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Falso concetto del sacerdozio cattolico


La gravità della crisi che travaglia oggi la Chiesa si misura soprattutto dal fatto che lo spirito di vertigine ha preso anche il ceto sacerdotale. Il S. Padre Paolo VI, parlando il 26 febbraio 1968 ai parroci e quaresimalisti di Roma, era costretto a dire: “Anche a voi sacerdoti carissimi, a voi giovani sacerdoti specialmente, può essere arrivata, se non con l’impeto altrove osservato, forse con qualche risultante e infido risucchio, l’onda tempestosa di questioni, di dubbi, di negazioni, di spregiudicate novità, che oggi investe in altre nazioni il sacerdozio ministeriale, sollevando problemi circa il suo vero concetto, la sua primaria funzione, la sua giusta posizione, la sua originaria e autentica realtà. Il prete, così assalito, interroga se stesso, mette in questione la sua vocazione [...] teme d’aver scelto male l’impiego della sua vita [...] e soprattutto guarda al mondo, da cui egli si è sottratto e difeso per poterlo meglio conoscere, evangelizzare, servire, con senso non più d’amore apostolico, ma di nostalgia profana, e facilmente si illude che, immergendosi nella sua temporale, sociale realtà lo potrebbe meglio redimere, o almeno dare equilibrio alle proprie interiori inquietudini”.
Ad un anno di distanza da questa fedelissima spettrografia della situazione mondiale, dobbiamo aggiungere che l’onda tempestosa, di cui parlava il Papa, sta giungendo ben gagliarda anche in Italia, favorita da quella colluvie di traduzioni e pubblicazioni che l’editoria cattolica italiana, troppo sensibile al lucro, si premura di offrire al nostro clero.

Il turbine della desacralizzazione — turbine che potrebbe dirsi parta dal cielo, dove tocca il concetto stesso di Dio, e scenda poi a toccare tutte le realtà terrestri — sarebbe stato un miracolo se avesse risparmiato il sacerdote, cioè colui che porta il sacro perfino nel nome. Anche il sacerdote è in crisi, e la sua è stata chiamata “crisi di identità”. Egli cioè si interroga chi mai egli sia, quale la sua natura, la sua missione, il significato della sua presenza nella Chiesa e nel mondo. In un mondo, si badi bene, diverso da quello di ieri che riveriva il sacerdote, lo stimava, lo utilizzava anche al di là del dovuto, per un fenomeno di supplenza. Oggi è un mondo che non lo stima come prete, ma solo per le sue qualità umane, se ne possiede; un mondo che lo relega ai margini, che non ne utilizza affatto i poteri sacri, che lo tollera solo per quel tanto di contributo che il prete può arrecare ai problemi della città terrestre.

E il sacerdote ci soffre. Lo umilia il clima di sopportazione che lo circonda. Vuole romperlo; vuole farsi accettare ad ogni costo; per questo tenta nuove vie e affronta nuovi rischi. La contestazione non più di questo o quell’aspetto accidentale della propria vita, ma delle stesse ragioni fondamentali del suo sacerdozio, lo tenta fortemente; qualche volta lo vince, ed è la tragedia. Pastori nella foschia; sbandamenti nel gregge!

