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[SM=g1740717]  5) Fedeltà al Magistero del Romano Pontefice gif Papa

Mi sembra necessario spendere qualche parola in più su questa quinta condizione per la soluzione della crisi, non perché essa non rientri già nella quarta, ma perché è quella che oggi viene maggiormente contestata in teoria e in pratica, e quindi costituisce, in certa qual misura, il nodo cruciale di tutt’intera la crisi che travaglia la Chiesa.
È vero, purtroppo, che anche l’autorità del magistero dei vescovi sembra oggi in declino; ma è perché subisce, come contraccolpo, la sorte che subisce l’autorità del magistero pontificio. Difendendo quindi il magistero del Papa si difende automaticamente anche quello dei vescovi. Certi vescovi, i quali si sono visti rivoltare contro di sé il proprio clero, hanno motivo di domandarsi se non sia, codesta, l’inesorabile logica conseguenza del loro poco leale atteggiamento nei confronti del magistero pontificio. Certi vescovi i quali hanno, per esempio, contestato o lasciato indisturbatamente contestare, in nome della libertà di coscienza dei coniugi, l’enciclica Humanae vitae, non possono poi impedire che, in nome della medesima libertà di coscienza, i loro preti gli neghino obbedienza, e genitori e fedeli contestino e rifiutino un loro catechismo nazionale. Tutto si tiene!

Non a caso il Concilio Vaticano I, a proposito del primato del Papa, poteva rendere la seguente testimonianza: “Questa potestà del Sommo Pontefice è ben lungi dal ledere l’ordinaria e immediata potestà della giurisdizione dei vescovi [...] anzi, questa è affermata, rafforzata e difesa dal supremo ed universale Pastore, secondo l’espressione di S. Gregorio Magno: Il mio onore è l’onore della Chiesa universale. Il mio onore è il solido sostegno dei miei fratelli (vescovi). Solo allora io sono veramente onorato, quando a ciascuno di essi non viene negato l’onore che gli è dovuto” (145).


È umiliante, e doloroso insieme, constatare come questo tempo di postconcilio sia caratterizzato dalla contestazione aperta e indisturbata del magistero pontificio. “Segno dei tempi”, ancor questo, ma tra i più tempestosi! Vediamo, si può dire ogni giorno, ignorato a bella posta, coperto di silenzio, quando non anche deriso, compatito, tacciato di puerilità e finanche di errore l’insegnamento del santo Padre Paolo VI.
Ci si riempie l’animo di amarezza, e il volto di rossore, nel sentire quale accoglienza abbiano ricevuto presso certi cattolici, chierici e laici, quelle tre gemme del suo magistero che rispondono ai nomi di Sacerdotalis coelibatus, Credo del Popolo di Dio ed Humanae vitae. Si sta verificando, in certa misura, del suo vicario in terra quella profezia che Gesù vedeva realizzata in se stesso: “Sta scritto: percuoterò il pastore, e le pecore del gregge saranno disperse” (Mt. 26, 32). La divisione tra gli stessi figli della Chiesa è fatale quando si allenta o si disprezza il legame di ciascuno con colui che è stato costituito fondamento e facitore dell’unità di tutti. Sarebbe pura illusione appellarsi all’unione (incontrollabile) con Cristo, quando non si ha quella (controllabilissima) col suo vicario.


Contestando il magistero di Pietro si contesta quella che il Card. Journet ha stupendamente chiamata “la stella delle epoche buie” (146). La nostra è un’epoca buia, checché si dica in contrario; ed è tragico che siano proprio dei cattolici a procurare l’eclissi dell’unica stella capace di illuminarla! [SM=g1740721]

Se l’attuale crisi è fondamentalmente crisi di fede, il Papa ha l’ufficio e il connesso carisma di confermarla, questa fede, per tutti: pastori subalterni e fedeli (cfr. Lc. 22, 32). Se l’attuale divisione dei cattolici deriva dagli estremismi del tradizionalismo e del progressismo, il Papa ha i requisiti per comporre felicemente la sintesi fra Tradizione e progresso.
Egli, infatti, per volontà e provvidenza di Cristo, è insieme roccia (cfr. Mt. 16, l8: garanzia di immutabilità dell’essenza del Deposito rivelato) e pastore universale (cfr. Giov. 21,15: garanzia di adattabilità alle giuste esigenze di un gregge variabile e pluriforme).
Se il dissidio più acuto oggi è tra istituzione e carisma, tra autorità e libertà, il Papa ha dall’alto missione e carisma per risolvere le apparenti antinomie, perché è insieme clavigero (cfr. Mt. 16, 19: legittimità di autorità) della Chiesa e servo dei servi di Dio (cfr. Lc. 22, 26: garanzia di rispetto della giusta libertà e dignità dei sudditi). Lui, nel quale “Cristo stabili il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione” (147), può cavare dal tesoro della S. Chiesa “nova et vetera”, può pacificare le due parti in contesa, assumendo e garantendo l’ortodossia delle loro giuste istanze, e rifiutando autorevolmente quelle non giuste.


