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Capitolo quarto
I CATTOLICI TRADIZIONALISTI


Una cosa è la Tradizione, un’altra il tradizionalismo.
L’amore e la fedeltà alla tradizione cioè all’integrità del Deposito rivelato, all’assolutezza dei dogmi della Fede, all’autorità del Magistero gerarchico, è virtù santissima, anzi indispensabile per essere cattolici genuini. Ma si ha la degenerazione di tale atteggiamento, si ha il tradizionalismo, quando si pretende di considerare la tradizione della Chiesa come un blocco assolutamente privo di vita, da custodire sotto una campana di vetro, al riparo da ogni contatto col mondo esteriore per paura di eventuali contaminazioni, senza sviluppare i germi vitali che essa contiene.

Non può essere così: l’abbiamo già fatto notare. La Chiesa è un organismo vivente, non un museo d’antichità. La Chiesa non può rassegnarsi al ruolo del servo cattivo e pigro della parabola evangelica, il quale lasciò infruttuoso il talento ricevuto (cfr. Mt. 25, 26).
Essenzialmente vivo e fecondo è l’elemento divino che la Chiesa ha recepito dal suo Fondatore. Essa lo custodisce con gelosa fedeltà, sapendo che nessuno ha il potere di modificarlo. Però lo trasmette attivamente, ne approfondisce il ricchissimo contenuto, lo esplicita e lo offre alle generazioni umane attraverso i secoli, mediante un’opera di servizio che lo renda comprensibile a tutti, nelle mutevoli situazioni di tempi e di luoghi. È in quest’opera di servizio — e soltanto entro i confini di essa — che sono ammissibili, e perfino doverosi, i mutamenti, gli aggiornamenti, le riforme: in una parola, il progresso.

Il progresso può avvenire.

Naturalmente, a patto e finché rimanga integro quanto ci è stato donato da Dio rivelatore e salvatore. Sotto questo profilo non ha senso la distinzione tra verità principali e verità secondarie, tra dogmi centrali e dogmi periferici, tra grazie maggiori e grazie minori. Tutto ciò che proviene alla Chiesa direttamente da Dio è dono da accogliere e custodire “pari pietatis affectu ac reverentia” (56), cioè con uguale venerazione, gratitudine e gelosia. Il resto è mutevole, perché di origine umana; naturalmente, ad opera di chi ne ha l’autorità, non certo ad opera del capriccio di singoli o di gruppi privati.

Il tradizionalismo ha il torto di non sapere, o di non volere, distinguere bene il campo dell’immutabile da quello del mutabile. È vizio di miopia intellettuale, provocata forse da timori irragionevoli seppure comprensibili, quel suo chiamare “Tradizione” (con la lettera maiuscola) tutto ciò che ha sapore di arcaico, di tramandato dalle generazioni precedenti. È frutto di pigrizia di volontà quel suo aprioristico trincerarsi dietro il comodo “si è sempre fatto così, perché cambiare?”. Molte volte si tratta di semplici tradizioni (con la lettera minuscola), belle e buone e venerande fin che si vuole, ma non appartenenti alla sostanza del Deposito rivelato.

Abbiamo già fatto notare che il limite preciso tra l’immutabile e il mutabile nella Chiesa non è sempre di determinazione facile e pacifica. Probabilmente è questa circostanza che preoccupa i tradizionalisti, e acuisce i loro lodevoli timori di vedere comunque alterato il Deposito della rivelazione. Ma la presenza nella Chiesa di un’Autorità magisteriale cui spetta, in caso di dubbi, la parola definitiva dovrebbe del tutto tranquillizzarli.

Anche quando il limite tra l’immutabile e il mutabile sia stato autoritativamente stabilito, rimane ancora insoluta la questione se e come convenga, in pratica, mutare il mutabile. Sotto questo ben preciso profilo la discussione e la diversità di tendenze e opinioni è del tutto legittima in seno alla Chiesa. Anzi, l’Autorità ecclesiastica non dovrebbe ritenersi menomata se essa stessa provocasse il confronto delle idee tra i fedeli, chierici o laici che siano, ciascuno secondo le proprie competenze, e poi ne tenesse conto prima di prendere le sue decisioni. Certo, i modi e le sedi perché ciò avvenga “ad edificazione e non a distruzione” (2 Cor. 10, 8) della Chiesa hanno bisogno di venir precisati, per non scadere nell’improvvisazione o nell’arbitrio. Occorrerebbe, per esempio, che venissero presto stabilite quelle istituzioni mediante le quali, come dice il Concilio (57), i laici possano far conoscere ai Pastori il loro parere sulle cose concernenti il bene della Chiesa, con libertà e fiducia, ma anche con verità e prudenza, con riverenza e carità.