Il progressismo — incredibile, ma vero — spinge il sacerdote a domandare al mondo la soluzione dei suoi problemi, la risposta ai suoi interrogativi. Lo indirizza allo psicanalista, al sociologo, all’inchiesta, al rotocalco, allo spretato, alle altre confessioni cristiane, alle altre religioni.
E che gli dicono costoro? Gli dicono che il suo sacerdozio è una mera funzione, una mera deputazione cultuale a servizio della comunità. Non c’è motivo, dunque, che assorba tutta la sua attività e costituisca un impegno duraturo per una vita intera. Se il prete vuole davvero convertire, deve lui anzitutto convertirsi. A che? “Conversione verso l’uomo, conversione verso il mondo, conversione verso il sociale, sono tre espressioni che vogliono indicare i tre movimenti attraverso i quali gli uomini di Chiesa, da troppo tempo distratti dal mondo reale come luogo dell’impegno salvifico, dovranno realizzare il loro rientro nel disegno concreto di Dio”! In altre parole, il prete dev’essere un uomo come tutti gli altri: aver cioè una professione civile, un abito, una famiglia, degli interessi politici e sindacali come tutti gli altri uomini. Via tutto ciò che lo distingue dagli altri, che lo inquadra in una “casta”, peggio poi in una casta “sacrale”! Se lo crederà opportuno, farà anche il guerrigliero, per liberare i propri fratelli dalle oppressioni economiche o sociali. “Non soltanto preti-operai, ma preti che lavorano in tutti i settori della vita e condividono la sorte comune dei fedeli... Uscite, non foss’altro che per qualche mese dalla vostra situazione clericale, dalla vostra vita separata, e vivete semplicemente con la vostra faccia di uomini, con la vostra passione di uomini... Guadagnatevi il pane col sudore della fronte. Strappate la maschera di professionisti della religione. Andate ad imparare a vivere... Diventate uomini liberi, capaci di battersi...”! I preti di domani saranno dei laici (anzi, taluni teologi non escludono che possano essere anche delle laiche), i quali, a margine del loro stato di vita civile, potranno svolgere qualche funzione cultuale a richiesta di questa o quella comunità.


In questa visione, di marca prettamente protestantica, che cosa rimane del sacerdozio cattolico? Che cosa si salva del decreto conciliare Presbyterorum ordinis, anzi, di tutto ciò che il Vaticano II ha mirabilmente detto del sacerdozio ministeriale in tutti i suoi documenti? Non rimane assolutamente nulla. Logico, quindi, che si giudichi cosa assurda il reclutare nuove leve per “l’unica istituzione che non ha alcun futuro nella Chiesa”!
È stato scritto in Italia da una rivista del cosiddetto dissenso cattolico, a malizioso commento dell’enciclica Sacerdotalis coelibatus di Paolo VI: “... la posizione del Papa aiuta ad assicurare la rapida morte del clero... l’ulteriore reclutamento di giovani generosi da formare sul modello di vita clericale descritto ancora dal Concilio Vaticano II confinerà presto con l’immorale. Al momento attuale sembra molto irresponsabile continuare a preparare degli uomini per una professione che scompare”!


Il malessere del prete dipende dal misconoscimento del suo sacerdozio. Se vuol sapere quale ne sia in realtà la natura, e quale quindi debba essere il suo logico comportamento, il prete non lo domandi al mondo. Lo domandi a Gesù Cristo, che ne è l’autore ed il sommo ed eterno esemplare; lo domandi al Magistero della Chiesa, ai Santi, ai buoni fedeli che posseggono lo spirito del Signore. [SM=g1740733]
Reimparerà così che la sua “segregazione per il Vangelo” (cfr. Rom. 1, 1) non è una mera deputazione esteriore e temporanea, bensì una consacrazione ontologica, incancellabile e perpetua, operata nell’intimo della sua anima dallo Spirito Santo, e tale che lo configura in maniera tutta particolare e per sempre a Cristo mediatore e redentore. Questa sacertà ontologica impegna tutta la sua personalità — anima, corpo, pensieri, attitudini, disponibilità — e fonda l’obbligo che egli ha di conseguire la santità morale, come degno coronamento della sua sacertà antologica.


Il sacerdozio è “un rapporto originale, irreversibile, ineffabile che lega a Cristo” (Paolo VI). Potrà, mai, dunque, rappresentare una menomazione della personalità umana del sacerdote? Tutto all’opposto, egli dovrà dire di sé: “non sono come gli altri uomini “(Lc. 18, 11): non già per superbo fariseismo, ma per umile riconoscimento di una grazia speciale che lo chiama ad una speciale imitazione di Cristo. In questa prospettiva appare logica la Chiesa quando, da fedele interprete dello spirito del Signore, precisa quali siano le esigenze di vita del prete, in armonia non tanto con le circostanze storiche ed ambientali quanto con la natura e la missione stessa del sacerdozio ministeriale. Nessuna meraviglia che la Chiesa modelli la vita dei suoi ministri come uno “status”, specificandone i lineamenti mediante strutture, precetti, consigli, esortazioni, divieti ecc. ritenuti consoni alla consacrazione antologica operata dal sacramento dell’ordine. Anche la legge del celibato — contro cui oggi si è scatenata una odiosa campagna — se non proprio per esplicito precetto di Cristo, certamente per l’intuito soprannaturale della Chiesa, rientra nell’assimilazione del prete a Cristo Sacerdote e Vittima. È dolorosamente strano che il mondo (e anche certo mondo ecclesiastico) sia oggi ipersensibile alla conformità del prete con Cristo povero, ma non lo sia affatto alla conformità con Cristo obbediente e vergine per il Regno di Dio!