Non, dunque, di un prossimo Concilio Vaticano III c’è oggi bisogno, “che liberi la Chiesa dagli atteggiamenti nevrotici che la dominano ora”, come ha scritto oltraggiosamente un noto pubblicista, chierico purtroppo. Non della rinunzia al pontificato di Paolo VI, con la sostituzione di un papa non italiano, come ha scritto qualcun altro eiusdem furfuris! C’è invece estremo bisogno che tutt’intera la cattolicità torni ad accettare lealmente, anzi a venerare ed amare, il magistero del Romano Pontefice, chiunque egli sia, italiano od estero non importa.

Il lamentato atteggiamento di contestazione di fronte al magistero pontificio è tutta opera del progressismo.

Esso accetta, bensì, il magistero solenne dei Concili Ecumenici, salvo poi incasellarne i documenti in compiacenti generi letterari, i quali consentano di fargli dire ciò che si vuole dicano. Accetta anche, almeno in teoria, il magistero ordinario del Collegio episcopale disperso per il mondo, perché gli è sempre aperta la possibilità di metterne in dubbio la esistenza concreta su questo o quel punto di dottrina, o l’universalità o qualcuno degli altri requisiti essenziali.

Ma è il magistero del Romano Pontefice quello che dà ai nervi al progressismo. Sfido io: si tratta di un magistero vivo, personale, vicinissimo, dettagliato, non facilmente passibile di interessate esegesi, il cui autore è sempre pronto, se del caso, a smentire e a rettificare gli altrui arbìtri! Ecco spiegato perché il progressismo, quando non ha il coraggio di rifiutare il magistero pontificio, restringe la sua accettazione al solo magistero solenne, “ex cathedra”, garantito dal carisma dell’infallibilità. Esige, in definitiva, una cosa che renderebbe impossibile la vita normale della Chiesa, e renderebbe vuoto di senso il mandato, affidato da Cristo al solo Pietro, di pascere il gregge e di confermare la fede dei suoi fratelli: un ufficio che è, per natura sua, di tutti i giorni.
La definizione “ex cathedra” — procedimento che impegna lo Spirito Santo e, quindi, anche per rispetto verso Dio, dev’essere usato con estrema parsimonia e solo in casi di grave necessità — non può essere ragionevolmente pretesa per stabilire con sicurezza il dogma da credere e la morale da osservare. Se, per ubbidire al supremo Pastore della Chiesa, si dovesse in ogni caso attenderne l’esercizio del carisma dell’infallibilità, allora l’ubbidienza dovrebbe venir radiata non solo dall’ascesi cristiana, ma anche da ogni altro settore della vita umana.


Il progressismo fa finta di non accorgersi che, con la sua pretesa di accettare del Papa solo il magistero “ex cathedra”, taglia alla radice ogni motivo per accettare l’intero Vaticano II, il quale non contiene alcuna definizione infallibile. Se, dunque, fosse lecito ai progressisti rifiutare il magistero non infallibile del Papa, dovrebbe a pari essere lecito ad altri rifiutare in blocco il Vaticano II, di cui i progressisti si autoproclamano i custodi e gli interpreti! Sarebbe il caos nella Chiesa.
È tempo di ridire con pacatezza, ma con forza, che chi non accetta l’autorità del magistero ordinario del Romano Pontefice si mette da se stesso fuori della comunione ecclesiale.


A questo proposito, l’enciclica Humanae vitae è stata come la classica cartina di tornasole che, con le reazioni provocate, ha messo in evidenza alcuni degli errori dottrinali che soggiacciono alla crisi attuale: quelli p. e. sulla legge morale naturale, sui limiti del valore della coscienza individuale, sul vero concetto di libertà, sulla mondanizzazione del cristianesimo, sul vero significato del “sensus fidelium” nella vita della Chiesa, sul primato giurisdizionale e sul magistero personale del Romano Pontefice. Merita conto soffermarci sugli ultimi due punti.

