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DIFENDERE LA VERA FEDE

Pubblicazioni ufficiali del Maestro mons. Guido Marini Cerimoniere Pontificio

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    Caterina63
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    00 04/11/2012 14:30
    [SM=g1740758]Ricordandovi il primo thread - cliccate qui - nel quale abbiamo pubblicato altri interventi di mons. Guido Marini a riguardo della Liturgia, vi proponiamo ora quanto viene riportato integralmente dal sito ufficiale della Santa Sede affinchè ciò diventi il nostro UNIVERSALE sentire e parlare....

    mons Guido Marini


    • "Mi encuentro con el corazón de la fe de México": intervista concessa da Mons. Guido Marini a Rosa Maria Ordaz, corrispondente dell'Arcidiocesi di León (aprile 2012)
      [Spagnolo]

    [SM=g1740771]


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 04/11/2012 14:34
    mons Guido Marini




    Mons. MARINI GUIDO, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie

     

    Cerimonieri Pontifici

    Mons.              Camaldo Francesco
    " Krajewski Konrad
    " Stefanetti Pier Enrico
    " Sanchirico Stefano
    " Ravelli Diego Giovanni
    " Karcher Guillermo Javier
    " Agostini Marco
    " Kwambamba Masi Jean-Pierre
    "  Cihak John Richard
    "  Gillespie Kevin
    "  Boiardi Massimiliano Matteo, F.S.C.B.
    " Peroni Vincenzo

     


    Officiali

    Mons.  Krajewski Konrad
    "  Peroni Vincenzo
    Rev.  Dubina Ján
    Rev.da Sr. Morigi Maria Pia, P.D.D.M.
    " Sr. Laureti Maria Priscilla, M.D.R.
    Sig. Passeri Giuseppe

     
    Addetti alla Sagrestia Pontificia

    Rev.                P. Paolo Benedik, O.S.A., Custode del Sacrario Apostolico
    " Fr. Tocto Oblitas Einer, O.S.A.
    " P. Daleng Edward, O.S.A.

     
    Consultori

    Rev.             Bux Nicola
    "  Gagliardi Mauro
    "  Silvestre Valór Juan José
    " P. Lang Uwe Michael, C.O.
    " P. Gunter Paul, O.S.B.

    * * *

    Organisti per le Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice  

    Sig.             Goettsche James Edward
    " Juan Paradell

     

     

    Gli uffici sono in 00120 Città del Vaticano, Palazzo Apostolico Vaticano (tel. 06.69.88.32.53; 06.69.88.52.64; fax 06.69.88.54.12).

    Mons. Maestro è domiciliato in 00120 Città del Vaticano.



    [SM=g1740771]

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 04/11/2012 14:38
    mons Guido Marini e Benedetto XVI


    Insegnamenti sulla liturgia del Santo Padre Benedetto XVI
    e APPROFONDIMENTI
    sul come DOBBIAMO celebrare la Liturgia anche nelle Parrocchie....

     

             

    [SM=g1740771]


    [Modificato da Caterina63 05/11/2012 09:52]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    Caterina63
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    00 05/02/2013 11:09
    [SM=g1740733] .... è gustoso vedere anche come nell'imprevisto, mons. Guido Marini è un attentissimo "Cooperatore Veritatis" [SM=g1740721]

    www.gloria.tv/?media=394677








    [SM=g1740738]




    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 21/02/2013 17:12




    UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE 
    DEL SOMMO PONTEFICE  

     

    Il fanone papale

    Il fanone papale

    Il fanone (dal latino fano, panno) è un ornamento liturgico specifico del Romano Pontefice. Alcuni lo fanno derivare dall’amitto, altri dal manipolo, altri ancora ritengono che derivi dall’ ephod ebraico. E’ costituito di una doppia mozzetta a forma circolare. Le sue due parti, prima unite tra loro, furono separate da Pio X (1903-1914) per maggiore praticità. E’ tessuto con sottilissima seta a strisce perpendicolari di colore rosso, bianco, giallo-oro e amaranto.

    Lo si indossa ponendo la parte inferiore sull’alba, dopo la croce pettorale e prima della stola, facendo ricadere la parte superiore, sulla quale è ricamata una croce raggiata, sopra la pianeta o la casula. Probabilmente, in origine, non è che l’anagolagium di cui parla il I Ordo Romanus (n. 34), allora comune anche agli altri chierici[1]. Restò di pertinenza esclusiva del Pontefice tra il sec. X e XII: tale era già al tempo di Innocenzo III (1206)[2], che ne parla in questo senso. Anche nei famosi Ordines Romani numero XIII (s. XIII) e XIV (prima metà del XIV) si parla del fanone. Circa la sua forma più antica non si hanno informazioni sicure; sembra che fino al sec.XV avesse piuttosto la forma quadrangolare.

    Nell’Ordo XIII troviamo il fanone tra i paramenti e le vesti adoperate dal neo eletto Romano Pontefice: “Dum electus in papam presbyter fuerit consecrandus, talis ordo debet servari. Primo idem electus dicit Psalmum Quam amabilia, etc., calcabitur sandaliis et caligis, et lotis manibus induetur omni ornamento suo, scilicet primo alma, cingulo, cum subcinctorio, postea pectorale, demum fanone, postea stola, deinde tunicella, et postea dalmatica. Subsequenter recipit chirotechas, et demum casulam et mitram in capite sine pallio et annulo pastorali, quae postea recipiet in loco suo; et vestimenta erunt coloris tempori convenientis” (Ordo Romanus XIII vel Caeremoniale Romanum editum iussu Gregorii X, PL 78, 1108). Nell’ Ordo XIV si parla dell’uso del fanone nella lavanda dei piedi[3] e quando il Pontefice pranzava in pubblico[4]. Vi è notizia che sia Clemente IV (+ 1268) che Bonifacio VIII (+ 1303) siano stati sepolti con il fanone sul capo (cf. S. PICCOLO PACI, Storia delle vesti liturgiche, Ed. Ancora, Milano 2008, 352).

    E' stato abitualmente indossato dai Pontefici fino a Giovanni Paolo II. Benedetto XVI ha inteso conservare l’uso di questa semplice veste liturgica, che nel corso dei secoli si è arricchita di un significativo valore simbolico: lo scudo della fede che protegge la Chiesa. In questa lettura simbolica, le fasce verticali di colore oro e argento esprimerebbero l’unità e l’indissolubilità della Chiesa latina e orientale, che poggiano sulle spalle del Successore di Pietro. A volte si afferma che il fanone rappresentasse lo scudo della fede che protegge la Chiesa cattolica.  
     
    [1] Cf. M. RIGHETTI, Storia liturgicaI, Ed. Ancora, Milano 1964, 592.

    [2] “Dopo l’alba e il cingolo il pontefice Romano mette l’orale, che avvolge intorno al capo e ripiega sulle spalle seguendo l’ordine del pontefice della Legge, che dopo la cordicella stretta e la fascia metteva l’ephod, cioè il sovra omerale, al cui, al cui posto oggi abbiamo l’amitto” (Innocenzo III, Il sacrosanto mistero dell’altare (De sacro altaris mysterio), cap. 53)

    [3] LXXXIV De Mandato fiendo in die Jovis sancto rubrica: “Missa igitur solemniter peracta, indutus pontifex, sicun cantavit, ascendit ad palatium, comitantibus eum tam episcopis quam presbyteris et diaconibus, omnibus peractis secundum ordinem suum. Pontifex vero ingreditur basilicam sancti Laurentii de Palatio, vel capellam sancti Martini, si est ad sanctum Petrum; et exuit planetam, et assumi sibi mantum in scapulis; impositio super caput suum fanonem cum mitra facit Mandatum, duodecim subdiaconibus rochetum cum superpelliceo portantibus (Ordo Romanus XIV vel Ordinarium S.R.E. auctore, ut videtur, Jacobo Caietano cardinale, PL 78, 1207). (prima metà s. XIV)

    [4] XLIII. De solemnitatibus, indumentis et paramentis domini papae, et cardinalium, et praelatorum, quae fiunt in mensa.  (...) Et attende quod dominus papa, dum est in mensa, est indutus omnibus paramentis missalibus, exceptis casula, pallio et chirothecis; et tenebit mantum ad scapulas, et fanonem in capite cum mitra desuper...” (Ordo Romanus XIV vel Ordinarium S.R.E. auctore, ut videtur, Jacobo Caietano cardinale, PL 78, 1139). (prima metà s. XIV)

    ***************************

    UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
    DEL SOMMO PONTEFICE
     

     

     

     

    INTERVISTA PER “AVVENIRE”

     

    Gianni Cardinale a mons. Maestro delle Cerimonie Liturgiche del Pontefice, Guido Marini

     

    24 dicembre 2011 

     

     

     

    Monsignore eccoci al Tempo di Natale. Ci sono novità quest’anno nelle celebrazioni di Papa Benedetto?

     

    Non direi. E la cosa non deve stupire. E’ bene, infatti, ricordare che ciò che rende “grande” la liturgia non è l’invenzione continua di qualche cosa di nuovo da parte nostra, singoli o comunità. Il “Nuovo” vero che rinnova la vita è il mistero di Cristo, che nella liturgia viene celebrato e ripresentato. A noi è richiesta soprattutto una partecipazione sempre più viva, reale, esistenziale. Nuovi e rinnovati nel cuore e nella vita dobbiamo essere noi, per la grazia di Cristo. Aggiungo: la ripetitività dell’atto liturgico, nella sua oggettività, è una grazia del tutto speciale perché ci ricorda la fedeltà di Dio alla sua promessa di amore e ci consente, nel corso del tempo, un’adesione sempre maggiore alla vita divina che ci viene donata.

     

    Si comincia quindi con la Santa Messa della Notte del 24, che viene preceduta dal canto della Kalenda, qual è il significato di questo rito?

     

    Anzitutto, quest’anno la Santa Messa sarà preceduta dalla preghiera dell’Ufficio delle Letture, così come suggerisce e consiglia il Messale Romano, con inizio alle ore 21. Conclusa la preghiera dell’Ufficio, prima dell’inizio della Messa è previsto il canto della Kalenda, come ormai è consuetudine da alcuni anni. E’ il solenne annuncio del Natale. In quel canto il ricordo di alcuni avvenimenti della storia della salvezza consente di entrare nella grande attesa del Salvatore che ha caratterizzato universalmente la vita dei popoli. L’annuncio gioioso della nascita di Cristo compie il cammino spirituale del tempo di Avvento e, in esso, risponde all’invocazione che dalla terra sale verso il Cielo. Al termine della Kalenda, un diacono provvederà a svelare la statua di Gesù Bambino, collocata, come di consueto, davanti all’altare della Confessione.

     

    Il 31 dicembre c’è il Te Deum, qual è il senso di questa celebrazione?

     

    Al termine di un nuovo anno, la Chiesa si rivolge al suo Signore per adorarlo, rendergli grazie, lodarlo, domandare perdono e invocarne la benedizione. E’ questo il senso caratteristico del canto del “Te Deum”, inserito nel contesto di una celebrazione liturgica, quale quella dei Vespri, e accompagnato dall’adorazione e dalla benedizione eucaristica. E’ il canto della Chiesa Sposa che si rivolge al suo Sposo per esaltarne la bellezza e il primato, invocarne la presenza e l’aiuto, riconoscerne l’opera provvidente e salvatrice. Ritengo che proprio l’atto dell’adorazione sia particolarmente indicato per una celebrazione il cui significato primario sta nel rivolgere lo sguardo al Signore della storia passata e futura, nel segno della gratitudine e della speranza.

     

    Il 1° gennaio il Papa celebra la messa per la giornata mondiale della pace, una “novità” introdotta 45 anni fa…

     

    E’ ormai da 45 anni che alla grande solennità della SS. Madre di Dio, la principale tra le festività mariane dell’anno liturgico, è associata la Giornata mondiale della pace. I cristiani sanno bene che la pace non è il risultato degli sforzi, pur generosi, degli uomini. Non vi può essere pace dove non venga riconosciuto il diritto di Dio, dove non trovi accoglienza il Signore Gesù, che è il Principe della pace. In questo giorno la Chiesa invoca dal Cielo il dono della pace. E lo fa guardando a Maria e affidando a Lei, che è Madre del Signore della pace, la propria preghiera. Anche per questo motivo, in San Pietro, la celebrazione della Messa sarà preceduta dalla preghiera del Rosario.

     

    Il 6 gennaio Benedetto XVI celebra la solennità dell’epifania, con anche l’ordinazione episcopale di due nuovi nunzi…

     

    Il Santo Padre ordinerà vescovi due Prelati che sono stati di recente nominati nunzi, in Irlanda e in Georgia e Armenia. Il fatto che l’ordinazione avvenga nella solennità dell’Epifania non distoglie certo dal mistero celebrato dalla Chiesa. E’, anzi, molto significativo che nel giorno della manifestazione di Dio ai Magi, alla Chiesa sia fatto dono di alcuni vescovi, coloro che hanno per primi il mandato di “manifestare” il Signore fino ai confini della terra.

     

    La domenica 8 gennaio è prevista la Festa del Battesimo del Signore, quando amministrerà il sacramento ad alcuni bambini. Una curiosità, se lecito, chi saranno quest’anno i piccini fortunati?

     

    Come ormai avviene da tanti anni, i bambini che riceveranno il dono del Battesimo dal Santo Padre sono tutti figli di dipendenti della Santa Sede, nati nell’anno tra settembre e dicembre.

     

    Nelle liturgie di quest’anno è previsto l’uso di vesti e ornamenti liturgici particolari?

     

    Il criterio nella scelta e nell’uso di vesti e ornamenti liturgici rimane quello degli anni passati: un sereno equilibrio tra antico e nuovo. Anche questo serve a esprimere la verità fondamentale per la quale la Chiesa è un soggetto vivente che conosce uno sviluppo armonico, senza fratture, lungo la storia. La liturgia non può che partecipare di un tale sviluppo ancorato alla propria grande Tradizione. Senza dimenticare, tornando agli abiti e agli ornamenti, la chiara indicazione del Concilio Vaticano II che raccomanda la nobile bellezza.




    [Modificato da Caterina63 21/03/2013 11:23]
    Fraternamente CaterinaLD

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    00 21/02/2013 17:15

    UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
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    Il nuovo ambone artistico
    per le celebrazioni papali nella Basilica di San Pietro

    In occasione del suo 60° anniversario di Ordinazione Sacerdotale (29 giugno 2011), il Santo Padre ha ricevuto l’omaggio di un nuovo ambone, per le celebrazioni liturgiche da lui presiedute nella Basilica di San Pietro.

    Lo stesso ambone è stato inaugurato in occasione della solennità di Pentecoste (12 giugno 2011), nella Celebrazione Eucaristica presieduta dal Santo Padre nella Basilica di San Pietro.

    L’ambone è intarsiato in noce e in avorio. Vi hanno lavorato due artisti, Werner e Johannes Petzuch, provenienti dalla Baviera.

    Sui tre lati dell’ambone sono realizzati tre rilievi. Sul lato destro è raffigurato San Pietro, sul lato sinistro San Paolo e sulla parte curvata anteriore la scena dell’Annunciazione. In questo ultimo rilievo, tra l’Arcangelo Gabriele e la Vergine Maria, sono visibili Adamo ed Eva, in quanto l’umiltà di Maria, unitamente all’obbedienza amorosa del suo divin Figlio, doveva riparare l’orgogliosa ribellione dei nostri progenitori. Tutti e tre i rilievi sono stati scolpiti in legno di tiglio. L’artista, Georg Bergmeister, è di Ortisei in Val Gardena.

    I tre rilievi sono stati dorati dal maestro Joseph Mittelbock, proveniente da un paese vicino a Passau, in Germania.

    La ringhiera in ferro battuto, per i due gradini che consentono l’accesso all’ambone, è stata realizzata dal fabbro Gregor Peschetz ed è stata dorata dalla Ditta Hatec di Plassing, presso Passau.

     
    [SM=g1740771]

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    L’uso del pallio

     

    Fra le insegne liturgiche del Sommo Pontefice, uno dei più evocativi è il pallio fatto di lana bianca, simbolo del vescovo come buon pastore e, insieme, dell’Agnello crocifisso per la salvezza dell’umanità. Come ha accennato Papa Benedetto XVI nell’Omelia nella Santa Messa per l’inizio del ministero petrino il 24 aprile 2005: “... la lana d’agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole, che il pastore mette sulle sue spalle e conduce alle acque della vita”. 

    Le prime notizie storiche sul pallio emergono dall’antichità cristiana. Il Liber pontificalis nota che Papa San Marco († 336) conferì il pallio al vescovo suburbicario di Ostia, uno dei consacratori del Romano Pontefice. Anche se non possiamo essere sicuri del valore storico di questa informazione, per lo meno riflette la prassi del V o VI secolo, quando il Liber pontificalis fu compilato nell’ambito della Curia Romana. 

    Nel 513 Papa Simmaco concesse il privilegio del pallio a S. Cesario d’Arles e in seguito si moltiplicarono le concessioni del pallio, fatte dai Pontefici a vescovi d’Italia e fuori d’Italia. Nelle altre chiese d’Occidente non si evidenziava l’insegno del pallio, se non era stato concesso ai vescovi dal Romano Pontefice.  

    Il pallio è il simbolo di un legame speciale con il Papa ed esprime inoltre la potestà che, in comunione con la Chiesa di Roma, il metropolita acquista di diritto nella propria giurisdizione. Secondo il diritto canonico (CIC can. 437), un metropolita deve chiedere il pallio entro tre mesi dalla sua nomina ed è autorizzato ad indossarlo solo nel territorio della propria diocesi e nelle altre diocesi della sua provincia ecclesiastica.  

    L’omoforio, come paramento liturgico usato dai vescovi ortodossi e dai vescovi cattolici orientali di rito bizantino, consiste di una fascia di stoffa larga, incurvata al centro così da poterla far girare dietro il collo e appoggiarla alle spalle facendo scendere le estremità sul petto. Nella tradizione orientale, il “grande omoforio” (da distinguere dalla forma più piccola, che è portata dai vescovi in certe occasioni e assomiglia l’epitrachelion che corrisponde alla stola occidentale) ha subito un certo sviluppo e oggi è più largo e adornato nella forma. A differenza del pallio, l’omoforio non è riservato agli arcivescovi metropoliti, ma può essere indossato da tutti i vescovi.

     

    Il pallio papale

    Il pallio liturgico nelle rappresentazioni più antiche appare in forma di sciarpa aperta e disposta sopra le spalle. In tal modo lo vediamo nella figura dell’arcivescovo Massimiano (498-556) a S. Vitale in Ravenna (prima metà del VI secolo). Un lembo del pallio segnato da una croce pende anteriormente sul lato sinistro della figura, mentre l’altro lembo sale sulla spalla sinistra, gira attorno al collo e, passando sulla spalla destra, scende assai basso dinanzi al petto, per tornare infine sulla spalla sinistra e ricadere dietro la schiena.

    Questa maniera di portare il pallio si mantenne fino all’alto medioevo, quando, mediante le spille, si cominciò a far in modo che i due capi pendessero esattamente nel mezzo del petto e del dorso. Sostituendo le spille con una cucitura fissa, si arriva alla forma circolare chiusa, che s’incontra comunemente dopo il IX secolo, come si vede nelle rappresentazioni in varie basiliche romane (Santa Maria Antiqua, Santa Maria in Trastevere, San Clemente). I due capi del pallio però mantennero sempre una considerevole lunghezza, finché, dopo il XV secolo, erano progressivamente accorciati.

    L’ornamentazione del pallio, che si trova illustrata già sul mosaico di Ravenna, venne in seguito sempre più arricchita. Si ricamarono quattro, sei od otto croci rosse o nere; all’orlo furono talvolta attaccate delle frange. Nella forma sviluppata del pallio gli estremi lembi delle appendici terminano con piccole lastrine di piombo coperte di seta nera. Le tre spille gemmate, che in origine servivano a tenere il pallio fermo a suo posto, erano diventate già nel XIII secolo un elemento semplicemente decorativo.

    Il pallio lungo e incrociato sulla spalla sinistra non è stato più indossato dal papa e dai vescovi in Occidente dopo l’epoca carolingia. Sembrerebbe che già nel medioevo si trovasse una consapevolezza di questo sviluppo storico: un’illustrazione di un manoscritto del secolo XI mostra san Gregorio Magno, che indossa il pallio nella forma contemporanea con i capi pendenti in mezzo, e l’Apostolo Pietro che lo indossa nello stile antico sulla spalla sinistra (Montecassino, Biblioteca dell’Abbazia, 73 DD). Quindi, il noto dipinto presente nel Sacro Speco di Subiaco, risalente al 1219 circa e raffigurante Papa Innocenzo III con il tipo antico di pallio, pare un “arcaismo” cosciente.

    Dopo aver usato per sé un pallio più lungo e incrociato sulla spalla sinistra, Benedetto XVI ha ripreso, a partire della solennità dei santi Pietro e Paolo 2008, la forma del pallio usato fino Giovanni Paolo II, sebbene con foggia più larga e più lunga, e con il colore rosso delle croci. L’uso di questa forma del pallio intende sottolineare maggiormente il continuo sviluppo che nell’arco di oltre dodici secoli questa veste liturgica ha conosciuto.

    Il pallio degli arcivescovi metropoliti, nella sua forma presente, è una stretta fascia di stoffa, di circa cinque centimetri, tessuta in lana bianca, incurvata al centro così da poterlo appoggiare alle spalle sopra la pianeta o casula e con due lembi neri pendenti davanti e dietro, così che – vista sia davanti che dietro – il paramento ricordi la lettera “Y”. È decorato con sei croci nere di seta, una su ogni coda e quattro sull’incurvatura, ed è guarnito, davanti e dietro, con tre spille d’oro e gioielli (acicula). La differente forma del pallio papale rispetto a quello dei metropoliti mette in risalto la diversità di giurisdizione che dal pallio è significata.

     






    Fraternamente CaterinaLD

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    00 21/02/2013 17:17

    UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE 
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    LA FERULA 

    Il pastorale come insegna liturgica dei vescovi e degli abati risale al settimo secolo in alcune fonti spagnole, anche se il suo uso poteva essere forse più antico. Pare che il pastorale come simbolo dell’autorità episcopale sia passato dalla penisola iberica all’Inghilterra, alla Gallia e alla Germania. Comunque, dalle descrizioni della solenne messa papale negli Ordines Romani non emerge il suo uso. Anche le raffigurazioni dei papi confermano che il pastorale vescovile non faceva parte delle insegne del papa, perché non lo si vede in nessun monumento iconografico eseguito a Roma. Perciò, Innocenzo III († 1216) scrive nel suo De sacro altaris mysterio (I,62): “Romanus Pontifex pastorali virga non utitur”.

    La ragione di questo costume risiede forse nel fatto che il pastorale era un simbolo di investitura del neo-eletto vescovo da parte del metropolita o di un altro vescovo (cerimonia che dal periodo carolingio fino all’epoca della lotta per le investiture era fatto proprio sempre di più dai regnanti secolari). Il papa invece non riceveva l’investitura da un altro vescovo, come accennò Bernardo Botono da Parma (†1263) nella Glossa ordinaria dei Decretali di Gregorio IX (I,15): Il papa riceve il suo potere da Dio solo. San Tommaso d’Aquino fa un ulteriore ragionamento, quando commenta che “Romanus pontifex non utitur baculoetiam in signum quod non habet coarctatam potestatem, quod curvatio baculi significat” (Super Sent., lib. 4 d. 24 q. 3 a. 3 ad 8), riferendosialla forma ormai comune del bastone storto alla cima, come un segno della cura pastorale e della giurisdizione.

    Dall’alto medioevo, se non prima, i papi si servirono della ferula pontificalis come insegna indicante la loro potestà temporale. La forma della ferula non è ben conosciuta. Probabilmente era un bastone che portava al suo vertice una croce. Nel medioevo al papa, quando dopo la sua elezione prendeva di possesso della Basilica Lateranense, era presentata la ferula dal priore di S. Lorenzo al Laterano (cioè dal Sancta Sanctorum) come “signum regiminis et correctionis”, cioè come simbolo di governo che include la punizione e la penitenza. La presentazione della ferula fu un atto importante, ma non avevo lo stesso significato dell’imposizione del pallio nella coronazione del papa. Infatti, non era più osservata almeno dall’inizio del cinquecento.

    L’uso della ferula non ha mai fatto parte della liturgia papale, tranne in alcune occasioni come l’apertura della porta santa e le consacrazioni delle chiese, nelle quali il papa prendeva la ferula per bussare per tre volte alla porta e per disegnare l'alfabeto latino e greco sul pavimento della chiesa. Nel tardo medioevo, i papi usavano come ferula anche un bastone con la triplice croce.

    Dopo la sua elezione nel 1963 Papa Paolo VI ha commissionato allo scultore napoletano Lello Scorzelli un bastone pastorale per le solenni celebrazioni liturgiche. Questo pastorale argenteo riprese dalla ferula tradizionale la forma di croce, accompagnato però dalla figura del Crocifisso. Paolo VI ha utilizzato questo bastone per la prima volta nell’occasione della chiusura del Concilio Vaticano Secondo, l’8 dicembre 1965. In seguito, l’ha adoperato in modo analogo al pastorale del vescovo, spesso ma non sempre nelle celebrazioni liturgiche. Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno usato in certe occasioni anche la triplice croce come insegna.

    Per la Domenica delle Palme 2008, Papa Benedetto XVI ha sostituito questo pastorale, usato anche da Giovanni Paolo I, Giovanni Paolo II e da lui stesso, con un bastone sormontato da una croce dorata, che fu regalato al Beato Pio IX nel 1877, dal Circolo di San Pietro, in occasione del cinquantesimo anniversario della sua consacrazione vescovile. Questo bastone è stato adoperato come ferula già dal Beato Giovanni XXIII per varie celebrazioni liturgiche durante il Vaticano Secondo.

    Con la celebrazione dei Primi Vespri di Avvento del 2009, il Santo Padre Benedetto XVI ha iniziato a usare un nuovo bastone, a lui donato dal Circolo San Pietro, simile nella forma a quello di Pio IX.  





    [SM=g1740771]


    UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE 
    DEL SOMMO PONTEFICE 

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    IL CROCIFISSO AL CENTRO DELL’ALTARE

    Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, al n. 218, pone la domanda: «Che cos’è la liturgia?»; e risponde:

    «La liturgia è la celebrazione del Mistero di Cristo e in particolare del suo Mistero pasquale. In essa, mediante l’esercizio dell’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo, con segni si manifesta e si realizza la santificazione degli uomini e viene esercitato dal Corpo mistico di Cristo, cioè dal Capo e dalle membra, il culto pubblico dovuto a Dio».

    Da questa definizione, si comprende che al centro dell’azione liturgica della Chiesa c’è Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote, ed il suo Mistero pasquale di Passione, Morte e Risurrezione. La celebrazione liturgica deve essere trasparenza celebrativa di questa verità teologica. Da molti secoli, il segno scelto dalla Chiesa per l’orientamento del cuore e del corpo durante la liturgia è la raffigurazione di Gesù crocifisso.

    La centralità del crocifisso nella celebrazione del culto divino risaltava maggiormente in passato, quando vigeva la consuetudine che sia il sacerdote che i fedeli si rivolgessero durante la celebrazione eucaristica verso il crocifisso, posto al centro, al di sopra dell’altare, che di norma era addossato alla parete. Per l’attuale consuetudine di celebrare «verso il popolo», spesso il crocifisso viene oggi collocato al lato dell’altare, perdendo così la posizione centrale.

    L’allora teologo e cardinale Joseph Ratzinger aveva più volte sottolineato che, anche durante la celebrazione «verso il popolo», il crocifisso dovrebbe mantenere la sua posizione centrale, essendo peraltro impossibile pensare che la raffigurazione del Signore crocifisso – che esprime il suo sacrificio e quindi il significato più importante dell’Eucaristia – possa in qualche maniera essere di disturbo. Divenuto Papa, Benedetto XVI, nella prefazione al primo volume delle sue Gesammelte Schriften, si è detto felice del fatto che si stia facendo sempre più strada la proposta che egli aveva avanzato nel suo celebre saggio Introduzione allo spirito della liturgia. Tale proposta consisteva nel suggerimento di «non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo».

    Il crocifisso al centro dell’altare richiama tanti splendidi significati della sacra liturgia, che si possono riassumere riportando il n. 618 del Catechismo della Chiesa Cattolica, un brano che si conclude con una bella citazione di santa Rosa da Lima:

    «La croce è l’unico sacrificio di Cristo, che è il solo “mediatore tra Dio e gli uomini” (1 Tm 2,5). Ma, poiché nella sua Persona divina incarnata, “si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22) egli offre “a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale” (ibid.). Egli chiama i suoi discepoli a prendere la loro croce e a seguirlo (cf. Mt 16,24), poiché patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme (cf. 1 Pt 2,21). Infatti egli vuole associare al suo sacrificio redentore quelli stessi che ne sono i primi beneficiari (cf. Mc 10,39; Gv 21,18-19; Col 1,24). Ciò si compie in maniera eminente per sua Madre, associata più intimamente di qualsiasi altro al mistero della sua sofferenza redentrice (cf. Lc 2,35). “Al di fuori della croce non vi è altra scala per salire al cielo” (santa Rosa da Lima; cf. P. Hansen, Vita mirabilis, Louvain 1668)».


     

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    CANTO DEL VANGELO IN LINGUA GRECA
    IN ALCUNE CELEBRAZIONI PAPALI

     

    Nel culto dei primi cristiani erano presenti, com’è noto, la predicazione, la lettura, le preghiere e gli inni a scopo didattico. Nell'anno 150 san Giustino, nell’Apologia e nel Dialogo con Trifone, dà la prima descrizione della Messa romana, distinta in due parti: quella "didattica", fatta di letture dei Profeti e degli Apostoli e quella "sacrificale", centrata sulla Passione del Signore. Nella liturgia si usava la lingua greca; l'uso della lingua latina subentrò verso il IV secolo; anteriormente, vigeva qua e là l'uso delle letture in greco, successivamente tradotte in latino; quasi una messa bi-lingue. Quindi, la consuetudine della proclamazione in greco delle letture nella Messa  sembra originata semplicemente dall’esigenza di favorire la partecipazione di quelle enclave di fedeli non ancora in grado di comprendere il latino.

    Tuttavia, il delinearsi sempre più del primato del vescovo di Roma, a partire da sant’Ignazio d’Antiochia che nel secondo secolo definisce quella nell’Urbe la chiesa che ‘presiede all’agape’, - ovvero che la Chiesa universale è un corpo organico strutturato sulla carità mutua, - influirà sulla preservazione nella liturgia papale di alcune parti in greco, indizio della sollecitudine del Papa per tutte le Chiese, in specie quelle orientali. Per esempio, ancora oggi nella liturgia romana del Venerdì Santo si canta l’inno greco Trisaghio, cioè al Signore Gesù Cristo tre volte Santo, perché è Dio, è Forte, è Immortale, e abbia pietà di noi.

    Dopo lo scisma del 1054 tra Roma e Costantinopoli, non si sopì l’anelito alla ricomposizione dell’unità, anzi il Sommo Pontefice non lasciò nulla di intentato per il ripristino della comunione degli Orientali con la Sede Apostolica: si pensi al concilio di Firenze e poi all’istituzione in Roma del Collegio Greco nel 1577 da Gregorio XIII. Si ricorda quest’ultimo atto perché ebbe effetti, in un certo senso, sul rito di cui si tratta. Infatti, proprio dal Collegio Greco, il Cerimoniere papale attingeva per il servizio liturgico bilingue.

    Risale all’inizio del secolo scorso l’ultima minuziosa descrizione del rito della proclamazione dell’Epistola e Vangelo in greco e in latino nella liturgia papale:

    Il Suddiacono apostolico prende da uno dei Chierici della Cappella pontificia l'Epistolario, e premessa la genuflessione all'Altare ed al Sommo Pontefice, con l'assistenza dì un Ceremoniere pontificio, si reca presso l'estremità del banco, in cui siedono i Cardinali Preti, attende che tutti si siano seduti, e al cenno del Ceremoniere canta l'Epistola. Ivi rimane fino a tutto il canto dell'Epistola greca.

