00 12/10/2012 20:52
[SM=g1740733] La Liturgia del progressismo


Chiamo così, evidentemente, non le riforme stabilite dalla legittima Autorità, ma quel complesso di opinioni e di prassi in materia liturgica che sono il frutto dell’arbitrio privato. Ho già toccato questo argomento nel terzo capitolo; ma per la sua importanza debbo riprenderlo.

Un antichissimo assioma — “legem credendi lex statuat supplicandi” (111) — vede nella Liturgia uno dei cosiddetti “loci theologici” , cioè una delle fonti da cui in teologia è lecito argomentare per la dimostrazione di una tesi dogmatica. E ben a ragione, perché la Liturgia non avrebbe potuto formulare le sue preghiere e celebrare i suoi misteri secondo quei precisi contenuti (“lex supplicandi”), se non fosse esistita precedentemente nella Chiesa universale la fede in quelle verità e in quei misteri (“lex credendi”). È, dunque, il dogma che comanda alla liturgia, e non viceversa. “La liturgia della Chiesa non produce la fede cattolica, ma piuttosto ne consegue, e i sacri riti del culto promanano dalla fede, come frutti dall’albero” (112).
Poiché la liturgia è il nobile rivestimento del dogma, si giustifica la preoccupazione della Chiesa di mantenerle una certa uniformità esteriore e una certa stabilità. L’eccessivo pluralismo e il continuo mutamento offuscherebbero la funzione, che la liturgia ha sempre avuto, di essere l’attestazione teologica universale della fede della Chiesa (113).
È chiaro, quindi, anche solo di qui perché la liturgia debba venir considerata una cosa tanto sacra da sottrarsi all’arbitrio privato. Non deve essere lecito farne una specie di corpo vile su cui chiunque possa eseguire qualunque esperimento; si correrebbe, infatti, il rischio di alterare, attraverso un’arbitraria manipolazione liturgica, il contenuto della “lex credendi”. Molto saggiamente il Vaticano II ha riconfermato la regola che, all’infuori delle autorità competenti, ed entro i limiti ad esse attribuiti, “nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, osi di sua iniziativa aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica” (114). E foss’anche un Vescovo o addirittura una intera Conferenza episcopale, prima di fare o di permettere esperimenti di adattamento in materia liturgica, deve proporli alla S. Sede ed ottenerne il preventivo consenso (115); in difetto di che, si sarebbe nell’abuso.


Orbene, io mi rifiuto di credere che un tale consenso si sia potuto dare dalla S. Sede a vescovi europei (per non citare che un solo esempio, meno ripugnante di altri sotto il profilo teologico) per Messe con danze di ballerini e ballerine più o meno discinte, allo scopo — come è stato scritto — di fornire “l’interpretazione fisica della credenza cristiana secondo cui il corpo è un tempio del Signore”! Certo si è che abusi ce ne sono stati e ce ne sono tanti e tali, che il Santo Padre ha dovuto pubblicamente lamentare “certi modi di fare, in varie parti della Chiesa, che ci sono motivo di non piccola ansietà e dolore. Ci riferiamo soprattutto a quella mentalità per cui molti mal sopportano tutto ciò che proviene dall’autorità ecclesiastica, od è legittimamente comandato. Ragione per cui accade che in materia liturgica perfino delle Conferenze episcopali talvolta procedano arbitrariamente più del dovuto” (116).

