più oltre insistere: essi vi si mostrano da se stessi, nell'abbiettezza del linguaggio, col marchio vecchio degli pseudo-riformatori, cioè dire distruttori insipienti e pervertitori.

    III

    Ma più assai ci si mostrano tali, quando per far riparo agli abusi veri o falsi, che essi denunziano così malamente, ci vengono a mettere innanzi le loro grandiose proposte di riforma. Di esse, come di punto più vitale per la questione di principio, parla energicamente l'enciclica, e ne descrive bene al vivo, ciò che andiamo dicendo, come le rovine si moltiplicano sotto i colpi del modernismo riformatore.
    Questo infatti, più che il liberalismo, mira al cuore: vuole riformata anzi tutto la dottrina; quindi riformata la formazione filosofica e teologica delle giovani speranze della Chiesa, con la soppressione della filosofia scolastica e della teologia razionale; indi riformata l'istruzione dei fedeli, con la soppressione o mutazione radicale del catechismo, divenuto secondo alcuni «un trattatello sibillino di scolastica». Appresso, e logicamente, vuole riformato il culto, segnatamente con la diminuzione arbitraria o la soppressione delle divozioni esterne. Quindi pure riformato il governo e la costituzione ecclesiastica, massimamente per la parte disciplinare e dogmatica, introducendovi più largamente il clero inferiore ed il laicato, e diminuendo l'eccessivo accentramento dell'autorità; riformati gli organi dell'autorità che sono le congregazioni romane, particolarmente quelle più incommode del S. Officio e dell'Indice; riformato l'atteggiamento dell'autorità stessa nelle questioni politiche e sociali. Infine vuole riformata la morale, e quindi la vita tutta del popolo cristiano, singolarmente con dare prevalenza. alle virtù attive su le così dette passive; e con ciò altresì riformato il clero, riconducendolo all'antica povertà, ma insieme alla nuova libertà del modernismo, la quale, secondo certuni, vorrebbe anche soppresso il celibato; riformata insomma ogni cosa, salvo la vita degli stessi nuovi riformatori. Così la loro smania d'innovazione, come parla l'enciclica, «ha per oggetto quanto vi è nel cattolicismo».
    E in tutte le proposte siffatte e in altre poco meno esiziali, i riformisti nuovi procedono rapidi, risoluti. Scoperto, o così creduto, l'abuso, hanno in pronto il rimedio: mettere mano alla radice, e di un colpo reciderla. Nè la radice, secondo essi, è la defettibilità o la colpa dell'individuo: è l'autorità stessa, il potere o il diritto, del quale si fa o si può fare abuso; è il soggetto, è l'istituzione in cui l'abuso stesso appare. Quindi attenuano essi o rigettano al tutto la legittimità dell'esistenza di quella istituzione, autorità o potere, del quale vedono o credono di vedere l'abuso; e procedendo conseguenti ai principii vogliono reciso di un tratto e distrutto, ovunque si trovi, il soggetto degli abusi, degli inconvenienti dei difetti, che loro dispiacciano.
    Così è soggetto di abuso o d'inconvenienti l'istituzione rigidamente scolastica; è troppa austera, è ostica all'anemia intellettuale moderna: dunque si sopprima. È soggetto di abuso o d'inconveniente l'istruzione popolare, strettamente catechistica; è troppo arida, è dura per la frivolezza delle menti contemporanee: dunque si abolisca. E dopo ciò, alla scolastica gretta si sostituisca la positiva «evoluzionistica»; alla catechetica pedestre la conferenza «alata». Similmente è, o pare, soggetto di abuso il culto esterno; molte sue manifestazioni contrastano alla delicatezza dei tempi nostri: dunque si deprima, si sminuisca fino a ridurlo ai minimi termini; e alla «religione esteriore» sottentri la «religione interiore», la religione dello spirito, senza troppo impaccio di dogmi, di formule, di riti.
    Lo stesso dicasi per quanto riguarda l'amministrazione e il governo, i decreti dell'autorità e dei suoi organi autentici, le congregazioni romane e i loro ordinamenti, le istituzioni religiose e i loro indirizzi, gli obblighi del popolo e quelli del clero: si corre alla negazione, si grida all'abolizione o alla trasformazione di quanto mostri qualche lato manchevole, qualche abuso.