    Terminato il canto dell'Epistola latina, il Suddiacono di rito greco prende da un altro Chierico di Cappella l'Epistolario greco, e premesse le stesse [43|44] Ceremonie, e assistito da un altro Ceremoniere pontificio, canta l'Epistola presso il Suddiacono apostolico.

    Dopo il canto dell'Epistola greca, il Suddiacono apostolico e quello di rito greco, guidati dai Ceremonieri pontifici, si recano al Trono papale, e premessa la genuflessione, vi salgono, baciando, l'uno dopo l'altro, il Piede al Pontefice; quindi Gli fanno genuflessione, e ritornano presso l'Altare, ove ciascuno fa genuflessione alla Croce, e rende l'Epistolario al Chierico di Cappella.

    Il Suddiacono di rito greco ritorna presso la colonna dell'Altare, dal lato dell'Epistola, e il Suddiacono apostolico si ferma presso il Cardinale Diacono ministrante, il quale legge l'Epistola ed il Graduale.

    I due Arcivescovi Assistenti al Soglio, salgono sul Trono con il Libro e con la Candela.

    Il Sommo Pontefice legge l'Epistola, il Graduale e il Vangelo.

    Quando il Sommo Pontefice segna il Vangelo, il Cardinale Diacono ministrante si toglie dal capo la Mitra, discende dall'Altare, e riceve dal Caudatario il libro degli Evangeli, che con i prescritti inchini depone sulla mensa dell'Altare, e rimane presso di essa, finché il Papa non ha terminato di leggere. Poi si avanza al Trono papale, per baciare la mano al S. Padre.

    Nel tempo stesso un Ceremoniere pontificio conduce il Prelato Turiferario col Turibolo e con la [44|45] Navicella al Trono, per l'imposizione dell'incenso. Il Cardinale Vescovo Suburbicario sostiene la Navicella avanti al Papa, Cui porge, con i prescritti baci il cucchiaino, chiedendogli, con la consueta formola, la benedizione.

    Il Cardinale Diacono ministrante, baciata la mano al Papa, ritorna all'Altare, e va a dire, genuflesso sull'orlo della predella, l'orazione: Munda cor meum, etc.

    Gli Accoliti Votanti di Segnatura, tenendo in mano i sette candelabri, si fermano presso gli scalini dell'Altare, stando in mezzo a loro il Suddiacono apostolico.

    Il Turiferario col Turibolo e con la Navicella, ritorna dal Trono all'Altare, e si colloca presso i Prelati ceroferari, dal lato dell'Epistola.

    Il Cardinale Diacono ministrante, detto il Munda cor meum, prende l'Evangeliario dal mezzo dell'Altare, discende dal medesimo, e si mette a desta del Suddiacono apostolico. Tutti genuflettono alle Croce, eccetto il Cardinale Diacono, che fa profondo inchino.

    Rivolgendosi poi indietro, per la destra, si scambiano in modo che il Cardinale Diacono ministrante, mentre si procede per il Trono, sia a destra del Suddiacono apostolico, e a destra del Cardinale vadano quattro Accoliti e tre altri vadano a sinistra del Suddiacono.

    Giunti avanti ai gradini del Trono, tutti genuflettono, eccetto il Cardinale Diacono ministrante, che [45|46] profondamente inchinato al Sommo Pontefice, chiede la benedizione, dicendo: Iube, Domne, benedicere.

    Il Papa gli dà la benedizione, rispondendo: Dominus sit in corde tuo etc.

    Datasi la benedizione dal Papa, tutti si alzano, e di nuovo fanno genuflessione, eccetto il Cardinale Diacono ministrante, che s'inchina profondamente. Per la via più breve, procedono, nel modo stesso che dall'Altare al Trono, verso il leggìo già preparato da un Chierico di Cappella, presso la bancata dei Cardinali Diaconi, verso l'Altare.

    Il Turiferario si ferma col Ceremoniere pontificio a sinistra del leggio, alla parte posteriore del quale si mette il Suddiacono apostolico.

    I Prelati Accoliti si dispongono in modo, che quattro di essi stiano alla destra del leggio e tre alla sinistra. Il Cardinale Diacono ministrante, assistito dal proprio Ceremoniere, si ferma avanti al leggio, e vi apre sopra l'Evangeliario, per il canto del Vangelo.

    Frattanto il secondo Cardinale Diacono assistente, toglie il Grembiale e la Mitra al Sommo Pontefice. Questi si alza, e rimane in piedi fino al termine del canto del Vangelo.

    Il Cardinale Diacono ministrante canta: Dominus vobiscum, e poi: Sequentia sancti Evangelii etc., segnando al tempo stesso il Libro e sé medesimo. Il Turiferario porge il Turibolo al Cardinale Diacono ministrante, il quale incensa il Libro, e poi [46|47] rende il Turibolo al Turiferario, che rimane nello stesso luogo, per il canto del Vangelo greco.

    Finito il canto del Vangelo, il Suddiacono apostolico prende l'Evangeliario, e tenendolo innanzi al petto, si ferma a destra del leggio.

    Il Papa siede, e il primo Cardinale Diacono assistente Gli mette la Mitra.

    Due Accoliti rimangono hinc inde presso il leggio, gli altri cinque, premesse le genuflessioni al Sommo Pontefice e all'Altare, mentre il Cardinale Diacono ministrante fa profondo inchino, ritornano presso la credenza, e depongono i candelabri.

    Il Cardinale Diacono ministrante va a sedere sul suo sgabello, e si copre con la Mitra.

    Intanto il Diacono di rito greco prende l'Evangeliario da un Chierico di Cappella, e lo depone sulla mensa dell'Altare, fatte le genuflessioni al Sommo Pontefice e alla Croce.

    Poi discende subito, genuflette di nuovo alla Croce, va al Trono papale, genuflette, e salisce sul ripiano del Trono, per baciare il Piede al Papa. Ritorna all'Altare, e stando genuflesso, nel mezzo, sul più alto scalino, dice la preghiera che suol premettersi al Vangelo. Frattanto il Suddiacono di rito greco attende innanzi agli scalini dell'Altare, per unirsi al Diacono.

    Questi, detta la preghiera, prende l'Evangeliario, e discende dall'Altare, genuflette alla Croce insieme col Suddiacono, ed ambedue, accompagnati da un Ceremoniere pontificio, vanno fino ai gradini del [47|48] Trono papale. Tutti rimangono inginocchiati nel piano avanti ai gradini, mentre il Diacono chiede la benedizione al Sommo Pontefice.

    Quindi tutti si alzano, genuflettono al S. Padre, e vanno per la via più breve presso il leggio, Il Suddiacono si mette dalla parte posteriore del medesimo, e il Diacono della parte anteriore, aprendovi sopra l'Evangeliario.

    Intanto il secondo Cardinale Diacono assistente toglie la Mitra al Papa, il quale si alza, rimanendo in piedi per tutto il canto del Vangelo.

    Il Cardinale Diacono ministrante depone la Mitra, si alza, e rimane in piedi avanti allo sgabello.

    Il Diacono di rito greco incomincia il canto del Vangelo, e col Turibolo consegnatogli dal Turiferario incensa l'Evangeliario. Rende il Turibolo, e prosegue il canto sino al termine. Il Suddiacono, terminato il canto del Vangelo, dette le parole: Dóxa soi, Kýrie, dóxa soi, prende l'Evangeliario, e si mette a sinistra del Suddiacono apostolico.

    Il Diacono greco, in mezzo ai due Accoliti, ritorna al lato dell' Epistola presso la colonna dell'Altare. Gli Accoliti depongono i candelabri sulla credenza.

    Il Suddiacono apostolico, e il Suddiacono greco (seguiti dal Turiferario col Turibolo, insieme ad un Ceremoniere pontificio) s'avanzano verso il Trono, e l'un dopo l'altro, ascendendovi, senza genuflettere, porgono a baciare il S. Testo al Sommo Pontefice, che mentre bacia ripete le parole: Per evangelica dicta etc.

    [48|49] Ambedue i Suddiaconi discendono dal Trono, genuflettono al Sommo Pontefice, e ritornano all'Altare. Fatta la genuflessione presso gli scalini, ciascuno consegna il proprio Evangeliario al Chierico di Cappella. Il Suddiacono apostolico si pone presso il Cardinale Diacono ministrante; il Suddiacono greco si unisce al Diacono greco presso la colonna dell'Altare, dal lato dell' Epistola.

    Il Cardinale Vescovo assistente, guidato dal Ceremoniere, dopo che il Papa ha baciato il Testo latino e greco degli Evangeli, discende nel piano, e, ricevuto il Turibolo dal Turiferario, incensa con triplice tiro il Sommo Pontefice, riconsegnando poi il Turibolo al Votante di Segnatura, che, fatta genuflessione al Papa e all'Altare, lo consegna ad un Accolito della Cappella (Giambattista Maria MENGHINI,Le Solenni Ceremonie della Messa Pontificale celebrata dal Sommo Pontefice, ed.Desclé Lefebvre & c.,edit.Pontifici, Roma 1904, cap.IV.§ 3).

    In conclusione e senza pretesa di esaustività, si può ritenere che la prassi ancora vigente del canto del vangelo in greco durante la Liturgia Verbi, come quella dei dittici nell’Anafora, abbia solide basi storiche e teologiche atte a richiamare il rapporto di interdipendenza tra lex credendi e lex orandi nella liturgia cristiana; inoltre, che la liturgia, anche se si celebra in una comunità particolare, è sempre manifestazione dell’unica Chiesa cattolica. La liturgia romana, in specie, manifesta l’ecclesiologia cattolica che riconosce nel Vescovo di Roma il pastore universale.

     




    [SM=g1740771]

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    LA COMUNIONE RICEVUTA
    SULLA LINGUA E IN GINOCCHIO

    La più antica prassi di distribuzione della Comunione è stata, con tutta probabilità, quella di dare la Comunione ai fedeli sul palmo della mano. La storia della liturgia evidenzia, tuttavia, anche il processo, iniziato abbastanza presto, di trasformazione di tale prassi. Sin dall’epoca dei Padri, nasce e si consolida una tendenza a restringere sempre più la distribuzione della Comunione sulla mano e a favorire quella sulla lingua. Il motivo di questa preferenza è duplice: da una parte, evitare al massimo la dispersione dei frammenti eucaristici; dall’altra, favorire la crescita della devozione dei fedeli verso la presenza reale di Cristo nel sacramento.

    All’uso di ricevere la Comunione solo sulla lingua fa riferimento anche san Tommaso d’Aquino, il quale afferma che la distribuzione del Corpo del Signore appartiene al solo sacerdote ordinato. Ciò per diversi motivi, tra i quali l’Angelico cita anche il rispetto verso il sacramento, che «non viene toccato da nessuna cosa che non sia consacrata: e quindi sono consacrati il corporale, il calice e così pure le mani del sacerdote, per poter toccare questo sacramento. A nessun altro quindi è permesso toccarlo fuori di caso di necessità: se per esempio stesse per cadere per terra, o in altre contingenze simili» (Summa Theologiae, III, 82, 3).

    Lungo i secoli, la Chiesa ha sempre cercato di caratterizzare il momento della Comunione con sacralità e somma dignità, sforzandosi costantemente di sviluppare nel modo migliore gesti esterni che favorissero la comprensione del grande mistero sacramentale. Nel suo premuroso amore pastorale, la Chiesa contribuisce a che i fedeli possano ricevere l’Eucaristia con le dovute disposizioni, tra le quali figura il comprendere e considerare interiormente la presenza reale di Colui che si va a ricevere (cf. Catechismo di san Pio X, nn. 628 e 636). Tra i segni di devozione propri ai comunicandi, la Chiesa d’Occidente ha stabilito anche lo stare in ginocchio. Una celebre espressione di sant’Agostino, ripresa al n. 66 della Sacramentum Caritatis di Benedetto XVI, insegna: «Nessuno mangi quella carne [il Corpo eucaristico], se prima non l’ha adorata. Peccheremmo se non l’adorassimo»(Enarrationes in Psalmos, 98,9). Stare in ginocchio indica e favorisce questa necessaria adorazione previa alla ricezione di Cristo eucaristico.

    In questa prospettiva, l’allora cardinale Ratzinger aveva assicurato che «la Comunione raggiunge la sua profondità solo quando è sostenuta e compresa dall’adorazione» (Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo, San Paolo 2001, p. 86). Per questo, egli riteneva che «la pratica di inginocchiarsi per la santa Comunione ha a suo favore secoli di tradizione ed è un segno di adorazione particolarmente espressivo, del tutto appropriato alla luce della vera, reale e sostanziale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo sotto le specie consacrate» (cit. nella Lettera This Congregation della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, del 1° luglio 2002: EV 21, n. 666).

    Giovanni Paolo II nella sua ultima enciclica, Ecclesia de Eucharistia, ha scritto al n. 61:

    «Dando all’Eucaristia tutto il rilievo che essa merita, e badando con ogni premura a non attenuarne alcuna dimensione o esigenza, ci dimostriamo veramente consapevoli della grandezza di questo dono. Ci invita a questo una tradizione ininterrotta, che fin dai primi secoli ha visto la comunità cristiana vigile nella custodia di questo “tesoro”. [...] Non c’è pericolo di esagerare nella cura di questo Mistero, perché “in questo Sacramento si riassume tutto il mistero della nostra salvezza”».

    In continuità con l’insegnamento del suo Predecessore, a partire dalla solennità del Corpus Domini del 2008, il Santo Padre Benedetto XVI ha iniziato a distribuire ai fedeli il Corpo del Signore, direttamente sulla lingua e stando inginocchiati.


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    GLI SPAZI DI SILENZIO ALL’INTERNO DELLA CELEBRAZIONE

    Il n. 45 della Institutio Generalis Missalis Romani (editio typica tertia emendata, 2008) prescrive:

    «Si deve anche osservare, a suo tempo, il sacro silenzio, come parte della celebrazione. La sua natura dipende dal momento in cui ha luogo nelle singole celebrazioni. Così, durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, il silenzio aiuta il raccoglimento [singuli ad seipsos convertuntur]; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la Comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica [in corde suo Deum laudant et orant]. Anche prima della stessa celebrazione è bene [laudabiliter] osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia e nel luogo dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione».

    Il testo cita in nota il n. 30 della Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium, che ugualmente prescrive: «Si osservi a tempo debito il sacro silenzio». Si noti come, in entrambi i casi, si precisi che il silenzio liturgico è un silenzio sacro, sacrum silentium.

    Il n. 56 della Institutio specifica meglio l’importanza del silenzio all’interno della Liturgia della Parola, mentre per quanto riguarda la Liturgia eucaristica, il n. 78 precisa: «La Preghiera eucaristica esige che tutti l’ascoltino con riverenza e silenzio». Il n. 84, poi, sottolinea l’importanza dell’osservanza del silenzio per prepararsi bene a ricevere la Santa Comunione: «Il sacerdote si prepara con la preghiera silenziosa [oratione secreta] a ricevere con frutto il Corpo e il Sangue di Cristo. Lo stesso fanno i fedeli pregando in silenzio». Infine, lo stesso atteggiamento viene suggerito per il ringraziamento dopo la Comunione: «Terminata la distribuzione della Comunione, il sacerdote e i fedeli, secondo l’opportunità, pregano per un po’ di tempo in silenzio. Tutta l’assemblea può anche cantare un salmo, un altro cantico di lode o un inno» (n. 88). In diversi altri numeri della Institutio si ripetono prescrizioni simili a riguardo del silenzio, che risulta essere parte integrante della stessa celebrazione.

    Il servo di Dio Giovanni Paolo II aveva riconosciuto che, nella prassi attuale, la prescrizione del Concilio Vaticano II a riguardo del sacro silenzio – prescrizione poi passata nella Institutio – non sia sempre stata osservata fedelmente. Egli scriveva:

    «Un aspetto che occorre coltivare con maggiore attenzione all’interno delle nostre comunità è l’esperienza del silenzio. [...] La liturgia, tra i diversi suoi momenti e segni, non può trascurare quello del silenzio» (Spiritus et Sponsa, n. 13).

    Possiamo qui ricordare anche un testo dell’allora teologo e cardinale Joseph Ratzinger:

    «Diventiamo sempre più chiaramente consapevoli che la liturgia implica anche il tacere. Al Dio che parla noi rispondiamo cantando e pregando, ma il mistero più grande, che va al di là di tutte le parole, ci chiama anche a tacere. Deve essere indubbiamente un silenzio pieno, più che un’assenza di parole e di azione. Dalla liturgia noi ci aspettiamo proprio che essa ci dia il silenzio positivo in cui noi troviamo noi stessi» (Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, p. 205).

    Di grande importanza risulta pertanto l’osservanza dei momenti di silenzio previsti dalla liturgia. Essi sono parte integrante tanto dell’ars celebrandi dei ministri, quanto della actuosa participatio dei fedeli. Il silenzio nella liturgia è il momento in cui si ascolta con maggior attenzione la voce di Dio e si interiorizza la sua Parola, affinché questa porti un frutto di santità nella vita di ogni giorno.





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    L’USO DELLA LINGUA LATINA

    Il latino è senza dubbio la lingua più longeva della liturgia romana: la si utilizza infatti da più di sedici secoli, ossia da quando si perfezionò a Roma, sotto Papa Damaso († 384) il passaggio ad essa dal greco. I libri liturgici ufficiali del Rito Romano vengono pertanto a tutt’oggi pubblicati in latino (editio typica).

    Il Codice di Diritto Canonico, al can. 928, stabilisce: «La celebrazione eucaristica venga compiuta in lingua latina o in altra lingua, purché i testi liturgici siano stati legittimamente approvati». Questo canone traduce in modo sintetico, e tenendo presente l’attuale situazione, l’insegnamento della Costituzione liturgica del Concilio Vaticano II.

    Al celebre n. 36, la Sacrosanctum Concilium stabilisce come principio:

    «L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini» (§ 1).

    In questo senso, il Codice afferma innanzitutto: «La celebrazione eucaristica venga compiuta in lingua latina».

    Nei successivi commi, la Sacrosanctum Concilium ammette la possibilità di utilizzare anche le lingue nazionali:

    «Dato però che, sia nella Messa che nell’amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l’uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti» (§ 2)

    «In base a queste norme, spetta alla competente autorità ecclesiastica territoriale, di cui all’art. 22-2 (consultati anche, se è il caso, i vescovi delle regioni limitrofe della stessa lingua) decidere circa l’ammissione e l’estensione della lingua nazionale. Tali decisioni devono essere approvate ossia confermate dalla Sede Apostolica» (§ 3).

    «La traduzione del testo latino in lingua nazionale da usarsi nella liturgia deve essere approvata dalla competente autorità ecclesiastica territoriale di cui sopra» (§ 4).

    In base a questi successivi commi, il Codice aggiunge: «... o in altra lingua, purché i testi liturgici siano stati legittimamente approvati».

    Come si vede, anche nelle attuali disposizioni normative, la lingua latina resta ancora al primo posto, come quella che la Chiesa preferisce in linea di principio, pur riconoscendo che la lingua nazionale può risultare utile per i fedeli. Nell’attuale situazione concreta, la celebrazione in latino è diventata piuttosto rara. Motivo in più perché nella liturgia pontificia (ma non solo in essa) il latino sia custodito come preziosa eredità della tradizione liturgica d’Occidente. Non a caso, il servo di Dio Giovanni Paolo II ha ricordato che:

    «La Chiesa romana ha particolari obblighi verso il latino, la splendida lingua dell’antica Roma e deve manifestarli ogniqualvolta se ne presenti l’occasione» (Dominicae cenae, n. 10).

    In continuità con il Magistero del suo Predecessore, Benedetto XVI, oltre ad auspicare un maggior utilizzo della lingua tradizionale nella celebrazione liturgica, in particolare in occasione di celebrazioni che avvengono durante incontri internazionali, ha scritto:

    «Più in generale, chiedo che i futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a celebrare la santa Messa in latino, nonché ad utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano; non si trascuri la possibilità che gli stessi fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare in gregoriano certe parti della liturgia» (Sacramentum Caritatis, n. 62).

     

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    LA BELLEZZA IN OGNI ASPETTO DEL RITO LITURGICO

    Scrive il Santo Padre Benedetto XVI, al n. 35 dell’Esortazione Sacramentum Caritatis:

    «Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor. Nella liturgia rifulge il Mistero pasquale mediante il quale Cristo stesso ci attrae a sé e ci chiama alla comunione. [...]

    La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. [...] La bellezza, pertanto, non è un fattore decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria».

    La bellezza di Cristo si riflette soprattutto nei santi e nei cristiani fedeli di ogni epoca, ma non bisogna per questo dimenticare o sottostimare il valore spirituale delle opere d’arte che la fede cristiana ha saputo produrre per metterle a servizio del culto divino. La bellezza della liturgia si manifesta concretamente attraverso oggetti materiali e gesti corporei, di cui l’uomo – unità di anima e di corpo – ha bisogno per elevarsi alle realtà invisibili e rafforzarsi nella fede. Il Concilio di Trento ha insegnato:

    «La natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa, come pia madre, ha stabilito alcuni riti [...] per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande [l’Eucaristia] e introdurre le menti dei fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà nascoste in questo sacrificio» (DS 1746).

    L’arte sacra, le sacre vesti e suppellettili, l’architettura sacra: tutto deve concorrere a far consolidare il senso di maestà e di bellezza, a far trasparire la «nobile semplicità» (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 34) della liturgia cristiana, che è liturgia della vera Bellezza.

    Il servo di Dio Giovanni Paolo II ha ricordato l’episodio evangelico dell’unzione di Betania, per rispondere alla possibile obiezione sulla bellezza delle chiese e degli oggetti destinati al culto, che potrebbero risultare fuori luogo se posti di fronte alla grande massa dei poveri della terra. Egli ha scritto:

    «Una donna [...] versa sul capo di Gesù un vasetto diprofumo prezioso, provocando nei discepoli – in particolare in Giuda (cf. Mt 26,8; Mc 14,4; Gv 12,4) – una reazione di protesta, come se tale gesto, in considerazione delle esigenze dei poveri, costituisse uno “spreco” intollerabile. Ma la valutazione di Gesù è ben diversa. Senza nulla togliere al dovere della carità verso gli indigenti, ai quali i discepoli si dovranno sempre dedicare [...], Egli guarda all’evento imminente della sua morte e della sua sepoltura, e apprezza l’unzione che gli è stata praticata quale anticipazione di quell’onore di cui il suo corpo continuerà ad essere degno anche dopo la morte, indissolubilmente legato com’è al mistero della sua persona» (Ecclesia de Eucharistia, n. 47).

    E ha concluso:

    «Come la donna dell’unzione di Betania, la Chiesa non ha temuto di “sprecare”, investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell’Eucaristia. [...] Sull’onda di questo elevato senso del mistero, si comprende come la fede della Chiesa nel Mistero eucaristico si sia espressa nella storia non solo attraverso l’istanza di un interiore atteggiamento di devozione, ma anche attraverso una serie di espressioni esterne, volte ad evocare e sottolineare la grandezza dell’evento celebrato. [...] Su questa base si è sviluppato anche un ricco patrimonio di arte. L’architettura, la scultura, la pittura, la musica, lasciandosi orientare dal mistero cristiano, hanno trovato nell’Eucaristia, direttamente o indirettamente, un motivo di grande ispirazione» (ibid., nn. 48-49).

    È necessario perciò avere tutte le attenzioni e le cure possibili perché la dignità della liturgia risplenda sin nei minimi dettagli nella forma della vera bellezza. Bisogna ricordare che anche quei santi che hanno vissuto la povertà con particolare impegno ascetico, hanno sempre desiderato che gli oggetti più belli e preziosi fossero destinati al culto divino. Menzioniamo qui un solo esempio, quello del Santo Curato d’Ars:

    «Don Vianney aveva subito amato quella vecchia chiesa [di Ars] come la casa paterna. Per abbellirla iniziò dal principale, cioè dall’altare, centro e ragione d’essere di tutto il santuario. Per rispetto all’Eucaristia, volle quello che di più bello era possibile avere. [...] Quindi aumentò il guardaroba del buon Dio, come diceva lui, nel suo linguaggio colorito e immaginoso. Visitò a Lione i negozi di ricamo, di oreficeria, e vi acquistò ciò che vi trovava di più prezioso. “Nei dintorni, confidavano i suoi fornitori meravigliati, c’è un piccolo Curato, magro, malmesso, che ha l’aria di non averne mai neanche uno in tasca e che, per la sua chiesa, vuol sempre ciò che c’è di meglio!”» (F. Trochu, Il Curato d’Ars, Marietti, Torino 1964, p. 173).





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    UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE 
    DEL SOMMO PONTEFICE  

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    I Cardinali Diaconi e l’uso della dalmatica.

    Come a Gerusalemme, anche nella primitiva Chiesa di Roma troviamo subito, quando i cristiani sono più numerosi, 7 diaconi che assistevano il Pontefice nell’assemblea dei fedeli, nell’amministrazione e nell’esercizio della carità. Il Liber Pontificalis attribuisce a Clemente I (92-99) la divisione di Roma in sette regioni per la cura dei poveri della città, e per questo servizio troveremmo i diaconi. Di fatto il suo successore, Papa Evaristo (99-108), precisava le loro funzioni nella Chiesa e ordinò 7 diaconi per assistere il Vescovo di Roma nella distribuzione delle elemosine.

    Nel secolo III, Papa Fabiano (236-250) organizzò meglio il lavoro dei 7 diaconi, creando 14 regioni a Roma ed affidando a ciascuno dei diaconi due regioni. Crescendo il numero dei cristiani, furono assegnati altri preti e diaconi come ausiliari al principale titolare delle chiese o diaconie. In realtà, per il servizio della Chiesa di Roma non bastavano i diaconi e così Papa Cleto (80-92) aveva anche fissato in 25 il numero di preti per il servizio della città, con un territorio affidato a ciascuno di loro e, in questo modo, sorsero le parrocchie.

    Nel pontificato di Gregorio I (590-604) vennero raddoppiati il numero di regioni e quello dei diaconi che saranno 14. Sotto il pontificato di Gregorio II (715-731) furono aggiunti quattro nuovi diaconi detti palatini per servire la basilica del Laterano e così i diaconi diventarono 18. Il loro incarico consisteva nell’aiutare il Papa nella Messa per turno nei giorni della settimana. Nella seconda metà del sec. XI, col riordinamento del Collegio cardinalizio, le chiese delle diaconie cominciano ad essere assegnate in titolo a 18 cardinali, che perciò si chiamarono cardinali diaconi, firmandosi come tali in aggiunta al titolo della chiesa rispettiva.

    Si può dire che questi preti e diaconi principali dovevano aiutare il Papa nelle basiliche romane dove erano incardinati e si cominciò a qualificarli come “cardinali”. Vengono chiamati da questo momento “preti o diaconi cardinali”, cioè “incardinati”. a questo punto troviamo il presbiterio romano, consiglieri e cooperatori del Papa, Vescovo di Roma, che dal 1150 formarono il Collegio Cardinalizio con un Decano, che è il Vescovo di Ostia, e un Camerlengo quale amministratore dei beni

    Vediamo così che dai primi tempi per l’amministrazione della città di Roma e per il servizio liturgico del Papa si trovano i Cardinali diaconi. E così rimarrà lungo i secoli. Sarà nel sec. XI, con la riforma ecclesiastica di Leone X, quando i cardinali cominciarono ad essere meno legati al servizio liturgico e pastorale di Roma, per diventare coadiutori diretti del Papa nel servizio della Chiesa universale.

    D’altra parte, e in diretta relazione con i Cardinali diaconi, troviamo la dalmatica. Questa veste a principio del III sec. era divenuta la sopravveste delle persone più ragguardevoli. La troviamo nel Liber Pontificalis come un distintivo d’onore concesso ai diaconi romani da Papa Silvestro (314-335), ut diaconi dalmaticis in ecclesia uterentur (Liber Pontificalis, Ed. Mommsen 1,1, p. 50) per distinguerli fra il clero a motivo degli speciali rapporti che essi avevano col Papa. In precedenza essa era parte dell’abbigliamento del pontefice e abito proprio e distintivo del vescovo. Fuori di Roma i diaconi indossavano nel servizio liturgico la semplice tunica bianca, a cui ben presto sovrapposero l’orarium o stola.

    La notizia della concessione di papa Silvestro è confermata dall’autore romano delle Quaestionum Vet. et novi Testamenti (circa a. 370), il quale, non senza una punta d’ironia scrive: Hodie diaconi dalmaticis induuntur sicut episcopi (n. 46). Ciò prova che la Chiesa romana riteneva l’uso della dalmatica come un privilegio suo proprio, e che soltanto il Papa potesse conferirla. Questo costume romano ancora nel sec. X, si afferma nell’OR XXXV (n. 26), la cui rubrica mantiene la prerogativa della Dalmatica ai diaconi cardinali, cioè ai sette diaconi regionari, che la ricevevano nella loro Ordinazione, mentre i diaconi forenses ne erano esclusi.

    Con lo stabilirsi della liturgia romana in Gallia al tempo dei Carolingi, la dalmatica diventa abbastanza comune sebbene Roma sempre vi si oppose. Probabilmente a partire del secolo XI la dalmatica diventerà la vera e propria veste liturgica superiore dei diaconi mentre vescovi e presbiteri la indosseranno sotto la pianeta.

    Da quanto abbiamo brevemente accennato si può desumere che quando i cardinali diaconi si rivestono con la dalmatica per servire il sommo Pontefice nelle celebrazioni liturgiche ci troviamo davanti a un uso tipicamente romano in stretta relazione con la storia dei papi e della loro liturgia.

    I Cardinali diaconi adoperano la dalmatica quando servono il Pontefice, sia nella santa Messa o in altre celebrazioni liturgiche, ma non quando concelebrano con lui. In questo secondo caso adoperano la veste propria del sacerdote celebrante che è la casula o pianeta. Adoperare la dalmatica quando servono il pontefice serve in realtà a manifestare esteriormente la loro funzione di “ministri” del Pontefice. Senza dimenticare che, come ci ha mostrato la storia, la verità del segno “dalmatica”, non suppone necessariamente che soltanto i diaconi possono adoperarla.

    D’altra parte i Vescovi la rivestono nelle grandi solennità, sotto la casula, e anche come veste superiore nell’unzione dell’altare o nella lavanda dei piedi. In quest’ultimo caso, come riporta il Caeremoniale Episcoporum, 301, il vescovo si toglie mitra e casula ma non la dalmatica. Si vuole mettere in risalto non tanto la pienezza del sacerdozio come il carattere di servizio del ministero episcopale. Nel caso dei cardinali diaconi rivestiti con la dalmatica si vuole sottolineare il suo carattere di servitori, collaboratori stretti del Romano Pontefice anche nella liturgia. La dalmatica è segno di servizio, dedicazione al Vescovo e agli altri. Ma anche quando il Vescovo adopera la dalmatica lo fa per servire: sia nella lavanda dei piedi, sia nel speciale servizio liturgico che svolgono i vescovi –cardinali diaconi- vicino al Romano Pontefice.

    Possiamo dire che la dalmatica adoperata per il servizio liturgico da parte dei cardinali diaconi si muove in quella dinamica di servizio che fa dire a Benedetto XVI: “Il cristiano è chiamato ad assumere la condizione di "servo" seguendo le orme di Gesù, spendendo cioè la sua vita per gli altri in modo gratuito e disinteressato. Non la ricerca del potere e del successo, ma l’umile dono di sé per il bene della Chiesa deve caratterizzare ogni nostro gesto ed ogni nostra parola. La vera grandezza cristiana, infatti, non consiste nel dominare, ma nel servire. Gesù ripete quest’oggi a ciascuno di noi che Egli «non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45). Ecco l’ideale che deve orientare il vostro servizio. Cari Fratelli, entrando a far parte del Collegio dei Cardinali, il Signore vi chiede e vi affida il servizio dell’amore: amore per Dio, amore per la sua Chiesa, amore per i fratelli con una dedizione massima ed incondizionata, usque ad sanguinis effusionem, come recita la formula per l’imposizione della berretta e come mostra il colore rosso degli abiti che indossate” (Omelia per il Concistoro Ordinario Pubblico per la creazione di nuovi Cardinali, 24.XI.2007).

