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[SM=g1740771] Venerdì

In questo giorno mediterai sulle pene dell'inferno per rafforzare con questa meditazione la tua anima nel timore di Dio e nell'odio del peccato.

Queste pene, dice san Bonaventura, debbono essere immaginate con raffigurazioni e analogie fisiche, come ci hanno insegnato i santi. Per la qual cosa, sarà opportuno immaginare il luogo dell'inferno (come dice egli stesso) come un lago oscuro e tenebroso posto sotto terra o come un pozzo profondissimo pieno di fuoco o come una città spaventosa e tenebrosa che arde tutta di vive fiamme, nella quale non si sente altro suono che le voci e i gemiti di tormentati e tormentatori e con perpetuo pianto e strider di denti.

In questo sciagurato luogo poi si patiscono principalmente due pene, una di senso e una di danno. Quanto alla prima, pensa come non ci sarà lì alcun senso né dentro né fuori dell'anima che non stia penando con un suo proprio tormento perché, dato che i malvagi offesero Dio con tutte le loro membra e sensi e di tutti fecero arma per servire il peccato, così ciascuno soffrirà con un proprio tormento e sconterà quanto avrà meritato. Così gli occhi adulteri e disonesti pagheranno con la visione orribile del peccato, così le orecchie che si prestarono ad ascoltare menzogne e parole turpi udranno perpetue bestemmie e gemiti. Così le narici avide di profumi e odori sensuali saranno piene di intollerabile fetore. Così il gusto che si compiaceva di raffinati cibi e golosità sarà tormentato da sete e fame rabbiosa.
Così la lingua calunniatrice e blasfema sarà amareggiata dal fiele. Così il tatto amante di raffinate mollezze andrà nuotando in quelle gelate, dice Giobbe, del fiume Cocito e tra gli ardori e le fiamme del fuoco.
Così l'immaginazione patirà con l'impressione dei dolori presenti, la memoria col ricordo dei piaceri passati, l'intelletto con la prefigurazione dei mali futuri e la volontà con la grandissima ira e rabbia, che i malvagi proveranno contro Dio.
Infine, lì si troveranno uniti tutti i mali e i tormenti che si possono pensare, perché, come dice san Gregorio, ci sarà freddo che non si può sopportare, fuoco che non si può spegnere, tarli invincibili, fetore intollerabile, tenebre dense, percosse di torturatori, visioni di demoni, confusione di peccato e disperazione di ogni bene (Lib. 9, Maral, 46).

Dal momento che se si dovesse patire qui anche il più piccolo di tutti questi mali, per un breve spazio di tempo, ciò sarebbe impossibile da sopportare, dimmi, che cosa sarà lì patire nello stesso tempo tutta questa moltitudine di mali in tutte le membra e in tutti i sensi interni ed esterni e ciò non per lo spazio di una notte sola ne’ di mille, bensì per un'infinita eternità? Quali sensi, quali parole, quale giudizio c'è nel mondo che possano valutare tutto questo?

Eppure non è questa la maggiore delle pene che lì si debbono soffrire; ce n'è una senza paragone più grave, che è quella che i teologi chiamano pena di danno, che consiste nell'essere privi per sempre della vista di Dio e della sua gloriosa compagnia, perché tanto più grave è una pena quanto priva l'uomo di un bene più grande e, poiché Dio è il più grande dei beni, mancare di lui, sarà certamente il maggiore dei mali.

Queste sono le pene che generalmente toccano a tutti i condannati. Oltre a queste pene generali, ci sono quelle particolari che ciascuno patirà in rapporto alla qualità del suo delitto.
Una sarà infatti la pena del superbo, una quella dell'invidioso, una quella dell'avaro, una quella del lussurioso e così per tutti gli altri. La pena sarà in proporzione al diletto ricavato dalla colpa e la mortificazione adeguata alla superbia, la indigenza alla sfrenata opulenza e la fame e la sete alla dovizia e alla sazietà godute.
A tutte queste pene si aggiunge l'eternità della sofferenza che ne è come il marchio e la chiave.

Tutto questo infatti sarebbe anche tollerabile se avesse un fine, dal momento che nessuna cosa, se ha un fine, è insopportabile.
Ma la sofferenza, che non ha fine né sollievo, né declino né diminuzione, né speranza che possa mai cessare, né che muti colui che la da e colui che la soffre, è come un esilio irrevocabile, come un cilicio obbligato che non si può mai togliere; è cosa da levar di senno colui che ci riflette attentamente.

Questa è dunque la più grande delle pene che in quel luogo sventurato si patiscono. Se queste pene infatti dovessero durare per qualche tempo determinato fosse pure di mille o di centomila anni, o come dice un dottore della Chiesa, se ci fosse da attendere che cessassero quando fosse esaurita tutta l'acqua dell'oceano traendone via una goccia ogni mille anni, persino queste sarebbe un momento di conforto.
Ma non è così, perché le loro pene corrispondono all’eternità di Dio e la durata della loro sventura alla durata della sua divina gloria; finché Dio vivrà, essi saranno morti, quando Dio cessasse di essere ciò che è, essi cesserebbero di essere ciò che sono. Su questa durata, fratello mio, vorrei che fissassi la tua considerazione e che riflettessi, su questo passo, ripetendo le parole del Vangelo in cui si proclama quella eterna verità: Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno (Mt 24, 35).



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)