    IV.

    Ora questo procedere così spedito dei modernisti, a recidere ed abolire il soggetto per riformarvi l'abuso vero o supposto che sia, muove da un principio assurdo, da un sofisma. Per quel sofisma cioè che i logici chiamano fallacia dell'accidente, attribuiscono essi alla natura della cosa quello che le conviene solo in modo contingente e variabile, come sarebbe a dire, per caso o per abuso, per insipienza o per malizia dell'uomo. Ovvero per un altro sofisma simile al precedente - il sofisma della falsità di causa (non causa pro causa) - imputano, quasi a cagione propria al soggetto o alla cosa in sè, come all'autorità, alla legge, al metodo, l'effetto dell'abuso, per una semplice ragione di concomitanza, di successione o simile, che vi appaia, come sarebbe perchè l'effetto dell'abuso l'accompagna o lo segue in qualche caso particolare, o, poniamo anche, in molti. Sofisma frequente l'uno e l'altro per certa facile appariscenza; ma tanto più odioso in ogni parte della scienza e della vita, tanto più ripugnante a ragione, come sa ogni novizio di logica, anzi ogni semplice seguace del senso comune.
    Che se il modernismo riformista muove da un principio così assurdo, non fa meraviglia che si metta per una via falsa e riesca ad assurde conseguenze: ad errori o eresie nell'ordine speculativo; a rimedi peggiori del male e a rovine nell'ordine pratico.
    Sono errori, e spesso eresie, le negazioni a cui esso trascorre della legittimità, della ragionevolezza o del debito di ciò che si trovi per sorte soggetto ad abusi. Sono rimedi peggiori del male, cioè rovine nell'ordine pratico, quei rimedii pratici e radicali che esso propone di menomazione, di abolizione o trasformazione, in cambio di riforma. Tanto più che, ammesso il loro principio o norma pratica di riforma - quella cioè di correre tosto a rinnegare la legittimità speculativamente, e praticamente a dìstruggere l'esistenza di ciò che va incontro ad abusi - nulla più sussiste, in qualsiasi ordine, d'intatto e di sicuro.
    Non nell'ordine pratico; perchè non ci vuole alfine grande esperienza, nè grande acume di raziocinio a persuadersi che non si dà cosa al mondo, nella quale o per insipienza o per malizia dell'uomo non possa e a lungo andare non riesca a insinuarsi qualche abuso. E i modernisti stessi, per quanto si suppongano ottimisti, ossia ingenui oltre ogni credere, nelle proposte di riforme senza fine, e tutte rapide e radicali, che ci fanno, non oseranno forse sperar tanto.
    Non nell'ordine speculativo; perchè come l'errore dal giro delle idee passa, per naturale estensione, all'ordine dei fatti, alla pratica; così, per un facile ricambio, dal giro dei fatti risale a quello delle idee, senza dire che già la colpa trae seco o presuppone un'ignoranza o un errore. Conforme a ciò, ogni disordine o abuso è facile occasione di errare; mentre chi lo sostiene cerca in un falso principio la propria giustificazione, e chi lo condanna trova nel fatto stesso dell'abuso un pretesto di trarne qualche falsa conclusione.
    Ma nell'uno e nell'altro caso, come si è notato più volte nella storia dell'errore, si muove da uno stesso presupposto falso e da esso logicamente si tirano conclusioni contraddittorie.
    Il presupposto falso è di confondere il diritto con l'uso, il dovere o il potere con l'attuazione o l'esercizio. Quindi la conclusione degli uni, che la legittimità dì quello scusi o legittimi il disordine di questo, cioè l'abuso. E quindi pure la conclusione degli altri che la illegittimità di questo mostri evidente la illegittimità di quello, cioè del diritto, e perciò la necessità di abolire il diritto stesso o il soggetto dell'abuso, perchè sia efficace la riforma. Sono conclusioni opposte fra di loro e in sè assurde, come ognun vede, ma dedotte logicamente da uno stesso principio. E però, se vale ancora qualche cosa la logica, esse basterebbero da sè, quando altro non vi fosse, a dimostrare la falsità del principio stesso. Dalla falsità e dalla contraddizione del conseguente non si può che risalire alla falsità dell'antecedente; come solo da un'assurdità di principio si può scendere logicamente ad assurdità di conclusioni per una parte così opposte e per altra così concordi nell'errare.
    Chi dunque, secondo il dettato dell'antica sapienza, vuol evitare le conseguenze, bisogna che muti i principii, donde queste scaturiscono: Muta antecedentia, si vis vitare sequentia.