      
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 21/02/2013 17:27

    UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE 
    DEL SOMMO PONTEFICE  

     

    Surrexit Dominus vere et apparuit Simoni.
    Il rito del Resurrexit nella domenica di Pasqua

    A Roma, nel Medio Evo la Messa pasquale aveva un solenne preludio nella storica cappella di S. Lorenzo al Laterano (oggi Santuario della Scala Santa). L’Oratorio chiamato ancora oggi comunemente Sancta Sanctorum, era considerato uno dei luoghi più sacri della città di Roma. In esso con la preziosa reliquia della Croce, si custodiva l’immagine Acheropita del Salvatore.

    L’immagine era chiamata acheropita perché creduta non dipinta di mano d’uomo (è una parola di origine greca: da "(a-)" privativo, "χείρ (chèir)" (mano) e "ποιείν (poièin)" (fare) il cui significato è "non fatto da mano umana"). L’origine di questa immagine è sconosciuta ma probabilmente fu portata a Roma dall’Oriente. La prima menzione si trova nel Liber Pontificalis nella biografia di Stefano II (752-757)[1]. Riproduce l’immagine completa del Salvatore, in grandezza quasi naturale, seduto in trono, dipinta su tela applicata sopra una tavola di legno delle dimensioni di m. 1,50 x 0,70 circa.

    L’icona è stata restaurata diverse volte. Innocenzo III (1198-1216) fece coprire con un rivestimento d’argento tutta la figura ad eccezione del volto. Inoltre, più tardi, fu aperta una porticina all’altezza dei piedi, la quale permetteva di fare la lavanda rituale e l’unzione dei medesimi in talune circostanze (come nella processione del giorno dell’Assunta) e di baciarli quando il Papa si recava a venerare l’immagine.

    Nel secolo XII, secondo un’antica tradizione, che già S. Girolamo faceva risalire ai primi secoli cristiani, l’annuncio della Risurrezione veniva dato dal Papa, prima di recarsi a cantare la Messa solenne a Santa Maria Maggiore, la basilica stazionale di Pasqua. Lo attestano il Liber Politicus[2] (anche Ordo Romanus XI)[3], cerimoniale scritto nel 1143-1144, e il Liber Censuum Romanae Ecclesiae[4] (anche Ordo Romanus XII)[5], redatto intorno al 1192 da Cencio Camerario, il futuro Papa Onorio III. Eccone la descrizione che riportiamo dall’Ordo Romanus XII seguendo la traduzione di Schuster:

    “Il mattino di Pasqua, dopo Prima, il Pontefice Romano, rivestito di piviale bianco, con i diaconi Cardinali che indossano le dalmatiche e le mitre, i suddiaconi in tunicella e gli altri ordini inferiori di chierici e i suoi cappellani, va alla cappella di San Lorenzo (...) Qui fatta orazione, (il Papa) riveste i paramenti sino alla dalmatica, quindi si reca ad adorare il Salvatore. Apre l’immagine, bacia i piedi del Salvatore dicendo tre volte: Surrexit Dominus de sepulchro, a cui tutti rispondono: Qui pro nobis pependit in ligno. Alleluia. Baciato il Salvatore, si reca al trono e dà la pace all’arcidiacono, il quale dopo di lui ha baciato il piede dell’immagine, dicendogli: Surrexit Dominus vere; questi risponde: Et apparuit Simoni. Il secondo diacono, baciati i piedi del Salvatore, si accosta a ricevere la pace dal Sommo Pontefice e dall’arcidiacono e si pone in fila. Gli altri Cardinali fanno egualmente (...) In tanto la schola canta: Crucifixum in carne e Ego sum alpha et omega. Terminata la pace il Pontefice indossa la pianeta bianca, il pallio e la mitra solenne”[6] e in processione si va a Santa Maria Maggiore per la Messa pontificale.

    Col trasporto della sede in Avignone, la funzione del Resurrexit dinanzi all’Acheropita decadde e quando i Papi tornarono a Roma, la stazione di Pasqua venne trasferita nella basilica di San Pietro. Sarà nella Domenica di Pasqua dell’anno 2000 quando il Resurrexit, l’antico rito della testimonianza di fede del Papa di fronte all’icona del Salvatore, sarà ripreso di nuovo[7].

    Nel svolgimento di questo momento di preghiera, espressione di fede nella risurrezione, troviamo almeno tre elementi molto antichi, di cui il terzo non è stato ripreso nell 2000: l’annunzio della risurrezione, la venerazione dell’icona e il bacio di pace.

    Il primo elemento, l’annunzio festoso della risurrezione Christus Dominus resurrexit! che a Gerusalemme, come sappiamo dal suo Typicon, già nel IV sec. era dato nell’Anastasis dal Patriarca il mattino di Pasqua[8], si constata comune, sebbene con forme diverse, in tutte le Comunità occidentali[9]. E così si fa tuttora nel rito bizantino[10].

    Questo gioioso annunzio trova il loro autentico significato nel testo del Vangelo di Luca che descrive lo stupore di Pietro nel vedere il sepolcro vuoto e l’attestazione degli Undici che il Signore era davvero risorto ed era apparso a Simone (Lc 24, 12.34; cf. Gv 20, 3-10). L’apparizione del Risorto a Pietro e agli altri testimoni è il fondamento teologico della fede pasquale. Così lo ricorda il Catechismo: “Le donne furono così le prime messaggere della risurrezione di Cristo per gli stessi Apostoli. A loro Gesù appare in seguito: prima a Pietro, poi ai Dodici. Pietro chiamato a confermare la fede dei suoi fratelli, vede dunque il Risorto prima di loro ed è nella sua testimonianza che la comunità esclama: ‘Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone’ (Lc 24,34)”[11].

    Il Papa, Vescovo di Roma e successore di san Pietro, incontra il Signore risorto nell’icona del Santissimo Salvatore e con la semplicità e la spontaneità della Sacra Scrittura grida, Surrexit Dominus de sepulchro. Nel giorno di Pasqua, il Romano Pontefice diventa, il primo testimone davanti a tutta la Chiesa, della risurrezione del Signore.

    Il secondo elemento, la venerazione dell’icona risulta parimenti antico. In realtà non possiamo dimenticare che un’espressione di grande importanza nell’ambito della pietà popolare è l’uso di immagini sacre che, secondo i canoni della cultura e la molteplicità delle arti, aiutano i fedeli a porsi davanti ai misteri della fede cristiana. La venerazione per le immagini sacre appartiene, infatti, alla natura della pietà cattolica.

    Ambedue gli elementi, l’annunzio della risurrezione e la venerazione dell’icona, caratteristici di questa sosta di preghiera adorante e di fede, che il Romano Pontefice fa nella mattina di Pasqua, ci collegano al linguaggio della pietà popolare. “Il linguaggio verbale e gestuale della pietà popolare, pur conservando la semplicità e la spontaneità d’espressione, deve sempre risultare curato, in modo da far trasparire in ogni caso, insieme alla verità di fede, la grandezza dei misteri cristiani (...) Una grande varietà e ricchezza di espressioni corporee, gestuali e simboliche caratterizza la pietà popolare. Si pensi esemplarmente all’uso di baciare o toccare con la mano le immagini, i luoghi, le reliquie e gli oggetti sacri. Simili espressioni, che si tramandano da secoli di padre in figlio, sono modi diretti e semplici di manifestare esternamente il sentire del cuore e l’impegno di vivere cristianamente”[12].

    Così la religiosità, come la pietà popolare, “costituisce un’espressione della fede che si avvale di elementi culturali di un determinato ambiente, interpretando ed interpellando la sensibilità dei partecipanti in modo vivace ed efficace. La religiosità popolare (...) ha come sorgente la fede e dev’essere, pertanto, apprezzata e favorita. Essa, nelle sue manifestazioni più autentiche, non si contrappone  alla centralità della Sacra Liturgia, ma, favorendo la fede del popolo, che la considera una sua connaturale espressione religiosa, predispone alla celebrazione dei sacri misteri”[13]. Nel quadro di queste parole s’inserisce questo particolare annunzio della Risurrezione da parte del successore di Pietro, prima della celebrazione eucaristica.

    Il rito del Resurrexit, come atto di fede, di pietà e di devozione del Romano Pontefice davanti all’icona del Santissimo Salvatore, trova il suo spazio al di fuori della celebrazione dell’Eucaristia, sebbene abbia il suo naturale coronamento nella celebrazione liturgica che si svolge subito dopo. Questa sosta di preghiera adorante, e lieto annunzio del Risorto, prepara la celebrazione.

    Come ricordava Benedetto XVI, “la fede dei discepoli ha dovuto adeguarsi progressivamente. Essa ci si presenta come un pellegrinaggio che ha il suo momento sorgivo nell’esperienza del Gesù storico, trova il suo fondamento nel mistero pasquale, ma deve poi avanzare ancora grazie all’azione dello Spirito Santo. Tale è stata anche la fede della Chiesa nel corso della storia, tale è pure la fede di noi, cristiani di oggi. Saldamente appoggiata sulla "roccia" di Pietro, è un pellegrinaggio verso la pienezza di quella verità che il Pescatore di Galilea professò con appassionata convinzione: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente" (Mt 16,16)[14]. E possiamo domandarci, com'è arrivato Pietro a questa fede? E che cosa viene chiesto a noi, se vogliamo metterci in maniera sempre più convinta sulle sue orme? La risposta è chiara: “solo l'esperienza del silenzio e della preghiera offre l'orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera, aderente e coerente, di quel mistero”[15]. Il rito del Resurrexit ci dispone ad essere testimoni e contemplatori di questo grande mistero: Surrexit Dominus vere et apparuit Simoni. Alleluia, alleluia, alleluia.

     
     
    [1] Cfr. H. GRISAR, “L'immagine acheropita del Salvatore al Sancta Sanctorum”, La Civiltà Cattolica 58 (1907) 434-435; M. RIGHETTI, Manuale di Storia Liturgica 2. L'anno liturgico, Ed. Ancora, Milano 19693.20052, 281.

    [2] Cfr. P. FABRE – L. DUCHESNE, Benedicti beati Petri Canonici Liber Politicus in Le Liber Censuum de l'Eglise romaine II, Parigi 1905/1910, 152.

    [3] Cfr. J. MABILLON – M. GERMAIN, Museum Italicum seu collectio veterum scriptorum ex Bibliothecis Italicis II, Lutetiae Parisiorum 1724 (PL 78) 1042.

    [4] Cfr. P. FABRE L.DUCHESNE, Gesta Pauperis Scolaris Albini 32, 131 in FABRE - DUCHESNE, Le Liber Censuum de l'Eglise romaine XV, I, Parigi 1905/1910, 297.

    [5] Cfr. J. MABILLON – M. GERMAIN, Museum Italicum seu collectio veterum scriptorum ex Bibliothecis Italicis II, Lutetiae Parisiorum 1724 (PL 78) 1077.

    [6] I. SCHUSTER, Liber Sacramentorum I, Ed. Marietti, Casale Monferrato 1963, 379.

    [7] Cfr. Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, Magnum Iubilaeum. Trinitati Canticum, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007, 287-292; P. MARINI e altri, La nuova icona acheropita di Cristo Salvatore per la liturgia papale nella domenica di Pasqua, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007.

    [8] Cfr. J. SUNTINGER, Mimetisch-anamnetische Elemente in der päpstlichen Ostersonntagsliturgie “Verkündigung der Auferstehung” und “Stationsvesper” AM Lateran, Dissertatio ad Doctoratum Sacrae Liturgiae assequendum in Pontificio Instituto Liturgico, Roma 2002, 115.

    [9] Cfr. M. HUGLO, “L'Annuncio Pasquale della Liturgia Ambrosiana”, Ambrosius 33 (1957) 88-91.

    [10] Cfr. M. RIGHETTI, Manuale di Storia Liturgica 2. L'anno liturgico, Ed. Ancora, Milano 19693.20052, 282.

    [11] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 641.

    [12] Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Direttorio su Pietà popolare e Liturgia. Principi e orientamenti, Città del Vaticano 2002, nn. 14-15.

    [13] GIOVANNI PAOLO II, Discorso alla Plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 21-IX-2001.

    [14] BENEDETTO XVI, Omelia nella solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, 29-VI-2007.

    [15] GIOVANNI PAOLO II, Lett. apost. Novo millennio ineunte (6-I-2001) n. 20.

     
     





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    Profilo
     

    Officium de Liturgicis Celebrationibus Summi Pontificis

    Antichissimo è l'ufficio dei Magistri Caerimoniarum Apostolicarum. Dal sec. XV in poi acquistarono notevole fama dopo che alcuni di loro incominciarono a scrivere i loro Diari (Giovanni Burckard, Paride de Grassis), funzione che i successivi Prefetti e Maestri delle Cerimonie Pontificie hanno continuato fino al presente, conservando i loro scritti in apposito archivio. Dopo diversi provvedimenti della Camera Apostolica (4 genn. 1533, 11 giu. 1550 e 15 sett. 1560), Pio IV con Breve Apostolico del 10 magg. 1563 confermava alcuni diritti dei Magistri nostri Caerimoniarum, già riconosciuti a Romanis Pontificibus ab immemoriali tempore.

    In virtù dei successivi regolamenti approvati dai Pontefici, e ultimamente da Benedetto XV, il 25 giu. 1917, i Magistri Caerimoniarum S.R.E. et Sedis Apostolicae formavano un Collegium presieduto dal Praefectus, nominato dal Sommo Pontefice con speciale Breve Apostolico, spettando al medesimo i gradi di Prelato Domestico (oggi Prelato d'Onore di Sua Santità) e di Protonotario Apostolico ad instar (oggi Protonotario Apostolico Soprannumerario). Gli altri Maestri delle Cerimonie avevano il grado di Cubicularii intimi (oggi Cappellani di Sua Santità) ad vitam. Eletto il Sommo Pontefice, facevano le veci dei Camerieri Segreti Partecipanti (poi Prelati di Anticamera) fino alla nomina dei nuovi. Il Praefectus ed il secondo Maestro delle Cerimonie, entrambi participantes, erano addetti alla Persona del Sommo Pontefice; tutti gli altri, non participantes, si distinguevano in tre ex numero, e sette supernumerarii. Erano consultori nati della S. C. dei Riti pro re liturgica e considerati Rituum Ecclesiae Latinae Custodes (in Privilegia et iura, praeeminentiae et distinctiones Magistrorum Caerimoniarum S. R. E. et Sedis Apostolicae, della S. C. Cerimoniale, 6 nov. 1801).

    La Prefettura o Collegio delle Cerimonie Pontificie venne ristrutturato in occasione della riforma della Curia Romana del 1967 e in particolare del Regolamento dell'Ufficio delle Cerimonie Pontificie del 1970. La Prefettura allora assunse il titolo di Ufficio per le Cerimonie Pontificie. Secondo tale Regolamento i Cerimonieri Pontifici erano in numero di dodici (otto effettivi e quattro addetti).

    A seguito della riforma del Concilio Vaticano II, l'Ufficio per le Cerimonie Pontificie ha assunto una importanza sempre maggiore nel settore della pastorale liturgica. Le celebrazioni presiedute dal Santo Padre, infatti, sono chiamate a essere, anche per l’incidenza dei mass-media, un punto di riferimento esemplare per l’attuazione della riforma liturgica secondo gli insegnamenti conciliari, in continuità con l’intera tradizione ecclesiale e in conformità al più recente magistero dei Sommi Pontefici.

    La Costituzione Apostolica Pastor Bonus, del 28 giu. 1988, sempre in conformità con i principi del rinnovamento liturgico promosso dal Concilio Vaticano II, ha operato un significativo cambiamento nei confronti del precedente Ufficio per le Cerimonie Pontificie con la costituzione del nuovo « Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice ». Non si tratta di semplice mutamento di denominazione, ma di un nuovo Istituto della Curia Romana, dotato di propria autonomia (art. 2, § 3), avendo una sua configurazione giuridica che lo diversifica dagli altri Istituti della Curia Romana, con legislazione propria e proprie esclusive competenze.

    Secondo la Costituzione spetta all'Ufficio preparare tutto quanto è necessario per le celebrazioni liturgiche e le altre sacre celebrazioni, alle quali presiede, partecipa o assiste il Sommo Pontefice oppure, in suo nome o per suo mandato, un Cardinale o un Prelato, predisponendo tutto ciò che è necessario o utile per il loro degno svolgimento e per l'attiva partecipazione dei fedeli. Rientra nella sua competenza la celebrazione del Concistoro e la direzione delle celebrazioni liturgiche del Collegio Cardinalizio durante la Sede vacante. Tra i diversi compiti dell'Ufficio, risulta di particolare cura quello della preparazione e pubblicazione dei testi per le celebrazioni, che favoriscono sommamente la partecipazione degna e attiva dei fedeli.

    All'Ufficio è preposto il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, con la qualifica di Prelato Superiore della Curia Romana: egli è nominato dal Sommo Pontefice, dura in carica cinque anni e può essere confermato (art. 182). Spetta al Maestro curare la preparazione e lo svolgimento di tutte le celebrazioni liturgiche pontificie e, in specie, di quelle che avvengono nelle visite pastorali del Sommo Pontefice alle parrocchie e alle istituzioni della diocesi di Roma e nei viaggi apostolici in Italia e all’estero, tenendo anche presente le peculiarità proprie delle celebrazioni papali.

    I Cerimonieri Pontifici assistono il Sommo Pontefice nelle funzioni sacre e, in particolari circostanze, anche i Cardinali (concistori, presa di possesso del Titolo cardinalizio, Messa o altra sacra funzione celebrata con speciale solennità, missioni pontificie). Ad ogni Cardinale, dal momento della sua creazione in Concistoro, viene assegnato dal Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie un Cerimoniere. Inoltre, i Cerimonieri Pontifici hanno il compito di preparare e guidare, sotto la direzione del Maestro, le ordinazioni dei Vescovi e le benedizioni degli Abati che abbiano luogo in Roma e siano impartite per mandato del Santo Padre, ed altre celebrazioni che fossero stabilite dal Maestro.

    Sede Vacante, i Cerimonieri Pontifici, in forza della Costituzione Apostolica del Papa Paolo VI Romano Pontifici eligendo, del 1 ott. 1975, prestano servizio nelle Congregazioni dei Cardinali, ed entrano in Conclave per assolvere i compiti loro propri. In forza del loro ufficio, sono notai; perciò compilano a tutti gli effetti giuridici i documenti delle funzioni a cui prendono parte d'ufficio, gli atti del Conclave e lo stesso atto di elezione del Sommo Pontefice.

    A seguito del Chirografo del 14 genn. 1991, con il quale Giovanni Paolo II ha adattato alle esigenze odierne la struttura per la cura spirituale nella Città del Vaticano, le mansioni che erano proprie del Sagrista della Casa Pontificia sono passate al Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, il quale è pertanto responsabile della Sagrestia Pontificia e delle Cappelle del Palazzo Apostolico.

    [SM=g1740771]

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 23/02/2013 15:13


    Intervista al Maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie

    di Gianluca Biccini - Oss.Romano sabato 23.2.2013

    [SM=g1740758] ATTENZIONE
    Modificati i riti per l’inizio del pontificato


    Lo scorso lunedì 18 febbraio, nell’udienza concessa al Maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie, monsignor Guido Marini, Benedetto XVI ha approvato, «con la sua Autorità Apostolica», alcune modifiche all’ Ordo rituum pro ministerii Petrini initio Romae episcopi e ne ha disposto la pubblicazione. Abbiamo chiesto a Monsignor Marini di illustrarci queste modifiche e il loro significato.

    D. Anzitutto che cos’è l’«Ordo rituum pro ministerii Petrini initio Romae episcopi»?

    R. Come dicono le premesse allo stesso Ordo al n. 2, è il Rituale che «presenta le celebrazioni previste in tempi diversi e in luoghi collegati alla sede episcopale in Roma in riferimento con la cura pastorale del suo Vescovo per l’intero gregge del Signore». Si tratta, in altre parole, del libro che contiene i testi liturgici usati nelle celebrazioni presiedute dal nuovo Pontefice dal momento del solenne annuncio dell’Elezione fino alla visita alla Basilica di Santa Maria Maggiore. L’ Ordo fu approvato da Benedetto XVI, con Rescritto Ex audientia Summi Pontificis, il 20 aprile 2005, il giorno seguente la  sua elezione a Sommo Pontefice. Devo dire che a quel tempo l’Ufficio delle Celebrazioni fece, con competenza, un grande lavoro di studio per la preparazione e la stesura dell’ Ordo.

    D. Il Pontefice, con le stesse modalità, ha adesso approvato alcune modifiche. Può spiegarci il motivo di questo atto?

    R. Mi pare di poterne individuare almeno due. Anzitutto il Santo Padre ha avuto modo di vivere in prima persona le celebrazioni di inizio pontificato nel 2005. Quell’esperienza, con la riflessione che ne è seguita, ha probabilmente suggerito qualche intervento teso a migliorare il testo, nella logica di uno sviluppo armonico.
    In secondo luogo, con questo atto, si è inteso proseguire nella linea di alcune modifiche apportate in questi anni alle liturgie papali. Ovvero, distinguere meglio la celebrazione della Santa Messa da altri riti che non le sono strettamente propri. Mi riferisco, ad esempio, al rito di canonizzazione, a quello del
    R e s u r re x i t la Domenica di Pasqua e all’imposizione del pallio ai nuovi arcivescovi metropoliti.


    D. Che cosa accadrà in concreto?

    R. Come già accennato, sia nella celebrazione per l’inizio del ministero del Vescovo di Roma, sia nella celebrazione per l’insediamento sulla cattedra di Roma in San Giovanni in Laterano, i riti tipici saranno collocati prima e al di fuori della Santa Messa e non più all’interno di essa.
    Per quanto riguarda, poi, la celebrazione di inizio del ministero del Vescovo di Roma, l’atto dell’“obbedienza” sarà compiuto da tutti i cardinali presenti alla concelebrazione. In tal modo, quel gesto che in Cappella Sistina, subito dopo l’elezione è compiuto dai cardinali elettori, torna ad avere una dimensione anche pubblica e rimane aperto a tutti i componenti del collegio cardinalizio, assumendo al tempo stesso un carattere di cattolicità.
    Non si tratta di una novità, in quanto tutti ricordano bene all’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II l’atto di obbedienza compiuto da tutti i cardinali allora presenti alla concelebrazione. Tra di essi basti pensare alle ormai celeberrime e commoventi fotografie ritraenti l’abbraccio di Papa Wo j t y ła, sia con l’allora cardinale Joseph Ratzinger, sia con il cardinale Stefan Wyszyński.


    D. Tra i primi atti del nuovo Vescovo di Roma sono previste le visite alle due basiliche papali di San Paolo fuori le Mura e di Santa Maria Maggiore. È stato disposto qualche cambiamento anche al riguardo?

    R. A differenza di come era indicato nell’ Ordo, il nuovo Pontefice potrà compierle quando riterrà più opportuno, anche a distanza di tempo dalla elezione, e nella forma che giudicherà più adatta, sia essa una Santa Messa, la celebrazione della liturgia delle Ore o un atto liturgico particolare come quello attualmente
    prescritto.

    D. È contemplata qualche novità anche per la sezione musicale?

    R. L’attuale Ordo, senza prevedere altre possibilità, indica un repertorio musicale per lo più nuovo, composto in occasione della redazione dello stesso Ordo. Quanto disposto da Benedetto XVI con il presente atto, invece, offre una maggiore libertà nella scelta delle parti cantate, valorizzando il ricco repertorio musicale della storia della Chiesa.


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    Fraternamente CaterinaLD

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    00 08/03/2013 17:26
    Riteniamo un dovere filiale rivolgere un grazie sincero

    www.gloria.tv/?media=410630

    a tutto il lavoro svolto da monsignor Guido Marini, Maestro Cerimoniere per le Liturgie del Sommo Pontefice, in questi anni e, supplichiamo anche per l'avvenire; per averci ridonato la sacralità delle Messe celebrate dal Santo Padre, per il decoro e l'amore con il quale ha saputo interpretare le intezioni stesse del Santo Padre nella autentica Riforma liturgica voluta dal Concilio e ben spiegata in una serie di Documenti ufficiali che troviamo in questo limk:
    www.vatican.va/news_services/liturgy/details/ns_liturgy_20091117_approfondimenti...

    Un grazie a "gioiafelice" per aver postato fra i tanti anche il video in cui mons. Guido Marino ha guidato il Santo Rosario con i Cardinali e la Curia, in questo tempo di trepida attesa per il nuovo Pontefice:
    www.gloria.tv/?media=410343

    Fraternamente LDCaterina63



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    Fraternamente CaterinaLD

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    00 21/03/2013 11:26

    UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
    DEL SOMMO PONTEFICE
     

    LA LITURGIA, ITINERARIO DELL’ANIMA VERSO DIO

     

    XLIII Congresso Internazionale
    dell’Associazione “Sanctus Benedictus Patronus Europae”

    Roma, 25 novembre 2011

     

    Un’azione sacra per la santificazione dell’uomo

    L’originalità tipica del Cristianesimo, che ne fa un “unicum” nella storia, è quella di non essere, propriamente parlando, una religione, bensì una fede. Che cosa si vuol dire con questo? Che il dinamismo dell’evento cristiano non procede dall’uomo per approdare a Dio, come culmine della ricerca, ma procede da Dio che si pone alla ricerca dell’uomo, lo viene a visitare, rivelandogli il mistero della sua vita intima.

    In questo senso l’evento dell’Incarnazione è del tutto chiarificatore di quanto appena affermato. Gesù Cristo è il Figlio di Dio incarnato per noi, dono di salvezza per un’umanità altrimenti incapace, non solo di raggiungere con le proprie forze l’autentico Volto del divino, ma anche di scoprire in pienezza il senso della propria esistenza.

    E’ per questo che quando si parla della vita cristiana se ne deve parlare sempre come di una chiamata dall’Alto che precede e rende possibile la risposta, di una grazia che fonda una responsabilità, di un dono inatteso che suscita corrispondenza. Insomma, nel cristianesimo il primato è sempre di Dio. Ed è a questo primato che è necessario rifarsi anche quando si entra nel grande tema della preghiera, del cammino spirituale dell’uomo, della vita liturgica della Chiesa.

    Anche questi, ambiti, infatti, portano chiaro il segno della precedenza del Signore su qualsivoglia attività umana. Non esiste preghiera cristiana che non sia anzitutto suscitata dallo Spirito di Cristo nel cuore dell’uomo. Non si dà cammino spirituale che non proceda dalla grazia santificante. Non è pensabile una vita liturgica che non abbia come primo protagonista il Signore Gesù nell’esercizio della sua funzione sacerdotale.

    “Giustamente perciò la liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo. In essa, la santificazione dell’uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio a ciascuno di essi; in essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne eguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado” (Concilio Vaticano II, Costituzione Apostolica, Sacrosanctum Concilium, 7).

    In questo testo conciliare, ai fini della presente relazione, è necessario sottolineare due espressioni fondamentali, ovvero: “santificazione dell’uomo” e “azione sacra per eccellenza”. La relazione esistente tra questi due elementi della liturgia offre la ragione della scelta del passo citato, quale porta d’accesso al tema da trattare.

    L’anima umana, ossia l’uomo, è chiamata a compiere l’itinerario verso Dio, a realizzare, pertanto, la propria santificazione. Questa è l’opera prima e decisiva della sua vita, il suo dovere primario (cfr. Pio XII, Lettera Enciclica Mediator Dei, 11). Ma un tale compito è realizzabile a partire da quell’azione sacra per eccellenza che è la liturgia: sacra perché azione di Cristo e del suo corpo che è la Chiesa; sacra perché esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo; sacra perché resa tale dalla potenza amorevole dello Spirito Santo.

    Come afferma il beato Giovanni Paolo II, “la liturgia è il luogo privilegiato per questo incontro con Dio e con colui che ha inviato Gesu Cristo” (Lettera Apostolica Vicesimus quintus annus, 7). Infatti “le parole e i riti della liturgia sono… espressione fedele maturata nei secoli dei sentimenti di Cristo e ci insegnano a sentire come lui: conformando a quelle parole e gesti la nostra mente, eleviamo al Signore i nostri cuori” (Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti, Istruzione Redemptionis sacramentum, 5).

    In tal modo siamo invitati a ricordare che esiste un legame essenziale tra la liturgia e la vita perfetta nella carità, il mistero di Cristo e l’itinerario dell’uomo verso Dio, tra il sacro e il santo nell’esperienza della fede. Se nessun’altra azione della Chiesa eguaglia l’efficacia della liturgia, vuol dire proprio che la possibilità di parlare adeguatamente di un itinerario spirituale verso Dio esiste anzitutto a partire da quell’azione sacra per eccellenza che è la celebrazione liturgica.

    Sostiamo per un momento sul termine “sacro”. La liturgia costituisce il “sacro”, ne è il luogo privilegiato, ne determina e sviluppa il significato. Ma che cosa è propriamente questo “sacro”? La domanda, in verità, non è ben formulata. Correttamente deve essere riformulata così: “chi è il sacro”? In effetti il sacro è Gesù Cristo, secondo le parole sempre attuali di San Tommaso: “Sacrum absolute, ipse Christus” (Summa Theologiae III, 73, 1, 3m). Un tale “sacro” viene espresso, nella liturgia, con segni efficaci ed educativi, per l’opera dello Spirito Santo. Essi dicono all’uomo che è salvato e non si autosalva; che la salvezza, di conseguenza, è grazia e dono dall’Alto perché nessuno la trova originariamente e autonomamente in sé; che, in altre parole, è nel mistero di Cristo accolto e partecipato l’opera della nostra redenzione.

    La liturgia “è essenzialmente actio Dei che ci coinvolge in Gesù per mezzo dello Spirito” (Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Postsinodale Sacramentum caritatis, 37). Come ricordava l’allora Card. Ratzinger a Fontgombault, nel 2001, “Dio agisce nella liturgia attraverso Cristo e noi possiamo agire soltanto attraverso Lui e con Lui” (Opera omnia, Teologia della liturgia, p. 747).

    La liturgia, quindi, possiede una sua sacralità o santità oggettiva alla quale ciascuno deve attingere per poter procedere nel cammino della propria santità, della santità personale e soggettiva. In questo legame con il “sacro” e, dunque, con una realtà oggettiva di grazia che ci precede, troviamo la specificità dell’itinerario dell’anima verso Dio a partire dalla liturgia.

    Forse ora è più chiaro perché è del tutto appropriato il richiamo iniziale al testo citato della Sacrosanctum Concilium. Lì, infatti, vi troviamo l’autorevole fondazione dell’itinerario dell’anima verso Dio in quanto radicato nella liturgia. Soltanto là dove Gesù Cristo, risorto da morte, si rende presente per l’azione dello Spirito Santo e l’uomo si lascia afferrare, trasformare e condurre nella fede si invera l’itinerario di un’anima verso Dio.

     

    Lo sviluppo dell’itinerario verso Dio

    Chiarito il punto di partenza, dobbiamo ora delineare, almeno in parte, lo sviluppo dell’itinerario dell’anima verso Dio a cominciare dall’esperienza del sacro liturgico, ovvero dalla presenza operante di Gesù Cristo incontrata nell’azione liturgica. 

    La sacra Scrittura

    Cristo stesso “è presente nella sua parola, giacché è Lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura” (Sacrosanctum Concilium, 7). Non si può che partire da qui per illustrare quanta parte abbia la Parola di Dio, ascoltata nella liturgia, nell’itinerario dell’anima verso Dio. Al riguardo desidero richiamare tre importanti implicazioni. 