Così, verrebbe amputato in radice financo il pretesto per esprimere con forme ed in sedi inammissibili opinioni che possono contenere elementi validi e vantaggiosi per il bene delle anime. Nel frattempo, però, un modo ed una sede quanto mai idonei per questo scambio di vedute esistono già. Li indica il Vangelo stesso, nei rapporti fra fratelli di fede; a maggior ragione essi debbono valere nei rapporti tra fedeli e Pastori, specie quando, come spesso accade, oltre la carità sia in giuoco la giustizia. Inter te et ipsum solum, cioè: “fra te e lui a quattr’occhi” (Mt. 18, 15). Se invece il fedele, chierico o laico che sia, prende difilato la strada della lettera aperta, magari sul giornale anticlericale, sceglie un terreno su cui il suo Pastore ben difficilmente potrebbe giustificarsi, senza venir meno alla prudenza e alla carità nei riguardi dello stesso contestatore!


Certe questioni non possono rimanere in eterno nel campo della mera discussione; l’ordinata convivenza esige che vengano in qualche modo risolte. Per questo esiste nella Chiesa un’Autorità di governo, cui spetta prendere le decisioni concrete. Quando questa autorità abbia deciso, nel campo del mutevole, per tale o tal’altro mutamento, ragione e Fede esigono che si ubbidisca lealmente da parte di tutti. Anche in questi casi però l’ossequio interno ed esterno dell’ubbidienza non impedisce che, circa l’aspetto teorico della riforma stabilita, il fedele possa ancora nutrire una sua propria opinione, perché ordinariamente l’Autorità, in casi del genere, non intende vietare l’opinabilità concettuale. Ben inteso, nei debiti modi e nelle debite sedi, onde non recare pregiudizio al buon andamento della comunità o alle coscienze dei fratelli.

Il progresso deve avvenire.

Il progresso nella Chiesa non solo è possibile ma anche doveroso. La ragione fondamentale è costituita dal fatto che la Chiesa è composta di uomini, per natura limitati e fallibili; uomini, dunque, la cui comprensione del “mistero” offerto da Dio non sarà mai esauriente, e la cui consequenziale risposta di vita non sarà mai adeguata alla divina domanda. Le riforme in seno alla Chiesa sono appunto destinate ad aiutare questi uomini nello sforzo di perfezionare sempre di più la loro comprensione del dono di Dio e la loro risposta vitale al dono di Dio. Ma le riforme saranno valide e fruttuose nella misura in cui si radicheranno nel dono stesso di Dio, cioè nel Deposito rivelato.

Il Concilio ha stabilito il principio generale, e dunque sempre valido, della necessità della riforma nella Chiesa. “La Chiesa che comprende nel suo seno dei peccatori, santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, mai tralascia la penitenza e il suo rinnovamento” (58). “La Chiesa pellegrinante nel mondo è chiamata da Cristo a questa continua riforma della quale essa, in quanto istituzione umana e terrestre, ha sempre bisogno; di modo che se certe cose, sia nelle costumanze sia nella disciplina ecclesiastica sia anche nella maniera di esporre la dottrina — il che dev’essere accuratamente distinto dal deposito stesso della fede — tenuto conto delle circostanze di tempi e di luoghi, siano state conservate meno accuratamente, queste vengano a tempo opportuno rimesse nel giusto e debito ordine” (59).

