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Falso concetto di progresso


Il progressismo cattolico prende nome dal progresso, ma ne stravolge il concetto e l’uso.
I progressisti hanno l’ossessione del progresso, che identificano tout-court con la modernità, e questa con la verità e la bontà. Essi sono perciò presi dalla paura infantile di non essere sufficientemente moderni, cioè al passo col progresso.
L’accusa di retrogradi, di conservatori retrivi, di ruderi storici, di “matusa”, ecc., li mette in orgasmo e soggezione tali, da non badare affatto al prezzo dell’irrazionalità e contraddizione che debbono talvolta pagare per tenersela lontana. Ecco il movente psicologico della loro fobia, aprioristica e cieca, per tutto ciò che ha sapore di passato; della loro apertura a quella che Paolo VI ha chiamato cronolatria: “per essere moderni trovano tutto bello, imitabile e sostenibile ciò che vedono nel campo altrui, e tutto insopportabile e discutibile e sorpassato ciò che si trova nel campo nostro” (Paolo VI).

Ma a quale progresso si ispira, di quale progresso assume i moduli il progressismo cattolico? Del progresso scientifico e tecnico dell’uomo. È questo l’idolo cui il progressismo brucia l’incenso della propria ammirazione, e dal quale mutua fiduciosamente i criteri su cui religione e cristianesimo, a suo dire, dovrebbero promuovere il proprio aggiornamento, se non vogliono rassegnarsi a perire! I tradizionali concetti religiosi e cristiani, perché legati ad uno stadio prescientifico del mondo, dovrebbero essere radicalmente revisionati, per non dire del tutto abbandonati. Ciò che non rientra negli schemi della rappresentazione scientifica dell’uomo e del mondo, dovrebb’essere respinto senza pietà, perché elemento mitico.

L’evoluzione storicista della scienza dovrebbe venir applicata, naturalmente, anche ai dogmi della Fede, nessuno dei quali, per conseguenza, potrebbe più ritenersi intangibile e immutabile.
Ma, se così, religione e cristianesimo e fede diventano parole vuote di contenuto; o meglio, ricevono un significato essenzialmente diverso da quello di prima, diverso da quello creduto e insegnato dalla Chiesa.
L’equivoco del fatidico nome “progresso”! Il progresso della Chiesa e per la Chiesa altro non può essere che l’aumento della fede, della speranza ,della carità: il crescere, cioè, “nella grazia e nella conoscenza del Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo” (2 Pt. 3, 18). Non entra nel conto del vero progresso della Chiesa nemmeno lo sviluppo dell’organizzazione esteriore, l’aumento della risonanza attorno a lei, la benevola accettazione o sopportazione che, per motivi puramente umanitari, il mondo le riserva tuttora.
Certo, il progresso umano, quando è autentico, può offrire alla Fede degli utili servigi; ma solo estrinseci. Mai potrà identificarsi col progresso della Chiesa.

“Il cristianesimo non è una religione di progresso, e tanto meno del progresso. È la religione della salvezza” (Peguy).
E Paolo VI nel Credo del Popolo di Dio: “la vera crescita del Regno di Dio non può confondersi con il progresso della civiltà, della scienza o della tecnica umana”. Tanto meno poi quando si tratta di una civiltà materialistica, come l’attuale, nella quale lo spettacolare progresso scientifico e tecnico dell’homo faber si accompagna a pauroso regresso morale e spirituale dell’homo religiosus. Proprio davanti ad un simile idolo, che gli spiriti più acuti del mondo culturale denunziano come il responsabile numero uno dell’attuale crisi dell’umanità, gente di Chiesa si inginocchia estasiata, spacciando per Regno di Dio il più basso livello del cosiddetto processo di umanizzazione!