Le speciali esigenze della vita presbiterale si fondano, sì, sulla funzione pastorale di missionario, la quale dice relazione immediata col Popolo di Dio, ma si fondano anzitutto sulla natura di sacerdote, la quale dice relazione immediata a Dio. Il prete, prima ancora di essere a servizio dei fratelli, è, ad imitazione ed in unione con Cristo, il “servo di Jahvè”, l’adoratore del Padre. A sfatare pensieri corrosivi sulla essenza e sulla missione del sacerdozio, il S. Padre Paolo VI ha dato questa risposta: “Il sacerdote è prima di tutto ordinato alla celebrazione del Sacrificio eucaristico, nel quale egli in persona Christi et nomine Ecclesiae offre a Dio sacramentalmente la Passione e la Morte del Nostro Redentore, e nello stesso tempo ne fa alimento di vita soprannaturale per sé e per i fedeli a cui deve fare ogni sforzo per distribuirlo largamente e degnamente. Il ministero della parola e quello della carità pastorale devono convergere verso quello della preghiera e dell’azione sacramentale e ne devono trarre ispirazione e sostegno”.

Quindi, per il sacerdote la contemplazione deve prevalere sull’azione, l’interesse interiore su quello esteriore, il culto sulla missione. E la sua missione non consiste nel liberare i fratelli dalle oppressioni economiche, sociali e politiche, ma dai mali dell’ignoranza religiosa e del peccato. Con rammarico si deve dare atto che il bellissimo decreto conciliare Presbyterorum ordinis è passato a volo d’uccello su questo aspetto fondamentale del sacerdote, che è quello maggiormente in crisi, e che, viceversa, dovrebbe aiutarlo a superare la solitudine, il senso della propria inutilità di fronte alla ripulsa di cui lo gratifica il mondo. Infatti, quand’anche il suo ministero di apostolo presso le anime dovesse risultare o rifiutato o sterile, il suo servizio di adoratore del Padre (ed in questo servizio, si badi bene, sono riassunti i motivi basilari della creazione e della redenzione!) potrà sempre realizzarsi con successo. Sotto questo aspetto, il prete non ha nessuna paura che il suo sacrificio sia vano, che il suo coraggio sia inutile, che il suo dono sia senza destinatario!



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Capitolo Sesto
IL PROGRESSISMO IN AZIONE


Se non fosse irriverente servirsi di un inno sacro, dovuto per giunta alla pena di un S. Tommaso d’Aquino, racchiuderei il programma d’azione del progressismo nella Chiesa nei seguenti due versi:
“recedant vetera, nova sint omnia: corda, voces et opera”.
Via il passato; rottura completa con la tradizione. Tutto nuovo: il pensiero (= corda), la formulazione del pensiero (= voces), gli atteggiamenti pratici (= opera).

Non sono soltanto io a pensare così. Con ben altra autorità della mia, il S. Padre Paolo VI, pur senza fare il nome del progressismo, ne denunziava il programma rivoluzionario in un discorso del 9 agosto 1967: “Per rinnovare la Chiesa, si pensa da alcuni, bisogna distaccarsi da molte e gravi cose, che sono pur sue, della Chiesa, ma sembrano ora imbarazzare e appesantire il suo passo, se questo vuol correre con i tempi nuovi e vuole arrivare al mondo contemporaneo: tradizione, autorità, filosofia, cultura, diritto canonico, istituzioni, e perfino certi dogmi, certe forme di interiorità e di culto; in una parola, si dice, bisogna liberarsi dalle strutture e avvicinarsi alla vita vissuta, al costume di pensiero e di usi della moda corrente, rinunciare perfino al sacro, all’aspetto confessionale del cattolicesimo, e così via”.