    V.

    Da tutte le cose dette si conferma novamente, che neppure in quest'ultimo estremo del loro sistema i modernisti sono moderni: essi continuano anche qui la vecchia tradizione del vizio e dell'errore.
    E il simile notava già, fino dalla prima metà del secolo XV, il gran cancelliere parigino, Gersone, a proposito di molti eretici, anche de' suoi tempi; i quali avevano preso le mosse a traviare dal falso zelo o dal pretesto «di togliere gli scandali dalla casa di Dio per questa o quella via di predicazione». «Di qui - scriveva egli - le eresie contro il primato della Chiesa romana, che senza di essa vi abbia salute; contro le dotazioni della Chiesa universale, che sieno quasi veleno sparso sopra di lei e officina di ogni specie di simonia; contro la condizione splendida e l'ampia famiglia dei prelati, e quindi si possa dai secolari prendere loro ogni cosa; contro l'osservanza dei religiosi, quasi che contrastino alla libertà della legge di Cristo... e così di altre cose molte. Mentre spiacevano i costumi, nacquero gli errori: fu condannato per giunta lo stato, mentre vi si scorgeva spiacevole abuso, a esempio del medico stolto che distrugge il soggetto, mentre si sforza di cacciarne la malattia» [3].
    E non meno fiero di Gersone insorgeva contro l'ipocrisia e la sofistica dei falsi riformatori Pietro d'Ailly, al Concilio di Costanza, con parole scultorie in cui vibra davvero il palpito dell'attualità e che noi altrove abbiamo ripetuto ai modernisti [4].
    Scendendo poi all'età della pseudo-riforma e giù giù fino a quella del giansenismo, del gallicanesimo, del liberalismo dei tempi nostri, le testimonianze di questa sofistica nei pretesi riformatori sono tante e così palpabili che si rende inutile il farvi insistenza.

    VI.