Dal progresso umano non è lecito mutuare nemmeno i canoni del progresso cristiano. Sono due realtà totalmente diverse, eterogenee. Il progresso scientifico e tecnico non conosce involuzioni o regressi. Non si ritorna più all’età della pietra. Una scoperta, una volta fatta e collaudata, è acquisita per sempre e per tutti. Sarà sempre possibile perfezionarla, ma mai distruggerla. Le scoperte si sommano le une alle altre, e tutt’insieme formano un patrimonio che si tramanda ai posteri e che ogni uomo, nascendo, trova a propria disposizione, se vuole. Nessuno avrà più da reinventare la ruota o il motore a scoppio. E poi la scienza umana fa relativamente presto a valutare l’importanza delle proprie scoperte, e a derivarne le applicazioni pratiche.

Ma non avviene così del progresso della Chiesa, perché è di carattere tutto soprannaturale. Le virtù teologali dell’uno non si sommano con quelle dell’altro. Fede, speranza e carità non formano un patrimonio che si tramandi in eredità di padre in figlio. [SM=g1740722]
Anche quando esista una “cristianità”, cioè un ambiente famigliare e sociale impregnato dei principi cristiani, la conquista e l’accrescimento delle virtù teologali rimane un fatto squisitamente personale. È l’uomo singolo che si incontra con Dio e ne accetta il dono di salvezza, rispondendoGli con tutto il proprio io. In questo senso, ogni generazione che nasce è da evangelizzare, come se ci trovassimo nell’anno zero dell’èra cristiana. Ed è un campo, questo, dove accanto ai progressi spettacolari (i Santi, per esempio), sono possibili e reali, purtroppo, le eclissi del peccato. E tutto il progresso scientifico e tecnologico di questo mondo non riesce ad impedirle; può darsi, piuttosto, che le favorisca!

I tempi e i momenti del genuino progresso della Chiesa giungono anzitutto come dono gratuito di Dio. Le stagioni dello spirito non sono, come quelle della natura fisica, prevedibili: “il Padre le ha posto in suo potere” (Atti, 1, 7). La volontà dell’uomo non ha che da offrire la propria collaborazione e, quando arrivano, una sincera accettazione. Nemmeno per la Chiesa è sempre facile discernerle nel loro insieme con prontezza e sicurezza; e sarebbe ingiusto fargliene una colpa di ogni eventuale ritardo. La Chiesa, comunque, più che correre dietro al progresso delle scienze, delle tecniche e delle ideologie umane, più che farsi gregaria della mentalità e della moda corrente per paura di “perdere l’autobus”, ha la missione di correre dietro alle anime, una per una, per intavolare con loro quei colloqui di salvezza, quei discorsi sull’eterno che proprio il flusso vertiginoso del progresso mondano rischia di far loro dimenticare.

Falso concetto dell’uomo e del mondo

La logica del sistema costringe il progressismo a vedere nell’uomo, artefice e fine del progresso scientifico e tecnico, nell’uomo che con le forze sue connaturali e immanenti ha in mano le leve del proprio destino, il centro dell’universo. Umanesimo antropocentrico. Tutto, dunque, a misura d’uomo: non solo i rapporti tra l’uomo e l’universo creato, ma anche i rapporti tra lui e Dio, supposto che non abbia già abbandonato “l’ipotesi-Dio” come non più necessaria per la spiegazione dei cosiddetti “misteri umani”.
Naturalmente, anche il cristianesimo a misura d’uomo. Ciò significa che non è più necessario che Gesù Cristo sia il Figlio di Dio (si giunge, perfino, a parlare di “cristianesimo ateo”!), che sia il “servo di Jahvè”, incarnatosi anzitutto per fare la volontà del Padre e predicare l’amore a Lui. Basta, per sopportarlo, che sia il predicatore dell’amore del prossimo, e questo amore si identifichi con l’impegno per la cultura, il benessere economico, la riforma delle strutture entro cui l’uomo vive.
Il cristianesimo, allora, si dissolve in umanitarismo: diventa religione dell’uomo nel mondo. La sua dimensione verticale ed escatologica svanisce. La salvezza soprannaturale si riduce a sociologia; la dogmatica ad antropologia; la fede ad ideologia; la carità a filantropia. Il Vangelo non sarebbe che la risposta alle situazioni storiche dell’uomo, in difesa dei suoi diritti. La giustizia del Regno di Dio altra non sarebbe che la giustizia sociale della città dell’uomo. “La socializzazione — ha scritto un’autorità ecclesiastica — non è soltanto un fatto ineluttabile, ma addirittura una grazia di Dio”; con la logica conseguenza che “il cambiamento del mondo imporrebbe un cambiamento nella concezione della salvezza portata da Gesù Cristo”!