Tra le cose che vanno periodicamente sottoposte a verifica e revisione, sia perché mai perfette e adeguate per loro propria natura, sia perché vi si possono infiltrare disordini per malizia umana, sono quelle “strutture” — per usare un termine corrente — che la Chiesa stessa si è data lungo i secoli, mettendole al servizio tanto della fedeltà al Deposito rivelato quanto del bene delle anime. Mutano le situazioni di tempi e di luoghi; è bene che la Chiesa controlli se e in che misura quelle strutture rispondano alle loro finalità. Può accadere, tuttavia, che in qualche momento della sua storia la Chiesa risulti o non tempestiva o non sufficientemente efficace nell’opera della propria riforma. Non se ne dovrà, certo, fare una tragedia irreparabile, almeno chi ha fede nell’assistenza di Cristo alla sua Sposa; ma del danno, si, potrà venirgliene che Dio non è tenuto ad impedire. Colpa di chi? Colpa degli uomini di Chiesa sorpresi nel sonno (cfr. Mt. 13, 25), o fors’anche in comportamenti indegni (cfr. Lc. 12, 45)?

Può darsi. Ma la storia insegna che la colpa del ritardo delle riforme talvolta dev’essere assegnata a coloro stessi che le reclamano, ma le reclamano nell’impazienza, nella violenza, e soprattutto nella confusione delle idee, introducendo surrettiziamente nell’area della riforma ciò che per natura sua è irriformabile!


Si sente talora accusare la Chiesa di aver concesso troppo in ritardo certe giuste riforme che i protestanti o i modernisti avevano chiesto. Ci si dimentica però di aggiungere che quelle riforme venivano intimamente connesse a dottrine che l’autorità gerarchica riteneva e ritiene incompatibili col Deposito rivelato. Stiamo attenti che non succeda così anche nel nostro tempo!

Quando, per non citare che un solo esempio, i cosiddetti cattolici del dissenso reclamano oggigiorno riforme di struttura nella Chiesa, essi hanno il torto di assumere un atteggiamento equivoco, vago, irrazionale. Equivoca è anzitutto la loro terminologia; l’hanno desunta dal vocabolario marxista. Ma questo sarebbe ancora poco; essi non sanno o non vogliono distinguere tra strutture essenziali e strutture accidentali. Nella Chiesa esistono strutture essenziali, di origine divina (p. e. il Vangelo, la sostanza dei Sacramenti, il Papato, l’Episcopato, il Presbiterato, la potestà sacra, la distinzione essenziale tra sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune, ecc. ecc.), e queste non le può toccare nessuno. Altre invece sono di origine ecclesiastica (p. e. il diritto canonico, il rituale liturgico, il modo concreto di esercitare l’autorità in determinate situazioni, gli istituti clericali o religiosi, ecc. ecc.), e queste possono essere sempre revisionate, perché non appartengono al Deposito rivelato.

In secondo luogo, l’atteggiamento dei contestatori è vago: non indicano mai quali concrete strutture ecclesiastiche dovrebbero venir riformate, e con quali nuove strutture — migliori o, almeno, alla pari con le precedenti — venir sostituite. Con simili sistemi non si fa che perdere tempo, ed è la vera riforma che ne soffre. In terzo luogo, l’atteggiamento dei contestatori è irrazionale. Parte da una avversione cieca, viscerale si direbbe, contro tutto ciò che proviene dal passato, alla cui rottura, qualunque essa sia, viene attribuito il valore di panacea di tutti i malanni, di “apriti Sesamo” di tutti i benefici. Si direbbe che la fede di codesti cattolici del dissenso, anziché fondarsi sul “mistero” della Chiesa, sia legata al permanere o meno di certe strutture accidentali!

Per ritornare al tradizionalismo, va affermato senza ambagi che riforme e aggiornamenti, entro i limiti sopra indicati, sono richiesti proprio dalla fedeltà che la Chiesa deve al Deposito della Fede. Non già che la Chiesa si senta in istato di dubbio, o vada alla ricerca di un tesoro mai posseduto o smarrito. Tutt’altro. Proprio perché è conscia di possedere pienamente la Verità rivelata e di essere assistita dallo Spirito Santo, essa avverte il sempre urgente bisogno di riformarsi, cioè di confrontare la propria vita pratica con quella Verità tanto esigente, di mettersi all’ascolto di quello Spirito di santità per sentire “che cosa dica lo Spirito alle chiese” (Apoc. 2, 7).


[SM=g1740758]  continua.........
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)