    Piuttosto è a deplorare da capo, che il modernismo riformista peggiori di tanto anche questa vecchia sofistica; e, che è peggio ancora, la indirizzi a sommuovere di soppiatto gli stessi fondamenti della Chiesa, sotto colore di riforma. Chi ci ha tenuto dietro fin qui, non ne avrà più dubbio: chi ne ritenesse ancora qualche ombra, esamini posatamente i quattro capi di riforme, a che si possono ridurre le proposte ardimentose mentovate dall'enciclica e da noi sopra ricordate in compendio: insegnamento, culto, costituzione o governo e costumi.
    Anche senza un lungo trattato - quale potrebbe pur farsi per ognuna di tali proposte in particolare - apparirà di primo tratto manifesto, com'esse portino seco un'infinità d'innovazioni, speculative e pratiche, le più radicali; onde infine il pervertimento e la distruzione di ciò che è la essenza stessa della Chiesa. Così l'insegnamento, riformato sopra le rovine della scolastica e del catechismo, nell'istituzione scientifica e nella istruzione popolare, vuole finire con la distruzione di tutto l'edifizio dottrinale del cattolicismo, anzi di ogni cristianesimo dommatico, per introdurvi in quel cambio un «cristianesimo etico» in perpetua evoluzione, con una forma nuova di religione o religiosità dell'avvenire.
    Similmente il culto, riformato dal modernista o piuttosto menomato, se non affatto abolito, in tutte o quasi le manifestazioni esteriori, riesce a rompere o a rilassare il vincolo sociale della religione, a soffocare o a rattiepidire il fervore della stessa religione interna, che stante la natura dell'uomo, composta di anima e di corpo, deve espandersi di necessità in atti anche esteriori; infine riesce a stravolgere il concetto stesso del culto debito a Dio, il quale culto non è ristretto al solo spirito dell'uomo, ma a tutto l'uomo, di cui Dio è l'autore. Che se pure si vuole conservato il culto esterno secondo i placiti del simbolismo modernista, esso è ridotto a un'ombra, a un cadavere di culto, senza spirito nè vita, o più veramente a una forma d'impostura.
    Nè meno grave è la innovazione che vagheggiano della costituzione e del governo della Chiesa: essa importa la negazione di non pochi dogmi, come della fondazione divina della Chiesa stessa, della sua unità monarchica, del primato di Pietro e dei suoi successori, con tutte le loro doti e prerogative: di più, una introduzione esplicita della prevalenza democratica, che finirebbe in un'anarchia, nella costituzione e nel governo ecclesiastico: questo verrebbe insomma stravolto nella sua triplice funzione, legislativa, giudiziaria ed esecutiva, secondo le teorie politiche del Rousseau, non senza molti riscontri con gli antichi vaneggiamenti dei legulei e degli imperialisti medievali, dei giansenisti e dei gallicani - di cui la storia ricorda i pestiferi effetti nei più gravi disordini - traendo seco un intero rivolgimento della disciplina e del dogma.
    Non parliamo poi delle riforme di costumi o di morale; chè qui le proposte si moltiplicano tanto più facilmente, in quanto i modernisti parlano sempre di riformare altrui e non mai se medesimi, al contrario dei santi. Essi anzi s'indegnano, come per insulto, contro chiunque parli loro di pensare qualche poco a se stessi, di riformare le loro idee, i loro modi o costumi. Infatti l'esaminarsi, il pentirsi l'umiliarsi, l'ubbidire, il mortificarsi e tutte le virtù insomma che sono ordinate all'atto, primo e più necessario all'individuo, di perfezionare se stesso, vengono da essi disprezzate col nomignolo di «passive»; esaltate in loro vece, ed esse sole onorate del titolo pleonastico di «attive», le virtù ordinate all'azione esteriore, in cui l'uomo si effonde, si agita e si riversa tutto nel turbine della vita moderna, cercando i suoi modelli, non sul Calvario o a Betlem, ma là, oltre i mari, «nel paese della vita intensa».
    Molto meno toccheremo ora delle proposte troppo dubbiamente sincere, di ritornar il clero all'antica povertà, e meno ancora di altre più delicate, quali, ad esempio, l'abolizione del celibato e la coeducazione dei due sessi, difesa quella da don Domenico Battaini, e questa da don Romolo Murri, i quali si guarderanno bene dallo smentirci.
    Ora noi vogliamo finire qui, con la chiusa dolorosa del nostro santo Padre Pio X: - «Che si lascia dunque d'intatto nella Chiesa che non si debba da costoro e secondo i loro principii riformare?»- E se così è, non sono essi riformatori saggi, ma distruttori insipienti, ma pervertitori. E tanto basti.