Il mondo! Ecco il medesimo idolo di prima, che ritorna sotto nuova denominazione, non meno equivoca dell’altra. Viene accettato un solo significato di questa polivalente realtà: quella che vede nel mondo l’oggetto dell’amore di Dio, il campo dell’azione di Dio, la palestra di cristificazione dell’uomo. Ma si ignora volutamente l’altro, non meno biblico, significato del mondo: “giacente completamente in potere del Maligno” (1 Giov. 5, 19), di cui Satana è “il principe” (Giov. 12, 31), per il quale Gesù si è rifiutato di pregare (cfr. Giov. 17, 9) perché ostacolo al piano divino di salvezza.
Per il progressismo sono “le attese del mondo” quelle che contano, non importa da chi e come pre-fabbricate. Il criterio della verità e della bontà di un’idea, di una religione è costituito dall’accoglienza che le riserva il mondo. È il risultato ottenuto nel mondo che determina la credibilità. L’azione precede il pensiero; la prassi determina la dottrina: e dottrina accettabile è soltanto quella che “dice qualche cosa” al mondo attuale. Perciò l’aggiornamento conciliare diventa per il progressismo una “mise au monde”, come si esprime certa letteratura francese; la “apertura” al mondo diventa l’accettazione del mondo così come esso è. E il mondo d’oggi, lo sappiamo bene, il mondo dell’attuale civiltà tecnicista, edonistica, afrodisiaca, non vuole dogmi, non vuole misteri, non vuole il soprannaturale, non vuole austeri impegni morali. Bisognerà, dunque, accontentarlo per farselo amico, per farsi accettare da lui. E non sono, purtroppo, soltanto dei laicisti a formulare simili ricette affinché il cristianesimo, a loro dire, possa sopravvivere: “dare il primo posto al bene operare sul credere, riducendo l’essenza del credere a poche cose”; “buttar via l’enorme bagaglio teologico di cui la Chiesa si è caricata attraverso i secoli, e tornare al messaggio semplice e sublime di Gesù: ama il prossimo tuo come te stesso”!

Ma questa, che s’è descritta appena a volo d’uccello, è la negazione radicale del cristianesimo come fatto soprannaturale, mentre è anche la deformazione del vero umanesimo! Non la cristianizzazione del mondo, ma la mondanizzazione del cristianesimo. Non il seguace di Cristo che riesce a far accettare dal mondo il Vangelo, ma il mondo che riesce a piegare il cristiano al fascino e al giogo del suo esigente e volubile pensiero” (Paolo VI).
La grande tentazione del cristianesimo attuale, somigliante a quella di Gesù (cfr. Mt. 4, 1-11), è di lasciarsi sedurre da un falso messianismo, da un messianismo cioè ridotto alla misura dell’uomo anziché misurato dalla volontà di Dio. Ma il vero cristianesimo, memore del motto paolino “se ancora volessi piacere agli uomini, non sarei servo di Cristo” (Gal. 1, 10), a costo di non trovare alcuna udienza presso il mondo, anzi perfino di inimicarselo, oggi ancor più di ieri, se mai possibile, perché più di ieri ne abbisogna il mondo di oggi, deve rendere testimonianza al Vangelo in tutta la sua freschezza di genuinità, senza alcuna menomazione o mimetizzazione. Ed è questo il Vangelo genuino. Il Figlio di Dio si è incarnato, ha preso nome Gesù, ha predicato ed operato è morto ed è risuscitato “per salvare il suo popolo dai loro peccati”(Mt. 1, 21), non per liberarlo dalla fame, dalle guerre, dalle malattie, dalle ingiustizie umane. È bensì vero che Gesù ha guarito malati, ha moltiplicato il pane, ha risuscitato dei morti; ma lo ha fatto sporadicamente affinché, una volta per sempre, si credesse a Lui, come alla Verità in persona, quando avrebbe beatificato la povertà, chiesto di santificare la sofferenza, di accettare la morte come giusta espiazione del peccato, quando avrebbe dichiarato di essere Lui — e di averla portata agli uomini — “la pienezza della grazia e della verità” (Giov. 1, 14).

