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È vero che i mali qui lamentati potrebbero dirsi endemici. Però essi si manifestano come i nodi di una rete la cui filatura avvolge ormai l’orbe cattolico, tanto quello di vecchio impianto quanto quello di recente impianto. Anche se, in superficie, essi appaiono sporadici e indipendenti tra di loro, ubbidiscono però ad una medesima sollecitazione di fondo, rispondono ad una medesima tematica dottrinale. I mezzi della comunicazione sociale penseranno poi a creare loro quella rapida e vasta cassa di risonanza, che li trasformerà ben presto in epidemici, cioè in mali o, quanto meno, in tentazioni di tutta la cattolicità.

È diventato uno slogan fin troppo frusto il richiamo al biblico saper leggere “i segni dei tempi”, nel senso di saper scoprire negli eventi della storia dell’uomo il valore di una realtà recondita. Tutti oggi pretendono di saperlo fare, e moltissimi lo fanno a senso unico. Ma per nessuna persona seria è questa un’operazione facile e sicura, perché “i segni dei tempi” sono assai spesso oscuri e polivalenti.

Gesù ammoniva che non tutti i segni metereologici annunziano bel tempo. Esistono anche quelli che annunziano tempesta: “Quando si fa sera voi dite: Vi è bel tempo, perché il cielo è rosso; e di mattina: Oggi tempesta, perché il cielo è rosso e sconvolto” (Mt. 16, 2). E, dunque, una teologia dei “segni dei tempi” che non tenesse conto anche di questi ultimi sarebbe viziata in partenza, perché unilaterale. La decisività “del tempo presente” (Lc. 12, 56), cioè dell’offerta del Regno di Dio fatta da Cristo, non consiste solo nel fatto consolante che l’uomo può accettarla, ma anche nel fatto desolante che l’uomo può rifiutarla. È una decisività che si ripropone ogni momento, durante tutto l’arco dell’éschaton messianico. Si ripropone oggi, così come quando S. Paolo preavvertiva il discepolo Timoteo: “Proclama la parola, insisti in ogni occasione, opportuna e importuna; convinci, riprendi, esorta con ogni longanimità e dottrina. Vi sarà infatti un tempo in cui non sopporteranno la sana dottrina, ma, secondo le loro proprie voglie, si sovraccaricheranno di maestri, per prurito d’udire, e storneranno l’udito dalla verità, e lo rivolgeranno ai miti” (2 Tim. 4, 2-4).

Leggere insieme e gli uni e gli altri “segni dei tempi” è saggezza, è sano realismo. Meglio ancora, è un dovere impreteribile della Chiesa perché sia gli uni sia gli altri portano significazione certissima di un qualche volere divino, ed esigono consentanei atteggiamenti.

Nei “segni” positivi si deve scoprire una positiva volontà di Dio che chiama la sua Chiesa ad assecondarli docilmente, ad attuarli generosamente, perché essi portano al bene. Nei “segni” negativi, invece, si deve scoprire una volontà divina soltanto permissiva. Si tratta, infatti, di mali che Dio permette, dai quali anzi Egli è capace di ricavare perfino un gran bene, ma, ciononostante, rimangono sempre degli autentici mali. La Chiesa, che è chiamata alla santità, per quanto sta in lei deve evitarli, contrastarli coraggiosamente e ridurne almeno le dannose conseguenze, perché è questa la positiva volontà di Dio: non è lecito fare il male perché ne venga il bene (cfr. Rom. 3, 8). Nonostante la denominazione di “segno dei tempi”, un male rimane male; un pericolo rimane pericolo; una tempesta, tempesta: cioè, occasione di possibili rovine.
Non ripugna né alla bontà né alla giustizia di Dio permettere per la sua Chiesa, che pur ama, epoche difficili, insuccessi, perdite anche gravi. Negli imperscrutabili disegni della sua Provvidenza, potrebbe permettere tutto ciò come stimolo esteriore alla purificazione e all’approfondimento della fede, come occasione di ricerca di soluzioni a reali difficoltà, come strumento per risvegliare nel suo popolo l’umiltà, per fargli toccare con mano la verità del “senza di me non potete fare nulla” (Giov. 15, 5), per abbattere quel fondamentale trionfalismo che si chiama orgoglio; strappargli più sincero il grido di implorazione: “Signore, salvaci, andiamo a fondo!” (Mt. 8, 25); buttare all’aria la presuntuosità dei nostri metodi, delle nostre organizzazioni, dei nostri aggiornamenti; infine, per richiamarci drasticamente al porro unum, cioè alla coscienza viva della sua infinita trascendenza e assolutezza, e della nostra assoluta dipendenza da Lui. Ma resta il fatto che una simile volontà permissiva di Dio è sempre, in se stessa, una grande tentazione per la nostra fragilità di uomini, ancorché Egli si sia impegnato a non lasciarci mancare il suo aiuto per superarla.