Ma ancor prima della corsa agli esperimenti spericolati e abusivi, occorre segnalare che il ciclone della cosiddetta “desacralizzazione” non ha risparmiato nemmeno la liturgia la quale dovrebb’essere, per definizione, il regno del sacro: sacro, talvolta per istituzione stessa di Cristo, tal’altra per istituzione della Chiesa. La gravità di tale concezione è inesprimibile. “La tendenza a desacralizzare, come si dice, la liturgia e con essa, fatalmente, il cristianesimo, è per noi causa di grave afflizione. Questa nuova mentalità implica tali rovesciamenti dottrinali, disciplinari e pastorali che non esitiamo a considerarla aberrante” (Paolo VI).
Negata ogni distinzione tra sacro e profano, e invalidata la legge della differenziazione che, sotto l’aspetto psicologico, sta alla base della sacertà, per forza non si vede più la necessità o l’utilità di tempi sacri, di luoghi sacri, di riti sacri, di persone sacre, di strumenti musicali sacri, di vestimenta e arredi sacri. È il “comune”, il “multifunzionale” che trionfa anche in liturgia: ciò che l’uomo trova sempre e dovunque in sé, e attorno a sé. “Non esiste né sacro né profano — è stato scritto — né naturale né soprannaturale, né temporale né spirituale. Esiste solo ciò che è umano”. “Smettiamola di costruire chiese, monumenti falsi: celebriamo la chiesa dove vive l’assemblea”; “non più nelle chiese, ma nelle case, nelle officine, nei supermercati”. E dove ciò non è possibile, la “domus Dei” (povero Ufficio della Dedicazione della Chiesa!) la si fa diventare la “casa del popolo”, cioè del soviet rionale, del dibattito; da luogo di contemplazione la si trasforma in luogo di contestazione.

[SM=g1740720] E dentro le chiese, che cosa preferisce la liturgia progressista? “È il funzionale che sacralizza le chiese, ancor più del Tabernacolo... e il funzionale è l’altare, l’ambone, la sede, le sedie dell’assemblea”! Con simili principi, sfido io che in certe chiese, a proposito della Ss. Eucaristia, ci si deve lamentare come la Maddalena al sepolcro: “Hanno portato via il mio Signore, ed io non so dove l’abbiano posto”! (Giov. 20, 13).

Il progressismo, con inqualificabile incoscienza, vorrebbe buttare a mare tutto un patrimonio di sane e venerabili tradizioni liturgiche che il Vaticano II, invece, ha prescritto di conservare, pur aprendo la via ad un legittimo progresso, stabilendo che “non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme siano in qualche modo lo sviluppo organico di quelle già esistenti” (117). Ma il progressismo vuole la novità per la novità, anche se l’utilità della Chiesa, cioè delle anime, non la chieda minimamente; per lui la novità, qualunque essa sia, si identifica con il progresso.
Ma la Chiesa, in compagnia del buon senso, la pensa diversamente: “bisogna che noi cerchiamo il meglio piuttosto che il nuovo; nelle novità poi vogliamo preferire alle nostre recenti invenzioni ciò che ci riporta ai tesori della pietà cristiana di quelle epoche nelle quali essa maggiormente fu in fiore” (118). Questo, ovviamente, non significa affatto la canonizzazione del pallino dell’archeologismo di cui soffre bene spesso, per evidente paradosso, la liturgia progressista. Non può ritenersi valido soltanto ciò che si faceva all’epoca delle catacombe. Anche dopo, lo Spirito Santo non ha cessato di promuovere l’approfondimento, lo sviluppo omogeneo della pietà fondata sul dogma.
È, dunque, infantilismo prendersela, come fa il progressismo, con certe pratiche devozionali solo perché... non esistevano al tempo dei dodici Apostoli: p. e. la “visita” al Ss. Sacramento, le Quarantore, la devozione al S. Cuore di Gesù, il Rosario, il ringraziamento dopo la S. Messa, la meditazione ecc. ecc.! Si dovrà però per lo meno ammettere che esisteva già fin da allora lo spirito di preghiera, liturgica ed extraliturgica, se gli Apostoli ben presto abbandonarono “il servizio delle mense” , per dedicarsi interamente a qualcosa di più apostolico, cioè “alla preghiera e al ministero della parola”
(Att. 6, 4)!