Gesù ha dichiarato una sola guerra, quella al peccato che si annida nel cuore dell’uomo e genera una sequela di mali esteriori (cfr. Mt. 15, 18). Non ha dichiarato la guerriglia contro Ponzio Pilato, Erode, gli usurai, i latifondisti dell’epoca. Ha preso di petto gli errori, non gli erranti. Non la riforma delle strutture politiche od economiche Egli ha promosso, ma la riforma delle coscienze. [SM=g1740721]
Gesù è venuto per evangelizzare, non per socializzare gli uomini. [SM=g1740721]

Si stravolge, dunque, il cristianesimo quando l’opera di evangelizzazione passa in second’ordine, o addirittura viene sostituita dall’opera di socializzazione.

Gesù ha insegnato all’uomo a “cercare anzitutto il Regno di Dio e la giustizia di Dio” (Mt. 6, 33), e S. Paolo ha precisato che “il regno di Dio non è né cibo né bevanda, ma giustizia e pace e gaudio nello Spirito Santo” (Rom. 14, 17).
Si è fuori strada, dunque, quando tale giustizia la si identifica con la giustizia sociale, o quando la fede nel Regno la si sostituisce con l’impegno per la edificazione della “città terrestre”.

Gesù ha predicato l’amore del prossimo, ma soltanto come secondo comandamento simile al primo e più grande, che è quello dell’amore di Dio (cfr. Mt. 22, 36 sgg.). Si ha, dunque, “travestimento dello spirito evangelico” (J. Daniélou) quando l’amore del prossimo diventa il primo o, peggio, l’unico comandamento, mentre dovrebb’essere la logica sequela dell’altro. Siamo succubi dell’orizzontalismo quando si scrive: “Dio lo si incontra meglio e più sicuramente nel servizio dell’uomo e del mondo che nei culto, nell’adorazione, nella preghiera liturgica o individuale”; oppure: “la Chiesa deve meno curarsi di battezzare, di preparare in serie i fedeli ai sacramenti e di liberare l’uomo dall’inferno, che di far progredire la comunione coi fratelli”!

Gesù, per farsi accettare, non si “aprì” al mondo nel senso voluto dal mondo. Non rinunziò alle proprie esigenze, anche le più impegnative; non concesse sconti sull’integrità del proprio insegnamento. Non scese dalla croce, come pretendevano i suoi avversari per credergli (cfr. Mt. 27, 42), ma vi si rimase fino alla morte perché “una volta innalzato da terra attrarrò tutti a me” (Giov. 12, 32). [SM=g1740721]
Gesù ha amato l’uomo e lo ha fatto grande, pacificandolo col Padre. E il Padre ha amato il mondo dandogli nel proprio Figlio unigenito il salvatore. Staccare l’uomo e il mondo da Dio — in linguaggio moderno, secolarizzandoli — significa mortificarli, diminuirli. “Per quanto possa sembrare paradossale, la via più breve da uomo a uomo passa per Dio” (Card. Faulhaber).