Proverò a passare sommariamente in rassegna, con un certo ordine logico, qualcuno dei settori dove più opera il progressismo: filosofia, teologia, liturgia, esegesi biblica, morale, ascetica.


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La filosofia del progressismo


Dovrei dire piuttosto: le filosofie del progressismo, dal momento che esso respinge quell’una — la “philosophia perennis” — che il cattolico dovrebbe seguire, mentre invece accetta le cento filosofie alla moda che il cattolico dovrebbe respingere.
S. Pio X, nell’enciclica Pascendi del 1907, fu facile profeta quando mise in guardia contro i gravi pericoli derivanti per la fede dalle filosofie adottate dal modernismo, asserendo che esse avrebbero condotto all’ateismo e all’eversione di ogni religione. Già ci siamo, e immersi fino al collo!
La “nuova teologia” segue, aggravandola, la posizione modernistica dell’abbandono della filosofia perenne.

La denunzia fu rinnovata da Pio XII nell’enciclica Humani generis del 1950: “... Per questo motivo si deve sommamente deplorare che oggi da taluni si disprezzi la filosofia accolta e riconosciuta nella Chiesa, al punto da impudentemente dichiararla antiquata nella forma, razionalistica, com’essi dicono, nel processo conoscitivo. Vanno infatti dicendo che a torto la nostra filosofia sostiene che possa darsi una metafisica assolutamente vera; asseriscono, al contrario, che le cose, specie quelle trascendenti, non possono esprimersi in maniera adatta se non servendosi di dottrine disparate, completantesi a vicenda, quantunque siano tra loro in qualche modo opposte” (79).


Il Vaticano II, sebbene non ex professo, ha toccato questa questione. Prescrive, infatti, che negli studi dei giovani ecclesiastici “le discipline filosofiche vengano insegnate... basandosi sul patrimonio filosofico perennemente valido” (80). La citazione in nota dell’enciclica Humani generis fa ben capire, senza possibilità di equivoci, quale sia questo patrimonio. E perché non rimanga alcun dubbio in proposito, prescrive che nei seminari e negli studentati religiosi “onde illustrare integralmente più che è possibile i misteri della salvezza, gli alunni imparino ad approfondirli e a coglierne il nesso per mezzo della speculazione, avendo S. Tommaso per maestro” (81). Negli studi, poi, delle facoltà e università ecclesiastiche “si colga più chiaramente come fede e ragione si incontrino nell’unica verità, seguendo le orme dei Dottori della Chiesa, specialmente di S. Tommaso d’Aquino” (82).