In un’altra contraddizione cade il progressismo. Mentre esso in teologia dogmatica esaspera l’aspetto mistico della Chiesa a spese di quello visibile e sociale, in liturgia invece esaspera l’aspetto esteriore e comunitario del culto ecclesiale a scapito di quello interiore ed individuale. Si giunge perfino a sostenere che le Messe senza assemblea sono inutili e piene di inconvenienti; peggio ancora, “dal momento che l’Eucaristia è essenzialmente un banchetto fraterno, se non c’è assemblea visibile ed effettiva non c’è Eucaristia”. Una autentica eresia! E questa specie di collettivismo viene poi trasferito dal campo liturgico al campo pastorale: la cura delle “anime”, cioè delle persone singole, è sacrificata alla cura delle “categorie” sociali.
Qui praticamente si viene a misconoscere che nella religione cristiana, accanto alla relazione comunitaria “Dio-noi”, ha pieno diritto di cittadinanza anche la relazione binomiale “Dio-io”. Nella S. Scrittura, infatti, non si trova soltanto il versetto: “Cristo ha amato noi e ha dato se stesso per noi” (Ef. 5, 2), oppure l’equivalente: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per la Chiesa” (Ef. 5, 25), ma si trova anche il versetto: “il figlio di Dio ha amato me e ha dato se stesso per me” (Gal. 2, 20). La redenzione in actu secundo, come dicono i teologi, viene applicata alle singole anime, e non alle categorie o alle assemblee. D’altra parte, ogni società, non esclusa quella ecclesiale, è a servizio della persona individua e non viceversa.
La pietà personale prepara e accompagna quella liturgica perché crea in ogni membro dell’assemblea di culto quel clima psicologico di fede, di carità e di raccoglimento senza del quale la liturgia si ridurrebbe ad oggettivismo non lontano dalla magia. Se privatamente non si sa pregare, non c’è adunanza liturgica che valga a trasformare in preghiera ciò che preghiera non è. “Nella liturgia l’atto umano comunitario, posto cioè dal membro dell’assemblea insieme agli altri membri, che tutti insieme agiscono come comunità, ha il suo valore individuale per il rapporto diretto con Dio, che supera l’ambito della comunità” (119).
Ma se manca questo incontro personale con Dio, che è enormemente favorito dalla pietà cosiddetta privata, non serve a nulla, per le singole anime, trovarsi anche in centomila a compiere la medesima azione liturgica comunitaria. Il “sacro silenzio” per il colloquio personale con Dio è assolutamente necessario anche nel quadro dell’azione liturgica comunitaria. La pietà personale poi prolunga l’effetto di quanto si è compiuto nella liturgia, assicurandone la permanenza e la fruttificazione.
[SM=g1740721]

Occorre, dunque, saper mantenere il debito equilibrio tra i due inseparabili aspetti del culto.
Un ultimo rimarco che riprendo da un laico: “Si parla tanto di neo-materialismo, legato alla critica della società del benessere, della civiltà dei consumi e simili. Ma anche nelle cose religiose talvolta se ne risente. Guardate, ad esempio, l’elenco delle preghiere dei fedeli [...] dopo il Credo nelle Messe festive. È rarissimo trovarvi accenni alla vita soprannaturale e si invocano quasi esclusivamente i beni terreni della pace, della vittoria sulla miseria, dello sviluppo del terzo mondo, ecc. Obiettivi magnifici e sacrosanti, si badi. Ma non crediamo sia da relegarsi nel reparto archeologico la convinzione che molte storture e tanti disordini sarebbero corretti se i cristiani dessero più intenso e coerente esempio di vita spirituale. Si ha l’impressione che si scambino gli effetti con le cause, in una sorta di neotemporalismo che forse allontana ancora di più l’uomo moderno da Dio” (On. Giulio Andreotti, in Concretezza). Meglio non si poteva dire!


L’esegesi biblica del progressismo

L’enciclica di Pio XII Humani generis nel 1950 aveva già denunziato taluni atteggiamenti erronei della nuova teologia in campo biblico, specialmente quelli relativi al metodo esegetico, all’origine divina della Bibbia, ai concetti di ispirazione ed inerranza.
La situazione alla vigilia del Concilio Vaticano II può essere descritta con le parole stesse di una autorità, non certo sospetta di integrismo, quale quella del Card. Agostino Bea. Parlando a Roma in occasione della XVI Stttimana Biblica Italiana (19-24 settembre 1960), i1 Card. Bea era costretto a parlare di “un certo disagio, certe preoccupazioni di professori di S. Scrittura, di sacerdoti e anche di pastori d’anime, direi quasi un disorientamento […]. Guardiamoci dal creare l’impressione che dalle pubblicazioni di acattolici possa prendersi tutto, o quasi, in materia di critica letteraria, di storia delle Forme, specialmente nella sua applicazione ai Vangeli”.
Aggiungeva poi che della famosa lettera della Commissione Biblica al Card. Suhard “tante volte si abusa per giustificare qualche teoria o spiegazione troppo arrischiata”. Manifestava infine “la accorata espressione di una seria preoccupazione — preoccupazione non soltanto mia — causata da affermazioni e idee che affiorano in diverse parti del mondo nell’insegnamento, in conferenze e pubblicazioni, specialmente riguardo al Nuovo Testamento, affermazioni che talvolta rasentano quasi i limiti dell’eresia” (120).