Gesù ha donato al mondo ciò che lui solo era in grado di donare: una novità assoluta, un “proprium” irripetibile ed esclusivo. Il progressismo, invece, pretende che il cristianesimo insegua freneticamente il mondo senza nemmeno sapere ciò che gli vuol dare (ed è pazzia), o per dargli sminuito ed edulcorato ciò che invece dovrebbe offrirgli integro e genuino (ed è tradimento), o infine per offrirgli ciò che il mondo possiede già in proprio e abbondantemente (ed è stupidità).

Gesù è venuto a portare nel mondo la spada della divisione (cfr. Lc. 12, 52), cioè quella santa inquietudine che è la radice del ripensamento e della conversione. Il progressismo cerca col mondo quella falsa pace che è acquiescenza alle sue ingiuste pretese, offrendogli un cristianesimo addomesticato, pieno di menomazioni, di omissioni, di ambiguità.
Gesù, cittadino nel mondo ma non del mondo (cfr. Giov. 8, 23) e che tali vuole i suoi discepoli (cfr. Giov. 15, 19), ha accettato il mondo così com’è, ma per farlo diventare così come dev’essere secondo il disegno del Padre.

Finalmente, anche Gesù si è inginocchiato davanti al mondo, ma mai e poi mai nell’atteggiamento sacrilego dell’adorazione (cfr. Mt. 4, 9). Gli si è inginocchiato accanto, ma solo nell’atteggiamento del medico (cfr. Mt. 9, 12) che ausculta il malato per diagnosticarne la malattia e curarla; nell’atteggiamento del buon samaritano (cfr. Lc. 10, 30 sgg.) che raccatta il viandante ferito e lo carica sulla sua cavalcatura; nell’atteggiamento del buon pastore che si curva sulla pecorella smarrita (cfr. Lc. 15, 4 sgg.) per strapparla ai rovi e riportarla a salvezza nell’ovile.
Non è certamente questo l’inginocchiamento al mondo che Le paysan de la Garonne è stato costretto a rimproverare al progressismo d’oggi! [SM=g1740722]

Falso concetto della Chiesa

Logica conseguenza del falso concetto del cristianesimo, cioè dell’opera di Cristo, è la deformazione della natura e della missione della Chiesa, custode continuatrice e dispensatrice di quell’opera. Debbo consentire col P. De Lubac, se non del tutto nell’individuarne le cause almeno nella constatazione del fatto, quando egli preoccupato diceva al Congresso Teologico di Toronto nel 1967: “Vediamo moltiplicarsi, da qualche anno, i segni di una crisi spirituale quale raramente scosse la Chiesa. Sotto i nomi equivoci di nuova Chiesa, di Chiesa post-conciliare, è una Chiesa diversa da quella di Cristo che rischia di essere instaurata, se si può parlare di instaurazione per designare un fenomeno che è prima di tutto di abbandono e di disintegrazione, una società antropocentrica, minacciata di apostasia immanente e che si lascia trascinare in un movimento di generale demissione, col pretesto del ringiovanimento, dell’ecumenismo e dell’adattamento”.
Non potrebbe essere che così.
Se, infatti, si parte dal gratuito presupposto che “il Concilio Vaticano II — cito ora persona ben diversa dal P. De Lubac — ha valorizzato il cambiamento [...] introducendo nella Chiesa la nozione di cambiamento, vi è stata introdotta quella di relatività”, nessuna meraviglia che si arrivi alla conclusione: “la Chiesa è il grande problema; non c’è che da reinventarla completamente, nel suo modo di vita, nelle sue strutture, nei suoi programmi”.
Naturalmente, fino a quando — e non tarderà molto — non la si reinventerà di bel nuovo in maniera diversa: “poiché le regole di ieri non sono più quelle di oggi, niente prova che le regole di oggi saranno quelle di domani”.