Nonostante la chiarezza e la gravità dei summenzionati documenti, Paolo VI è costretto, nel discorso all’Episcopato latinoamericano a Bogotà il 24 agosto 1968, a lamentare il poco o nessun conto che ne tengono i progressisti. “La fede è la base, è la radice, è la fonte, è la prima ragion d’essere della Chiesa, ben lo sappiamo. E sappiamo anche quanto essa è oggi insidiata dalle correnti più eversive del pensiero moderno. La diffidenza, che anche negli ambienti cattolici si è diffusa sulla validità dei principi fondamentali della ragione, ossia della nostra philosophia perennis, ci ha disarmati di fronte agli assalti spesso radicali e capziosi, di pensatori di moda; il “vacuum” lasciato nelle nostre scuole filosofiche dall’abbandono della fiducia nei grandi maestri del pensiero cristiano, è spesso invaso da una superficiale, e quasi servile, accettazione di filosofie di moda, spesso altrettanto semplicistiche che astruse; e queste hanno scosso la nostra normale, umana, sapiente arte del pensare la verità; siamo tentati di storicismo, di relativismo, di soggettivismo, di neo-positivismo, che nel campo della fede inducono uno spirito di critica sovversiva ed una falsa persuasione che, per avvicinare ed evangelizzare gli uomini del nostro tempo, dobbiamo rinunciare al patrimonio dottrinale, accumulato da secoli dal magistero della Chiesa, e che possiamo modellare, non tanto per migliore virtù di chiarezza espressiva, ma per alterazione del contenuto dogmatico, un cristianesimo nuovo, su misura dell’uomo, e non su misura dell’autentica parola di Dio”.
Poste certe premesse, era logico che succedesse quanto il Vicario di Cristo deplora. Il vizio basilare del progressismo — ed esso invece lo considera come suo grande merito! — è quello di avere ripudiato la metafisica, la filosofia dell’essere con le sue forme inseparabili e intercambiabili di vero e di bene, la filosofia delle essenze immutabili, della verità oggettiva realmente attingibile dall’intelletto umano. Gli sono invece congeniali le filosofie moderne dell’esistere, del divenire, dell’evoluzionismo ottimistico, del fare, del produrre.
La dimensione verticale della filosofia, (cioè la Verità, la metafisica che ci collega con l’Essere Assoluto) è sacrificata alla dimensione orizzontale (gli interessi dell’uomo, il pragmatismo, l’efficacia, il successo, l’accettazione). Questo non è che il primo anello di una catena logica. Caduta la dimensione verticale della filosofia, cade anche inevitabilmente la dimensione verticale di ogni religione (cioè il sacro), del cristianesimo (cioè la divinità di Gesù Cristo, e la preminenza assoluta dell’amore a Dio), della teologia (si arriva alla “teologia della morte di Dio”), della Chiesa (cioè l’Autorità del Papa, dei Vescovi, ecc.), della morale (ridotta all’utilità dell’individuo o della società), della ascetica (ridotta al solo amore dell’uomo). L’uomo esistenziale, con la sua unica dimensione orizzontale, è tutto. Il filosofo esistenzialista Nicola Abbagnano vedeva esatto, naturalmente dal suo punto di vista, quando di recente scriveva: “Nonostante l’incoerenza e i contrasti, le pretese ingiustificate di novità e le gravi oscillazioni concettuali, la nuova teologia è un altro segno che ormai il problema filosofico fondamentale, l’unico di cui valga la pena di occuparsi o di cui ci si può occupare con una certa speranza di successo, è quello dell’uomo e del suo posto nel mondo”. Siamo così giunti al Successo diventato sinonimo di Verità!

Il progressismo dice che il mondo d’oggi non accetta più le vecchie categorie “ellenistiche”, e quindi bisogna andargli incontro adottando quelle che esso reputa valide e vitali. “Non basta una revisione della teologia”; occorre una “reinterpretazione integrale del dato rivelato in categorie accessibili al nostro tempo”. Ma quali sarebbero queste nuove categorie? Esse si chiamano: evoluzione, relativismo, provvisorietà, storicismo, riformabilità assoluta, rifiuto dell’impegnativo, opinabilità, approssimatività. I nuovi criteri di giudizio si chiamano: azione, novità, autenticità, sincerità, originalità, efficienza, rispondenza alle attese, accettazione. Il progressismo accetta ad occhi chiusi le nuove filosofie, credendo ingenuamente di rendere più accogliente la Rivelazione divina. In effetti, rifiutando la mediazione metafisica della razionalità rende impossibile ogni dialogo tra scienza e fede. Applicando le nuove categorie alla teologia, all’esegesi biblica, alla morale, alla disciplina il progressismo non può non condurre alla distruzione completa del cristianesimo, anzi all’ateismo della società materialista e della società consumista.
Brutalmente, ma logicamente, lo afferma l’autore dell’ormai famoso Honest to God, il vescovo anglicano Robinson: “L’unica teologia che l’uomo moderno può accettare è l’ateismo cristiano”!