    1. Vi sono certamente altri luoghi e momenti per l’ascolto personale e fruttuoso delle Scritture sante. Tuttavia, come sappiamo, la Parola del Signore, ascoltata nel contesto della celebrazione liturgica, si accompagna in modo del tutto particolare all’azione dello Spirito Santo, che la rende operante nel cuore dei fedeli. La Scrittura, proclamata dalla Chiesa nel culto liturgico, è la Parola viva e attuale di Dio, così che si rende possibile un rapporto personale tra Dio e l’uomo nella successione del tempo.

    Commentando un passo della Genesi, così si esprime sant’Ambrogio: “Che significa che Dio passeggiava nel paradiso, dal momento che egli è sempre in ogni luogo? Penso voglia dire questo: Dio passeggia attraverso i vari testi delle divine Scritture nelle quali è sempre presente” (De Paradiso, 14, 18). E’ proprio questa l’esperienza sempre nuova che si dischiude davanti all’anima che ascolta la Parola del Signore, nella Chiesa riunita in preghiera.

    Sia che la si ascolti, sia che la si legga o proclami, sia che la si annunci, la Scrittura santa chiede di essere avvicinata e accolta con lo stupore grato della fede; quella fede che sa riconoscere qui e ora la voce del suo Signore che parla al suo popolo, che si rivolge a ciascuno in modo personale e unico. E’ proprio Cristo che parla alla comunità radunata, come quel giorno nella sinagoga di Nazaret, quando tutti gli occhi rimasero puntati su di lui. La voce umana che risuona nel luogo sacro è solo un segno che rimanda alla voce stessa di Cristo che risuona oggi, nel tempo della nostra vita.

    Così, per il tramite della liturgia, l’anima apprende per esperienza diretta che cosa significa ascoltare e accogliere la Parola di Dio, non come parola di uomini, ma quale è veramente: Parola di Dio che mette a giudizio ogni altra parola che proviene dal mondo. 

    2. Inoltre, l’atto liturgico ha la capacità di sottrarre la pagina della Scrittura al gusto soggettivo e transitorio, donandola all’anima umana quale voce di Dio da accogliere, al presente, nella propria vita. In tal modo, il primato non è dato alla disposizione interiore individuale, ma a ciò che nell’oggi dell’atto liturgico il Signore desidera dire al suo popolo, educandolo alla vita evangelica.

    Un esempio, forse, potrà esserci di aiuto per una migliore comprensione di quanto si va affermando. Quando partecipiamo a una celebrazione liturgica, noi vi entriamo con un particolare stato d’animo e accompagnati dalle molteplici esperienze di vita che hanno caratterizzato una singola giornata o un particolare periodo. E’ quasi naturale, in quel contesto, avvertire l’esigenza di una Parola che venga a illuminare ciò che stiamo vivendo. E, fosse per noi, probabilmente andremmo alla ricerca di un passo della Scrittura il più possibile confacente, in quel momento, alle nostre aspettative spirituali.

    Con la liturgia, invece, questo non avviene. In qualunque situazione personale ci veniamo a trovare, la Parola del Signore ci è donata in qualche modo a prescindere da noi stessi. Anzi, siamo invitati a uscire dai noi stessi e dal nostro piccolo mondo per entrare nei più ampi spazi della volontà di Dio che, in quella Parola ascoltata nella Chiesa, raggiunge l’uomo come dono inatteso e norma di vita.

    Ecco la grazia della Parola sacra accolta nell’atto liturgico! La grazia di rimanere coinvolti in un disegno più grande di noi. La grazia di imparare l’ascolto vero, capace di mettere da parte le personali priorità rendendosi disponibili alle priorità di Dio. La grazia di essere educati a fare della propria vita un atto di obbedienza, nella fede, alla volontà di Dio. Si tratta, in altre parole, di aprirsi alla potenza benefica della Verità, che non è soggetta a ciò che è transitorio, emotivo, opinabile.

    Perché una tale grazia possa essere accolta abbiamo bisogno dell’intima azione dello Spirito Santo che rende operante nel nostro cuore la Parola di Dio (cfr. Benedetto XVI, Esortazione Apostolica Postsinodale Verbum Domini, 52). Anche per questo l’Ordinamento Generale del Messale Romano ci ricorda che “la Liturgia della Parola deve essere celebrata in modo da favorire la meditazione; quindi si deve assolutamente evitare ogni forma di fretta che impedisca il raccoglimento. In essa sono opportuni anche brevi momenti di silenzio, adatti all’assemblea radunata, per mezzo dei quali, con l’aiuto dello Spirito Santo, la parola di Dio venga accolta nel cuore e si prepari la risposta con la preghiera” (n. 56).

    Solo così l’anima diverrà capace di prolungare l’ascolto autentico di Dio che le parla anche al di là dell’esperienza liturgica: nella relazione personale con il testo sacro, a contatto con i diversi accadimenti della vita e della storia, ricercando il senso dei movimenti del cuore e nell’impegno ad autenticare le ispirazioni interiori. 

    3. Infine è bene anche aggiungere che, nella celebrazione liturgica, non è l’uomo a piegare a sé il Signore, ma è il Signore a condurre l’uomo nella propria intimità. La Chiesa, quale soggetto vivente, nella sua liturgia ascolta e interpreta la Parola che Dio le rivolge. E ciascuno è chiamato a entrare nello stesso ascolto e nella stessa interpretazione, rinunciando a una manipolazione che condurrebbe non all’ascolto di Dio, ma di se stessi.

    Una tentazione ricorrente nell’esperienza della fede è quella di ridurre la Parola del Signore alla propria misura, oltreché di alterare la voce di Dio, fino a scambiare l’una per l’altra. Così può capitare che quella fede, scaturita da un ascolto viziato in radice, assuma una forma non vera, non autenticamente ecclesiale, non in sintonia con il progetto di Dio.

    La liturgia della Chiesa, invece, garantisce la Parola di Dio da riduzioni arbitrarie, da interpretazioni erronee, porgendola nella sua integralità e verità, così che tutto il mistero di Cristo lì contenuto possa essere ascoltato e divenire principio di un nuovo modo di pensare e di vivere.

    Solo così l’anima cristiana acquista progressivamente il pensiero stesso di Cristo, rivive i suoi sentimenti, diviene capace di uno sguardo su di sé e sul mondo che è proprio lo sguardo della fede della Chiesa. E’ proprio questo sguardo della fede comune che la liturgia è capace di custodire con cura.

    A Fontgombault, nel già citato intervento del 2001, il Card. Ratzinger ricordava che “le configurazione liturgiche possono, a seconda del luogo e del tempo, essere molteplici, come sono molteplici i riti. Essenziale è il legame con la Chiesa, che a sua volta, mediante la fede è legata al Signore. L’obbedienza della fede garantisce l’unità della liturgia al di là del confine di luoghi e tempi e rende così sperimentabile l’unità della Chiesa, Chiesa come patria del cuore” (Opera omnia, Teologia della liturgia, p. 749).

     

    Il sacrificio eucaristico

    Cristo “è presente nel sacrificio della Messa, sia nella persona del ministro, essendo egli stesso che, «offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso tramite il ministero dei sacerdoti», sia soprattutto sotto le specie eucaristiche” (Sacrosanctum Concilium, 7).

    Una tale presenza del Signore – nella sua offerta sacrificale e, soprattutto, sotto le specie eucaristiche – ci conduce al cuore dell’influsso di grazia che il sacro liturgico ha sull’itinerario dell’anima verso Dio. Desidero, in questo caso, delineare due prospettive di riflessione. 

    1. Mettiamoci, per un istante, in ascolto di San Paolo: “Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale (Rm 12, 1). “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me (Gal 2, 20).

    Per l’Apostolo tutta la vita del cristiano è un sacrificio, che non ha soltanto un riferimento necessario e continuo al mistero di Cristo, ma ne è la stessa presenza. Il cristiano non è un semplice imitatore di Gesù, quasi fosse chiamato a ricopiare dall’esterno un modello di vita, ma è partecipe dello stesso mistero, fatto presente nell’atto liturgico dell’offerta sacrificale. In virtù dell’opera dello Spirito Santo diventa reale la contemporaneità tra il mistero della salvezza e il tempo dell’uomo.

    Per questo l’anima cristiana è chiamata a divenire un sacrificio vivente, una liturgia vivente. In lei dovrà rivivere l’atto supremo con il quale Cristo consegna se stesso al Padre per la salvezza del mondo. “La santità dell’uomo esige la presenza di quest’Atto, e la presenza dell’Atto è il Sacrificio: non più solo di Cristo, ma della Chiesa intera. Tutta la santità della Chiesa, tutta la sua vita è l’Eucaristia, in cui l’Atto del Cristo si fa presente nell’atto stesso del sacerdote ministro della Chiesa; si fa presente nella e per la comunità di tutti quanti i fedeli, che non assistono passivamente ma partecipano attivamente al Sacrificio come all’Atto che fonda e consuma tutta la loro esperienza cristiana” (Divo Barsotti, Il mistero della Chiesa nella liturgia, p. 172).

    Qui, dunque, troviamo la radice di ogni possibile itinerario dell’anima verso Dio. Ancora di più: qui la liturgia si propone pienamente come fonte e culmine della vita cristiana. Non vi può essere, infatti, vita cristiana che non parta dal quel sacrificio come sua fonte, come non vi può essere vita cristiana che non tenda a quel sacrificio come suo culmine. 

    2. Se ora ci addentriamo un po’ di più nell’atto sacrificale del Signore, ne scopriamo tre diversi risvolti.

    - Anzitutto il sacrifico di Cristo è un sacrificio di adorazione. Nel dono radicale della propria vita il Signore pronuncia il suo sì al disegno del Padre e alla sua volontà. In Lui la vita dell’uomo non è più dissonante rispetto al progetto di Dio. E’ ristabilita l’adesione piena e definitiva tra il Creatore e la sua creatura. La morte e la risurrezione del Signore sono il suggello di una umanità rinnovata, perché salvata dal dramma della separazione da Dio, nel tempo e nell’eternità.

    L’Eucaristia “è l'incontro e l'unificazione di persone; la persona, però, che ci viene incontro e desidera unirsi a noi è il Figlio di Dio. Una tale unificazione può soltanto realizzarsi secondo le modalità dell'adorazione. Ricevere l'Eucaristia significa adorare Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui” (Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana, 22.XII.2005).

    Nella partecipazione liturgica al sacrificio di Cristo, l’anima cristiana diviene tempio della vita nuova dei figli di Dio, perché le è donata la capacità di adorare il disegno del Padre e di uniformarsi alla sua volontà. L’anima diventa davvero cristiana, perché l’adesione radicale a Dio da parte di Gesù le è partecipata, diventando in lei principio di nuova umanità. 

    - Il sacrificio di Cristo, in secondo luogo, è un sacrificio di propiziazione. Nella sua immolazione cruenta, infatti, il sacrificio del Signore è anche propiziazione per i peccati del mondo. Il dono sacrificale della croce suppone il peccato e lo sconfigge una volta per tutte e a vantaggio di tutti.

    Nella partecipazione liturgica al sacrificio di Cristo, l’anima cristiana riceve in dono la capacità di alterità radicale rispetto al male in ogni sua forma. E, tuttavia, è proprio qui che ha inizio il suo itinerario verso Dio. Quella capacità ricevuta in dono dovrà essere confermata progressivamente nel corso dell’esistenza; dovrà riproporsi anche come pentimento sincero a fronte di ogni piccolo e grande compromesso con il peccato; dovrà, poi, divenire accettazione della sofferenza nella propria vita, come forma di collaborazione con il Salvatore, nell’opera di riscatto a favore dei fratelli, accomunati dallo stesso destino di colpa.

    Si comprende così l’importanza delle preghiere e dei gesti che, nel corso della Santa Messa, favoriscono l’atteggiamento penitenziale e di conversione.

    - Il sacrificio di Cristo, inoltre, è un sacrificio di lode e di rendimento di grazie. In Cristo sacrificato sulla croce, in effetti, l’umanità intera innalza il suo inno di lode e di grazie al Padre per la salvezza donata. E in quella natura umana che il Signore porta in sé, è presente anche l’intera creazione che torna a orientarsi verso il suo Creatore. Insomma, in quell’atto sacrificale che si rinnova nella liturgia della Chiesa è l’intero cosmo che finalmente si rivolge a Dio, nel canto della lode e del ringraziamento.

    In tal modo l’anima cristiana diventa partecipe di un movimento cosmico di ritorno al Padre. Anzi, proprio  lei si fa portavoce di un tale ri-orientamento che comprende tutto e tutti, così che nel suo canto è il canto dell’intero creato già in qualche modo trasfigurato, anche se non ancora del tutto trasformato nei cieli nuovi e nella terra nuova dell’eternità.

    Tutto questo diviene realtà nell’ascolto partecipe, riverente e silenzioso della Preghiera eucaristica. In questa, che è la grande preghiera di azione di grazie e di santificazione, “il sacerdote invita il popolo a innalzare il cuore verso il Signore nella preghiera e nell’azione di grazie, e lo associa a sé nella solenne preghiera, che egli, a nome di tutta la comunità, rivolge a Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Il significato di questa Preghiera è che tutta l’assemblea dei fedeli si unisca insieme con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell’offrire il sacrificio” (Ordinamento Generale del Messale Romano, 78).

    La Chiesa in preghiera

    Cristo “è presente infine quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro» (Mt 18, 20)” (Sacrosanctum Concilium, 7).

    La citata affermazione conciliare ci porta a considerare l’itinerario dell’anima verso Dio, in quanto inserita nel mistero della Chiesa. E qui è mia intenzione richiamare tre distinti aspetti della questione.

    1. “Il mistero della Chiesa che la liturgia fa presente non è l’assemblea visibile: attraverso di essa e per essa è tutta la Chiesa che si fa presente… Con Cristo si fanno presenti i Santi che sono un solo Corpo con Lui. E’ presente Dio che si comunica, ma Cristo non è realmente presente se non è presente con Lui un’umanità, cui Egli si è veramente comunicato. La Chiesa si fa presente non tanto nell’assemblea, quanto per mezzo dell’assemblea visibile: l’assemblea è la condizione e il segno della presenza di una Chiesa che è peregrinante negli uomini quaggiù ed è già trionfante nella presenza dei Santi…” (Divo Barsotti, Il mistero della Chiesa nella liturgia, p. 100-101).

    In tal modo l’anima cristiana, mediante l’atto liturgico, rinnova e approfondisce l’esperienza della Chiesa, che è comunione intima di Cielo e terra. Davvero, nella liturgia, il Cielo di Dio si rende presente sulla terra dell’uomo. E l’uomo, da questo Cielo, rimane “impressionato”, nel senso che la grandezza e la bellezza del Cristo totale si imprimono nel suo cuore, rendendolo capace di annuncio e di speranza.

    Capace di annuncio, perché l’impronta di Cielo che porta in sé diventa essa stessa voce eloquente davanti al mondo, richiamo suadente alla verità e alla gioia della salvezza.

    Capace di speranza, perché ciò che i suoi occhi hanno veduto apre il tempo all’eternità di Dio ed è promessa di un “per sempre” che attende al di là della fine dei giorni terreni.

    D’altra parte, la celebrazione liturgica, nel suo rendere presente il mistero della Chiesa, consente all’anima cristiana di prendere parte a quel cammino spirituale che Romano Guardini definiva “il risveglio della Chiesa nelle anime”. Lì, infatti, si avverte la vitalità della Chiesa; lì si entra in relazione con quel soggetto vivente che abbraccia il tempo e lo spazio riconducendoli a Dio; lì si percepisce di essere parte di una comunione di amore che discende dal Capo, che è Cristo, e fonde in un corpo solo noi, sue membra. E l’anima cristiana, essa stessa, diviene Chiesa perché in lei si rende in qualche modo presente il mistero dell’unità tra Cielo e terra.

    2. Con il Signore, nella Chiesa che prega, si fanno presenti i santi. La liturgia è anche la presenza dei santi, di coloro che definitivamente vivono in Cristo, qui tra di noi.

    Nella liturgia cristiana i santi sono sempre associati al canto, al ringraziamento, alla lode, alla preghiera di coloro che vivono ancora l’esperienza del pellegrinaggio terreno. I santi, pertanto, non sono solo intercessori cui rivolgersi per chiedere grazie e aiuto; neppure sono soltanto esempi da imitare per meglio seguire il Signore nel cammino del discepolato. I santi, nella liturgia della Chiesa, sono presenti, parte di una famiglia grande che vive nel tempo e al di fuori del tempo.

    In tal modo l’uomo viatore supera la sua solitudine e vive la gioia di un’appartenenza comune che sostiene il suo itinerario per le strade del mondo. Il Canone romano invita a ricordare prima i cori degli Angeli e poi gli Apostoli, i Martiri, i Confessori, le Vergini. Infine parla degli uomini che vivono quaggiù, di noi peccatori. Nel ritrovarci compagni di viaggio di quanti hanno già raggiunto la meta, avvertiamo il rinnovato coraggio di intraprendere anche noi il loro stesso itinerario di santità. Così la loro presenza diventa stimolo a non tergiversare, ad abbandonare il compromesso con la mondanità, a interrompere ogni legame con il peccato, a rivolgere con decisione la mente e il cuore al vero Bene.

    3. Nel mistero della Chiesa, che la liturgia rende presente, riconosciamo anche la figura della SS. Vergine.

    In lei tutta la Chiesa si identifica, perché a lei Dio si è donato totalmente. In lei si rivela la redenzione compiuta. La liturgia contempla Dio che si comunica al mondo in Cristo, ma contempla anche un mondo tutto pervaso dalla gloria di Dio. E questo mondo è la Vergine Santa.

    Tutta la creazione non riceverà mai Dio più di come l’ha ricevuto Maria, mistero della presenza di Dio sulla terra. La Vergine non dice altro che “Dio”. Lei, che è puro cristallo, non ferma a sé ma rimanda a Dio. Questa è la Vergine, questa è anche la Chiesa, la Sposa che si abbandona totalmente all’Amore per riceverlo tutto.

    L’anima cristiana, dalla contemplazione liturgica della Vergine Sposa, apprende quale sia la sua chiamata. L’inveramento in lei del mistero della Chiesa coincide con il suo essere sposa, termine dell’amore del Signore al quale abbandonarsi con totale generosità. Quando sant’Ambrogio guarda alla Madonna e si rivolge all’anima cristiana con l’invito accorato: “Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio” (Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 26), non dice altro che questo. Nel lasciare che il proprio cuore si renda accogliente dell’anima e dello spirito di Maria, l’uomo si apre alla dimensione della sponsalità, divenendo partecipe del mistero grande che lega Cristo alla sua Chiesa.

     

    Due ultime osservazioni 

    La custodia del sacro liturgico

    Se si è partiti dal richiamo alla sacralità liturgica per fondare il discorso dell’itinerario dell’anima verso Dio e se, a più riprese, si è cercato di indicare in quale modo una tale sacralità fonda e accompagna il percorso spirituale dell’uomo, vale la pena, forse, ricordare quanto sia importante che la celebrazione liturgica, ogni celebrazione liturgica sappia custodire il “sacro liturgico”.

    Custodire il “sacro liturgico” significa custodire in forma chiara e nitida la realtà della presenza e dell’opera di Cristo all’interno del Rito, facendo in modo che tutto concorra a mettere in risalto il primato del mistero della salvezza che viene celebrato. Come ricorda il Santo Padre Benedetto XVI: “Se nella liturgia non emergesse la figura di Cristo, che è il suo principio ed è realmente presente per renderla valida, non avremmo più la liturgia cristiana, completamente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza creatrice” (Discorso ai Vescovi della Conferenza Episcopale del Brasile – Regione Norte 2- in Visita “ad limina apostolorum”, 15 aprile 2010).

    Non è questo il luogo per scendere nel dettaglio. Sia, tuttavia, sufficiente il richiamo alla bellezza, quale elemento integrante e non accessorio della liturgia della Chiesa. Solo ciò che è veramente bello è anche comunicativo del bene e del vero e, pertanto, è capace di custodire il sacro, ovvero lo stesso Signore Gesù, volto definitivo dell’amore di Dio.

    In questo senso la custodia attenta e premurosa del sacro è un servizio prezioso all’anima cristiana e al suo itinerario verso Dio. L’ormai celebre adagio “la bellezza salverà il mondo” è quanto mai appropriato in questo contesto. Solo la bellezza, ovvero solo Gesù Cristo può salvare il mondo. Solo la sua bellezza, custodita dalla sacralità della liturgia, potrà attirare l’anima cristiana nel mondo nuovo della santità, dove la stessa bellezza di Dio è comunicata all’uomo e diventa concretamente attingibile da tutti.

     

    L’elogio dell’ “otium”

    Il richiamo alla dimensione del sacro, insito nella liturgia, per illustrare l’itinerario dell’anima verso Dio ha inteso privilegiare la dimensione oggettiva della vita spirituale rispetto al percorso soggettivo. Il che, in altri termini, significa anche affermare il primato della via dell’accoglienza del dono rispetto a quella della confusa e affannata ricerca. In fondo, si tratta dello specifico della fede cristiana applicato all’itinerario spirituale dell’uomo.

    Il celebre filosofo tedesco J. Pieper afferma: “L’otium non è l’atteggiamento di chi assale, invade, ma di chi s’apre accogliente; non sta nel comportamento di chi stringe afferrando, ma di chi allenta, di chi si distende, abbandonandosi, quasi come s’abbandona il dormiente…” (“Otium” e culto, p. 61).

    In questo senso l’ “otium” è ciò che accade nel cuore dell’uomo quando egli si trova in armonia con la verità di sé, è la condizione spirituale che nasce dall’adesione al dono di Dio, simile al colloquio degli amanti che si nutre di intimo accordo.

    Il Santo Padre Benedetto XVI, in un suo discorso, accenna all’oscuramento del significato cristiano del mistero, declinando il possibile pericolo così: “…come avviene quando nella Santa Messa non appare più preminente e operante Gesù, ma una comunità indaffarata in molte cose, invece di essere raccolta e di lasciarsi attrarre verso l'Unico necessario: il suo Signore. Ora l'atteggiamento principale e fondamentale del fedele cristiano che partecipa alla celebrazione liturgica non è fare, ma ascoltare, aprirsi, ricevere” (Discorso ai Vescovi della Conferenza Episcopale del Brasile – Regione Norte 2- in Visita “ad limina apostolorum” 15 aprile 2010).

    E’, dunque, quanto mai importante custodire con cura la dimensione contemplativa della liturgia, quella particolare forma di “otium” che è lo spazio spirituale dell’apertura e della partecipazione al Mistero celebrato. Anche una tale custodia è un servizio prezioso all’anima cristiana e al suo itinerario verso Dio.

    L’anima cristiana ha di fronte a sé una duplice via: quella dell’ “otium” e quella della “acedia”, intesa come mancanza di armonia con il proprio essere e, in ultima analisi, con Dio. L’azione sacra della Chiesa che è la liturgia si propone all’anima cristiana come scuola alta di “otium”, ovvero di quella contemplazione attiva che apre alla partecipazione della salvezza donata da Dio. Di questo “otium” si è inteso fare qui l’elogio. Perché è proprio in virtù di questo “otium” che l’anima cristiana può compiere felicemente il proprio itinerario verso Dio.

     

     

    Mons. Guido Marini
    Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie

      [SM=g1740733]

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 21/03/2013 11:30

    UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
    DEL SOMMO PONTEFICE
     

    IL LINGUAGGIO DELLA CELEBRAZIONE LITURGICA

    Corso: “Ars celebrandi”
    Roma, Pontificia Università della Santa Croce, 24 febbraio 2011

     

     

    La necessità della teologia liturgica

    Parlare di linguaggio significa per ciò stesso fare riferimento a una realtà dotata di parola e che esprime se stessa mediante la parola. Il linguaggio, da questo punto di vista, non può mai essere svincolato dal soggetto parlante. Quel linguaggio lo si potrà considerare vero, in quanto pienamente corrispondente al soggetto da cui scaturisce, o lo si potrà considerare falso, ovvero non in sintonia con la verità del soggetto a cui appartiene. Ma, sempre e comunque, lo si dovrà valutare in relazione a quella realtà dalla quale trae origine.

    In tal modo, proprio la considerazione del rapporto tra linguaggio e soggetto parlante sarà in grado di aiutarci a rilevare la verità e meno della parola formulata.

    Al riguardo, sperando di non azzardare troppo, prendo a prestito la relazione esistente nel vangelo, e così ben delineata da Sant’Agostino, tra Giovanni Battista e il Signore Gesù. Come tutti ben ricordiamo, il Precursore si presenta come voce di un Altro. Una voce che a quell’Altro manifesta assoluta dipendenza e fedeltà. Non intende, infatti, dire nulla di diverso, né di più né di meno, di quanto l’Altro intenda affermare.

    Riascoltiamo per un momento il grande Vescovo di Ippona: “Giovanni è la voce che passa, Cristo è il Verbo eterno che era in principio. Se alla voce togli la parola, che cosa resta? Dove non c’è senso intelligibile, ciò che rimane è semplicemente un vago suono. La voce senza parola colpisce bensì l’udito, ma non edifica il cuore” (Discorso 293, 3; PL 1328-1329).

    L’immagine agostiniana ci consente di introdurre il tema di cui si deve trattare: ovvero “Il linguaggio della celebrazione liturgica”. In effetti, parlare di linguaggio della celebrazione liturgica sottende che si abbia ben presente che cosa è la celebrazione liturgica o, in termini ancora più generali, che cosa è la liturgia. Altrimenti si corre il rischio di perdersi in un discorso superficiale e disancorato dalle ragioni profonde di un linguaggio che, solo a partire da quelle ragioni, può essere compreso e correttamente praticato; per tornare al paragone accennato, ci ritroviamo ad ascoltare una voce che non ha il retroterra vitale della parola.

    E’ per questo motivo che intendiamo sviluppare il discorso sul linguaggio liturgico a partire dall’essenza della liturgia, così da ritrovare la radice da cui scaturisce il suo ricco patrimonio espressivo. In altre parole, solo una ben corredata teologia liturgica è in grado di avviare un discorso corretto sulla liturgia in quanto celebrata e dotata di un suo proprio linguaggio. Ritorna sempre pertinente, al di là di ogni sua possibile interpretazione e contestualizzazione storica, l’antico adagio di Prospero di Aquitania: “Lex orandi – lex credendi”. La Liturgia è la fede celebrata.

     

    Un ritratto sintetico dell’essenza della liturgia

    Diventa così necessario soffermarsi a illustrare in sequenza alcuni tratti distintivi che caratterizzano l’essenza della liturgia, considerandone poi le conseguenza per quanto attiene l’espressività linguistica. La qual cosa intendo fare riferendomi al Catechismo della Chiesa Cattolica, quale sintesi attualmente più autorevole, anche per quanto attiene alla liturgia, dell’insegnamento del Concilio Vaticano II e del magistero successivo presentato e interpretato in un rapporto di sviluppo nella continuità con la grande tradizione ecclesiale dei secoli precedenti.

    Vale la pena, al riguardo, citare i numeri con i quali il testo del Catechismo riassume quanto fin lì affermato in merito alla liturgia, intesa come opera della Santa Trinità.

    1110. Nella Liturgia della Chiesa Dio Padre è benedetto e adorato come la sorgente di tutte le benedizioni della creazione e della salvezza, con le quali ci ha benedetti nel suo Figlio, per donarci lo Spirito dell’adozione filiale.

    1111. L’opera di Cristo nella Liturgia è sacramentale perché il suo Mistero di salvezza vi è reso presente mediante la potenza del suo Santo Spirito; perché il suo Corpo, che è la Chiesa, è come il sacramento (segno e strumento) nel quale lo Spirito Santo dispensa il Mistero della salvezza; perché, le sue azioni liturgiche, la Chiesa pellegrina nel tempo partecipa già, pregustandola, alla Liturgia celeste.

    1112. La missione dello Spirito Santo nella Liturgia della Chiesa è di preparare l’assemblea a incontrare Cristo; di ricordare e manifestare Cristo alla fede dell’assemblea; di rendere presente e attualizzare, con la sua potenza trasformatrice, l’opera salvifica di Cristo, e di far fruttificare il dono della comunione nella Chiesa.

    Tenendo presente questa bella sintesi formulata dal Catechismo e senza perdere di vista quanto affermato nello stesso Catechismo nella sua altre parti riguardanti la celebrazione del mistero cristiano, vediamo di illustrare quei tratti distintivi di cui si parlava poc’anzi e che caratterizzano l’essenza della liturgia della Chiesa.

     

    La liturgia è opera di Cristo

    Alcuni anni fa, nel 2009, è stato pubblicata una raccolta di contributi sulla liturgia del Cardinale Joseph Ratzinger, dal titolo:

    “Davanti al protagonista. Alle radici della liturgia”.

    Si tratta semplicemente di un titolo, non c’è dubbio. A parte il fatto, però, che risulta essere un titolo quanto mai appropriato a illustrare il contenuto del libro, è anche particolarmente indicativo di ciò che troviamo alle radici del discorso sulla liturgia. Alle radici vi troviamo Gesù Cristo, il Protagonista, il vero e più importante Protagonista della liturgia.

    Attraverso la liturgia, infatti, il Signore continua nella sua Chiesa l’opera della nostra Redenzione (cf. Sacrosanctum concilium, 2). Ciò che è stato nella storia, ovvero il mistero pasquale, il mistero della nostra salvezza, si rende oggi presente nella celebrazione liturgica della Chiesa. In tal modo il Salvatore non è un ricordo del tempo passato, ma è il Vivente che continua la sua azione salvifica nella Chiesa, comunicando la sua vita che è grazia e anticipo di eternità.

    Nella stessa celebrazione eucaristica, l’assemblea radunata risponde al “Mistero della fede”, successivo alla consacrazione, con le parole tanto significative: “Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta”. In questa formulazione della liturgia romana ritroviamo descritti i tre momenti propri di ogni celebrazione sacramentale: ovvero la memoria del passato evento salvifico, la presente azione di grazia nella celebrazione, l’anticipazione della gloria futura.

    In tal modo, la Chiesa, convocata per la celebrazione liturgica, rinnova ogni volta l’esperienza della verità dell’affermazione paolina: “Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb 13, 9). Quel Gesù che ieri, in un preciso momento storico, ha vissuto il mistero della sua Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione, è lo stesso Gesù di cui oggi, nel tempo che scorre, si rinnova sacramentalmente il mistero della salvezza, così che tutti possano accedervi personalmente. Ed è sempre lo stesso Gesù che la Chiesa attende tornare nella gloria, pregustando però fin da ora, come anticipazione, la gioia della sua presenza e della sua opera.

    La liturgia della Chiesa ha una modalità discreta e al contempo chiara di ricordare al popolo di Dio, radunato per la celebrazione dei divini misteri, la presenza fondamentale del grande Protagonista. Mi riferisco al saluto liturgico “Il Signore sia con voi”, che più volte ricorre, ad esempio nella Messa. Questo saluto è scambiato tra celebrante e fedeli all’inizio della celebrazione, più avanti ritorna al momento della proclamazione del vangelo, ancora lo troviamo all’inizio della preghiera eucaristica e, infine, prima della benedizione finale e del congedo. Ogni volta viene così manifestata la presenza del Signore. All’inizio una tale presenza è affermata nella comunità radunata e, in uno modo peculiare, nella persona del sacerdote a motivo del sacramento dell’ordine; al vangelo si ricorda la presenza del Signore nella sua parola proclamata; più tardi, all’inizio della preghiera eucaristica, si annuncia la reale presenza di Cristo nel suo Corpo dato e nel suo Sangue sparso; infine, prima della benedizione e del congedo, si invoca la presenza del Signore nella vita quotidiana dei suoi discepoli.

    E’ solo un esempio tra i molti, per dire che non è pensabile andare all’essenza della liturgia senza riaffermare che il suo primo Protagonista è Gesù Cristo. Si ricordi ciò che afferma la Costituzione sulla sacra liturgia del Concilio Vaticano II: «Per realizzare un’opera così grande (la comunicazione della sua opera di salvezza) Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche. E’ presente nel Sacrificio della Messa sia nella persona del ministro, “egli che, offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso per il ministero dei sacerdoti”, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. E’ presente con la sua virtù nei sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. E’ presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura. E’ presente, infine, quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso. “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro” (Mt 18, 20)» (n. 7).