La Chiesa, nella concezione progressista, viene ridotta, secondo i casi, o a setta di spirituali o ad una specie cristiana di Rotary Club, di ONU, di FAO. La sua dimensione soprannaturale — nucleo fondamentale del suo “mistero” — viene soppiantata dalla dimensione sociologica. L’ecclesiologia diventa demologia, quando non anche demagogia. E così, nata dalla Croce, la Chiesa per farsi accettare ancora, o per meglio dire, tollerare dal mondo dovrebbe svuotare la Croce (cfr. 1 Cor. 1, 17), ridurre a zero lo scandalo della Croce (cfr. Gal. 5, 11)! E mentre si accusa la Chiesa del passato di essersi incarnata via via nella cultura ellenistica, costantiniana, medievale, feudale, rinascimentale ecc., oggi si pretenderebbe che ella si incarnasse nella cultura tecnologica e consumistica del presente, ed accettasse i canoni delle società moderne.

Alla Chiesa il progressismo assegna una falsa missione. Allegando a pretesto che, secondo la costituzione conciliare Gaudium et spes, la Chiesa non dev’essere estranea alle gioie e ai dolori del mondo e deve entrare in dialogo col mondo, le si attribuiscono compiti che non sono inerenti alla sua divina natura e missione. Non spetta a lei mettersi all’avanguardia del progresso meramente scientifico e tecnico, bensì di quello morale e spirituale.
Non spetta a lei procurare agli affamati il pane del corpo, bensì “il pane vivo disceso dal cielo” (Giov. 6, 51); non il posto di lavoro ai disoccupati, bensì aiutarli a raggiungere il posto preparato per loro in cielo (cfr. Giov. 14, 2). Non è suo compito specifico promuovere gli impegni sociali di giustizia, progresso, pace, riforme di strutture, con o senza rivoluzioni violente: tanto meno elaborare una “teologia della violenza”! Già!
Ci sentiamo predicare una teologia della violenza armata contro le ingiustizie sociali proprio da coloro che giustificano l’obiezione di coscienza anche in caso di legittima difesa contro l’ingiusto aggressore.
Tutti questi problemi umani la Chiesa non può certamente ignorarli, ma deve ritenerli secondari e considerarli esclusivamente sub specie aeternitatis. Sennò, tradirebbe il mandato assegnatole dal Cristo risorto, che è quello di predicare nel nome di Lui la penitenza e la remissione dei peccati per tutte le genti” (Lc. 24, 47); oltrepasserebbe la sua specifica missione, mettendosi in concorrenza o in appoggio a Cesare, là dove Cesare, per volontà stessa di Dio, è autosufficiente ed autonomo dalla Chiesa, benché sempre vincolato dalla legge morale.
Di certo temporalismo, sia pure a titolo di supplenza, essa ha già fatto l’esperimento, e non certo felice. Ripeterlo ancora, sia pure a titolo di “servizio” e in forme nuove, giova veramente alla sua missione divina? E proprio quando la si accusa di costantinismo, non è contraddittorio volerla impegnare in determinati (cioè: a senso unico) atteggiamenti sociali o politici?