Tra le categorie cosiddette “ellenistiche” più aborrite dal progressismo c’è quella di essenza. L’essenza, che rimanga immutabile sotto il flusso continuo degli eventi storici, gli sembra un impegno definitivo, uno sbarramento insopportabile, una porta chiusa per sempre. Esso ama invece l’esistenza perché vi vede la vita, il dinamismo, il nuovo, il non mai finito, la possibilità del disimpegno, l’apertura a qualsiasi avventura del pensiero. “L’essenza umana, lungi dall’essere tutta fatta all’origine, non può non essere che il risultato di un processo storico”. Come, però possa reggersi il concetto di esistenza disancorato da quello di essenza, senza sboccare fatalmente nel nichilismo, i progressisti non spiegano. Sta di fatto, comunque, che una simile posizione filosofica — dalle conseguenze più imprevedibili in tutti i campi sacri, a cominciare dalla dogmatica fino all’etica — non ha nemmeno il pregio della novità. “Lutero e la teologia protestante non riconoscono le essenze nella loro consistenza e immutabilità ontologica, e parlano soltanto in termini di esistenza, preparando anche in questo, sia pure a distanza, la situazione contemporanea” (83).

Durante il Concilio certi vescovi, i quali reclamavano un linguaggio concettualmente e formalmente ben definito e quindi univoco, furono ironizzati dal paraconcilio come i “vescovi delle norme e delle nozioni”. Si esaltarono invece come i “vescovi della vita, della storia della salvezza” (84) quelli che, in nome della pastoralità del Concilio, si accontentavano di formule meramente descrittive, “aperte”, come si diceva, o “positive” (85). Era proprio quello che il progressismo paraconciliare desiderava.
Il relativismo ha tutto da guadagnare dalle formulazioni cosiddette “dinamiche” cioè polivalenti e non impegnative. Gli serve molto che si screditi la Scolastica, se ne derida la terminologia calibrata e convalidata da secoli di speculazione, se ne travisi il pensiero, non si sceveri in essa certa scorza caduca dalla sempre valida sostanza, la quale “difende il vero e genuino valore della conoscenza umana, i principi metafisici inconcussi — di ragione sufficiente, di causalità e di finalità —, e infine il conseguimento della verità certa e immutabile” (86).

Anche dopo il Concilio stupisce e addolora insieme cogliere sulle labbra perfino di vescovi espressioni che sono l’inconsapevole avallo delle filosofie progressiste. Quando uno di costoro afferma che bisogna sbarazzarsi di tutta una serie di distinzioni ereditate dalla religione persiana o dalla filosofia greca (come p. e. la distinzione tra spirituale e temporale, tra sacro e profano, tra contemplazione e azione, ecc.), distinzioni che, a suo dire, avrebbero fatto un gran male alla Chiesa, c’è da chiedersi se non ci si voglia sbarazzare tout court del buon senso, per accettare un confusionismo monistico. E quando un altro afferma che gli attuali malanni della Chiesa deriverebbero dal predominio di due fattori: “la Scolastica, una forma di pensiero molto astratta, e il legalismo, un rispetto della legge e dell’autorità per amore di se stessa”, ci si domanda con ansia dove possano condurre affermazioni così avventate. Tralasciando per ora il legalismo, raccogliamo l’affermazione che, per rendere intelligibile agli uomini d’oggi il messaggio cristiano, la Chiesa dovrebbe continuamente riesaminare le sue idee astratte, e farle diventare più concrete. Ma questo ragionamento non è diverso da quello del pragmatismo. Concreto, infatti, è ciò che cade sotto i sensi; astratto, ciò che non cade sotto i sensi ma è attingibile mediante l’intelletto. Orbene, le idee o sono astratte o non sono affatto idee. Quando si facessero “concrete”, le idee si corromperebbero, e cioè invece di precedere l’azione e illuminarla, le terrebbero dietro e si conformerebbero ad essa. Si finirebbe, in altre parole, di pensare come si vive, anziché vivere come si pensa (P. Bourget). Un invito alla Chiesa, quale le rivolge il progressismo, a pragmatizzarsi allo scopo di conciliarsi e convivere con le due attuali società atee (la marxista e la tecnocratica), è proprio alla radice della crisi che oggi fa soffrire tanto la Chiesa!