Nell’anno di grazia 1969 bisogna avere il coraggio di ammettere che quei limiti sono stati non solo raggiunti, ma anche abbondantemente sorpassati! Il Concilio Vaticano II ha avuto un bel riaffermare che “la sacra Tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa” (121); che “l’ufficio di interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo” (122); che “la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti da non poter sussistere l’una senza l’altra” (123); che “per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi si deve badare con non minore diligenza al contenuto e alla unità di tutta la Scrittura, tenendo conto della viva Tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede” (124); finalmente che “tutto quanto è stato qui detto sul modo di interpretare la Scrittura è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la parola di Dio” (125).


Ma, nonostante tale chiarissima dottrina conciliare, l’esegesi progressista è di fatto sulla linea protestantica della “Scriptura sola”. Tradizione e Magistero sono pretermessi.
Certi nuovi catechismi non ricorrono mai all’argomento desunto dalla Tradizione o dal Magistero. La conseguenza di simile atteggiamento non può non essere che quella lamentata da Paolo VI: “privo del complemento fornito dalla Tradizione e dall’autorevole assistenza del Magistero ecclesiastico, anche lo studio della sola Bibbia è pieno di dubbi e di problemi, che più sconcertano che non confortino la fede; e lasciato all’iniziativa individuale genera un pluralismo tale di opinioni da scuotere la fede nella sua soggettiva certezza, e da togliere la sua sociale autorevolezza; così che una tale fede produce ostacoli all’unità dei credenti, mentre la fede deve essere la base della ideale e spirituale convergenza: una è la fede” (Eph. 4, 5).


La S. Scrittura, se interpretata unicamente con gli strumenti scientifici con cui si trattano i libri umani (filologia, storia delle forme o delle redazioni, generi letterari, ecc.), si svuota di ogni valore. Il progressismo si vanta di esaltarla e servirla come parola di Dio, ma poi di fatto la manipola con gli alambicchi dei procedimenti razionalistici, sì da ridurla a misura d’uomo, cioè a parola umana. Talvolta ne estrae solo il contenuto sociale, umanitario, riducendo la figura di Cristo a quella di una grande personalità umana, votata al servizio del prossimo: ideale dell’umanità nuova, profeta della civiltà senza Dio! Tal’altra, accettando i canoni del razionalismo e del soggettivismo, nega che della S. Scrittura possa darsi una interpretazione sostanzialmente certa, immutabile e vincolante per tutti e per sempre, al di sopra delle variazioni delle situazioni storiche e del senso religioso dell’uomo.

Sotto la nuova verniciatura della “demitizzazione” rientrano nell’esegesi cattolica le vecchie tesi del razionalismo protestantico, negatore aprioristico del soprannaturale e del miracoloso; e bene spesso le sorpassano per audacia e radicalità. La divina rivelazione si riduce ad una semplice presa di coscienza di un’anima in grazia. L’ispirazione e l’inerranza perdono ogni valido significato. La storicità dei Vangeli viene considerata una pretesa da relegare tra i miti. Se si mettono insieme le negazioni aperte, i dubbi, i punti interrogativi buttati là quasi per caso, le spiegazioni naturalistiche date ora da questo ora da quell’esegeta cattolico progressista su questo o su quel punto del Nuovo Testamento, a cominciare dai racconti dell’infanzia di Gesù ridotti a pio midrash, per finire ai miracoli, all’istituzione della Chiesa, al primato di Pietro, all’inferno, agli Angeli, alla sopravvivenza dell’anima, e perfino alla risurrezione di Cristo, c’è da domandarsi con sgomento: che cosa rimane più del Cristo storico e della sua storica vita, predicazione ed opera? È ancora il Figlio unigenito di Dio consostanziale al Padre? Su che cosa di oggettivo, dunque, può fondarsi la fede dei cristiani?
Domande angosciose, come ognun vede. Perfino un protestante onesto come il Cullman deve confessare che una simile demitizzazione altro non è che una pura e semplice “destoricizzazione”: è l’oggettività stessa degli interventi divini nella storia della salvezza che viene negata!