    Prospetto degli articoli della Civiltà Cattolica sul modernismo:FascicoloData:AnnoVolume
    Decreto Lamentabili, testo, traduzione e commento137124 luglio 190758°III
    Enciclica Pascendi testo latino137418 sett. 190758°III
    Enciclica Pascendi traduzione italiana137528 sett. 190758°IV
    Il modernismo filosofico (I parte)137722 ottobre 190758°IV
    Il modernismo filosofico (II parte)137928 novembre 190758°IV
    Motu Proprio Prestantia Scripturae Sacrae lat./it137927 novembre 190758°IV
    Il modernismo teologico (I parte)138126 dic. 190759°I
    Il modernismo teologico (II parte)13828 genn. 190859°I
    Il modernismo teologico (III parte)13845 febbr. 190859°I
    Il modernismo teologico e il Concilio Vaticano138612 marzo 190859°I
    Il modernismo teologico e il suo sistema di conciliazione138810 aprile 190859°II
    Il modernismo ascetico13906 maggio 190859°II
    Il modernismo apologetico139129 maggio 190859°II
    Il modernismo riformista140129 ottobre 190859°IV
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    NOTE:

    [1] «Ecclesia Dei inter multam paleam multaque zizania constituta, multa tolerat; et tamen quae sunt contra fidem vel bonam vitam non approbat, nec tacet, nec facit». Ep. 55 ad Ianuar. Cf. Migne, Patrol. lat., XXXII, 221 s.
    [2] Il buon uso della logica in materia di religione. 4a ediz. Roma 1807. Tom. 1, p. 113 ss.
    [3] Gerson, De consol. theol., lib. III, 2. Una simile osservazione faceva altresì, con molta vivezza, a proposito di Arnaldo da Brescia, un suo contemporaneo, Guntero cistercense, nel poema Ligurinus, scritto in lode del Barbarossa (lib. III, v. 288; cf. Migne Patrol. lat., CCXII, 370); ove si duole che l'eresiarca dai veri abusi dei chierici deducesse false conseguenze, e che dalle sue false conseguenze i chierici traessero pretesto a non correggersi degli abusi: ond'egli esclama, in quei suoi esametri bonarii ma efficaci:
    «Et fateor, pulchram fallendi noverat artem,
    Veris falsa probans quia tantum falsa loquendo
    Fallere nemo potest; veri sub imagine falsum
    Influit, et furtim deceptas occupat aures».
    [4] Cf. Civ. Catt., 1906 (3 febb.), p. 257.

    [SM=g1740722]

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
    Post: 39.989
    Sesso: Femminile
    00 30/11/2012 17:46

    Il cardinal Koch, Lutero e la Fraternità san Pio X

    Non è facile, come cattolico, vivere in una sorta di Babele in cui ogni giorno si accavallano messaggi discordi, idee incompatibili tra loro, rottamazioni di dogmi e di principi millenari.

    Ogni giorno un povero fedele è costretto a sentirne una nuova. Non fuori, ma dentro. Oggi gli spiegano che la Chiesa è nata con il Concilio Vaticano II (leggere “Jesus”, mensile paolino, per credere); domani, in chiesa, sentirà il predicatore di turno spiegare che i miracoli del Vangelo sono solo dei simboli; in confessionale si sentirà dire dal sacerdote che quello che lui confessa come peccato non è più tale: “lo era, l’altro ieri…”.

    Se il malcapitato continua nell’errore di frequentare sacerdoti di un certo tipo (un numero enorme, impossibile sfuggire), si sentirà spiegare che:

    1) il peccato originale è una metafora (della serie: dircelo senza 2000 anni di ritardo?);

    2) l’Inferno di cui la Chiesa ha sempre parlato, Vangelo alla mano, non c’è, oppure è vuoto (della serie: don’t worry);

    3) tutte le religioni sono egualmente vie di salvezza (della serie: tutte le strade portano… da qualche parte).

    Poco importa se queste tre affermazioni sono capaci di distruggere tutto il fondamento della Fede: l’Incarnazione, la Passione e la Resurrezione di Cristo.