All’interno poi delle sue strutture si pretendono dalla Chiesa moduli e metodi che sono propri delle società umane moderne. Il nostro è il tempo della democrazia, e si vorrebbe che anche la Chiesa si modellasse a democrazia. Intendiamoci bene: in un certo senso, la Chiesa, democrazia lo è e lo è sempre stata. “Quantunque fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’attività comune a tutti i fedeli nell’edificare il Corpo di Cristo” (71). “Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (72). “Muniti di tanti e così grandi mezzi di salvezza, tutti i fedeli di qualsiasi stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a quella perfezione di santità di cui è perfetto lo stesso Padre celeste” (73). Tutti indistintamente i cristiani possono ricevere carismi, anche straordinari, da parte di Dio; tutti i fedeli di sesso maschile possono venir chiamati da Dio al sacerdozio e perfino al fastigio più alto della gerarchia ecclesiastica.
Anche certe forme del metodo democratico possono utilmente venire adottate nella Chiesa (p. e. partecipazione a nomine di persone, a gestione di beni, a formulazione di pareri, ecc.), ma sempre entro i limiti del diritto ecclesiastico e secondo i dettami della prudenza. Ma certe altre forme sono assolutamente incompatibili con la struttura stessa gerarchica data da Cristo alla sua Chiesa. L’autorità nella Chiesa non risiede nella comunità, né viene conferita dal basso.
Papa, vescovi, presbiteri, diaconi non sono i delegati della base presso Dio, ma i delegati di Dio presso la base. È teoria modernistica, già condannata, quella che considera la Chiesa docente (locuzione oggi fuori moda!) come destinata soltanto a fare da notaio, cioè a ratificare le opinioni comuni della Chiesa discente (idem, come sopra!) (74).
Né meno modernistica e condannabile è l’opinione pubblicamente espressa durante un recentissimo consiglio pastorale di una certa nazione: “La Chiesa con le sue strutture gerarchiche è una sopravvissuta. Deve organizzarsi sul principio democratico se vuole veramente evangelizzare un mondo dinamico come l’attuale; la forma gerarchica deriva da una società statica”. Di bel nuovo, vengono assunte le pretese del mondo come norma su cui riformare la legge costituzionale della Sposa di Cristo!


Nei parlamenti democratici è il numero che fa legge; nella Chiesa, no. [SM=g1740722]
Il Credo e i Comandamenti non possono venir sottoposti alla ratifica del suffragio maggioritario o all’inchiesta della pubblica opinione.

Nella stesura definitiva della costituzione conciliare Lumen Gentium il capitolo che tratta del Popolo di Dio è stato anteposto a quello che tratta della Gerarchia ecclesiastica. Da questo fatto redazionale si sono volute dedurre delle abusive conseguenze dottrinali. Senza dubbio, nell’ordine intenzionale prima della Gerarchia viene il Popolo di Dio che forma l’oggetto diretto del piano salvifico attuato da Gesù Cristo. Ma nell’ordine effettuale viene prima la Gerarchia, senza il cui sacerdozio ministeriale non si attuerebbe e diffonderebbe il sacerdozio comune dei fedeli.
La Gerarchia è, sì, a servizio del Popolo di Dio, ma in primissimo luogo è a servizio di Dio stesso. È storicamente documentabile che Gesù, prima ancora di fondare la sua Chiesa, si premurò di costituire ed istruire le Gerarchia, la quale è lo strumento di cui, in via ordinaria, il Redentore intende servirsi affinché “voi che prima eravate “non-popolo” ora diventiate Popolo di Dio” (1 Pt. 2, 10).


È doveroso segnalare un grosso equivoco, a proposito del Popolo di Dio. [SM=g1740733]

Quando se ne parla, spessissimo si dimenticano due cose:
l°) l’idea di popolo, ben diversa da quella di massa, comporta una struttura organizzata nella quale è compresa l’autorità; a più forte ragione questo deve dirsi dell’idea biblica di Popolo di Dio;
2°) anziché essere distinta o, peggio, contrapposta all’idea di autorità, quella di Popolo di Dio la contiene necessariamente.
Alla stessa guisa che, come ha insegnato il Concilio, il collegio episcopale non ha alcuna autorità, anzi non esiste nemmeno, se non lo si concepisce insieme col Romano Pontefice quale suo capo (75), così possiamo e dobbiamo dire che il Popolo di Dio né esiste né ha valore se non lo si concepisce insieme con l’autorità gerarchica che Cristo stesso gli ha preposto.