Senza dubbio, oggi esistono “segni” positivi per ritenere che, nonostante tutto, viviamo in un tempo di Spirito Santo. Il Concilio celebrato e in fase di attuazione ne è uno dei più rilevanti. Mediante il Concilio Dio chiama i cristiani anzitutto alla riforma interiore, a quella “metànoia” che è condizione impreteribile dell’avvento del suo Regno. È quanto mai attuale il programma tracciato da S. Paolo: “rinnovellatevi nello spirito della vostra mente e rivestitevi dell’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità” (Ef. 4, 23-24).

Più intensa vita di grazia, purificazione e approfondimento della fede, maggiore interiorizzazione del culto, carità verso il prossimo vicino e lontano, amore alla Croce, spirito di sacrificio, ubbidienza non solo al Dio invisibile ma anche ai suoi rappresentanti visibili, santità dei costumi morali: ecco le linee essenziali del genuino aggiornamento promesso e promosso dal Concilio, ecco i segni inequivocabili della vera crescita della Chiesa. Su queste linee l’impegno, l’entusiasmo, l’attesa dei cristiani non saranno mai troppi.
Provvidenzialmente il Concilio ha aperto nuove condizioni favorevoli alla diffusione del Regno di Dio. Infatti, mai come oggi le possibilità ecumeniche sono state serie e promettenti. Anche se il traguardo dell’unione dei cristiani non si è ancora dottrinalmente avvicinato di molto, però tanti e tanto inveterati ostacoli psicologici stanno rimuovendosi da entrambe le parti. Il diffuso sincero desiderio dell’unione non può che venire da Dio, se porta a cercarla nell’unica vera Chiesa del suo Figlio.

Anche i rapporti con le religioni non cristiane sono psicologicamente migliorati ad opera del Concilio.
Perfino il mondo profano, benché dominato per tanta parte dal laicismo e dal materialismo ateo, guarda tuttavia con attenzione insolita, talvolta con rispetto, al cattolicesimo. La voce della Chiesa sui maggiori problemi di attualità è ascoltata con interesse, anche se non sempre accettata. Anche il mondo della tecnica, a detta degli spiriti più aperti, con quel suo inconfessato bisogno di ricevere un’anima, proprio per sfuggire al timore dell’autodistruzione, offre al cattolicesimo una magnifica occasione di presenza operante. Oggi, assai più di ieri, si discutono a largo raggio — e non solo tra gli “addetti ai lavori” — i problemi della religione in genere e della Chiesa in particolare, sebbene certi modi di discussione non possano non destare preoccupazioni.
Resta, comunque, che l’evento conciliare ha smussato pregiudizi, ha aperto nuove possibilità di colloqui che la grazia di Dio è capace di rendere, quando lo voglia, salvifici.


Nel mondo attuale meritano di essere ricordati anche altri elementi positivi che potremmo chiamare, in certo qual modo, i remoti battistrada del Regno di Dio. Per esempio: una più acuta consapevolezza della dignità e libertà della persona umana, un maggior rispetto della coscienza individuale, un più vivido senso della dimensione comunitaria a tutti i livelli. Specialmente nelle giovani generazioni, al di là di forme di contestazione incomposte e pertanto inaccettabili, è pur doveroso avvertire come “segni “positivi dei tempi nuovi una sofferta esigenza di autenticità, di sincerità, di giustizia, di ideali per cui valga la pena di vivere e di operare; un’ansia di essenzialità, con rifiuto di ogni artificio e orpello; il prevalere della ragione sul sentimento, della funzionalità sul mero estetismo. Ugualmente positiva è da dirsi la nuova sottolineatura secondo cui, nelle società di vario tipo, si concepisce e si esercita da una parte l’autorità come servizio, e dall’altra l’ubbidienza come assunzione di responsabilità.