    Serve un prete che scrive libri contro la Chiesa? Ne abbiamo, a iosa… Per le copertine indossano persino la tonaca. Mentre ingurgitano elemosine e otto per mille, sputano pomposamente nel piatto (per finire in tv, posto assicurato). Servono vescovi che coprono abusi e non vigilano sui propri seminari? Il numero è incalcolabile.
    Prelati che firmano gli appelli dei radicali? Presenti, e scattanti (come il pretonzolo violentatore di Milano).
    Cardinali pro matrimoni gay? Il cardinal Rainer Maria Woelki, pochi mesi fa: matrimoni gay sì, purché duraturi (per Bacco!). Un cardinale pro aborto? Pronto: non ancora ricevuta la berretta, il neo-cardinale Rubén Salazar Gómez interviene in sostegno ai Pannella colombiani…Pochi mesi prima si era schierato per la depenalizzazione della droga…

    Finita qui? Per carità… Ognuno vuole il suo momento di gloria. Pochi mesi fa il cardinal Koch, parlando della Fraternità san Pio X (gli ultimi lebbrosi), aveva sostenuto che i suoi membri sono nell’errore, perché si comportano come Lutero! Leggendo quella frase mi chiesi:

    1) se fosse opportuna, in un momento in cui si discuteva di una possibile pacificazione;

    2) se il cardinale credesse davvero in una somiglianza tra il luteranesimo (che nega dogmi fondamentali e basilari della Fede) e la Fraternità san Pio X, che mai nessuno ha accusato di eresia (semmai di disobbedienza, che è ben altro).
    Conclusi che quantomeno Koch ha le idee chiare su Lutero: scismatico ed eretico (senza nulla togliere alle grandi porcherie di molto prelati cattolici suoi contemporanei).

    Ma ecco, solo alcuni mesi dopo, alla domanda di Mario Galgano di Radio Vaticana su come celebrare il cinquecentesimo anniversario della Riforma protestante, lo stesso Koch di cui sopra, ribaltando 500 anni di dottrina cattolica, ha risposto: “Per esempio, con una celebrazione penitenziale comune nella quale riconosciamo insieme le nostre colpe, perché il fatto che la Riforma non abbia raggiunto il suo scopo, e cioè il rinnovamento della Chiesa, ricade nelle responsabilità di entrambe le parti: le ragioni sono di ordine teologico e politico. Riconoscerlo e perdonarsi vicendevolmente per tutto questo, trovo che sarebbe un gran bel gesto”. [SM=g1740729]

    A leggere si capisce questo: che il problema è che la Riforma non ha raggiunto “il suo scopo” (cioè Lutero non ha vinto abbastanza); per questo occorre fare l’ennesimo mea culpa, insieme, protestanti e cattolici. Se uno legge queste dichiarazioni, con davanti il nuovo libro di Angela Pellicciari, “Martin Lutero” (Cantagalli), come è capitato a me, si sente quantomeno disorientato.

    Veramente si può credere che sia possibile porre fine non ad una diatriba di cinquecento anni, così, a tarallucci e vino? Dicendo a tutti: scusate, ci siamo (si sono) sbagliati? E’ giusto, oggi, cinquecento anni dopo, senza interpellarlo, far dire a Lutero: “mi sono sbagliato”?
    Mi sono sbagliato a negare il sacerdozio e altri sacramenti; mi sono sbagliato a predicare che l’uomo non è libero, e “non può volere né fare altro che male” (De servo arbitrio); ero in errore, quando ho promosso la nascita di chiese nazionali e asservito il potere religioso a quello politico; rinnego i miei scritti in cui chiedevo di radere al suole tutte le case private degli ebrei e squartare i contadini ribelli “senza pietà”; mi sono sbagliato a difendere la interpretazione personale della Bibbia (negando la Chiesa stessa) e così pure a definire il papa “anticristo maledetto”, “principe dell’inferno” e il papato di Roma istituzione “fondata da Satana”….
    No, far dire questo a Lutero, non è giusto, nei suoi confronti.

    di F. Agnoli, da Il Foglio, 29 novembre 2012

    [SM=g1740722]


    Fraternamente CaterinaLD

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    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)