Il S. Padre Paolo VI, nell’esortazione apostolica Petrum et Paulum del 22 febbraio 1967 con cui indiceva l’Anno della Fede, era costretto a lamentare: “... privando la fede del suo naturale fondamento, opinioni esegetiche o teologiche nuove, spesso mutuate da audaci ma cieche filosofie profane, sono qua e là insinuate nel campo della dottrina cattolica, mettendo in dubbio o deformando il senso oggettivo di verità autorevolmente insegnate dalla Chiesa, e, col pretesto di adattare il pensiero religioso alla mentalità del mondo moderno, si prescinde dalla guida del magistero ecclesiastico, si dà alla speculazione teologica un indirizzo radicalmente storicistico, si osa spogliare la testimonianza della sacra Scrittura del suo carattere storico e sacro, e si tenta di introdurre nel Popolo di Dio una mentalità cosiddetta “post-conciliare”, che del Concilio trascura la ferma coerenza dei suoi ampi e magnifici sviluppi dottrinali e legislativi con il tesoro di pensiero e di prassi della Chiesa, per sovvertirne lo spirito di fedeltà tradizionale e per diffondere l’illusione di dare al cristianesimo una nuova interpretazione arbitraria e isterilita. Che cosa resterebbe del contenuto della nostra Fede e della virtù teologale che la professa, se questi tentativi, emancipati dal suffragio del Magistero ecclesiastico, avessero a prevalere”? (126).
Che cosa resterebbe? Assolutamente più nulla, né della fede in particolare né della religione cristiana in generale. E noi, i credenti, dovremmo reputarci “i più miserabili di tutti gli uomini” (1 Cor. 15, 19)!


La morale e il diritto canonico secondo il progressismo

In campo morale l’enciclica Humani generis del 1950 si limitò a denunziare nella nuova teologia il pervertimento del concetto di peccato originale stabilito dal Concilio Tridentino, nonché del concetto del peccato in genere, in quanto esso è offesa di Dio. L’enciclica Sacra virginitas del 1954 denunziò l’errore secondo il quale il dominio dell’istinto sessuale sarebbe impossibile senza notevole pregiudizio della salute. Nel 1952 e nel 1956 furono condannati dal S. Offizio il neo-malthusianesimo e l’etica della situazione; fu difesa la legge morale naturale e la competenza della Chiesa nell’interpretarla; fu riconfermata anche per la gioventù moderna la validità del precetto divino della castità.
Da allora ad oggi, del... progresso ce n’è stato parecchio nella teologia morale progressista. Naturale frutto di aberranti filosofie. L’essere, infatti, e non già l’esistere può essere principio e fondamento della vera moralità.
Per dare qualche ragguaglio sulle tesi della morale progressista, l’imbarazzo non sta che nella scelta.


a) Il concetto di peccato è basilare nell’ordine morale; anzi, negata la realtà o la malizia intrinseca del peccato, diventa una favola la storia della salvezza; perdono significato l’incarnazione e la redenzione cristiana.
Orbene, certi progressisti non accettano l’idea di peccato come disordine morale; tutt’al più, come disordine fisico. Uno di loro è giunto a dire: “Io credo al peccato, è un mistero dell’uomo. Ma, a dire il vero, non posso distinguere il peccato dalla malattia”!

Non si accetta l’idea di peccato come “offesa a Dio”. Il peccato vero è il male dell’uomo, il mancato o impedito sviluppo dell’uomo (direbbe Teilhard de Chardin); è la colpa degli altri o delle strutture che fa soffrire l’uomo. I peccati veri, quelli di cui ci si deve accusare, sono i peccati sociali, il non aver fatto (direbbe il teorico marxista Garaudy) ciò che doveva essere fatto per il benessere dell’uomo.
Non sarà fuori luogo ricordare, a questo proposito, l’esagerata accentuazione che certi nuovi teologi danno al peccato in quanto offesa della comunità ecclesiale, e, per conseguenza, alla Confessione come sacramento della riconciliazione con la Chiesa: donde il discredito della Confessione auricolare in confronto di quella pubblica. L’aspetto di riconciliazione con la Chiesa è, senza dubbio, legittimo; ma è teologicamente inaccettabile la priorità che gli si vorrebbe dare. Non può esistere offesa della Chiesa se non come conseguenza dell’offesa di Dio.