     

    La nobile semplicità

    La presenza misteriosa e reale di Cristo nella liturgia e il suo essere protagonista nel rito celebrato richiede al linguaggio liturgico lo splendore della nobile semplicità, secondo la celebre dizione del Concilio Vaticano II (cf. Sacrosanctum concilium, n. 34). Ho parlato di “splendore della nobile semplicità”, perché questa è l’espressione completa usata dai Padri Conciliari.

    Come sempre, ogni indicazione magisteriale deve essere letta e compresa nel contesto più ampio del tema di cui si tratta e in relazione di sviluppo armonico con l’intero insegnamento della Chiesa. In tal modo, ma non è possibile dilungarsi, si vede con chiarezza quanto siano distanti dal vero quelle insistenze di taluni sopra un certo modo di intendere la semplicità che, a volte, hanno indotto a rendere il rito liturgico sciatto, banale, noioso, insignificante. Si tratta di un modo di intendere la semplicità, non fondato sull’insegnamento della Chiesa e la sua grande tradizione liturgica, ma su precomprensioni di tipo ideologico e sociologico.

    Ma ascoltiamo, in proposito, Benedetto XVI, nell’Esortazione apostolica post sinodale sull’Eucaristia Sacramentum caritatis: “Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor… Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui  la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore… La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra… La bellezza pertanto non è un fatto decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la propria natura” (n. 35).

    Le parole del Papa non potrebbero essere più chiare. Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di grettezza, di minimalismo e di male inteso pauperismo nella celebrazione liturgica. E questo, certo, non per fare spettacolo o per un vuoto estetismo. Il bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione, è la modalità propria in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della bellezza dell’amore di Dio. Ecco perché non si farà mai abbastanza per rendere belli i nostri riti. Ce lo insegna la Chiesa, che nella sua lunga storia non ha mai avuto timore di “sprecare” per circondare la celebrazione liturgica con le espressioni più alte dell’arte: dall’architettura, alla scultura, alla musica, agli oggetti sacri. Ce lo insegnano i santi che, pur nella loro personale povertà ed eroica carità, hanno sempre desiderato che al culto fosse destinato il meglio.

    Ascoltiamo ancora Benedetto XVI: “Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!” (Omelia alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 12 settembre 2008).

     

    La liturgia è azione della Chiesa

    Tutti abbiamo bene in mente la definizione-descrizione che della liturgia dà il Concilio Vaticano II, prendendo anche a prestito quanto già affermato da Pio XII nell’Enciclica “Mediator Dei”: “Giustamente perciò la liturgia è ritenuta quell’ufficio sacerdotale di Gesù Cristo, mediante il quale con segni sensibili viene significata e, in modo proprio a ciascuno, realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitata dal Corpo Mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne eguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado” (Sacrosanctum concilium, n. 7).

    Dall’affermazione che la liturgia è azione della Chiesa derivano alcune considerazioni di non poca importanza per quell’essenza della liturgia che si va illustrando. In effetti, quando si dice che la Chiesa è soggetto agente si fa riferimento alla Chiesa tutta, in quanto soggetto vivente che attraversa il tempo, che si realizza nella comunione gerarchica, che è insieme realtà ancora pellegrinante sulla terra e realtà già approdata sulle rive della Gerusalemme celeste.

    Nell’agosto del 2006, a Castelgandolfo, Benedetto XVI, rispondendo alla domanda di un sacerdote, nel corso di un incontro con il clero della diocesi di Albano, si esprimeva così nello stile discorsivo tipico di un colloquio: “La Liturgia è cresciuta in due millenni e anche dopo la riforma non è divenuta qualcosa di elaborato soltanto da alcuni liturgisti. Essa rimane sempre continuazione di questa crescita permanente dell'adorazione e dell'annuncio. Così, è molto importante, per poterci sintonizzare bene, capire questa struttura cresciuta nel tempo ed entrare con la nostra mens nella vox della Chiesa. Nella misura in cui noi abbiamo interiorizzato questa struttura, compreso questa struttura, assimilato le parole della Liturgia, possiamo entrare in questa interiore consonanza e così non solo parlare con Dio come persone singole ma entrare nel «noi» della Chiesa che prega. E così trasformare anche il nostro «io» entrando nel «noi» della Chiesa, arricchendo, allargando questo «io», pregando con la Chiesa, con le parole della Chiesa, essendo realmente in colloquio con Dio”.

    Entrare nel “noi” della Chiesa che prega. Questo “noi” ci parla di una realtà, la Chiesa appunto, che va al di  là dei singoli fedeli, delle singole comunità, dei singoli gruppi. Perché lì la Chiesa si manifesta e si rende presente nella misura in cui si vive la comunione con la Chiesa intera, quella Chiesa che è cattolica, universale, di una universalità che raggiunge tutti i tempi, tutti i luoghi, e varca la soglia del tempo per lasciarsi raggiungere dall’eternità.

    Ne consegue che fa parte dell’essenza della liturgia il fatto che questa abbia anzitutto  il tratto della cattolicità, dove unità e varietà si compongono in armonia così da formare una realtà sostanzialmente unitaria pur nella legittima diversità delle forme. E poi il tratto della non arbitrarietà, che consegnerebbe alla soggettività del singolo o del gruppo ciò che invece appartiene a tutti come tesoro consegnato e da custodire e trasmettere. E ancora il tratto della continuità storica, in virtù della quale l’auspicabile sviluppo appare quello di un organismo vivo che non rinnega il proprio passato, attraversando il presente e orientandosi al futuro. E, infine, il tratto della partecipazione alla liturgia del cielo, per il quale è quanto mai appropriato parlare della liturgia della Chiesa come dello spazio umano e spirituale nel quale il cielo si affaccia sulla terra.

    Quanto fin qui detto in merito alla liturgia come azione della Chiesa non sarebbe sufficiente se non si aggiungesse il tema della partecipazione. Infatti è proprio la liturgia intesa come azione della Chiesa che esige una partecipazione che sia consapevole, attiva e fruttuosa (cf. Sacrosanctum concilium, n. 11). Ogni considerazione in merito rischia di essere senza costrutto e fuorviante se il punto di partenza non è l’azione di Cristo e della Chiesa. E’ proprio questa azione quella che chiede di essere partecipata in modo consapevole, attivo e fruttuoso. E ciò è possibile se si realizza una autentica comunione del fedele con l’agire della Chiesa e l’agire di Cristo.

    Ma qual è l’agire della Chiesa? E’ l’agire della Sposa che tende a diventare un’unica realtà con Cristo Sposo e con il suo agire. E qual è l’agire di Cristo? La sua offerta di amore al Padre per la nostra salvezza. Di conseguenza, la partecipazione consapevole, attiva e fruttuosa in liturgia si ha nella misura in cui ciascuno e tutti condividiamo l’azione della Chiesa che tende allo Sposo e, dunque, ci lasciamo coinvolgere dall’azione dello Sposo che è donazione d’amore al Padre per la salvezza del mondo.  

    In quanto della Chiesa, poi, una tale azione dovrà realizzare e manifestare la Chiesa stessa, segno visibile della comunione di Dio e degli uomini, in Cristo. E avere, dunque, anche una sua rilevanza esterna, fatta di altre azioni che, esprimendo la compartecipazione di tutti nel modo proprio di ciascuno, troveranno sempre la loro motivazione nell’essere vie di partecipazione all’agire di Cristo. Non si potrebbe parlare, pertanto, di partecipazione autenticamente attiva se, ad esempio, colui che proclama le letture, presenta le offerte, serve all’altare, anima il canto, svolge qualunque altro ministero liturgico non trovasse in questa sua particolare modalità di presenza al rito la via per entrare in comunione con l’agire della Chiesa e di Cristo.

     





    [SM=g1740771]  continua.........

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    00 21/03/2013 11:31

    [SM=g1740758] Il canto e la musica

    Considerando la liturgia come azione della Chiesa intera, nel significato sopra indicato, mi piace al riguardo spendere una parola su quel fondamentale linguaggio liturgico che è il canto, considerato insieme alla musica.

    Dice il salmista: “Un canto di lode mi onora, ed esso è la via per la quale mostrerò la salvezza di Dio” (Sal 49, 23). E così commenta san Gregorio Magno: Ciò che in latino suona salutare, salvezza, in ebraico si dice Gesù. Nel canto di lode perciò viene creata una via di accesso, per la quale Gesù può rivelarsi, poiché quando mediante il canto dei Salmi viene riversata in noi la vera contrizione, si apre in noi una strada che conduce nel profondo del cuore, alla fine della quale si giunge a Gesù…” (In Ez I hom. I, 15).

    Così il canto e la musica in liturgia, quando sono nella verità del loro essere, nascono dal cuore che ricerca il mistero di Dio e diventano un’esegesi dello stesso mistero, parola che nella nota musicale si apre sull’orizzonte della salvezza, di Cristo. Pertanto c’è un legame intrinseco tra la parola, la musica e il canto nella celebrazione liturgica. Musica e canto, infatti, non possono essere slegati dalla parola, quella di Dio, della quale invece devono essere interpretazione fedele e disvelamento. Il canto e la musica in liturgia partono dalle profondità del cuore, e dunque da Cristo che lo abita, e riportano al cuore, vale a dire a Cristo che della domanda del cuore è risposta vera e definitiva. Questa è l’oggettività del canto e della musica liturgica, che non dovrebbe mai essere consegnata all’estemporaneità superficiale di sentimenti e di emozioni passeggere non rispondenti alla grandezza del mistero celebrato. Questa è la grande dignità del canto e della musica in liturgia, dove la semplicità non può in alcun modo fare rima con banalità e mera utilità

    E’ giusto, quindi affermare che il canto e la musica in liturgia nascono dalla preghiera e portano alla preghiera, permettendo a noi di esprimerci con il linguaggio autentico della liturgia. In tal modo il canto diventa una via privilegiata di legame tra cielo e terra, di esperienza di comunione tra la Chiesa pellegrina e la Gerusalemme celeste, tra il mondo degli uomini e il mondo di Dio.

    Mi sia consentito qui, parlando del canto e della musica, di fare brevemente cenno alla lingua latina. Non è il caso di fare ora riferimento ai numerosi testi del magistero, anche recente e contemporaneo, che auspicano un significativo uso del latino in liturgia. Basti qui ricordare quale straordinario tesoro di canto e musica per la liturgia ci hanno consegnato i secoli passati. E qualcosa di quel tesoro la Chiesa lo ha definito perennemente valido, in sé e quale criterio per stabilire ciò che può essere davvero liturgico nelle nuove forme musicali che si vanno sviluppando nel tempo. Mi riferisco al gregoriano e alla polifonia sacra classica, forme di canto liturgico che consentono di valutare, oggi come ieri, ciò che attiene alla liturgia e ciò che, pur di valore artistico e di contenuto religioso, non può avere spazio nella celebrazione liturgica. Il valore perenne del gregoriano e della polifonia classica consiste nella loro capacità di farsi esegesi della parola di Dio e, dunque, del mistero celebrato, di essere al servizio della liturgia senza fare della liturgia uno spazio al servizio della musica e del canto. Potremo noi rinunciare a mantenere in vita tali tesori che secoli di storia della Chiesa ci hanno consegnato? Potremo noi fare a meno di attingere ancora oggi a quel patrimonio di spiritualità straordinario? Come sarà mai possibile dare corpo a un più ampio e degno repertorio di canto e di musica per la liturgia se non ci saremo lasciarti educare da ciò che lo deve ispirare? E’ in gioco, anche in questo caso, l’elemento essenziale dello sviluppo e della riforma della continuità dell’unico soggetto Chiesa.

    Ecco perché dobbiamo conservare nei modi dovuti il latino. Senza dimenticare anche altre componenti di questa lingua liturgica, quale la sua capacità di dare espressione a quella universalità e cattolicità della Chiesa, a cui davvero non è lecito rinunciare. Come non provare, al riguardo, una straordinaria esperienza di cattolicità quando, nella basilica di San Pietro, uomini e donne di tutti i continenti, di nazionalità e lingue diverse pregano e cantano insieme nella stessa lingua? Chi non percepisce la calda accoglienza della casa comune quando, entrando in una chiesa di un paese straniero può, almeno in alcune parti, unirsi ai fratelli nella fede in virtù dell’uso della stessa lingua?

    Perché questo continui a essere concretamente possibile è necessario che nelle nostre chiese e comunità l’uso del latino sia conservato, in via ordinaria e con la dovuta saggezza pastorale.

     

    La Liturgia è preghiera adorante

    Il tema della partecipazione, che è stato prima accennato, offre ora l’opportunità di ampliare quanto già detto in merito all’agire di Cristo nella Liturgia.

    Lo facciamo lasciandoci condurre per mano da una fondamentale argomentazione del teologo Ratzinger: “Con il termine ‘actio’ riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio: la grande preghiera, che costituisce il nucleo della celebrazione liturgica e che proprio per questo, nel suo insieme, è stata chiamata dai Padri con il termine oratio. Questa definizione era corretta già a partire dalla stessa forma liturgica, poiché nella oratio si svolge ciò che è essenziale alla Liturgia cristiana […] Questa oratio – la solenne preghiera eucaristica, ‘il canone’ - … è actio nel senso più alto del termine. In essa accade, infatti, che l’actio umana … passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio” (Introduzione allo spirito della Liturgia, pp. 167-168).

    Nella oratio, di conseguenza, si svolge ciò che è essenziale alla liturgia cristiana. Ci domandiamo: “Che cosa è questo essenziale che si svolge?” Rispondiamo, seguendo il testo di Ratzinger: “L’agire di Dio”. Ora si tratta di approfondire in che cosa consista l’agire di Dio.

    Si tratta dell’agire di Dio in Cristo, ovvero di quell’atto pregato mediante il quale il Signore offre la vita al Padre per la salvezza del mondo. Che si tratti di un atto pregato lo ricorda Benedetto XVI in un passo dell’omelia per la Messa “in Coena Domini” del 2009: “Come prima cosa  - affermava il Santo Padre - ci colpirà che il racconto dell’istituzione non è una frase autonoma, ma comincia con un pronome relativo: qui pridie. Questo “qui” aggancia l’intero racconto alla precedente parola della preghiera, “… diventi per noi il corpo e il sangue del tuo amatissimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo”. In questo modo, il racconto è connesso con la preghiera precedente, con l’intero Canone, e reso esso stesso preghiera. Non è affatto semplicemente un racconto qui inserito, e non si tratta neppure di parole autoritative a sé stanti, che magari interromperebbero la preghiera. È preghiera. E soltanto nella preghiera si realizza l’atto sacerdotale della consacrazione che diventa trasformazione, transustanziazione dei nostri doni di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo”.

    Ma che cosa avviene in quell’atto pregato del Signore, in quel suo atto che è preghiera? In quell’agire gli elementi della terra vengono accolti e trasformati nel suo corpo e nel suo sangue, così che il nuovo cielo e la nuova terra vengono anticipati. In quell’agire si compie il gesto di adorazione supremo che riconduce alla verità del proprio essere l’umanità tutta e la creazione intera: ogni realtà ritrova la sua ragione d’essere in Dio e nella dipendenza da lui.

     Così la liturgia è adorazione in quanto rende presente in modo sacramentale il sacrificio della croce nel quale Gesù ha reso gloria al Padre con il suo sì, segno di un amore condotto “fino alla fine”, adorazione radicale di Dio e della sua volontà. Così la liturgia è preghiera in quanto preghiera di Cristo rivolta al Padre nello Spirito, perché accolga il suo sacrificio.

    Ecco perché la liturgia cristiana è atto che conduce all’adesione, ovvero alla riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo stato di separazione, alla comunione di vita con Cristo.

    E tutto questo è quanto la Chiesa, sposa di Cristo, vive nella celebrazione della liturgia. Adora e aderisce, adora per aderire. In effetti, ciò che ancora ne risulta essenziale per la liturgia è che coloro che vi partecipano preghino per condividere lo stesso sacrificio del Signore, il suo atto di adorazione, diventando una solo cosa con lui, vero corpo di Cristo. In altre parole, ciò che è essenziale è che alla fine venga superata la differenza tra l’agire di Cristo e il nostro agire, tra la sua vita e la nostra vita, tra il suo sacrificio adorante e il nostro, così che vi sia una sola azione, ad un tempo sua e nostra. Quanto affermato da san Paolo non può che essere l’indicazione di ciò che è essenziale conseguire in virtù della celebrazione liturgica: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 19-20).

    Ascoltiamo, al riguardo, Divo Barsotti, in una sua celebra opera sulla liturgia: “E l’Avvenimento, l’Atto del Cristo, è prima di tutto Sacrificio, Sacrificio di adorazione. Il Verbo, nella natura umana che Egli ha assunto, riconosce con la sua Morte l’infinita santità di Dio e la sua sovranità. In Lui la creazione finalmente adora […] Una partecipazione nostra al Sacrificio di Gesù importa che noi si viva lo stesso annientamento suo… La condizione terrestre della nostra vita, nella sua accettazione volontaria, diviene il segno di una nostra partecipazione al Sacrificio di Gesù, alla sua adorazione” (Il mistero della Chiesa nella Liturgia, edizioni San Paolo, pp. 174-175).

     

    Il sacro silenzio

    Se la liturgia è preghiera adorante, ciò significa che quando è ben celebrata, con il linguaggio che le è proprio, in diverse sue parti, deve prevedere una felice alternanza di silenzio e parola, dove il silenzio anima la parola, permette alla voce di risuonare con straordinaria profondità, mantiene ogni espressione vocale nel giusto clima del raccoglimento.

    Laddove vi fosse un predominio unilaterale della parola, non risuonerebbe l’autentico linguaggio della liturgia. Urge, pertanto, il coraggio di educare all’interiorizzazione, la disponibilità a imparare nuovamente l’arte del silenzio, di quel silenzio in cui apprendiamo quell’unica Parola che può salvare dall’accumularsi delle parole vane.

    Si ricordi, in proposito, quanto afferma l’Ordinamento Generale del Messale Romano: “Si deve osservare, a suo tempo, il sacro silenzio, come parte della celebrazione. La sua natura dipende dal momento in cui ha luogo nelle singole celebrazioni. Così, durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, il silenzio aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la Comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica” (n. 45).

    L’Ordinamento Generale, come d’altronde anche la Sacrosanctum Concilium (cf. n. 30) a cui l’Ordinamento si richiama, parli di “silenzio sacro”. Il silenzio richiesto, pertanto, non è da considerarsi alla stregua di una pausa tra un momento celebrativo e il successivo. E’ da considerarsi piuttosto come un vero e proprio momento rituale, complementare alla parola, alla preghiera vocale, al canto, al gesto...

    Da questo punto di vista, ci è dato di meglio capire il motivo per cui durante la preghiera eucaristica e, in specie, il canone, il popolo di Dio riunito in preghiera segue nel silenzio la preghiera del sacerdote celebrante. Si dice, infatti, al n. 78 dell’Ordinamento Generale del Messale Romano: “La Preghiera eucaristica esige che tutti l’ascoltino con riverenza e silenzio”. Quel silenzio non significa inoperosità o mancanza di partecipazione. Quel silenzio tende a far sì che tutti entrino nel significato di quel momento rituale che ripropone nella realtà del sacramento, l’atto di amore con il quale Gesù si offre al Padre sulla croce per la salvezza del mondo. Quel silenzio, davvero sacro, è lo spazio liturgico nel quale dire sì, con tutta la forza del nostro essere, all’agire di Cristo, così che diventi anche il nostro agire nella quotidianità della vita.

    Così il silenzio liturgico è davvero sacro perché è il luogo spirituale nel quale realizzare l’adesione di tutta la nostra vita alla vita del Signore, è lo spazio dell’“amen” prolungato del cuore che si arrende all’amore di Dio e lo abbraccia come nuovo criterio del proprio vivere. Non è forse questo il significato stupendo dell’“amen” conclusivo della dossologia al termine della preghiera eucaristica, nella quale tutti diciamo con la voce quanto a lungo abbiamo ripetuto nel silenzio del cuore orante?

    Se tutto questo è il senso del silenzio in liturgia, non è forse vero che le nostre liturgie hanno bisogno di più spazio per il sacro silenzio?

     

    L’adorazione

    Quanto si è detto in merito alla preghiera adorante, impone che tutto, nel linguaggio dell’azione liturgica, conduca all’adorazione: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la parola di Dio e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. Mi soffermo un istante su un gesto tipico e centrale dell’adorazione che oggi rischia di sparire, quale il mettersi in ginocchio, rifacendomi a un testo del cardinale Ratzinger: “Noi sappiamo che il Signore ha pregato stando in ginocchio (Lc 22, 41), che Stefano (At 7, 60), Pietro (At 9, 40) e Paolo (At 20, 36) hanno pregato in ginocchio. L’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2, 6-11) presenta la liturgia del cosmo come un inginocchiarsi di fronte al nome di Gesù (2, 10) e vede in ciò adempiuta la profezia isaiana (Is 45, 23) sulla signoria sul mondo del Dio d’Israele. Piegando il ginocchio nel nome di Gesù, la Chiesa compie la verità; essa si inserisce nel gesto del cosmo che rende omaggio al vincitore e così si pone dalla parte del vincitore poiché un tale inginocchiarsi è una rappresentazione e assunzione imitativa dell’atteggiamento di Colui che «era uguale a Dio» ed «ha umiliato se stesso fino alla morte»” (Rivista Communio, 35/1977).

    Verrebbe da chiedersi, a volte, se il ridursi sensibile dei segni del culto e dell’adorazione non siano motivati in profondità da un vacillare della fede in Gesù Figlio di Dio, unico e universale Salvatore di tutti, da un venir meno della certezza che senza conversione a Cristo e senza la grazia della croce non c’è salvezza per nessuno.

    E’ anche per questo che è da ritenersi del tutto appropriata la pratica di inginocchiarsi per ricevere la santa Comunione. A ulteriore conferma ascoltiamo il Santo Padre in un passaggio di Sacramentum caritatis: “Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n. 66).

    Si può parlare al riguardo di una contraddizione rispetto all’incedere processionalmente, quale segno di un popolo che di dirige verso il suo Signore? La Chiesa che, nel segno esteriore, si dirige in processione verso il Signore è la stessa Chiesa che, sempre nel segno esteriore, alla sua presenza, si inginocchia e adora. Ancora una volta si tratta di complementarietà in vista di una ricchezza più grande e non di esclusione.

    Anche alla luce di questo brano si capisce il motivo per cui il Santo Padre Benedetto XVI, in occasione della solennità del Corpus Domini del 2008, ha iniziato a distribuire la santa Comunione ai fedeli in ginocchio.

     

    La Liturgia è cosmica

    Nel suo celebre testo “Introduzione allo spirito della liturgia”, il Card. Ratzinger di dilunga per un intero capitolo, i cui contenuti vengono ripresi anche altrove all’interno del volume, sul rapporto tra Liturgia, cosmo e storia. Quelle pagine terminano con un brano che, di seguito, desidero citare: “Il circolo cosmico e quello storico sono ora distinti: l’elemento storico riceve il suo peculiare e definitivo significato dal dono della libertà come centro dell’essere divino e di quello creato, ma non viene per questo separato da quello cosmico. Malgrado la loro differenza, ambedue i circoli restano in definitiva all’interno dell’unico circolo dell’essere: la liturgia storica del cristianesimo è e rimane – inseparabilmente e inconfondibilmente – cosmica, e solo così essa sussiste in tutta la sua grandezza. C’è la novità unica della realtà cristiana, e tuttavia essa non ripudia la ricerca della storia delle religioni, ma accoglie in sé tutti gli elementi portanti delle religioni naturali, mantenendo in tal modo un legame con loro” (p. 31).

    Con queste parole, che sono a suggello di una lunga e articolata riflessione, il teologo Ratzinger intende sottolineare il legame inscindibile tra creazione e alleanza, ordine cosmico e ordine storico di rivelazione. L’alleanza, che è rivelazione storica di Dio all’uomo, non annulla la creazione, che è richiamo cosmico della presenza di Dio nella vicenda umana. Anzi, la creazione è il luogo nel quale si realizza l’alleanza e che trova il suo pieno e definitivo significato nell’alleanza. Mentre la stessa alleanza trova proprio nella creazione e nel cosmo il suo fondamento e la sua possibilità espressiva.

    Così, la Liturgia cristiana che porta in sé tutta la novità della salvezza in Cristo conserva e raccoglie ogni espressione di quella Liturgia cosmica che ha caratterizzato la vita dei popoli alla ricerca di Dio per il tramite della creazione. E’ quanto mai significativa e istruttiva, anche da questo punto di vista, la I Preghiera eucaristica o Canone romano, là dove ci si riferisce ai “doni di Abele, il giusto, il sacrifico di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione pura e santa di Melchisedech, tuo sommo sacerdote”.

    Come non ritrovare in questo passaggio della grande preghiera della Chiesa un riferimento ai sacrifici antichi, al culto cosmico e legato alla creazione che ora, nella Liturgia cristiana non solo non è rinnegato, ma anzi è assunto nel nuovo ed eterno sacrificio di Cristo Salvatore?

    E. d’altra parte, in questa stessa prospettiva non si può che guardare ai molteplici segni e simboli cosmici dei quali la Liturgia della Chiesa, insieme ai segni e ai simboli tipici dell’alleanza, fa uso al fine di dare forma al nuovo culto cristiano. Si pensi alla luce e alla notte, al vento e al fuoco, all’acqua e alla terra, all’albero e ai frutti. Si tratta di quell’universo materiale nel quale l’uomo è chiamato a rilevare le tracce di Dio. E si pensi ugualmente ai segni e ai simboli della vita sociale: lavare e ungere, spezzare il pane e condividere il calice.

    Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica “le grandi religioni dell’umanità testimoniano, spesso in modo impressionante, tale senso cosmico e simbolico dei riti religiosi. La Liturgia della Chiesa presuppone, integra e santifica elementi della creazione e della cultura umana conferendo loro la dignità di segni della grazia, della nuova creazione in Cristo Gesù” (n. 1149).

    Questo della dimensione cosmica della liturgia è un altro dei suoi elementi essenziali. Che, tra l’altro, introduce al grande tema dell’orientamento della preghiera liturgica. La preghiera rivolta a oriente, infatti, è una tradizione che ci conduce alle origini del cristianesimo e si presenta come sintesi tipicamente cristiana di cosmo e storia, di assunzione di un simbolo cosmico, quale è il sole, a espressione dell’universalità della salvezza in Cristo, al quale la comunità radunata si orienta con gioia e speranza.

    Nel momento in cui, per diversi motivi che non è qui il caso di ricordare, si è andata perdendo la consapevolezza della preghiera orientata a est, in direzione del sole che sorge, si rende quanto mia urgente recuperare questa dimensione liturgica che non si configura come una fuga romantica nel passato, ma come riscoperta dell’essenziale, di quell’essenziale nel quale la liturgia della Chiesa esprime il suo orientamento permanente.

     

    La centralità del crocifisso

    Così, anche dal punto di vista del corretto linguaggio liturgico, si comprende ora meglio il motivo della collocazione del crocifisso al centro dell’altare.

    Ma ascoltiamo direttamente prima le argomentazioni del teologo Ratzinger, in un brano del suo testo “La festa della fede”, e poi il pensiero di Benedetto XVI, espresso nella prefazione al volume della Sua Opera Omnia - Teologia della liturgia -, dedicato alla liturgia.

    “Il vero spazio e la vera cornice della celebrazione eucaristica è tutto il cosmo. Questa dimensione cosmica dell’Eucaristia si faceva presente nell’azione liturgica mediante l’inorientamento [ndr. il corretto orientamento verso…]. L’Oriente – oriens – era anche notoriamente, dal segno del sole nascente, il simbolo della risurrezione (e pertanto non solo espressione cristologia, ma indice pure della potenza del Padre e dell’opera dello Spirito Santo), nonché richiamo alla speranza nella parusìa […] La croce dell’altare si può qualificare come un residuo dell’inorientamento rimasto fino ai giorni nostri. In essa fu conservata la vecchia tradizione, che era a suo tempo strettamente collegata al simbolo cosmico dell’Oriente, di pregare nel segno della croce il Signore veniente, volgendovi lo sguardo […] Anche nell’attuale orientamento della celebrazione, la croce potrebbe essere collocata sull’altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli la guardino insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi, ma guardare insieme a lui, il trafitto […] La croce sull’altare non è… un impedimento alla visuale, ma un punto comune di riferimento… Ardirei addirittura la tesi che la croce sull’altare non è impedimento ma presupposto della celebrazione «versus populum». Diverrebbe così ricca di significato la distinzione tra liturgia della  parola e canone. Nella prima si tratta dell’annunzio, e pertanto di un indirizzo immediato, nell’altra di un’adorazione comune, nella quale noi tutti stiamo più che mai durante la invocazione - «conversi ad Dominum» -: Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci al Signore” (La festa della fede, pp. 131-135).

     “L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo” (Teologia della liturgia, pp. 7-8).

     

    Lo stile liturgico

    Avviandomi alla conclusione, quasi a sintesi di quanto affermato e a richiamo di ciò che non può mai essere dimenticato quando si tratta di linguaggio liturgico, anche quando ci si dovesse addentrare nel dettaglio di tale linguaggio, ritengo utile e significativo richiamare alla memoria alcuni brani di Romano Guardini. Sono tratti dal suo volume “Formazione liturgica” e risultano inseriti nel capitolo dedicato a “L’elemento oggettivo”.

    “La liturgia rigorosa è quella forma del comportamento religioso nel quale l’oggettivo si manifesta nel modo più intenso […]

    La liturgia è auto espressione dell’uomo, ma dell’uomo come deve essere, ed è per questo che essa diviene severa disciplina. L’uomo superficiale può facilmente sentire la preghiera liturgica come ‘non verace’, poiché l’uomo che parla nella liturgia è quello profondo, essenziale. Esso però giace sepolto. Perciò la preghiera liturgica deve essere per lungo tempo un esercizio consapevole, finché il profondo, il più vero non si risvegli, l’immagine dell’essere si rettifichi e ora parli realmente quanto è conforme all’essenza […] La liturgia è auto espressione dell’uomo. Ma essa gli dice: di un uomo quale tu non sei ancora. Perciò devi venire alla mia scuola […]

    Ciò che essa esprime è conforme all’essenza; l’espressione è servizio all’essenza del dialogo tra Dio e l’anima.

    Calibrato sull’essenza è anche il suo modo di rivelarlo, e così parimenti servizio all’essenza del corpo, dei gesti, del linguaggio […]

    La Chiesa ha regolato moltissimo… Tutto ciò è una dura prova per lo spirito ribelle del singolo che amerebbe rendere se stesso misura di tutte le cose; che, partendo dal proprio frammento strettamente limitato di realtà posseduta e dal presente della propria breve vita, vuole giudicare sull’infinito e sull’eterno; che vuole giudicare sulle profondità e sulle essenze. E’ una dura prova che l’urgenza del presente debba tacere davanti al retaggio del passato, così come l’estrosità del singolo di fronte a quanto è positivamente fissato dall’autorità. Storia e legge, tradizione e autorità: in questo deve incarnarsi l’oggettivo con tutto il suo peso che pone all’atteggiamento personale del singolo le più elevate esigenze.

    Tutto viene portato alla Chiesa attraverso la fiducia, che vede in essa l’umanità rinata, il compendio oggettivo della creazione messa in rapporto con Dio in Cristo… Questa fiducia dà la forza di mettere all’ultimo posto la perplessità del giudicare e sentire individuale, e dà la ferma speranza che in tale perdita l’anima troverà il meglio di se stessa.