Non so quanto il classismo sia compatibile col genuino concetto di democrazia: sembrerebbe che non lo sia. Di fatto però certe forme storiche di democrazia ammettono, sia pure mimetizzato, il classismo cioè il predominio di una classe sociale sulle altre.
Orbene, la Chiesa non potrà mai accettare in se stessa il classismo, perché ciò ripugnerebbe alla sua stessa essenza di Corpo mistico di Cristo (76). Ma certo frasario del progressismo sembrerebbe, invece, darle una intonazione classista: la Chiesa di una sola classe sociale, diversa a seconda delle diverse circostanze.
Sentiamo dire: “Chiesa dei lavoratori” (quelli del braccio, ovviamente!) come se i datori di lavoro non fossero anch’essi Popolo di Dio.
Sentiamo dire: “l’umanesimo profondo della classe operaia è una realtà talmente grande, di una spiritualità talmente ricca che non si può esplorarla totalmente; bisognerebbe essere Dio per comprenderla nel suo insieme”! Qui si sorpassa in operaismo i più esaltati teorici del marxismo, secondo cui le altre classi sarebbero destinate presto o tardi a scomparire; ed allora, schieriamoci coraggiosamente in anticipo con quella classe che sarà la futura vincitrice!
Altri slogans in voga: “Chiesa dei giovani”, “Chiesa degli studenti”, ecc. ecc.


Ma lo slogan classista più usato ed abusato è quello di “Chiesa dei poveri”. [SM=g1740733]
Su questa espressione derivata da papa Giovanni XXIII — mutilata, però, e staccata dal suo contesto (77) — durante e dopo il Concilio s’è venuta formando tutta una letteratura pauperista, nella quale la stessa adorabile figura di Gesù Cristo viene ridotta al rango di un demagogo o di un rivoluzionario socialista, poco più di un Marx, di un Che Guevara, di un Camillo Torres!
A parte il significato genuino da dare alle parole “povertà” e “poveri” nei testi biblici che si invocano a sostegno (78), è chiaro che la Chiesa oggi, non meno di ieri, deve reputare sua gloria prediligere, difendere e soccorrere i diseredati e gli oppressi. Ma non è lecito fare della povertà un elemento costituzionale della Chiesa; dei poveri i membri di diritto divino della Chiesa, quasi che non lo siano ugualmente anche gli altri. Ed è pura demagogia scrivere, come s’è scritto: “I poveri sono il fondamentale sacramento di Cristo”, ovvero: “Invece di andare alla Messa sarebbe meglio occuparsi dei poveri”!


Il messaggio della salvezza è per tutte le categorie sociali. Per tutte è obbligatorio lo “spirito di povertà” (possibile, seppure non troppo facile, anche nei ricchi) come condizione indispensabile per appartenere al Regno di Dio; per tutte è condannato lo “spirito di ricchezza” (possibile, anzi non troppo raro, anche nei poveri) come causa di evasione, dagli impegni di ordine soprannaturale. Sarebbe assai meglio parlare di “Chiesa povera”, ma ricordandosi che la Chiesa non è soltanto la Gerarchia, ma lo sono anche i laici. Il Concilio ha voluto essere un potente richiamo anzitutto per i chierici, affinché attuino lo spirito di povertà e, se necessario, anche l’effettiva povertà nella loro vita personale, assai più che nelle manifestazioni esteriori del culto divino (dove la povertà potrebb’essere sinonimo di grettezza alla... Giuda, oltreché di insensibilità alla bellezza estetica).
Ma anche i laici devono ricordare che Gesù ha beatificato per tutti “la povertà nello spirito” (Mt. 5, 3), che anch’essi debbono vincere le tentazioni del terrenismo edonistico, e finalmente che è per lo meno illogico pretendere dai chierici l’effettiva povertà, mentre essi, i laici, ritengono proprio diritto e proprio ideale combattere con tutte le armi, anche quelle della violenza, per la conquista del comfort materiale! E se i chierici li si vuole uomini come tutti gli altri, perché poi non dovrebbero, come tutti gli altri, cercare benessere e ricchezza?




[SM=g1740758]  continua........

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)