I principi progressisti suaccennati portano difilato alla desacralizzazione della morale. Si ha una morale che si continua a chiamare cristiana, ma in effetti non lo è più. E non lo è più perché risulta privata del suo naturale fondamento teologico, della sua essenziale dimensione verticale. Si ha una morale puramente umana, circoscritta ai compiti dell’uomo nella società terrestre. È stato detto in occasione di un noto consiglio pastorale: “L’orientamento verso Dio, verso un aldilà, perde la sua forza. La vita è qui, Dio è qui. Il nostro destino è di essere buoni gli uni per gli altri. Una moralità rivolta verso l’uomo anziché una moralità rivolta verso Dio. Noi dobbiamo essere buoni per il nostro co-uomo, a motivo di lui stesso e non a motivo di una ricompensa da ricevere più tardi...”. E poiché il comportamento umano viene ritenuto puro effetto degli ordinamenti sociali, la morale viene a ridursi in pratica a sociologia.

Alla desacralizzazione della morale contribuisce il fatto che essa ha introdotto nel suo seno, senza alcun discernimento, i postulati di certa psicologia e pedagogia moderna, tutta intrisa di naturalismo, di freudismo, di soggettivismo: una psicologia e una pedagogia che ignorano completamente, quando non le neghino, le realtà soprannaturali, quali l’elevazione dell’uomo, il peccato originale con le sue conseguenze, la Redenzione, la grazia, i doni dello Spirito Santo, le virtù, il destino soprannaturale dell’uomo, l’esistenza di un ordine morale oggettivo.
È in ossequio a tale psicologia e pedagogia che la morale progressista bandisce dai catechismi per fanciulli e adolescenti l’idea del peccato (e in talune regioni si impedisce che si acceda alla Confessione prima dei 12 anni di età!), adducendo come motivo che l’idea del peccato sarebbe all’origine di tanti complessi psichici dell’uomo. Tanto già — decreta il progressismo — fino al periodo della pubertà non esiste assolutamente la capacità di commettere colpe gravi! E sempre che non sia giunta l’ora di finirla con la vecchia distinzione tra peccato mortale e veniale! Ai fanciulli e agli adolescenti si dovrebbe parlare soltanto dell’amore (“amore”, ben inteso, non “misericordia”) di Dio, e non già anche della sua severità e giustizia.


b) Il progressismo accetta l’etica della situazione, condannata dal S. Offizio nel 1956, benché ne eviti il nome o glielo cambi per non dar nell’occhio. Ne ha dato prova palmare di fronte all’enciclica Humanae vitae di Paolo VI. La “trascrizione” che di quell’enciclica venne fatta in una certa nazione fu chiamata da un noto giornalista cattolico come “morale esistenziale”, nel convincimento di differenziarla dalla “morale situazionale”già condannata. In effetti però si tratta della medesima cosa, come si evince dal documento stesso di condanna. Ed invero, il documento del S. Offizio, dopo aver descritto il concetto dell’etica della situazione quale la intendevano i suoi sostenitori aggiunge queste significative parole: “Secondo questi autori il concetto tradizionale di “natura umana” non basta più, ma si deve far ricorso al concetto di natura umana “esistente”: e tale concetto, per lo più, non ha un valore oggettivo assoluto, ma soltanto un valore soggettivo e perciò mutevole. Anche il tradizionale concetto di “legge naturale” ha il medesimo valore soltanto relativo. Moltissimi di quelli che oggi vengono ritenuti come postulati assoluti della legge naturale si fondano, secondo la loro opinione, sul predetto concetto di natura “esistente”, e perciò non sono se non relativi e mutevoli e possono sempre venir adattati ad ogni situazione” (127).



[SM=g1740758] continua..........
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)