    La Spirito Santo ha impresso il suo sigillo nella nostra anima e ha fatto del nostro corpo il suo tempio (1 Cor 6, 19); Egli conosce il nostro essere meglio di noi stessi. Le forme dell’espressione che Egli ci indica, sono nel loro più profondo educanti. Noi dovremmo immedesimarci, crescendo, con esse, anche quando non rispondono senz’altro alla nostra sensibilità e non vengono percepite nel senso più preciso come ‘veritiere’. Esse sono veritiere perché hanno carattere essenziale, in uno strato di significato più profondo […]

    …noi dobbiamo passare dall’angustia e dall’arbitrio soggettivi, uscire per approdare all’ampiezza e all’ordine oggettivi; dobbiamo giungere a trovar gioia per quella forte obbedienza e quella disciplina che portano a tale atteggiamento. Ma è solo la Chiesa a condurre a tale meta; pertanto dobbiamo superare ogni diffidenza verso di essa e acquisire una grande fiducia.

    Non possiamo addentrarci qui in proposte pratiche; si tratta soprattutto di un orientamento, d’un modo di pensare”.

    E proprio volgendo la mente e il cuore a questo orientamento e a questo modo di pensare desideriamo educarci ed educare al linguaggio della celebrazione liturgica.

     

    Mons. Guido Marini
    Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie

     




    [SM=g1740733]

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
    Post: 39.989
    Sesso: Femminile
    00 21/03/2013 11:33

    UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE
    DEL SOMMO PONTEFICE

    ENTRARE NEL MISTERO CELEBRATO
    MEDIANTE RITI E PREGHIERE

     

    Convegno Diocesano: “La liturgia: tra competenza e carisma”
    Soriano Calabro, 7 settembre 2010

     

    Le ragioni di un titolo

    “Entrare nel mistero celebrato mediante riti e preghiere”. Mi pare proprio che non possa esservi titolo più indicato per esprimere uno degli elementi che maggiormente qualifica la liturgia e che, insieme, riprende un orientamento di fondo della Costituzione sulla sacra liturgia del Concilio Vaticano II, “Sacrosanctum Concilium” (cf. n. 48).

    In effetti proprio di questo si parla quando si parla di liturgia: il complesso dei riti e delle preghiere mediante i quali ci è dato di accedere al mistero di Cristo, donato a noi per il tramite della Chiesa.

    Vale la pena, pertanto, soffermarsi con calma su ciascuna delle espressioni contenute nel titolo della conferenza affidatami, durante la quale mi rifarò sovente al pensiero del teologo Ratzinger e al magistero di Benedetto XVI, soprattutto per il piacevole dovere, che sento urgente, di farmi interprete ed eco fedele del suo autorevole indirizzo liturgico. Indirizzo liturgico, quello di Benedetto XVI, che non appartiene all’ambito del “gusto personale”, che sarebbe pur rispettabile ma per ciò stesso non necessariamente condivisibile, bensì a un vero e proprio magistero da condividere con spirito di fede e genuino senso ecclesiale.

    1. “Mistero celebrato”

    La presenza attuale della nostra salvezza

    Sappiamo bene che nella liturgia si rende presente in modo sacramentale il mistero della nostra salvezza. Colui che è risorto da morte, il Vivente, rinnova il sacrificio redentore per la potenza dello Spirito Santo. “Chi dunque salva il mondo e l’uomo? - ha affermato di recente Benedetto XVI -. L’unica risposta che possiamo dare è: Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, crocifisso e risorto. E dove si attualizza il Mistero della morte e risurrezione di Cristo, che porta la salvezza? Nell’azione di Cristo mediante la Chiesa, in particolare nel sacramento dell’Eucaristia, che rende presente l’offerta sacrificale redentrice del Figlio di Dio…” (Udienza generale, 5 maggio 2010).

    Non si tratta, dunque, di ricordare qualcosa che il tempo ha relegato in un passato ormai per sempre confinato alle nostre spalle. Neppure si tratta di un insieme di riti, pur esteticamente belli, ma privi di vita e incapaci di comunicare salvezza. E nemmeno si tratta di un ritrovarsi insieme tra convenuti che condividono un ideale e che intendono crescere nella dimensione comunitaria. Si tratta piuttosto di una celebrazione in virtù della quale noi realmente entriamo in relazione con il mistero della nostra salvezza, con Cristo Signore, il Salvatore, che ci comunica la Sua stessa vita, la Sua grazia. Così il passato si rende attuale, il bello è una manifestazione reale della bellezza del Dio vivo, nuovi rapporti fraterni sono il frutto dell’opera del Signore nel cuore dell’uomo.

    A mio avviso si rende urgente, ad ogni generazione cristiana, rinnovare la percezione di fede di una tale realtà, di una celebrazione che davvero è il tramite dell’incontro con il Signore, presente nell’oggi della vita e della storia. Mi colpisce sempre molto quanto le guide più avvedute dicono ai visitatori della basilica di San Pietro in Roma, quando si soffermano a contemplare il capolavoro di Michelangelo, “La Pietà”. Come si sa l’opera del grande artista è collocata dove attualmente ci si prepara per la celebrazione eucaristica ogni qualvolta è presente il Santo Padre. Ebbene, le guide fanno notare che le mani della Madonna sono aperte quasi a voler consegnare il corpo sacrificato di Gesù a coloro che osservano la scena. La Pietà era stata realizzata da Michelangelo come pala da altare e, dunque, destinata a fare da sfondo all’altare della celebrazione eucaristica. In tal modo il celebrante e l’intera assemblea potevano contemplare il gesto della SS. Vergine, nell’atto di donare il Salvatore alla sua Chiesa durante la celebrazione. Come è bello il richiamo di questo dettaglio artistico! Nella celebrazione della Messa proprio il Signore risorto da morte, nella sua parola, nel suo corpo e nel suo sangue si dona a noi perché possiamo entrare nel mistero della sua vita e, dunque, essere salvati.

    Mi sia consentito, in proposito, di richiamare un altro dettaglio artistico della splendida basilica di San Pietro. E’ noto che il baldacchino sovrastante il grande altare della confessione è opera del Bernini. Se si osserva con attenzione il drappeggio che ricopre la parte alta del baldacchino si può notare che il disegno non risulta statico bensì capace di dare una chiara impressione di dinamicità. In altre parole sembra che quel drappeggio sia mosso da un soffio di vento, tanto delicato quanto deciso.

    In tal modo l’artista ha inteso sottolineare quanto avviene al momento della preghiera eucaristica e, in specie, della consacrazione: lo Spirito Santo davvero scende sull’altare della celebrazione ed è l’artefice, insieme alle parole e all’azione di Cristo, della trasformazione sostanziale – ovvero la transustanziazione - del pane e del vino nel corpo e sangue del Signore (cf. Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1353). Lo Spirito datore di vita rende realmente presente il Signore Risorto nell’atto del suo sacrificio redentore. Ecco, espressa nell’arte, la realtà del mistero celebrato. Ora, qui, il Salvatore è presente e operante nel suo mistero di amore e di grazia. Diceva Giovanni Paolo II: “Poiché la liturgia è l’esercizio del sacerdozio di Cristo, è necessario mantenere costantemente viva l’affermazione del discepolo davanti alla presenza misteriosa di Cristo: «E’ il Signore!» (Gv 21, 7). Niente di tutto ciò che facciamo noi nella liturgia può apparire come più importante di quello che invisibilmente, ma realmente fa il Cristo per l’opera del suo Spirito” (Lettera Apostolica Vicesimus Quintus Annus, 10). Questa verità dell’atto liturgico deve essere sempre al centro della consapevolezza di fede di quanti partecipano alla celebrazione liturgica.

    Il mistero sacro

    Mi soffermo ancora un istante sulla parola “mistero”. E’ chiaro che con questo termine non si vuole intendere qualche cosa di oscuro, esoterico e inquietante. Si vuole piuttosto individuare l’opera salvifica di Dio, la cui luce è talmente abbagliante da risultare non del tutto comprensibile all’uomo: la ragione umana deve, a un certo punto del cammino, lasciare spazio alla fede per accedere al Vero. E’ proprio tale opera salvifica, come si diceva, che viene celebrata nella liturgia. Non, dunque, l’opera dell’uomo ha il primato nella celebrazione ma l’opera di Dio, l’evento pasquale di morte e risurrezione. Non si vuole certo misconoscere l’importanza dell’agire dell’uomo in liturgia; si vuole solo mettere nella giusta luce il rapporto di necessaria dipendenza dell’agire umano rispetto all’agire del Signore.

    Così si è espresso, al riguardo, Benedetto XVI rivolgendosi ai Vescovi della Conferenza Episcopale del Brasile in visita “ad limina apostolorum”: «Ora l'atteggiamento principale e fondamentale del fedele cristiano che partecipa alla celebrazione liturgica non è fare, ma ascoltare, aprirsi, ricevere... È ovvio che, in questo caso, ricevere non significa restare passivi o disinteressarsi di quello che lì avviene, ma cooperare - poiché di nuovo capaci di farlo per la grazia di Dio - secondo "la genuina natura della vera Chiesa. Questa ha infatti la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell'azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo, in modo tale, però, che ciò che in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all'invisibile, l'azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo incamminati” (Sacrosanctum Concilium, n. 2). Se nella liturgia non emergesse la figura di Cristo, che è il suo principio ed è realmente presente per renderla valida, non avremmo più la liturgia cristiana, completamente dipendente dal Signore e sostenuta dalla sua presenza creatrice» (15 aprile 2010).

    E’ per questo che al termine “mistero” è necessario abbinare il termine “sacro”. Affermare la sacralità della liturgia significa ricordare la necessità di custodire con cura il mistero che in essa è celebrato. Sacralità liturgica è l’oggettività di quel mistero che, nella sua ripetitività, non smette di interessare l’uomo: in quanto gli dona ciò di cui realmente ha bisogno e lo salva, consentendogli di entrare nella vera gioia.

    In questo senso l’accoglienza del mistero in vista della trasformazione e della conversione è il principale atto cui siamo chiamati nella celebrazione della liturgia. Questa, se così vogliamo chiamarla, è la più vera creatività che deve caratterizzare la vita del singolo e della comunità celebrante. Altre creatività, quando non previste dal rito e, lo si può ben dire, a volte selvagge, distolgono dalla verità della celebrazione e rischiano di essere solo l’espressione di un’auto celebrazione, personale o comunitaria, che perde di vista il soggetto primo della liturgia, che è Dio.

    Nell’indirizzo alla Conferenza Episcopale Cilena, il 13 luglio del 1988, il cardinale Ratzinger si esprimeva così, al riguardo: “…dobbiamo riacquistare la dimensione del sacro nella liturgia. La liturgia non è una festa; non è una riunione con scopo di passare dei momenti sereni. Non importa assolutamente che il parroco si scervelli per farsi venire in mente chissà quali idee o novità ricche di immaginazione. La liturgia è ciò che fa sì che Dio Tre volte Santo sia presente fra noi; è il roveto ardente; è l’alleanza di Dio con l’uomo in Gesù Cristo, che è morto e di nuovo è tornato alla vita. La grandezza della liturgia non sta nel fatto che essa offre un intrattenimento interessante, ma nel rendere tangibile il Totalmente Altro, che noi da soli non siamo capaci di evocare. Viene perché vuole. In altre parole. L’essenziale nella liturgia è il Mistero, che è realizzato nella ritualità comune della Chiesa; tutto il resto lo sminuisce. Alcuni cercano di sperimentarlo secondo una moda vivace, e si trovano ingannati: quando il Mistero è trasformato nella distrazione, quando l’attore principale nella liturgia non è il Dio vivente ma il prete o l’animatore liturgico”.

    In questo contesto non è da sottovalutare la questione inerente le rubriche liturgiche e, più in generale, la normativa che interessa la liturgia. La norma liturgica, infatti, è la custode più prossima del mistero celebrato. Quanto la norma afferma garantisce l’unità rituale e, di conseguenza, è capace di dare espressione alla cattolicità della liturgia della Chiesa. Al contempo, la norma veicola un contenuto liturgico e di fede che una secolare tradizione e una comprovata esperienza ci hanno consegnato e che non è lecito trattare con superficialità e inquinare con la nostra povera e limitata soggettività. Sta qui il fondamento di quell’osservanza che a più riprese viene riproposta nel magistero pontificio, presente e passato. “Dato che le azioni liturgiche non sono azioni private, ma «celebrazioni della Chiesa quale sacramento di unità» (Sacrosanctum Concilium, 26) - affermava Giovanni Paolo II -, la loro disciplina dipende unicamente dall’autorità gerarchica della Chiesa (cfr. Sacrosanctum Concilium, 22 e 26). La liturgia appartiene all’intero corpo della Chiesa (cfr. Sacrosanctum Concilium, 26). E’ per questo che non è permesso ad alcuno, neppure al sacerdote, né ad un gruppo qualsiasi di aggiungervi, togliervi o cambiare alcunché di proprio arbitrio (cfr. Sacrosanctum Concilium, 22)” (Lettera Apostolica Vicesimus Quintus Annus, 25).

    “La Santa Messa, celebrata nel rispetto delle norme liturgiche e con un’adeguata valorizzazione della ricchezza dei segni e dei gesti, - ha affermato Benedetto XVI, parlando all’apertura del Convegno ecclesiale della diocesi di Roma, il 15 giugno di quest’anno - favorisce e promuove la crescita della fede eucaristica. Nella celebrazione eucaristica noi non inventiamo qualcosa, ma entriamo in una realtà che ci precede, anzi che abbraccia cielo e terra e quindi anche passato, futuro e presente. Questa apertura universale, questo incontro con tutti i figli e le figlie di Dio è la grandezza dell’Eucaristia: andiamo incontro alla realtà di Dio presente nel corpo e sangue del Risorto tra di noi. Quindi, le prescrizioni liturgiche dettate dalla Chiesa non sono cose esteriori, ma esprimono concretamente questa realtà della rivelazione del corpo e sangue di Cristo e così la preghiera rivela la fede secondo l’antico principio lex orandi - lex credendi. E per questo possiamo dire che “la migliore catechesi sull’Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata” (Sacramentum caritatis, 64)”.

    Si rende, pertanto, necessario un atteggiamento equilibrato, capace di conservare come complementari e necessarie la prospettiva simbolico-rituale e quella canonico-disciplinare. Non l’una senza l’altra, ma l’una con l’altra.

    2. “Entrare”

    Il significato di un verbo

    Il verbo scelto come parte del titolo è un verbo importante. Anche perché ci conduce al grande tema della partecipazione alla celebrazione liturgica: tema che appassiona e ispira, a volte porta a discutere e, a mio parere, anche a inutili polemiche e divisioni. Chi di noi, infatti, non desidera che la liturgia possa essere realmente partecipata da tutti? Soprattutto da quando la Sacrosanctum Concilium e, sulla scia di essa, la riforma avviata dal Vaticano II e il successivo magistero pontificio hanno giustamente insistito per la più ampia e autentica realizzazione di tale partecipazione? D’altra parte, se ci sta a cuore la vita della Chiesa e l’incontro di ogni uomo con Cristo Salvatore, possiamo forse non desiderare che tutti partecipino alla sacra liturgia con il maggior frutto possibile?

    Su questo, pertanto, direi che sia difficile avere pareri diversi. La disparità di vedute può avere inizio quando si tratta di meglio specificare che cosa si intenda per partecipazione, ovvero quali siano le modalità più adeguate per entrare nel mistero celebrato. E si sa come, al riguardo, si continuino spesso a fronteggiare due diversi modi di considerare il termine in questione. Come sempre nella dottrina cattolica, anche in questo caso, non c’è spazio per l’“aut aut”, ovvero per l’esclusione di un aspetto a favore di un altro, ma per l’“et et”, ovvero per la presenza complementare e arricchente dei diversi aspetti.

    Entrare in una realtà, partecipare a un avvenimento è sempre un’esperienza che coinvolge l’uomo in ogni sua dimensione: intelligenza, volontà, emozione, sentimento, azione… L’esteriorità dell’agire e il suo fondamento interiore risultano complementari e necessari. Così è per la vita liturgica. Proprio perché è esperienza vitale non può che riguardare l’intera complessità della persona umana. Se, dunque, ad esempio, vi è una partecipazione che avviene per via di comprensione di un testo, vi è anche una partecipazione che avviene per via di un innalzamento dell’animo prodotto dall’incontro col bello. E se si partecipa mediante l’azione, è possibile realizzare una vera partecipazione anche mediante un silenzio solo in apparenza inoperante.

    Nel mistero celebrato, di conseguenza, si entra con tutta la complessità del nostro essere persone umane. Ed è per questo che la liturgia ricerca sempre quel sano equilibrio di componenti che diano la possibilità di un’esperienza che si addica a tutto l’uomo e ad ogni uomo.

    Non mi pare che, sempre, nella pratica liturgica questo trovi felice ed equilibrata realizzazione. E mi pare altresì che, per la legge del pendolo, se un tempo la mancanza di partecipazione adeguata poteva essere addebitata a un difetto di comprensione e di azione, oggi tale mancanza possa essere addebitata a un eccesso di comprensione razionale e di azione esteriore, cui non sempre fanno sufficiente complemento la comprensione del cuore e l’attenzione all’agire interiore, al rivivere in sé i sentimenti e i pensieri di Cristo.

    Entrare nell’agire di Cristo

    Approfondiamo ancora un po’ la questione, a partire dall’indirizzo chiaro formulato dalla Costituzione sulla sacra liturgia del Vaticano II: “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (n. 48).

    A commento di questo brano magisteriale rimane sempre illuminante quanto affermato dal cardinale Ratzinger nel suo volume “Introduzione allo spirito della Liturgia”: “In che cosa consiste… questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più presto possibile. La parola partecipazione rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa ‘actio’ centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità… Con il termine actio riferito alla liturgia, si intende nelle fonti il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è la oratio… Questa oratio - la solenne preghiera eucaristica, il «canone» - è davvero più che un discorso, è actio nel senso più alto del termine. In essa accade, infatti, che l’actio umana… passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio” (pp. 167-168).

    Nella celebrazione liturgica ciò che precede e costituisce il fondamento è l’agire di Cristo e della sua Chiesa; infatti, come ci ricordava Giovanni Paolo II, “…la liturgia ha come primo compito quello di ricondurci instancabilmente sul cammino pasquale aperto da Cristo, in cui si accetta di morire per entrare nella vita” (Lettera Apostolica “ Vicesimus Quintus Annus, 6). Di conseguenza, entrare nell’atto liturgico significa entrare dentro questo agire che dona salvezza e trasforma la vita. Si partecipa, dunque, nella misura in cui l’atto del Signore e della sua Chiesa diventa anche il nostro stesso atto, la sua oblazione di amore diventa la nostra, il suo abbandono filiale e obbediente al Padre diventa anche nostro, se il sacrificio del Redentore diventa il nostro stesso sacrificio.

    Affermava Divo Barsotti in un suo celebre testo: “E’ proprio della Liturgia cristiana di trascendere l’attività di ogni uomo e di tutta l’umanità nell’essere Atto stesso del Cristo; ma la Liturgia trascende ogni attività umana senza escluderla, anzi impegnandola tutta fino in fondo, non soltanto in quanto la supera, ma in quanto anche la esige e la comprende” (Il mistero della Chiesa nella Liturgia, edizioni San Paolo, p. 158)

    Come avviene sempre in ciò che è umano, anche nel rito liturgico l’agire ha una dimensione esteriore e una interiore. Il gesto di Cristo è un gesto visibile, espressione di un gesto invisibile. Pertanto l’atto di entrare nel mistero avrà anche la componente esteriore del gesto, non c’è dubbio. Ma perché tale componente non rimanga pura e sterile esteriorità dovrà essere animata e allo stesso tempo condurre a quell’agire interiore in cui vi è conformazione all’agire di Cristo e della sua Chiesa.

    Sia dia spazio, dunque, all’azione esteriore in Liturgia, laddove il rito lo consente e lo auspica. Ma senza dimenticare che tale azione dovrà essere sempre ricondotta alla sua verità di espressione dell’agire interiore. Solo così vi sarà un autentico accesso al mistero celebrato.



    [SM=g1740771]  continua....
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 21/03/2013 11:35

    3. “Mediante riti e preghiere”

    Ciò che è stato detto in merito all’entrare nel mistero ha avuto una fisionomia di carattere generale. Ora, attraverso la menzione dei riti e delle preghiere, il titolo ci consente di entrare in un ambito più specifico, ovvero nel modo tipico della liturgia di rendere accessibile la partecipazione al mistero celebrato.

    Riti e preghiere, nella liturgia, si sostengono a vicenda e a vicenda si illuminano proprio al fine di far vivere la celebrazione. Il rito rimarrebbe privo di luce senza la preghiera che lo illustra; la preghiera rimarrebbe priva di efficacia senza il rito che la mette in atto. La celebrazione liturgica, pertanto, richiede quella fede in virtù della quale non si rimane estranei alla preghiera come neppure al rito.

    Non per nulla la tradizione della Chiesa ha sempre tenuto in gran conto le famose catechesi mistagogiche degli antichi padri. Si tratta esattamente di catechesi che, rifacendosi alle preghiere e ai riti, introducono i fedeli alla conoscenza e all’esperienza del mistero celebrato. Di tali catechesi si sente una grande necessità per il tempo presente. Infatti, la rarefazione della cultura cristiana, come orientamento di fondo appreso dalla giovane età e largamente condiviso nel contesto sociale, porta a una forma grave di “ignoranza” rispetto ai riti e alle preghiere della liturgia. E non si può chiedere alla liturgia ciò che essa non può dare: la catechesi. Non c’è dubbio: la liturgia la si impara anche vivendola. Ma rimane pur necessaria quella catechesi che è anche avviamento all’esperienza liturgica, introduzione ai divini misteri.

    Quanto si sentiva come compito urgente già ai tempi del Concilio Vaticano II, mi pare che rimanga nel presente, forse con una nota di urgenza ancora maggiore: la formazione. Solo grazie a una vera formazione liturgica i riti e le preghiere della celebrazione potranno essere il tramite bello e straordinariamente ricco per entrare nel mistero celebrato. Altrimenti si rischia di rimanere sulla soglia di una realtà inaccessibile.

    D’altra parte, è bene non dimenticarlo, la celebrazione liturgica realizzata secondo verità e in conformità a quell’“ars celebrandi” di cui il Santo Padre Benedetto XVI ci parla nell’Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis, ovvero in piena conformità alle indicazioni della Chiesa, è già di per sé una vera e propria scuola, capace di introdurre alla conoscenza e all’esperienza del mistero di Cristo. Pertanto, riti e preghiere celebrati bene sono autentica introduzione alla spirito della liturgia.

    Non è, però, mia intenzione entrare nel dettaglio dei riti e delle preghiere, quanto piuttosto soffermarmi a considerare alcuni aspetti dell’atto celebrativo che aiutano a entrare nella sacra liturgia, nei suoi riti e nelle sue preghiere. Gli aspetti considerati saranno solo alcuni, quelli che a me pare sia più importante e urgente sottolineare e spiegare nell’attuale contesto storico. Questo certamente non vuol dire sminuire l’importanza di altri. Ma tutto non si può dire e bisogna dare qualche priorità.

    Il sacro silenzio

    Una liturgia ben celebrata, in diverse sue parti, prevede una felice alternanza di silenzio e parola, dove il silenzio anima la parola, permette alla voce di risuonare con straordinaria profondità, mantiene ogni espressione vocale nel giusto clima del raccoglimento. Si ricordi, in proposito, quanto afferma l’Ordinamento Generale del Messale Romano: “Si deve osservare, a suo tempo, il sacro silenzio, come parte della celebrazione. La sua natura dipende dal momento in cui ha luogo nelle singole celebrazioni. Così, durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, il silenzio aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la Comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica” (n. 45).

    L’Ordinamento Generale non fa che esplicitare quanto la Sacrosanctum Concilium formulava in termini più generali: “Si osservi a tempo debito il sacro silenzio” (30).

    E’ da notare che in entrambi i testi citati si parla di “silenzio sacro”. Il silenzio richiesto, pertanto, non è da considerarsi alla stregua di una pausa tra un momento celebrativo e il successivo. E’ da considerarsi piuttosto come un vero e proprio momento rituale, complementare alla parola, alla preghiera vocale, al canto, al gesto...

    Da questo punto di vista, ci è dato di meglio capire il motivo per cui durante la preghiera eucaristica e, in specie, il canone, il popolo di Dio riunito in preghiera segue nel silenzio la preghiera del sacerdote celebrante. Quel silenzio non significa inoperosità o mancanza di partecipazione. Quel silenzio tende a far sì che tutti entrino nel significato di quel momento rituale che ripropone nella realtà del sacramento l’atto di amore con il quale Gesù si offre al Padre sulla croce per la salvezza del mondo. Quel silenzio, davvero sacro, è lo spazio liturgico nel quale dire sì, con tutta la forza del nostro essere, all’agire di Cristo, così che diventi anche il nostro agire nella quotidianità della vita.

    Così il silenzio liturgico è davvero sacro perché è il luogo spirituale nel quale realizzare l’adesione di tutta la nostra vita alla vita del Signore, è lo spazio dell’“amen” prolungato del cuore che si arrende all’amore di Dio e lo abbraccia come nuovo criterio del proprio vivere. Non è forse questo il significato stupendo dell’“amen” conclusivo della dossologia al termine della preghiera eucaristica, nella quale tutti diciamo con la voce quanto a lungo abbiamo ripetuto nel silenzio del cuore orante?

    Se tutto questo è il senso del silenzio in liturgia, non è forse vero che e le nostre liturgie hanno bisogno di più spazio per il sacro silenzio?

    La nobile bellezza

    Afferma Benedetto XVI, nell’Esortazione apostolica post sinodale sull’Eucaristia Sacramentum caritatis: “Il rapporto tra mistero creduto e celebrato si manifesta in modo peculiare nel valore teologico e liturgico della bellezza. La liturgia, infatti, come del resto la Rivelazione cristiana, ha un intrinseco legame con la bellezza: è veritatis splendor… Tale attributo cui facciamo riferimento non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell’amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina, ci rapisce, facendoci uscire da noi stessi e attraendoci così verso la nostra vera vocazione: l’amore… La vera bellezza è l’amore di Dio che si è definitivamente a noi rivelato nel Mistero pasquale. La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra… La bellezza pertanto non è un fatto decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la propria natura” (n. 35).

    Le parole del Papa non potrebbero essere più chiare. Ne consegue che non è ammissibile alcuna forma di grettezza, di minimalismo e di male inteso pauperismo nella celebrazione liturgica. Il bello, nelle diverse forme antiche e moderne in cui trova espressione, è la modalità propria in virtù della quale risplende nelle nostre liturgie, pur sempre pallidamente, il mistero della bellezza dell’amore di Dio. Ecco perché non si farà mai abbastanza per rendere belli i nostri riti. Ce lo insegna la Chiesa, che nella sua lunga storia non ha mai avuto timore di “sprecare” per circondare la celebrazione liturgica con le espressioni più alte dell’arte: dall’architettura, alla scultura, alla musica, agli oggetti sacri. Ce lo insegnano i santi che, pur nella loro personale povertà, hanno sempre desiderato che al culto fosse destinato il meglio.

    Ascoltiamo ancora Benedetto XVI: “Le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare!” (Omelia alla celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Notre Dame a Parigi, 12 settembre 2008).

    Il crocifisso al centro dell’altare

    Nel suo testo “Le festa della fede”, la cui prima edizione risale al 1981, il cardinale Ratzinger si poneva il problema dell’orientamento nella celebrazione liturgica. Riportare alcuni brani del suo testo, mi pare il modo più immediato per capire l’importanza della sua riflessione e della sua proposta.

    “Il vero spazio e la vera cornice della celebrazione eucaristica è tutto il cosmo. Questa dimensione cosmica dell’Eucaristia si faceva presente nell’azione liturgica mediante l’inorientamento [ndr. il corretto orientamento verso…]. L’Oriente – oriens – era anche notoriamente, dal segno del sole nascente, il simbolo della risurrezione (e pertanto non solo espressione cristologia, ma indice pure della potenza del Padre e dell’opera dello Spirito Santo), nonché richiamo alla speranza nella parusìa […] La croce dell’altare si può qualificare come un residuo dell’inorientamento rimasto fino ai giorni nostri. In essa fu conservata la vecchia tradizione, che era a suo tempo strettamente collegata al simbolo cosmico dell’Oriente, di pregare nel segno della croce il Signore veniente, volgendovi lo sguardo […] Anche nell’attuale orientamento della celebrazione, la croce potrebbe essere collocata sull’altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli la guardino insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi, ma guardare insieme a lui, il trafitto […] La croce sull’altare non è…un impedimento alla visuale, ma un punto comune di riferimento…Ardirei addirittura la tesi che la croce sull’altare non è impedimento ma presupposto della celebrazione «versus populum». Diverrebbe così ricca di significato la distinzione tra liturgia della parola e canone. Nella prima si tratta dell’annunzio, e pertanto di un indirizzo immediato, nell’altra di un’adorazione comune, nella quale noi tutti stiamo più che mai durante la invocazione - «conversi ad Dominum» -: Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci al Signore” (pp. 131-135).

    Alla luce di queste limpide affermazioni si comprende meglio quanto sottolineato dal Santo Padre Benedetto XVI nella prefazione al I volume della Sua Opera Omnia, dedicato alla liturgia e da poco uscito in Italia: “L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo”.

    L’adorazione

    Che cosa intendiamo per adorazione? Certamente non si tratta di una relazione intellettuale o sentimentale con il mistero. La si potrebbe definire come il riconoscimento pieno di meraviglia della onnipotenza di Dio, della sua maestà intangibile, della sua signoria provvidente e misericordiosa, della sua bellezza infinita che è coincidenza di Verità e di Amore... E l’adorazione, quando è autentica, conduce all’adesione, ovvero alla riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo stato di separazione, alla comunione di vita con Cristo... Tutto questo è quanto la Chiesa, sposa di Cristo, vive nella celebrazione della liturgia. Adora e aderisce, adora per aderire.

    Ascoltiamo ancora Divo Barsotti nell’opera già citata: “E l’Avvenimento, l’Atto del Cristo, è prima di tutto Sacrificio, Sacrificio di adorazione. Il Verbo, nella natura umana che Egli ha assunto, riconosce con la sua Morte l’infinita santità di Dio e la sua sovranità. In Lui la creazione finalmente adora […] Una partecipazione nostra al Sacrificio di Gesù importa che noi si viva lo stesso annientamento suo…La condizione terrestre della nostra vita, nella sua accettazione volontaria, diviene il segno di una nostra partecipazione al Sacrificio di Gesù, alla sua adorazione” (Idem, pp. 174-175).

    Ecco perché tutto, nell’azione liturgica, deve condurre all’adorazione: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la parola di Dio e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. Mi soffermo un istante su un gesto tipico e centrale dell’adorazione che oggi rischia di sparire, quale il mettersi in ginocchio, rifacendomi a un testo del cardinale Ratzinger: “Noi sappiamo che il Signore ha pregato stando in ginocchio (Lc 22, 41), che Stefano (At 7, 60), Pietro (At 9, 40) e Paolo (At 20, 36) hanno pregato in ginocchio. L’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2, 6-11) presenta la liturgia del cosmo come un inginocchiarsi di fronte al nome di Gesù (2, 10) e vede in ciò adempiuta la profezia isaiana (Is 45, 23) sulla signoria sul mondo del Dio d’Israele. Piegando il ginocchio nel nome di Gesù, la Chiesa compie la verità; essa si inserisce nel gesto del cosmo che rende omaggio al vincitore e così si pone dalla parte del vincitore poiché un tale inginocchiarsi è una rappresentazione e assunzione imitativa dell’atteggiamento di Colui che «era uguale a Dio» ed «ha umiliato se stesso fino alla morte»” (Rivista Communio, 35/1977).

    E’ anche per questo che è da ritenersi del tutto appropriata la pratica di inginocchiarsi per ricevere la santa Comunione. A ulteriore conferma ascoltiamo il Santo Padre in un passaggio di Sacramentum caritatis: “Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n. 66).

    Si può parlare al riguardo di una contraddizione rispetto all’incedere processionalmente, quale segno di un popolo che di dirige verso il suo Signore? La Chiesa che, nel segno esteriore, si dirige in processione verso il Signore è la stessa Chiesa che, sempre nel segno esteriore, alla sua presenza, si inginocchia e adora. Ancora una volta si tratta di complementarietà in vista di una ricchezza più grande e non di esclusione.