Dicevo più sopra che il progressismo rifiuta la philosophia perennis per accettare le filosofie moderne. Potrei ora precisare che, se si vuole parlare di filosofia del progressismo, questa si chiama il teilhardismo. Del religioso P. Pierre Teilhard de Chardin io non giudico affatto le intenzioni e lo spirito ascetico, quantunque mi sembri che talune sue lettere siano inquietanti circa la sua fede personale, e che non si possa proporre come esempio di ubbidienza il fatto che le sue opere postume vengano pubblicate a cura non della sua Compagnia di Gesù ma di laici. Giudico gli scritti, e vi trovo quanto di più pericoloso per il cristianesimo si possa concepire.
Nonostante il Monito del S. Officio del 30 giugno 1962, certamente approvato da papa Giovanni XXIII, sono in tanti oggi a difendere, esaltare e propagandare il teilhardismo. Dal progressismo il Teilhard viene considerato come il nuovo S. Tommaso destinato a far accettare il cristianesimo dalle filosofie e scienze moderne, e perfino dal marxismo ateo. Però tra gli stessi apologeti del Teilhard si trovano taluni teologi i quali, giustamente, stanno gridando l’allarme perché dottrine nuove tentano di svuotare il cristianesimo del suo carattere soprannaturale.
Ma costoro non sembrano rendersi conto quanta parte abbiano in tale fenomeno gli scritti del cosiddetto “gesuita proibito”! Continuano a considerarlo come un secondo Galilei, i cui lampi di genio, oggi magari non ancora documentati o compresi, lo saranno però domani, quando la Chiesa si vedrà costretta a rendere gli onori a codesto profeta lapidato! Intanto è un fatto che, pur rimanendone sostanzialmente estromesso, il teilhardismo ha battuto fortemente alle porte dello stesso Vaticano II: la storia del famoso Schema XIII lo dimostrerà!


Come paleontologo, scienziati di fama mondiale non riservano al Teilhard un posto di rilevante grandezza. Come filosofo e teologo, gli stessi suoi apologeti debbono ammettere che egli non era un professionista di tali specialità. Tra l’altro, il lettore rimane urtato da quel suo procedere antiscientifico a base di continue affermazioni sulla sua parola, senza mai la più piccola ombra di dimostrazione. Io penso che quel poco di innocuo che si trova negli scritti del Teilhard non sia originale; quel molto invece che è originale costituisca una fantafilosofia e una fantateologia esplosiva per il cristianesimo.
Più che ai difensori d’ufficio, i quali, pur di salvarlo, fanno violenza al significato delle sue parole, io credo al Monito del S. Offizio, secondo cui le opere del Teilhard, almeno sotto il profilo filosofico e teologico, “formicolano di tali ambiguità, anzi perfino di gravi errori, che ne rimane offesa la dottrina cattolica” (87). Credo ad un teologo come il Card. Journet, quando afferma: “Non è principalmente una filosofia, ma è la dottrina stessa della Chiesa che io, personalmente, rimprovero a Teilhard di alterare” (88).

Credo ad un filosofo come J. Guitton, quando scrive: “Ho conosciuto Teilhard, e vorrei sottolineare che era un prete di una spiritualità profonda. Ma il suo pensiero non mi è mai sembrato molto solido. Inoltre Teilhard è stato tradito dal suo straordinario talento letterario. Per questo motivo le sue opere andrebbero lette più come una testimonianza spirituale personale che come un discorso teologico. Sul piano teologico, infatti, egli ha messo tra parentesi il significato autentico della Croce e del peccato, e non ha distinto molto bene tra natura e sovrannatura. Inoltre ha condizionato la fede alla mentalità scientifica positivista ed evoluzionista del sec. XIX, quella appunto in cui lui ha ricevuto la sua formazione culturale” (89).

E scusate se è poco!
Ad onta della sua personale spiritualità, per via della quale è venuto di moda citarlo nei libri ascetici e perfino in lettere pastorali episcopali, resta che la sua dottrina svuota dal di dentro il cristianesimo, anzi la religione stessa. Eppure è con un simile maestro che il progressismo pretende battezzare il mondo moderno; è da un simile maestro che il progressismo assume i criteri per “riformulare” tutte le scienze sacre!



[SM=g1740758]  continua.......

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)