Non starò a ricordare qui come il progressismo abbia tentato, ma grazie allo Spirito Santo invano, di fare del Vaticano II il “ridimensionamento” del Vaticano I, e più precisamente del primato giurisdizionale del Papa, servendosi a tale scopo della dottrina sull’infallibilità dell’intera Chiesa, e di quella sulla collegialità episcopale. Orbene, anche in occasione della Humanae vitae è riaffiorata quella inaccettabile interpretazione dell’infallibilità del Popolo di Dio, cui si è accennato a pag. 152-153.
Secondo certi progressisti, il Papa dovrebbe limitarsi a raccogliere e sancire ciò in cui tutta la comunità dei fedeli crede; quindi, più che confermare lui la fede dei fratelli, sarebbe lui a venir confermato nella fede dai fratelli!
E se, nel caso specifico, la maggioranza dell’opinione pubblica nella Chiesa fosse favorevole all’uso dei contraccettivi, quella sarebbe verità di Spirito Santo e il Papa non potrebbe decidere diversamente. In veste nuova è riscappata fuori quella teoria dell’infallibilità pontificia “inglobata nell’infallibilità dei fedeli” che era accolta in una famosa lettera pastorale di alcuni vescovi alla vigilia del Concilio, ma che papa Giovanni aveva disapprovato, facendo ritirare lo scritto dalle librerie cattoliche in Italia.


Sempre in occasione dell’Humanae vitae è tornata a galla quella interpretazione della collegialità episcopale, lesiva del primato del Romano Pontefice, perché nuova edizione del Conciliarismo, che la famosa Nota esplicativa previa aveva inteso estromettere dal testo conciliare. Non è, infatti, un mistero per nessuno che il testo del n. 22 della costituzione dogmatica Lumen gentium era stato elaborato da certi periti conciliari in maniera vaga, proprio col sottinteso scopo di poterci poi cavare, a Concilio finito, la cosiddetta collegialità papale (148), ossia la dottrina secondo cui “il Papa è obbligato in coscienza, naturalmente secondo la sua propria discrezione, a tenere in conto quanto più possibile l’episcopato mondiale”.

Oggi si viene a ripetere: “È stata definita, in qualche modo, la collegialità di tutti i vescovi col Papa, ma non ancora la collegialità del Papa con i vescovi”. Ci penserà il Vaticano III, dicono: ma, intanto, il progressismo ne sta preparando la strada.
La citata Nota esplicativa — guardata, ovviamente, dai progressisti come lo straccio rosso dal toro, e chiamata addirittura “l’affossamento della collegialità” — si è dimostrata veramente provvidenziale per la salvaguardia del primato pontificio e per il retto significato della collegialità episcopale, bloccando in partenza ogni velleità di “collegialità papale”.

[SM=g1740771] Ecco le parole della Nota: “Al giudizio del Sommo Pontefice cui è affidata a cura di tutto il gregge di Cristo, spetta, secondo le necessità della Chiesa, che variano nel corso dei secoli, determinare il modo col quale questa cura dev’essere attuata, se in modo personale ovvero in modo collegiale... Il Sommo Pontefice, in quanto Pastore supremo della Chiesa può esercitare la sua potestà in ogni tempo a suo piacimento, com’è richiesto dal suo stesso ufficio. Invece il Collegio, pur esistendo sempre, non per questo permanentemente agisce con azione strettamente collegiale, come consta dalla Tradizione della Chiesa. In altre parole: non sempre è in atto pieno, anzi, con atto strettamente collegiale non agisce se non ad intervalli, e non agisce se non col consenso del Capo” (149).


Nel concerto dell’opposizione all’Humanae vitae, più di qualche chierico ha fatto ricorso ad argomenti fondati, appunto, su un concetto di collegialità episcopale che è ben diverso da quello affermato dal Vaticano II, ed è lesivo del primato giurisdizionale del Papa.
È stato scritto, per esempio, da un notissimo teologo che “allorché Paolo VI pubblicò l’enciclica Humanae vitae, un documento destinato ad entrare nella storia della Chiesa, era evidente che quest’ultimo richiedeva da parte dei vescovi una collaborazione attiva, la quale dipende a sua volta dal dialogo dei vescovi coi loro fedeli”.
Un vescovo ha scritto che “nella Chiesa non si debbono risolvere questioni riguardanti la Chiesa universale da una istanza centrale, ma propriamente dal Collegio dell’episcopato mondiale”.
Altri cattolici vanno ancora più avanti; estendono il diritto della collegialità anche ai preti e a tutti i fedeli, concludendo: “Una decisione che tocca tutta la Chiesa non può essere presa senza consultare tutta la Chiesa”. “Il solo buon risultato che si intravede da questa non-enciclica è la revisione prossima dell’autorità pontificia”. “Bisogna ripensare l’infallibilità del Papa”. “Il Papa corre rischio d’essere isolato dai membri più vivi della Chiesa. Questo dilemma non si risolve insistendo sulla dottrina infallibile, quando il contenuto della dottrina non è accettato dalla totalità della Chiesa che deve consentirvi”.