    Anche alla luce di questo brano si capisce il motivo per cui il Santo Padre Benedetto XVI, in occasione della solennità del Corpus Domini del 2008, ha iniziato a distribuire la santa Comunione ai fedeli in ginocchio.

    Il canto e la musica

    Mi piace al riguardo partire da una citazione del papa san Gregorio Magno, nella quale si ritrova formulato con singolare profondità ed efficacia il nucleo centrale della musica e del canto in liturgia: “Quando il canto della salmodia risuona dalle profondità del cuore, il Signore onnipotente trova per esso una via di accesso ai cuori, per inondare colui che protende tutti i suoi sensi ad ascoltarLo dei misteri della profezia o della grazia della contrizione. Sta scritto infatti: ‘Un canto di lode mi onora, ed esso è la via per la quale mostrerò la salvezza di Dio’ (Sal 49, 23). Ciò che in latino suona salutare, salvezza, in ebraico si dice Gesù. Nel canto di lode perciò viene creata una via di accesso, per la quale Gesù può rivelarsi, poiché quando mediante il canto dei Salmi viene riversata in noi la vera contrizione, si apre in noi una strada che conduce nel profondo del cuore, alla fine della quale si giunge a Gesù…” (In Ez I hom. I, 15).

    Così il canto e la musica in liturgia, quando sono nella verità del loro essere, nascono dal cuore che ricerca il mistero di Dio e diventano un’esegesi dello stesso mistero, parola che nella nota musicale si apre sull’orizzonte della salvezza, di Cristo. Pertanto c’è un legame intrinseco tra la parola, la musica e il canto nella celebrazione liturgica. Musica e canto, infatti, non possono essere slegati dalla parola, quella di Dio, della quale invece devono essere interpretazione fedele e disvelamento. Il canto e la musica in liturgia partono dalle profondità del cuore, e dunque da Cristo che lo abita, e riportano al cuore, vale a dire a Cristo che della domanda del cuore è risposta vera e definitiva. Questa è l’oggettività del canto e della musica liturgica, che non dovrebbe mai essere consegnata all’estemporaneità superficiale di sentimenti e di emozioni passeggere non rispondenti alla grandezza del mistero celebrato.

    E’ giusto, quindi affermare che il canto e la musica in liturgia nascono dalla preghiera e portano alla preghiera. Dunque, permettono a noi di entrare nel mistero, per tornare alla terminologia che è parte del titolo di questa conferenza. E qui, nel canto e nella musica, troviamo forse una delle vie più alte di ingresso e di partecipazione al mistero, capace di fare sintesi di tante altre componenti della partecipazione liturgica.

    Mi sia consentito qui, parlando del canto e della musica, di fare brevemente cenno alla lingua latina. E’ risaputo quale straordinario tesoro di canto e musica per la liturgia ci hanno consegnato i secoli passati. E qualcosa di quel tesoro la Chiesa lo ha definito perennemente valido, in sé e quale criterio per stabilire ciò che può essere davvero liturgico nelle nuove forme musicali che si vanno sviluppando nel tempo. Mi riferisco al gregoriano e alla polifonia sacra classica, forme di canto liturgico che consentono di valutare, oggi come ieri, ciò che attiene alla liturgia e ciò che, pur di valore artistico e di contenuto religioso, non può avere spazio nella celebrazione liturgica. Il valore perenne del gregoriano e della polifonia classica consiste nella loro capacità di farsi esegesi della parola di Dio e, dunque, del mistero celebrato, di essere al servizio della liturgia senza fare della liturgia uno spazio al servizio della musica e del canto. Potremo noi rinunciare a mantenere in vita tali tesori che secoli di storia della Chiesa ci hanno consegnato? Potremo noi fare a meno di attingere ancora oggi a quel patrimonio di spiritualità straordinario? Come sarà mai possibile dare corpo a un più ampio e degno repertorio di canto e di musica per la liturgia se non ci saremo lasciarti educare da ciò che lo deve ispirare?

    Ecco perché dobbiamo conservare nei modi dovuti il latino. Senza dimenticare anche altre componenti di questa lingua liturgica, quale la sua capacità di dare espressione a quella universalità e cattolicità della Chiesa, a cui davvero non è lecito rinunciare. Come non provare, al riguardo, una straordinaria esperienza di cattolicità quando nella basilica di San Pietro uomini e donne di tutti i continenti, di nazionalità e lingue diverse pregano e cantano insieme nella stessa lingua? Chi non percepisce la calda accoglienza della casa comune quando, entrando in una chiesa di un paese straniero può, almeno un alcune parti, unirsi ai fratelli nella fede in virtù dell’uso della stessa lingua?

    Perché questo continui a essere concretamente possibile è necessario che nelle nostre chiese e comunità l’uso del latino sia conservato con la dovuta saggezza pastorale.

    Conclusione

    Come si diceva, nel considerare alcuni aspetti celebrativi è stata data qualche priorità. Sottolineare alcune priorità, mettere in luce alcuni problemi, prospettare possibili cambiamenti rientra nel desiderio di dare un contributo alla piena e autentica realizzazione della riforma liturgica avviata dal Concilio Vaticano II. Per tutti noi tale riforma è stata ed è provvidenziale nel cammino storico della Chiesa, che si sviluppa e cresce in una logica di continuità e di organicità con il suo passato. Ma proprio perché si desidera che tale riforma, nella sua attuazione, sia pienamente fedele agli orientamenti conciliari e dia tutti i frutti sperati è anche lecito esaminare le problematiche suscitate nel tempo da talune asserzioni non sempre felici e da altre realizzazioni concrete non sempre del tutto ispirate. La vera fedeltà alla riforma voluta dal Vaticano II richiede che, mentre si promuove tutto ciò che è vero dono di rinnovamento, si prendano in esame con libertà di spirito, animo ecclesiale e senza preclusioni ideologiche i problemi esistenti. E’ uno stesso amore che tutti ci deve animare: quello per il Signore e per la sua Chiesa, quello per la liturgia, azione di Cristo e della Chiesa.

     

    Mons. Guido Marini
    Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie

     





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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 21/03/2013 11:38

    UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE 
    DEL SOMMO PONTEFICE  

    INTRODUZIONE ALLO SPIRITO DELLA LITURGIA 

      

    Corso per animatori musicali della liturgia
    Genova, 14 novembre 2009

    E’ per me una vera gioia essere qui oggi a inaugurare il “Corso per animatori musicali della liturgia”. Mi pare di poter dire che il motivo della mia gioia è duplice. Anzitutto - ecco il primo motivo - il mio essere a Genova. E’ vero che di tanto in tanto faccio rientro in questa nostra stupenda città, ma le mie visite sono per lo più rapide e familiari. Quest’oggi, invece, mi trovo qui, per un appuntamento diocesano, insieme a voi, che in buona parte mi siete conosciuti e cari. Inoltre, - e questo è il secondo motivo della mia gioia - ciò che mi riconduce a Genova in questa giornata è la liturgia, l’ambito della vita cristiana che al momento sta assorbendo il mio ministero sacerdotale e che tutti noi sappiamo essere fondamentale per lo sviluppo in Cristo della comunità ecclesiale e della nostra vita personale.

    Mi è stato chiesto di introdurre, con questa riflessione, allo spirito della liturgia. Mi è stato chiesto molto, mi verrebbe da dire moltissimo. Non solo perché parlare dello spirito della liturgia è impegnativo e complesso, ma anche perché su questo tema hanno intitolato opere importantissime autori di indubbio e altissimo spessore liturgico e teologico. Penso solo a due esempi tra gli altri: Romano Guardini e Joseph Ratzinger.

    D’altra parte è vero che parlare oggi dello spirito della liturgia è quanto mai necessario. Anche perché è urgente riaffermare l’«autentico» spirito della liturgia, così come è presente nella ininterrotta tradizione della Chiesa e testimoniato, in continuità con il passato, nel più recente Magistero: a partire dal Concilio Vaticano II fino a Benedetto XVI. Ho pronunciato la parola “continuità”. E’ una parola cara all’attuale Pontefice, che ne ha fatto autorevolmente il criterio per l’unica interpretazione corretta della vita della Chiesa e, in specie, dei documenti conciliari, come anche dei propositi di riforma ad ogni livello in essi contenuti. E come potrebbe essere diversamente? Si può forse immaginare una Chiesa di prima e una Chiesa di poi, quasi che si sia prodotta una cesura nella storia del corpo ecclesiale? O si può forse affermare che la Sposa di Cristo sia entrata, in passato, in un tempo storico nel quale lo Spirito non l’abbia assistita, così che questo tempo debba essere quasi dimenticato e cancellato?

    Eppure, a volte, alcuni danno l’impressione di aderire a quella che è giusto definire una vera e propria ideologia, ovvero un’idea preconcetta applicata alla storia della Chiesa e che nulla ha a che fare con la fede autentica.

    Frutto di quella fuorviante ideologia è, ad esempio, la ricorrente distinzione tra Chiesa pre conciliare e Chiesa post conciliare. Può anche essere legittimo un tale linguaggio, ma a condizione che non si intendano in questo modo due Chiese: una – quella pre conciliare – che non avrebbe più nulla da dire o da dare perché irrimediabilmente superata; e l’altra – quella post conciliare – che sarebbe una realtà nuova scaturita dal Concilio e da un suo presunto spirito, in rottura con il suo passato. Questo modo di parlare e ancor più di “sentire” non deve essere il nostro. Oltre a essere erroneo, è superato e datato, forse storicamente comprensibile, ma legato a una stagione ecclesiale ormai conclusa.

    Quanto affermato fin qui a proposito della “continuità” ha a che fare con il tema che siamo chiamati ad affrontare? Assolutamente sì. Perché non vi può essere l’autentico spirito della liturgia se non ci si accosta ad essa con animo sereno, non polemico circa il passato, sia remoto che prossimo. La liturgia non può e non deve essere terreno di scontro tra chi trova il bene solo in ciò che è prima di noi e chi, al contrario, in ciò che è prima trova quasi sempre il male. Solo la disposizione a guardare il presente e il passato della liturgia della Chiesa come a un patrimonio unico e in sviluppo omogeneo può condurci ad attingere con gioia e con gusto spirituale l’autentico spirito della liturgia. Uno spirito, dunque, che dobbiamo accogliere dalla Chiesa e che non è frutto delle nostre invenzioni. Uno spirito, aggiungo, che ci porta all’essenziale della liturgia, ovvero alla preghiera ispirata e guidata dallo Spirito Santo, in cui Cristo continua divenire a noi contemporaneo, a fare irruzione nella nostra vita. Davvero lo spirito della liturgia è la liturgia dello Spirito.

    Nella misura in cui assimiliamo l’autentico spirito della liturgia, diventiamo anche capaci di capire quando una musica o un canto possono appartenere al patrimonio della musica liturgica o sacra, oppure no. Capaci, in altre parole, di riconoscere quella musica che sola ha diritto di cittadinanza all’interno del rito liturgico, perché coerente con il suo spirito autentico. Se parliamo, allora, all’inizio di questo corso, di spirito della liturgia, ne parliamo perché solo a partire da esso è possibile identificare quali siano la musica e il canto liturgico.

    Riguardo al tema proposto non pretendo di essere esauriente. Non pretendo, neppure, di trattare tutti i temi che sarebbe utile affrontare per una panoramica complessiva della questione. Mi limito a considerare alcuni aspetti dell’essenza della liturgia, con riferimento specifico alla Celebrazione Eucaristica, così come la Chiesa ce li presenta e così come ho imparato ad approfondirli in questi due anni di servizio accanto a Benedetto XVI: un vero maestro di spirito liturgico, sia attraverso il suo insegnamento, sia attraverso l’esempio del suo celebrare.

    E se, nel considerare alcuni aspetti dell’essenza della liturgia, mi troverò ad annotare qualche comportamento che ritengo non del tutto in sintonia con l’autentico spirito liturgico, lo farò solo per offrire un piccolo contributo perché tale spirito possa risaltare ancor di più in tutta la sua bellezza e verità. 

    1. La sacra liturgia, un grande dono di Dio alla Chiesa

    Come ben sappiamo, il Concilio Vaticano II ha dedicato un intero documento, il primo in ordine di pubblicazione, alla liturgia. Il suo nome è “Sacrosanctum concilium” ed è definito come la Costituzione sulla sacra liturgia.

    E’ il termine sacro che intendo sottolineare, in quanto affiancato a “liturgia”. Al riguardo, non si tratta di un caso né di un dato di poca importanza. In tal modo, infatti, i Padri conciliari hanno inteso dare forza al carattere sacro della liturgia.

    Ma che cosa si intende per carattere sacro? Gli orientali parlerebbero di dimensione divina della liturgia. Ovvero di quella dimensione che non è lasciata all’arbitrio dell’uomo perché è dono che viene dall’alto. Si tratta, in altre parole, del mistero della salvezza in Cristo, consegnato alla Chiesa, perché lo renda disponibile in ogni tempo e in ogni luogo attraverso l’oggettività del rito liturgico-sacramentale. Una realtà, dunque, che ci supera, da accogliere in dono e dalla quale lasciarsi trasformare. Infatti, afferma il Concilio Vaticano II, “…ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza…” (Sacrosanctum concilium, n. 7)

    Ponendosi in questa prospettiva, non è difficile rendersi conto di quanto alcuni modi di fare siano distanti dall’autentico spirito della liturgia. A volte, in effetti, con il pretesto di una male intesa creatività si è arrivati e si arriva a stravolgere in vario modo la liturgia della Chiesa. In nome del principio di adattamento alle situazioni locali e ai bisogni della comunità ci si appropria del diritto di togliere, aggiungere e modificare il rito liturgico all’insegna della soggettività e dell’emotività.

    Ecco, in proposito, quanto affermava il Card. Ratzinger già nel 2001: “C’è bisogno come minimo di una nuova consapevolezza liturgica che sottragga spazio alla tendenza a operare sulla liturgia come se fosse oggetto della nostra abilità manipolatoria. Siamo giunti al punto che dei gruppi liturgici imbastiscono da se stessi la liturgia domenicale. Il risultato è certamente il frutto dell’inventiva di un pugno di persone abili e capaci. Ma in questo modo viene meno il luogo in cui mi si fa incontro il totalmente Altro, in cui il sacro ci offre se stesso in dono; ciò in cui mi imbatto è solo l’abilità di un pugno di persone. E allora ci si accorge che non è quello che si sta cercando. E’ troppo poco e insieme qualcosa di diverso. La cosa più importante oggi è riacquistare il rispetto della liturgia e la consapevolezza della sua non manipolabilità. Reimparare a riconoscerla nel suo essere una creatura vivente che cresce e che ci è stata donata, per il cui tramite noi prendiamo parte alla liturgia celeste. Rinunciare a cercare in essa la propria autorealizzazione per vedervi invece un dono. Questa, credo è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell’uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro” (da “Dio e il mondo”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001).

    Affermare, dunque, che la liturgia è sacra significa sottolineare il fatto che essa non vive delle invenzioni sporadiche e delle “trovate” sempre nuove di qualche singolo o di qualche gruppo. Essa non è un circolo chiuso in cui noi decidiamo di incontrarci, magari per farci coraggio a vicenda e sentirci protagonisti di una festa. La liturgia è convocazione da parte di Dio per stare alla sua presenza; è il venire di Dio a noi, il farsi trovare di Dio nel nostro mondo.

    Una forma di adattamento alle situazioni particolari è prevista ed è bene che ci sia. E’ il messale stesso che la indica in alcune sue parti. Ma in queste e solo in queste, non arbitrariamente in altre. Il motivo è importante ed è bene riaffermarlo: la liturgia è dono che ci precede, tesoro prezioso che ci è stato consegnato dalla preghiera secolare della Chiesa, luogo in cui la fede della Chiesa ha trovato nel tempo forma ed espressione orante. Tutto questo non è nella nostra disponibilità soggettiva. E’ indisponibile a noi per essere integralmente a disposizione di tutti, ieri come oggi e ancora domani. “Anche nei nostri tempi – ha scritto Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia – l’obbedienza alle norme liturgiche dovrebbe essere riscoperta e valorizzata come riflesso e testimonianza della Chiesa una e universale, resa presente in ogni celebrazione dell’Eucaristia” (n. 52).

    Nella stupenda Enciclica “Mediator Dei”, che spesso viene citata nella “Sacrosanctum Concilium”, Pio XII definiva la liturgia come: “…il culto pubblico… il culto integrale del corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del capo e delle sue membra”. Come a dire, tra l’altro, che nella liturgia la Chiesa riconosce “ufficialmente” se stessa, il suo mistero di unione sponsale con Cristo, e lì “ufficialmente” si manifesta. Con quale insana spensieratezza potremmo noi, dunque, arrogarci il diritto di alterare in modo soggettivo quei santi segni che il tempo ha vagliato e attraverso i quali la Chiesa parla di sé, della propria identità, della propria fede? 

    C’è un diritto del popolo di Dio che non può mai essere disatteso. In virtù di tale diritto tutti devono poter accedere a ciò che non è semplicemente e poveramente frutto dell’opera umana, ma a ciò che è opera di Dio e, proprio per questo, sorgente di salvezza e di vita nuova.

    Mi dilungo ancor un momento su questo tema che, posso testimoniare, sta tanto a cuore al Papa, riascoltando con voi un brano di “Sacramentum caritatis”, l’Esortazione apostolica di Benedetto XVI, successiva al Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia: “Sottolineando l’importanza dell’ars celebrandi – afferma il Papa – si pone in luce, di conseguenza, il valore delle norme liturgiche… La celebrazione eucaristica trova giovamento là dove i sacerdoti e i responsabili della pastorale liturgica si impegnano a fare conoscere i vigenti libri liturgici e le relative norme… Nelle comunità ecclesiali si dà forse per scontata la loro conoscenza e il loro giusto apprezzamento, ma spesso così non è. In realtà, sono testi in cui sono contenute ricchezze che custodiscono ed esprimono la fede e il cammino del Popolo di Dio lungo i due millenni della sua storia” (40).

    2. L’orientamento della preghiera liturgica

    Al di là dei cambiamenti che storicamente hanno caratterizzato la disposizione architettonica delle chiese e degli spazi liturgici, una convinzione è rimasta sempre chiara all’interno della comunità cristiana, quasi fino ai giorni nostri. Mi riferisco alla preghiera rivolta a oriente, tradizione che risale alle origini del cristianesimo.

    Che cosa si intende con “preghiera rivolta a oriente”? Si intende l’orientamento del cuore orante a Cristo, Colui dal quale proviene la salvezza e al quale si tende come al Principio e al Fine della storia. A est sorge il sole e il sole è simbolo di Cristo, la Luce che sorge dall’oriente. Si ricordi, in proposito, il passo del cantico messianico del “Benedictus”: “…per cui verrà a visitarci dall’alto come sole che sorge”.

    Studi molto seri e anche recentissimi hanno ormai dimostrato che, in ogni tempo della sua storia, la comunità cristiana ha trovato il modo di esprimere anche nel segno liturgico, esterno e visibile, questo orientamento fondamentale per la vita della fede. Così troviamo le chiese costruite in modo tale che l’abside fosse rivolta verso oriente. Quando non fu più possibile un tale orientamento nella edificazione del luogo sacro, si fece ricorso al grande crocifisso posto sopra l’altare e a cui tutti potessero rivolgere lo sguardo. Si pensi, ancora, alle absidi decorate con splendide raffigurazioni del Signore, verso le quali tutti erano invitati ad alzare gli occhi al momento della Liturgia Eucaristica.

    Senza entrare nel dettaglio di un percorso storico che ci porrebbe all’interno di una riflessione riguardante lo sviluppo dell’arte cristiana, in questo contesto ci interessa affermare che la preghiera orientata, ovvero rivolta al Signore, è espressione tipica dell’autentico spirito liturgico. In questo senso, come ben ci ricorda il dialogo introduttivo del Prefazio, al momento della Liturgia Eucaristica siamo invitati a rivolgere il cuore al Signore: “In alto i nostri cuori”, esorta il sacerdote, e tutti rispondono: “Sono rivolti al Signore”. Ora, se tale orientamento deve essere sempre interiormente adottato dall’intera comunità cristiana raccolta in preghiera, esso deve poter trovare espressione anche nel segno esteriore. Il segno esteriore, infatti, non può che essere vero, così che in esso si renda manifesto il corretto atteggiamento spirituale.

    Ecco, allora, il motivo della proposta fatta a suo tempo dal card. Ratzinger e ora riaffermata nel corso del suo pontificato, di collocare il crocifisso al centro dell’altare, in modo tale che tutti, al momento della Liturgia Eucaristica, possano effettivamente guardare al Signore, orientando così la loro preghiera e il loro cuore. Ascoltiamo direttamente Benedetto XVI, che così scrive nella prefazione al I volume della Sua Opera Omnia, dedicato alla liturgia: “L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo”.

    E non si dica che l’immagine del crocifisso viene a oscurare la vista dei fedeli in rapporto al celebrante. I fedeli non devono guardare al celebrante, in quel momento liturgico! Devono guardare al Signore! Come al Signore deve poter guardare anche colui che presiede la celebrazione. La croce non impedisce la vista; anzi, le apre l’orizzonte sul mondo di Dio, la porta a contemplare il mistero, la introduce in quel Cielo da cui proviene l’unica luce capace di dare senso alla vita di questa terra. La vista, in verità, rimarrebbe oscurata, impedita se gli occhi rimanessero fissi su ciò che è solo presenza dell’uomo e opera sua.

    Così si comprende perché è ancora oggi possibile celebrare la Messa agli altari antichi, quando le particolari caratteristiche architettoniche e artistiche delle nostre chiese lo dovessero consigliare. Il Santo Padre ci dona anche in questo l’esempio quando celebra l’Eucaristia all’altare antico nella Cappella Sistina, per la festa del Battesimo del Signore.

    Nel nostro tempo è entrata nel linguaggio abituale l’espressione “celebrazione verso il popolo”. Se con tale espressione si intende descrivere l’aspetto topografico, dovuto al fatto che oggi, il sacerdote, a motivo della collocazione dell’altare, si trova spesso in posizione frontale rispetto all’assemblea, la si può accettare. Ma non la si potrebbe assolutamente accettare nel momento in cui venisse ad avere un contenuto teologico. Infatti, la Messa, teologicamente parlando, è sempre rivolta a Dio attraverso Cristo Signore e sarebbe un grave errore immaginare che l’orientamento principale dell’azione sacrificale fosse la comunità. Tale orientamento, dunque - quello al Signore –, deve animare l’interiore partecipazione liturgica di ciascuno. Ed è altrettanto importante che possa essere ben visibile anche nel segno liturgico.

    3. L’adorazione e l’unione con Dio

    L’adorazione è il riconoscimento pieno di stupore, potremmo anche dire estatico – perché ci fa uscire da noi stessi e dal nostro piccolo mondo -, della grandezza infinita di Dio, della sua maestà inafferrabile, del suo amore senza fine che si dona a noi in assoluta gratuità, della sua signoria onnipotente e provvidente. L’adorazione conduce, di conseguenza, alla riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo stato di separazione, di apparante autonomia, alla perdita di se stessi che è, poi, l’unico modo di ritrovarsi.

    Di fronte alla bellezza indicibile della carità di Dio, che prende forma nel mistero del Verbo Incarnato, morto e risorto per noi, e che trova nella liturgia la sua manifestazione sacramentale, altro non resta per noi che rimanere in adorazione. “C’è, nell’evento pasquale e nell’Eucaristia che lo attualizza nei secoli, - afferma Giovanni Paolo II nella Ecclesia de Eucharistia - una capienza davvero enorme, nella quale l’intera storia è contenuta, come destinataria della grande redenzione. Questo stupore deve invadere sempre la Chiesa raccolta nella celebrazione eucaristica” (n. 5).

    “Mio Signore e mio Dio”, ci hanno insegnato, da bambini, a dire al momento della consacrazione. In tal modo, prendendo a prestito l’esclamazione dell’apostolo Tommaso, siamo condotti ad adorare il Signore presente e vivo nelle specie eucaristiche, unendoci a Lui e riconoscendolo come il nostro Tutto. E da lì si può riprendere il cammino quotidiano, avendo ritrovato l’ordine esatto dell’esistenza, il criterio fondamentale alla luce del quale vivere e morire.

    Ecco perché tutto, nell’azione liturgica, nel segno della nobiltà, della bellezza, dell’armonia deve condurre all’adorazione, all’unione con Dio: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la Parola del Signore e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. Proprio in questa prospettiva è da considerare la decisione di Benedetto XVI che, a partire dal “Corpus Domini” dello scorso anno, ha iniziato a distribuire la Santa Comunione ai fedeli, direttamente sulla lingua e in ginocchio. Con l’esempio di questo gesto, il Papa ci invita a rendere manifesto l’atteggiamento dell’adorazione davanti alla grandezza del mistero della presenza eucaristica del Signore. Atteggiamento di adorazione che dovrà ancor più essere custodito accostandosi alla SS. Eucaristia nelle altre forme oggi concesse.

    Mi piace al riguardo citare ancora un brano dell’Esortazione Apostolica Postsinodale “Sacramentum caritatis”: “Mentre la riforma muoveva i primi passi, a volte l’intrinseco rapporto tra Santa Messa e l’adorazione del SS.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe dato per essere contemplato, ma per essere mangiato. In realtà, alla luce dell’esperienza di preghiera della Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n.66).

    Penso che, tra gli altri, non sia passato inosservato il seguente passaggio del testo appena letto: “(La Celebrazione eucaristica) è in se stessa il più grande atto di adorazione della Chiesa”. Grazie all’Eucaristia, afferma ancora Benedetto XVI, “ciò che era lo stare di fronte a Dio diventa ora, attraverso la partecipazione alla donazione di Gesù, partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione” (Deus caritas est, n. 13). Per questo motivo tutto, nella liturgia, e in specie nella Liturgia Eucaristica, deve tendere all’adorazione, tutto nello svolgimento del rito deve aiutare a entrare dentro l’adorazione che la Chiesa fa del Suo Signore.

    Considerare la liturgia come luogo dell’adorazione, dell’unione con Dio, non significa perdere di vista la dimensione comunitaria della celebrazione liturgica, né tanto meno dimenticare l’orizzonte della carità. Al contrario, soltanto da una rinnovata adorazione del mistero di Dio in Cristo, che prende forma nell’atto liturgico, potrà scaturire un’autentica comunione fraterna e una nuova storia di carità, secondo quella fantasia e quell’eroicità che solo la grazia di Dio può donare ai nostri poveri cuori. La vita dei santi ce lo ricorda e ce lo insegna. “L'unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l'unità con tutti i cristiani” (Deus caritas est, n. 14

    4. La partecipazione attiva

    Proprio loro, i santi, hanno celebrato e vissuto l’atto liturgico partecipandovi attivamente. La santità, come esito della loro vita, è la testimonianza più bella di una partecipazione davvero viva alla liturgia della Chiesa.

    Giustamente, dunque, e anche provvidenzialmente il Concilio Vaticano II ha insistito tanto sulla necessità di favorire un’autentica partecipazione dei fedeli alla celebrazione dei santi misteri, nel momento in cui ha ricordato la chiamata universale alla santità. E tale autorevole indicazione ha trovato puntuale conferma e rilancio nei tanti documenti successivi del magistero fino ai nostri giorni.

    Tuttavia, non sempre vi è stata una comprensione corretta della “partecipazione attiva”, così come la Chiesa insegna ed esorta a viverla. Certo, si partecipa attivamente anche quando si compie, all’interno della celebrazione liturgica, il servizio che è proprio a ciascuno; si partecipa attivamente anche quando si ha una migliore comprensione della Parola di Dio ascoltata e della preghiera recitata; si partecipa attivamente anche quando si unisce la propria voce a quella degli altri nel canto corale… Tutto questo, però, non significherebbe partecipazione veramente attiva se non conducesse all’adorazione del mistero della salvezza in Cristo Gesù morto e risorto per noi: perché solo chi adora il mistero, accogliendolo nella propria vita, dimostra di aver compreso ciò che si sta celebrando e, dunque, di essere veramente partecipe della grazia dell’atto liturgico.

    A riprova e sostegno di quanto si va affermando, ascoltiamo ancora il Card. Ratzinger in un brano del suo fondamentale volume “Introduzione allo spirito della liturgia”: “In che cosa consiste… questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più presto possibile. La parola partecipazione rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa ‘actio’ centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità.Con il termine actio  riferito alla liturgia, si intende il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è l’oratio. Questa oratio - la solenne preghiera eucaristica, il canone- è più che un discorso, è actio nel senso più alto del termine. In essa si fa presente Cristo stesso e tutta la sua opera di salvezza e per questo motivo, l’actio umana passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio”.

    Così, la vera azione che si realizza nella liturgia è l’azione di Dio stesso, la sua opera salvifica in Cristo a noi partecipata. Questa è, tra l’altro, la vera novità della liturgia cristiana rispetto a ogni altra azione cultuale: Dio stesso agisce e compie ciò che è essenziale, mentre l’uomo è chiamato ad aprirsi all’azione di Dio, al fine di rimanerne trasformato. Il punto essenziale della partecipazione attiva, di conseguenza, è che venga superata la differenza tra l’agire di Dio e il nostro agire, che possiamo diventare una cosa sola con Cristo. Ecco perché, per riaffermare quanto detto in precedenza, non è possibile partecipare senza adorare. Ascoltiamo ancora un brano della Sacrosanctum concilium: “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (n. 48).

    Rispetto a questo tutto il resto è secondario. E mi riferisco, in particolare, alle azioni esteriori, pur importanti e necessarie, previste soprattutto durante la Liturgia della Parola. Mi riferisco ad esse, perché se diventano l’essenziale della liturgia e questa viene ridotta a un generico agire, allora si è frainteso l’autentico spirito della liturgia. Di conseguenza, la vera educazione liturgica non può consistere semplicemente nell’apprendimento e nell’esercizio di attività esteriori, ma nell’introduzione all’azione essenziale, all’opera di Dio, al mistero pasquale di Cristo dal quale lasciarsi raggiungere, coinvolgere e trasformare. E non si confonda il compimento di gesti esterni con il giusto coinvolgimento della corporeità nell’atto liturgico. Senza nulla togliere al significato e all’importanza del gesto esterno che accompagna l’atto interiore, la Liturgia chiede molto di più al corpo umano. Chiede, infatti, il suo totale e rinnovato impegno nella quotidianità della vita. Ciò che il Santo Padre Benedetto XVI chiama “coerenza eucaristica”. E’ proprio l’esercizio puntuale e fedele di tale coerenza l’espressione più autentica della partecipazione anche corporea all’atto liturgico, all’azione salvifica di Cristo.

    Aggiungo ancora. Siamo proprio sicuri che la promozione della partecipazione attiva consista nel rendere tutto il più possibile e subito comprensibile? Non sarà che l’ingresso nel mistero di Dio possa essere anche e, a volte, meglio accompagnato da ciò che tocca le ragioni del cuore? Non succede, in taluni casi, di dare uno spazio sproporzionato alla parola, piatta e banalizzata, dimenticando che alla liturgia appartengono parola e silenzio, canto e musica, immagini, simboli e gesti? E non appartengono, forse, a questo molteplice linguaggio che introduce al centro del mistero e, dunque alla vera partecipazione, anche la lingua latina, il canto gregoriano, la polifonia sacra?

    5. Quale musica per la liturgia?

    Non compete a me addentrarmi direttamente in ciò che attiene la musica sacra o liturgica. Altri, con più competenza, tratteranno l’argomento nel corso dei prossimi incontri.

    Ciò che, però, mi sta a cuore sottolineare è che la questione della musica liturgica non può essere considerata indipendentemente dall’autentico spirito della liturgia e, dunque, dalla teologia liturgica e della spiritualità che ne consegue. Quanto, allora, si è andato affermando – ovvero che la liturgia è un dono di Dio che a Lui ci orienta e che, mediante l’adorazione ci permette uscire da noi stessi per  unirci a Lui e agli altri - non solo cerca di fornire alcuni elementi utili alla comprensione dello spirito liturgico, ma anche elementi necessari al riconoscimento di ciò che davvero può dirsi musica e canto per la liturgia della Chiesa.