Eppure, se non ci si lascia far velo dall’ottimismo ad oltranza, è giocoforza ammettere per chiari segni che questo tempo di postconcilio è, per la Chiesa cattolica, anche il tempo del “simius Dei”, come Tertulliano chiamava Satana.
Almeno per chi ci crede ancora all’esistenza e all’attività di questo avversario numero uno di Dio e dell’uomo! Come Dio è verità (cfr. Giov. 14, 6), così Satana è il padre della menzogna (cfr. Giov. 8, 45). Il suo mestiere è quello di far apparire bene il male e male il bene, luce le tenebre e tenebre la luce; e tanto più efficacemente egli lavorerà, quanto più facilmente persuaderà gli uomini della sua stessa... inesistenza (Beaudelaire)! Fate del diavolo un mito (e tanti chierici moderni stanno facendolo!) e vi rimarrà enigma insolubile l’attuale trovarsi della Chiesa “in un’ora di inquietudine, di autocritica, si direbbe perfino di autodemolizione... che nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio” (Paolo VI). Un tale cataclisma non può essere, evidentemente, da Dio.

Un Concilio non può essere, di per sé, che seminagione di bene. E allora, alla domanda trepidante: “Signore, non hai seminato buon seme nel tuo campo? Da che cosa proviene dunque la zizzania?” non si trova altra risposta plausibile che quella data nella parabola del Regno: “Un nemico ha fatto ciò [...] il nemico che l’ha seminata è il diavolo” (Mt. 13, 27.39).


Satana tentò Gesù nel deserto non tanto circa le tre concupiscenze classiche della natura umana, quanto piuttosto circa il contenuto del suo messianismo. Anche la Chiesa, corpo mistico di Cristo, è oggi alla sua tentazione decisiva: conservare o stravolgere il contenuto della sua natura e della sua missione nel mondo? Gesù, tentato, vinse per sé e vinse anche per la sua Chiesa: nel senso, non già di risparmiarle la grande prova, ma di indicarle e meritarle i mezzi per superarla!

Ci si consola, talvolta, osservando che non è soltanto la Chiesa cattolica ad attraversare una crisi. Anche le altre Chiese cristiane separate da Roma non sono da meno. Anzi, è tutta l’umanità che versa nel travaglio, trascinata nel vortice di profonde e repentine trasformazioni.

Innegabilmente, anche per “la città dell’uomo” i “segni dei tempi” oggi si presentano ambivalenti: indicano insieme sereno e tempesta. Basti qui ricordare qualcuna di quelle coesistenti antinomie, tensioni e squilibri di cui ha parlato magistralmente la Costituzione conciliare Gaudium et spes, nn. 4-10: progresso scientifico e tecnico spettacolare, accanto ad un regresso non meno spettacolare del senso religioso e morale; elevazione vertiginosa del tenore di vita di taluni paesi o di talune classi sociali, accanto alla miseria economica e all’arretratezza culturale di altri paesi o di altre classi sociali; acuita coscienza della dignità e libertà della persona umana, accanto a forme vecchie e nuove di schiavitù e degradazione; proclamazioni solennissime e universali sulla forza del diritto, accanto all’esercizio incontrastato, sotto etichette di vecchio e di nuovo stampo, del diritto della forza.

Certi aspetti della sua crisi “la città di Dio” li subisce, per contraccolpo, dalla crisi della “città dell’uomo”. È inevitabile. Formata di uomini e non di angeli, la Chiesa che vive e si edifica sulla terra benché abbia origine e destinazione celeste, sarebbe un inutile miracolo se non risentisse l’influsso dell’ambiente terrestre. Può darsi, invece, che certi altri aspetti della crisi della “città dell’uomo” risentano della crisi della “città di Dio” : sarà compito della storiografia accertarlo.




[SM=g1740758]  continua..........
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)