Le citazioni progressiste potrebbero moltiplicarsi, ma tutte mirano ad accusare il Papa di lesa collegialità episcopale. Vorrei notare, tra il tanto che si potrebbe dire, che se il Papa avesse approvato l’uso dei contraccettivi, nessuno degli attuali contestatori dell’Humanae vitae lo avrebbe accusato di aver agito da solo in un problema riguardante tutt’intera la Chiesa. Nessuno dei medesimi contestatori avrebbe minimizzato il valore del documento argomentando dal suo carattere non infallibile. Nessuno avrebbe detto: non è un documento infallibile, dunque non dà la sicurezza della dottrina e della prassi!
Durante il lungo tempo impiegato dal Papa per riflettere, pregare e consultarsi nessuno ha sollevato eccezioni di questo genere, perché i progressisti si tenevano sicuri di un responso favorevole ai loro desiderata!
Soltanto dopo, a responso conosciuto, si è scatenata la vergognosa canea delle opposizioni!


In secondo luogo, faccio osservare che quando si ha la pretesa di obbligare, anche solo moralmente ed anche per una volta soltanto, il Papa ad agire in forma collegiale assieme all’episcopato mondiale, anzi ad ascoltare tutti i fedeli sotto pretesto che si tratta di questioni riguardanti la Chiesa universale (e cioè, praticamente, sempre) allora il primato giurisdizionale viene negato, o ridotto ad una burla.
Già lo si scrive a tutte lettere che “il centro di gravità dell’esercizio del Magistero deve essere trasferito da Roma verso le chiese locali e regionali: il magistero del Papa ha l’unica funzione di mantenere l’unità nella diversità”!

Ma, dato e non concesso che questa sia l’unica funzione del primato, mi si vuol dire come questa funzione potrà venir assolta, se si nega al Papa la potestà di decidere autorevolmente, e in ultima istanza, quale sia l’unica dottrina vera da credere?
Il mistero aumenta se si domanda ai progressisti: perché a Pietro, e a lui solo, sebbene in presenza degli altri, Gesù ha detto: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò... a te darò le chiavi del regno dei cieli... ho pregato per te, affinché la tua fede non venga mai meno, e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli... Mi ami tu più di costoro? pasci... pasci...”?

L’unica risposta logica non può essere che la seguente: Pietro era destinato a fare le veci di Gesù, occupando visibilmente il posto di Gesù in seno al collegio degli Apostoli ed in seno al gregge dell’intera Chiesa. Se invece, come è stato affermato da un vescovo, il governo ordinario della Chiesa universale deve spettare al Collegio episcopale, e al Papa soltanto quello straordinario; se, come ha detto un altro vescovo, il primato papale dev’essere individuato più precisamente nel contesto della collegialità, e non piuttosto viceversa; se “il posto del Papa in seno alla Chiesa — secondo la medesima fonte — deve essere determinato congiuntamente dal Papa e dai vescovi di tutto il mondo nello spirito del recente Concilio Vaticano” per me rimane un grossissimo mistero perché Gesù non abbia detto ai Dodici, con caritatevole chiarezza: “Voi siete i Dodici e su di voi edificherò la mia Chiesa... a voi darò le chiavi del regno dei cieli... ho pregato per voi, perché la vostra fede non venga mai meno, e voi, una volta ravveduti, confermate i vostri fedeli... Mi amate voi più degli altri discepoli? pascete ... pascete”.


Così, e non altrimenti, avrebbe dovuto parlare Gesù perché fosse vera l’interpretazione che della collegialità episcopale dà oggi il progressismo, misconoscendo che la sostanza del primato s’identifica col modo personale di esercitare la piena, suprema ed universale potestà nella Chiesa!

Concludo dicendo che, se si vuole superare la crisi, bisogna accettare lealmente anche il magistero ordinario del Romano Pontefice. Lo ha insegnato il Vaticano II: “Questo religioso ossequio della volontà e dell’intelletto lo si deve prestare in modo particolare al magistero autentico del Romano Pontefice anche quando egli non parla ex cathedra, così che il suo supremo magistero sia con riverenza accettato, e con sincerità si aderisca alle sentenze da lui date, secondo la mente e la volontà di lui manifestata, la quale si palesa specialmente sia dalla natura dei documenti, sia dalla frequenza con cui ripropone la medesima dottrina, sia dal tenore dell’espressione verbale” (150).

Chi non accetta il magistero ordinario del Papa deve avere la coerenza di non accettare, e di consentire che altri non accettino, anche il Vaticano II. I due magisteri, infatti, si collocano su un piano di perfetta parità, quanto a valore dogmatico e normativo. O si accettano entrambi, o entrambi si rifiutano. Aut simul stabunt, aut simul cadent!
Ecco il banco di prova dell’onestà dei progressisti: accettino, anche su questo punto, quel Concilio Vaticano II di cui si dichiarano gli artefici e i paladini!




[SM=g1740758]  Seguono le Note..........

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)