    Mi permetto, al riguardo, solo una breve riflessione orientativa. Ci si potrebbe domandare il motivo per cui la Chiesa nei suoi documenti, più o meno recenti, insista nell’indicare un certo tipo di musica e di canto come particolarmente consoni alla celebrazione liturgica. Già il Concilio di Trento era intervenuto nel conflitto culturale allora in atto, ristabilendo la norma per cui nella musica l’aderenza alla parola è prioritaria, limitando l’uso degli strumenti e indicando una chiara differenza tra musica profana e musica sacra. La musica sacra, infatti, non può mai essere intesa come espressione di pura soggettività. Essa è ancorata ai testi biblici o della tradizione, da celebrare nella forma del canto. In epoca più recente, il Papa San Pio X fece un intervento analogo, cercando di allontanare la musica operistica dalla liturgia e indicando il canto gregoriano e la polifonia dell’epoca del rinnovamento cattolico come criterio della musica liturgica, da distinguere dalla musica religiosa in generale. Il Concilio Vaticano II non ha fatto che ribadire le stesse indicazioni, così come anche i più recenti interventi magisteriali.

    Perché, dunque, l’insistenza della Chiesa nel presentare le caratteristiche tipiche della musica e del canto liturgico in modo tale che rimangano distinti da ogni altra forma musicale? E perché il canto gregoriano come la polifonia sacra classica risultano essere le forme musicali esemplari, alla luce delle quali continuare oggi a produrre musica liturgica, anche popolare?

    La risposta a questa domanda sta esattamente in quanto abbiamo cercato di affermare in merito allo spirito della liturgia. Sono proprio quelle forme musicali - nella loro santità, bontà e universalità - a tradurre in note, in melodia e in canto l’autentico spirito liturgico: indirizzando all’adorazione del mistero celebrato, favorendo un’autentica e integrale partecipazione, aiutando a cogliere il sacro e, quindi, il primato essenziale dell’agire di Dio in Cristo, consentendo uno sviluppo musicale non disancorato dalla vita della Chiesa e dalla contemplazione del suo mistero.

    Mi sia permessa un’ultima citazione di J. Ratzinger: “Gandhi evidenzia tre spazi di vita del cosmo e mostra come ognuno di questi tre spazi vitali comunichi anche un proprio modo di essere. Nel mare vivono i pesci e tacciono. Gli animali sulla terra gridano, ma gli uccelli, il cui spazio vitale è il cielo, cantano. Del mare è proprio il tacere, della terra il gridare e del cielo il cantare. L'uomo però partecipa di tutti e tre: egli porta in sé la profondità del mare, il peso della terra e l'altezza del cielo; perciò sono sue anche tutte e tre le proprietà: il tacere, il gridare il cantare. Oggi… vediamo che all'uomo privo di trascendenza rimane solo il gridare, perché vuole essere soltanto terra e cerca di far diventare sua terra anche il cielo e la profondità del mare. La vera liturgia, la liturgia della comunione dei santi, gli restituisce la sua totalità. Gli insegna di nuovo il tacere e il cantare, aprendogli la profondità del mare e insegnandogli a volare, l'essere dell'angelo; elevando il suo cuore fa risuonare di nuovo in lui quel canto che si era come assopito. Anzi, possiamo dire persino che la vera liturgia si riconosce proprio dal fatto che essa ci libera dall'agire comune e ci restituisce la profondità e l'altezza, il silenzio e il canto. La vera liturgia si riconosce dal fatto che è cosmica, non su misura di un gruppo. Essa canta con gli angeli. Essa tace con la profondità dell'universo in attesa. E così essa redime la terra” (Cantate al Signore un canto nuovo, p. 153-154)

    Concludo. E’ ormai da alcuni anni che nella Chiesa, a più voci, si parla della necessità di un nuovo rinnovamento liturgico. Di un movimento, in qualche modo analogo a quello che pose le basi per la riforma promossa dal Concilio Vaticano II, che sia capace di operare una riforma della riforma, ovvero ancora un passo avanti nella comprensione dell’autentico spirito liturgico e della sua celebrazione: portando così a compimento quella riforma provvidenziale della liturgia che i Padri conciliari avevano avviato, ma che non sempre, nell’attuazione pratica, ha trovato puntuale e felice realizzazione.

    La nostra Diocesi, nel movimento liturgico del secolo scorso ha avuto un ruolo non secondario. L’amore per l’autentico spirito della liturgia fa parte del suo patrimonio di fede, in virtù anche di grandi pastori d’anime che hanno lasciato il segno in questa nostra terra. Sono certo che un analogo, se non più significativo, ruolo la nostra Chiesa potrà averlo anche in questo nostro tempo. Possa, con l’aiuto del Signore, l’ulteriore sviluppo della riforma essere anche il frutto del nostro amore sincero per la liturgia, nella fedeltà alla Chiesa e al Papa.

       

    Mons. Guido Marini
    Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie

      

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 21/03/2013 11:40

    UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE 
    DEL SOMMO PONTEFICE  

     

    LA LITURGIA, CULMINE DELLA VITA DELLA CHIESA 

     

    USMI della Diocesi di Roma
    7 marzo 2009

     

    Nel salutare tutte e ciascuna con affetto e rispetto, grato al Signore  per quello che fate e, soprattutto, per quello che siete nella Chiesa, desidero subito indicare i termini e i limiti di questa nostra conversazione. Non intendo dilungarmi in una dissertazione liturgica, scientifica e puntuale in ogni sua argomentazione. Non mi pare, infatti, che sia questo il senso del nostro incontro. E, d’altra parte, non vorrei avvallare il pensiero, a volte ricorrente, secondo cui la Liturgia è “cosa per specialisti”, rispetto ai quali la maggior parte dei fedeli non può che collocarsi in posizione subordinata di pura ricettività.

    In realtà la Liturgia, che certo ha bisogno anche di specialisti, come ogni materia teologica d’altronde, è prima di tutto esperienza quotidiana dell’intera comunità cristiana che, sotto la guida dei pastori, vive nella storia l’incontro con il mistero della salvezza nella forma del rito liturgico. Di questo, dunque, intendo parlarvi: di quell’esperienza di fede, mia e vostra, di tutti, per la quale ogni giorno viviamo la grazia della celebrazione del mistero di Cristo, Signore e Salvatore, nella Chiesa e con la Chiesa. Desiderando sottolineare qui, con il termine Chiesa, quella comunione singolare che ci rende una sola famiglia anche con quanti ci hanno preceduto e con quanti, nostri contemporanei, vivono fisicamente distanti da noi.

    Non si può intendere la Liturgia senza questo sguardo ampio, capace di abbracciare ogni tempo e ogni spazio, in quanto vissuti dalla Chiesa in cammino verso il suo Signore. In altre parole, la Liturgia non è nostra. Come il deposito della fede, che non è nostro ma lo abbiamo ricevuto, lo viviamo in comunione con il corpo ecclesiale e lo dobbiamo consegnare integro a chi verrà dopo di noi, così è per la Liturgia: lo ripeto, non è nostra, l’abbiamo ricevuta, la viviamo nella comunione del corpo ecclesiale e la dobbiamo consegnare integra a chi verrà dopo di noi.

    Così, per ritornare al senso del nostro incontro, mi piace usare una celebre espressione: “cor ad cor loquitur”. Il nostro conversare sarà un parlare da cuore a cuore. E forse questo ci aiuterà a fare del nostro ritrovarci oggi non un’esercitazione intellettuale anche interessante, ma un rimanere insieme davanti al Signore, un aprirsi comune e con gioioso stupore alla contemplazione del mistero della salvezza celebrato nella Chiesa.

    E’ inutile dirvi la gioia che provo nel parlarvi di questo. L’amore per la Liturgia mi accompagna fin dai tempi del Liceo, quando cominciavo ad ascoltare la voce del Signore che mi chiamava al sacerdozio. E ora, così la buona Provvidenza ha disposto, almeno in questo tempo della mia vita sacerdotale, la Liturgia sta al centro dei miei pensieri quotidiani, al cuore del mio ministero. Ma il motivo della gioia è anche un altro. Ritengo che sia una vera grazia parlare di Liturgia a delle religiose, a delle donne che hanno consacrato per intero e senza riserve la loro vita al Signore. E questo perché la persona consacrata, nella quale trova piena espressione la straordinaria ricchezza dell’animo femminile, porta in sé una tensione naturale e di grazia alla ricettività, al dono di sé gratuito, allo sguardo contemplativo… tutte caratteristiche che permettono di avere una particolare sintonia spirituale con la verità della celebrazione liturgica.

     

    1. Culmine o fonte?

    Mi sia consentita una piccola precisazione in merito al titolo che mi è stato affidato per questa conversazione: “La Liturgia, culmine della vita della Chiesa”. Tutti sappiamo che questa espressione fa riferimento al celebre testo della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II “Sacrosanctum Concilium”, in cui si dice: “La liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutto il suo vigore” (SC 10). Come si può osservare i termini usati sono due: culmine e fonte. E questo è un primo dato importante.

    Se andiamo, poi, a ricercare gli altri documenti nei quali il Concilio Vaticano II ha ripreso questa espressione, ci accorgiamo di una piccola differenza. In effetti in “Lumen gentium” al n. 11 e in “Presbyterorum Ordinis” al n. 5 si dice, con riferimento all’Eucaristia, che questa è “la fonte e il culmine” della vita della Chiesa.

    Questa differenza nell’ordine dei termini usati la ritroviamo in genere nei documenti del recente magistero: si preferisce anteporre la parola “fonte” alla parola “culmine”. Potremmo dire, in conclusione, che c’è stata un’evoluzione nell’uso di questa terminologia.

    Di conseguenza, attenendomi al testo della “Sacrosanctum Concilium”, agli altri documenti conciliari e ai successivi interventi magisteriali, svilupperò la mia riflessione considerando la Liturgia, e in specie l’Eucaristia, quale “fonte e culmine” della vita della Chiesa.

    Potrebbe essere lecito chiedersi: “E’ proprio tanto importante ricordare l’esistenza di questi due termini e definirne con esattezza l’ordine di precedenza?”. La risposta è sì e il motivo è il seguente: solo a partire dalla compresenza di questi due termini è possibile accostarsi a tutta intera la stupenda ricchezza della Liturgia della Chiesa; e, d’altra parte, solo assicurando il loro esatto ordine di precedenza, ci è dato di gustare la verità della celebrazione liturgica.

    Se la Liturgia fosse soltanto “culmine” della vita della Chiesa vorrebbe dire che essa sarebbe semplicemente il punto di arrivo del nostro cammino, il termine più alto a cui tendere della nostra storia spirituale, il frutto del nostro impegno e delle nostre opere. In verità, la Liturgia è insieme e ancor prima “fonte” della vita della Chiesa, vale a dire grazia, dono che scende dall’alto e che rende possibile il nostro cammino cristiano, la nostra storia spirituale, il nostro impegno e le nostre opere di santità. E’, questa, la verità cattolica del primato della grazia.

    Ricordo quanto afferma in proposito, soffermandosi sull’Eucaristia, Papa Benedetto XVI nell’Esortazione Apostolica postsinodale “Sacramentum caritatis”: “Poiché nell’Eucaristia si rende presente il sacrificio redentore di Cristo, si deve innanzitutto riconoscere che c’è un influsso causale dell’Eucaristia alle origini stesse della Chiesa. L’Eucaristia è Cristo che si dona a noi, edificandoci continuamente come suo corpo. Pertanto, nella suggestiva circolarità tra Eucaristia che edifica la Chiesa e Chiesa stessa che fa l’Eucaristia, la causalità primaria è quella espressa nella prima formula: la Chiesa può celebrare e adorare il mistero di Cristo presente nell’Eucaristia proprio perché Cristo stesso si è donato per primo ad essa nel sacrificio della croce. La possibilità per la Chiesa di fare l’Eucaristia è tutta radicata nella donazione che Cristo le ha fatto di se stesso” (n. 14).

    Come a dire che l’Eucaristia, e con essa tutta la Liturgia, è prima fonte e poi culmine della vita della Chiesa.

    D’altra parte, non è questa anche la nostra personale esperienza nella vita della fede? Parlo per un istante di me; ma parlando di me, sono certo di dare voce anche a ciascuna di voi. Quando torno indietro con il pensiero e mi fermo a considerare la storia della mia vocazione, mi appare sempre nitidissimo l’intervento del Signore che, con la sua grazia, ha preceduto e reso possibile la mia risposta. Non sono io che ho amato Dio, è Dio che ha amato me per primo. Se talora mi accade di pensare di essere stato io in qualche momento l’artefice della ricerca di Dio, subito, a un esame più attento, mi accorgo che la mia ricerca è stata possibile perché Dio per primo ha cercato me. E questo mi accade ogni giorno, nello svolgersi di quella vocazione quotidiana che, lo sappiamo bene tutti, è la storia di ciascuno di noi con Dio. Così mi dico e vi dico: la mia, la nostra vocazione è stata una splendida Liturgia! La mia, la nostra quotidiana storia di fede è una splendida Liturgia! Gesù Cristo è il culmine della nostra vita, vale a dire la meta a cui tendiamo, perché anzitutto ne è stato e ne è la fonte.

    Ecco, dunque, perché è importante ricordare l’esistenza di questi due termini e definirne con esattezza l’ordine di precedenza. Ed è quello che abbiamo cercato in breve di fare.

     

    2. La Liturgia è fonte della vita della Chiesa

    Che cosa ne consegue dall’affermare che la Liturgia è “fonte” della vita della Chiesa? Non dimentichiamo che quando parliamo della Chiesa stiamo parlando anche di ciascuno di noi. Alla luce di questa precisazione, mi soffermo a considerare con voi alcune di queste conseguenze. 

                ● Se la Liturgia è “fonte” della vita della Chiesa ne consegue che la Chiesa, e in essa ciascuno di noi, ritrova nella Liturgia la propria vitalità spirituale. Senza la celebrazione liturgica la Chiesa non sarebbe più “vitale”.

    Non è difficile capire il perché di questa affermazione. La Liturgia è la ripresentazione nell’oggi del mistero di Cristo e la Chiesa vive di questo mistero. La Liturgia è la presenza del Signore nella Sua parola e nei sacramenti e la Chiesa vive della presenza del suo Signore. La Liturgia è la contemporaneità della salvezza in ogni tempo della storia e la Chiesa vive di questa contemporaneità. Ecco perché la Liturgia è tanto importante nella vita della Chiesa e di ogni comunità cristiana, nella nostra vita.

    Nella Chiesa tutto parte dalla Liturgia e dalla Liturgia prende forma, perché nella Chiesa tutto parte dal Signore e dal Signore prende forma.

    Non è casuale che il Concilio Vaticano II abbia iniziato i suoi lavori proprio a partire dalla Liturgia. Ecco la testimonianza che, al riguardo, lascia Benedetto XVI nella prefazione al primo volume della sua “Opera omnia”, tra poco edita anche in Italia, dedicato proprio alla Liturgia: “Ciò che a prima vista potrebbe sembrare un caso, si rivela, guardando alla gerarchia dei temi e dei compiti della Chiesa, come la cosa anche intrinsecamente più giusta. Cominciando con il tema "liturgia", si mise inequivocabilmente in luce il primato di Dio, la priorità del tema "Dio". Dio innanzitutto, così ci dice l’inizio della costituzione sulla liturgia. Quando lo sguardo su Dio non è determinante ogni altra cosa perde il suo orientamento. Le parole della regola benedettina "Ergo nihil Operi Dei praeponatur" (43, 3: "Quindi non si anteponga nulla all’Opera di Dio") valgono in modo specifico per il monachesimo, ma hanno valore, come ordine delle priorità, anche per la vita della Chiesa e di ciascuno nella sua rispettiva maniera”.

    Anche nella nostra vita, personale e comunitaria, tutto deve partire dalla Liturgia: perché tutto deve partire da Dio. Inevitabilmente ci sentiamo tutti interpellati: quale posto occupa la Liturgia nelle nostre giornate? Con quale intensità di amore viviamo le celebrazioni liturgiche? E’, la Liturgia, il luogo primo e privilegiato dell’incontro con il Signore che si dona a noi? Viviamo la celebrazione liturgica come la sorgente da cui sola può scaturire la storia della nostra santità?

    Se è vero che bisogna sempre ripartire da Dio per riformare autenticamente la propria vita, è altrettanto vero che per tale riforma dobbiamo sempre ripartire dalla Liturgia. Non illudiamoci: altre strade non portano da nessuna parte, perché solo da una rinnovata esperienza di grazia può scaturire una vera trasformazione nella logica della santità. Il resto è solo volontarismo che, oltre a essere inconcludente, neppure è autenticamente cristiano.

    Il discorso sulla Liturgia come “fonte” ci ricorda che la priorità all’ordine del giorno della nostra vita e della vita delle nostre comunità, come anche dei nostri progetti pastorali, deve essere Dio, e Dio solo. Tutto il resto verrà di conseguenza. 

                ● Se la Liturgia è “fonte” della vita della Chiesa, ne consegue che la Chiesa, e in essa ciascuno di noi, non può che vivere nell’atteggiamento spirituale dell’adorazione.

    L’adorazione è il riconoscimento pieno di stupore, potremmo anche dire estatico – perché ci fa uscire da noi stessi e dal nostro piccolo mondo -, della grandezza infinita di Dio, della sua maestà inafferrabile, del suo amore senza fine che si dona a noi in assoluta gratuità, della sua signoria onnipotente e provvidente.

    Di fronte alla bellezza indicibile della carità di Dio, che prende forma nel mistero del Verbo Incarnato, morto e risorto per noi, e che trova nella Liturgia la sua manifestazione sacramentale, altro non resta per noi che rimanere in adorazione.

    “Mio Signore e mio Dio”, ci hanno insegnato, da bambini, a dire al momento della consacrazione. In tal modo, prendendo a prestito l’esclamazione dell’apostolo Tommaso, siamo condotti ad adorare il Signore presente e vivo nelle specie eucaristiche, riconoscendolo come il nostro Tutto. E da lì si riparte, avendo ritrovato l’ordine esatto dell’esistenza, il criterio fondamentale alla luce del quale vivere e morire.

    Giustamente e, dovremmo dire, anche provvidenzialmente il Concilio Vaticano II ha insistito tanto sulla necessità di favorire un’autentica partecipazione dei fedeli alla celebrazione dei santi misteri. E tale autorevole indicazione ha trovato puntuale conferma e rilancio nei tanti documenti successivi del magistero fino ai nostri giorni. Tuttavia, non sempre vi è stata una comprensione corretta della “partecipazione attiva”, così come la Chiesa la desidera e così come è bene che sia. Certo, si partecipa attivamente anche quando si compie, all’interno della celebrazione liturgica, il servizio che ci è proprio; si partecipa attivamente anche quando si ha una migliore comprensione della Parola di Dio ascoltata e della preghiera recitata; si partecipa attivamente anche quando si unisce la propria voce a quella degli altri nel canto corale… Tutto questo, però, non significherebbe partecipazione veramente attiva se non conducesse all’adorazione del mistero della salvezza in Cristo Gesù morto e risorto per noi: perché solo chi adora il mistero dimostra di aver compreso ciò che si sta celebrando e, dunque, di essere veramente partecipe della grazia dell’atto liturgico.

    Ecco perché tutto, nell’azione liturgica, deve condurre all’adorazione: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la Parola di Dio e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. La nobiltà, la bellezza, l’armonia, la capacità di tratte fuori dall’ordinario per farci entrare nello spazio sacro di Dio: questi, e solo questi sono i criteri ecclesiali in base ai quali discernere ciò che può essere accolto o non accolto nelle nostre liturgie.

    Non mi dilungo  nel dettaglio, ma ripeto che questi sono i criteri in base ai quali siamo chiamati a scendere nel dettaglio della celebrazione liturgica. E la Liturgia, non dimentichiamolo, è fatta di tanti dettagli che hanno bisogno della nostra attenzione di fede e di amore.

    Mi piace al riguardo citare un passaggio dell’Esortazione Apostolica Postsinodale “Sacramentum caritatis”: “Mentre la riforma muoveva i primi passi, a volte l’intrinseco rapporto tra Santa Messa e l’adorazione del SS.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe dato per essere contemplato, ma per essere mangiato. In realtà, alla luce dell’esperienza di preghiera della Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n.66).

    Penso che, tra gli altri, non sia passato inosservato il seguente passaggio del testo appena letto: “(La Celebrazione eucaristica) è in se stessa il più grande atto di adorazione della Chiesa”. Tutto, nella Liturgia, e in specie nella Liturgia eucaristica, deve tendere all’adorazione, tutto nello svolgimento del rito deve aiutare a entrate dentro l’adorazione che la Chiesa fa del Suo Signore, partecipando così davvero in modo attivo.

    Anche in questo caso, qualche domanda sorge spontanea. La Liturgia che viviamo ogni giorno tende davvero in ogni suo aspetto, piccolo o grande che sia, all’adorazione? Partecipare attivamente significa per noi entrare consapevolmente nel grande atto di adorazione che la Chiesa fa nei confronti del Suo Signore, morto e risorto? Quale centralità ha il crocifisso nelle nostre celebrazioni, a ricordarci che Lui è il motivo del nostro ritrovarci, che è il suo sacrifico d’amore a donarci la salvezza e che a Lui guardiamo per poter poi guardare con occhi nuovi chi sta attorno a noi? Non accade, forse, a volte che le nostre liturgie appaiono piuttosto un ritrovo tutto orizzontale, in cui ciò che più conta è l’attività delle persone che si incontrano, il banale ritrovarsi insieme, mentre viene meno l’attenzione che si deve a Dio?

    Considerare la Liturgia come luogo dell’adorazione non significa perdere di vista la dimensione comunitaria della celebrazione liturgica, né tanto meno dimenticare l’orizzonte della carità. Al contrario, soltanto da una rinnovata adorazione del mistero di Dio in Cristo, che prende forma nell’atto liturgico, potrà scaturire un’autentica comunione e una nuova storia di carità, secondo quella fantasia e quell’eroicità che solo la grazia di Dio può donare ai nostri poveri cuori. La vita dei santi ce lo ricorda e ce lo insegna.  

                ● Se la Liturgia è “fonte” della vita della Chiesa, ne consegue che non può esserci spazio per una male intesa creatività.

    A volte, nell’epoca comunemente detta “postconciliare”, con il pretesto della cosiddetta creatività si è arrivati a stravolgere in vario modo la Liturgia della Chiesa. In nome del principio di adattamento alle situazioni locali e ai bisogni della comunità ci sì è, in alcuni casi, appropriati del diritto di togliere, aggiungere e modificare il rito liturgico all’insegna della soggettività e dell’emotività.

    Al di là della superficialità, certo non consona al sano sentire ecclesiale, presente in questo atteggiamento, è bene rintracciare le motivazioni profonde che devono disporci a un modo di verso di accostare la celebrazione liturgica.

    Ricorro, per illustrate queste motivazioni, a un brano del bellissimo testo, scritto dall’allora Card. Ratzinger, “Introduzione allo spirito della Liturgia”: “…la creatività non può essere mai una categoria autentica della realtà liturgica. Oltre tutto, questo termine è cresciuto nella visione del mondo propria del marxismo. Creatività significa che in un mondo, di per sé privo di senso, sviluppatosi per un’evoluzione cieca, l’uomo realizza finalmente un mondo nuovo e migliore, a partire dalle proprie forze. Nelle moderne teorie artistiche si intende con questo termine una forma nichilistica di creazione: l’arte non deve imitare nulla; la creatività artistica è il libero spaziare dell’uomo, che non si lega ad alcuna misura e ad alcuno scopo e che non può sottomettersi a nessuna domanda di significato…Questo modo di creare non è della liturgia. Essa non vive di trovate di qualche singolo o di qualche commissione. Essa è, al contrario, il venire di Dio, il farsi trovare di Dio nel nostro mondo, ed opera davvero la liberazione…Quanto più sacerdoti e fedeli si affideranno umilmente a questo Suo farsi trovare, tanto più nuova diverrà la liturgia e tanto più essa sarà vera e personale. Sì, personale, vera e nuova la liturgia lo diviene non mediante banali invenzioni di parole o giochini, ma con il coraggio di mettersi in cammino verso qualcosa di grande, che per mezzo del rito ci precede sempre e di cui noi non possiamo mai impossessarci del tutto” (pp. 164-165).

    Mi pare una pagina piuttosto chiara e limpida. Eppure, non è forse vero che anche le nostre comunità, a volte, sembrano intendere la liturgia come il luogo di “trovate” sempre nuove, con la buona intenzione di catturare l’attenzione dei fedeli, distogliendola in verità dal suo centro che è Cristo Gesù?

    Certo, una forma di adattamento è prevista ed è bene che ci sia. E’ il messale stesso che la indica in alcune sue parti. Ma in queste e solo in queste, non arbitrariamente in altre. E questo non per volere essere legati alle rubriche per le rubriche, ma per il fatto più profondo che la Liturgia è dono che ci precede, tesoro prezioso che ci è stato consegnato dalla preghiera secolare della Chiesa, luogo in cui la fede della Chiesa ha trovato nel tempo forma ed espressione orante. Tutto questo non è nella nostra disponibilità soggettiva. E’ indisponibile a noi per essere integralmente a disposizione di tutti, ieri come oggi e ancora domani.

    Nella stupenda Enciclica “Mediator Dei”, che spesso verrà citata nella “Sacrosanctum Concilium”, Pio XII definiva la Liturgia come: “…il culto pubblico…il culto integrale del corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del capo e delle sue membra”. Come a dire, tra l’altro, che nella Liturgia la Chiesa riconosce “ufficialmente” se stessa, il suo mistero di unione sponsale con Cristo, e lì “ufficialmente” si manifesta. Con quale insana spensieratezza potremmo noi, dunque, arrogarci il diritto di alterare in modo soggettivo quei santi segni, così li chiamerebbe Romano Guardini, attraverso i quali la Chiesa parla di sé, della propria identità, della propria fede? 

    C’è da temere che, almeno in alcuni casi, la ricerca affannosa di segni, testi, gesti sempre nuovi e diversi sia la spia di una scarsa comprensione della realtà liturgica e anche, forse, si un malessere nella fede.

    Mi dilungo ancor un momento su questo tema, che reputo molto importante, facendo riferimento di nuovo a un passaggio di “Sacramentum caritatis”: “Sottolineando l’importanza dell’ars celebrandi – afferma il Papa – si pone in luce, di conseguenza, il valore delle norme liturgiche. L’ars celebrandi deve favorire il senso del sacro e l’utilizzo di quelle forme esteriori che educano a tale senso, come, ad esempio, l’armonia del rito, delle vesti liturgiche, dell’arte e del luogo sacro. La celebrazione eucaristica trova giovamento là dove i sacerdoti e i responsabili della pastorale liturgica si impegnano a fare conoscere i vigenti libri liturgici e le relative norme…Nelle comunità ecclesiali si dà forse per scontata la loro conoscenza e il loro giusto apprezzamento, ma spesso così non è. In realtà, sono testi in cui sono contenute ricchezze che custodiscono ed esprimono la fede e il cammino del Popolo di Dio lungo i due millenni della sua storia. Altrettanto importante per una giusta ars celebrandi è l’attenzione verso tutte le forme di linguaggio previste dalla liturgia: parola e canto, gesti e silenzi, movimento del corpo, colori liturgici dei paramenti. La liturgia, in effetti, possiede per sua natura una varietà di registri di comunicazione che le consentono di mirare al coinvolgimento di tutto l’essere umano. La semplicità dei gesti e la sobrietà dei segni posti nell’ordine e nei tempi previsti comunicano e coinvolgono di più che l’artificiosità di aggiunte inopportune. L’attenzione e l’obbedienza alla struttura propria del rito, mentre esprimono il riconoscimento del carattere di dono dell’Eucaristia, manifestano la volontà del ministro di accogliere con docile gratitudine tale ineffabile dono” (40).

    Conoscenza dei libri liturgici e delle norme che lì si trovano, osservanza fedele del rito in ogni suo aspetto, considerazione attenta dei molti e ricchissimi segni che la Liturgia prevede senza inopportune aggiunte o manipolazioni…Sono, questi, solo alcuni richiami puntuali che il Papa rivolge a tutti noi e alla luce dei quali siamo chiamati a vivere l’esperienza liturgica. Forse, in sintesi, si potrebbe dire: la Liturgia non è nostra, non è nella nostra disponibilità e non soggiace alla nostra arbitrarietà; come tale, vale a dire come dono, dobbiamo avvicinarla, amarla e viverla. 

    3. La Liturgia è culmine della vita della Chiesa

    Giunti quasi al termine della nostra conversazione, forse ci viene da chiedere: “Fino ad ora abbiamo parlato della Liturgia come fonte della vita della Chiesa. Ma che cosa significa affermare che la Liturgia ne è anche il culmine?”.

    La domanda è legittima, più che legittima; tuttavia, alla luce di quanto abbiamo fin qui detto, penso che la risposta possa essere piuttosto breve. “Culmine” dice un punto di arrivo collocato in alto, la meta di un pellegrinaggio che dura nel tempo. La Liturgia è anche questo, proprio perché è la presenza nell’oggi del mistero di Cristo. La Chiesa, e in essa ciascuno di noi, è chiamata ad assimilarsi sempre di più al suo Signore, a imitarlo, a essere una sola cosa con lui. Nella celebrazione liturgica la Chiesa ritrova questa aspirazione, se mai l’avesse dimenticata, e noi con lei. Noi che spesso, invece,  quell’aspirazione cristiana fondamentale la perdiamo di vista.

    La Liturgia che è culmine della nostra vita ci ricorda che siamo fatti per la santità e mette in movimento tutte le forze di cui disponiamo per tendervi senza mai stancarsi.

    Così è proprio vero: tutto parte dalla Liturgia, che è fonte; e tutto torna alla Liturgia che è culmine. E la Liturgia è culmine, vale a dire punto di arrivo del nostro cammino, proprio perché è anche fonte da cui scaturisce la possibilità di quel cammino. Se il mistero di Cristo non ci fosse donato al principio come salvezza, non potrebbe esserci in noi nessuna speranza di ritrovare il Signore al compimento della nostra vita. Ma siccome quel mistero di grazia ci precede e ci accompagna il Signore Gesù può essere anche il culmine del nostro impegno cristiano. Partecipiamo alla Liturgia-fonte per venire trasformati dal dono di grazia che è Cristo Salvatore. Partecipiamo alla Liturgia-culmine per non perdere di vista la meta per la quale quel dono di grazia ci ha resi capaci e impegnati.

    Quale splendore di grazia, di amore, di bellezza e di verità è la Liturgia! Quale splendore di grazia, di amore, di bellezza e di verità è l’Eucaristia! Davvero la Liturgia è il culmine della vita della Chiesa! E’ per questo che noi sacerdoti, ma con noi anche voi, carissime religiose e persone consacrate, e tutti i fedeli, non dovremmo mai dimenticare quanto la Chiesa, nella sua esperienza secolare, ricorda come ammonimento salutare a chi da poco ha ricevuto la sacra ordinazione: “Che la tua Messa sia sempre come la prima, come l’ultima e come l’unica”. Anch’io, il giorno della mia ordinazione, questa raccomandazione amorevole me la sono sentita rinnovare dal mio Arcivescovo. E giorno dopo giorno ne capisco sempre di più la profondissima verità. Non c’è nulla che sia più importante della Liturgia, dell’Eucaristia. Perché non c’è nulla che sia più importante del Signore, crocifisso e risorto, presente e operante oggi nella Sua Chiesa.

    Possa essere realtà quotidiana per ciascuno di noi che l’Eucaristia è la nostra vita e la vita è la nostra Eucaristia, così come la Liturgia è la nostra vita e la vita è la nostra Liturgia. Questo è anche il mio augurio a tutte voi per il cammino quaresimale.

      

    Mons. Guido Marini
    Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie

      

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)