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CAPITOLO III   I MARTIRI

Il martirio è la suprema testimonianza che l’uomo possa rendere alla verità. Conveniva e pare fosse anche necessario che l’Ordine “custode della Verità” le desse questa testimonianza del sangue, poiché, secondo il detto di Pascal, “si crede più volentieri ai testimoni che si fanno scannare”.
S. Domenico non ebbe la ventura di versare il suo sangue per Cristo; ma lo desiderò ardentemente.
Parecchie volte, durante il suo apostolato in Linguadoca, poté credere che gli eretici stessero per procurargli questa gioia tanto desiderata. Un giorno, siccome rimaneva calmo di fronte alle peggiori minaccie: “Non hai tu paura della morte? - gli chiesero gli eretici stupiti -. Che farai se noi ci impadroniamo di te?” Egli diede loro questa su­blime risposta: “Vi supplicherò di non mettermi a morte a un tratto, ma di amputarmi ad uno ad uno le membra, per prolungare il mio martirio; vi domanderò di ridurmi al punto di non esser più che un tronco senza membra, di strapparmi gli oc­chi, di ravvoltolarmi nel mio sangue prima di finirmi, a fine di conquistare una più bella corona del martirio”. “S’egli conosceva un villaggio dove la sua vita fosse in pericolo, vi correva e lo attraversava cantando. Anzi, se era oppresso dalla fatica, si coricava lungo la strada e dormiva.
Un giorno tra Prouille e Fanjeaux, lo aspettavano assassini, imboscati in una strada incassata. Domenico ne ebbe sospetto e partì tutto lieto. Ma quando essi lo videro arrivare intrepido e brioso, gli eretici capirono che trucidandolo avrebbero messo il colmo alla sua felicità, e rinunziarono al loro progetto: “A che pro, ‑ dissero ‑ fare il suo tornaconto? Non sarebbe un giovargli e soddisfare i suoi vivi desideri?”.


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I figli furono più felici del loro Padre. A migliaia ebbero la felice ventura di morire per Cristo.
L’Ordine non aveva ancora dieci anni di esistenza che già aveva data la testimonianza del sangue. Cominciarono gli eretici a procurargli questa gloria. La generosità dei Predicatori nel condurre la lotta contro l’eresia, sulle indicazioni del Papato, loro valse di esser perseguitati con rabbia da tutto ciò che allora lavorava per la distruzione della società cristiana.
Numerosi furono i martiri. Essi caddero in ogni parte, in Francia, in Italia, in Spagna, in Ungheria, in Austria, in Dalmazia, in Boemia; in tutta l’Europa il sangue domenicano scorse a rivi.
Dal canto loro i Barbari si adoperavano accanitamente a dare ai figli di S. Domenico la suprema felicità che ambivano. Soprattutto nei paesi di missione Cristo fu glorificato dal sangue dei Predi­catori.
Fin dal 1226, i Beati Domenico e Alberto sono martirizzati nei paesi balcanici.
Nel 1242 il B. Paolo con i suoi 90 compagni.
Nel 1261 duecento Frati in Egitto.
Verso il medesimo tempo, un centinaio di Frati in Tartaria.
Nel 1260 a Sandomir il B. Sadoc e i suoi 48 compagni. La loro morte è celebre nell’Ordine. Una notte, dopo Mattutino, il lettore aveva appena aperto il Martirologio, quando ad un tratto egli esita, sbalordito, con gli occhi fissi sulla prima riga, scritta in lettere d’oro: Sandomiriae passio quadraginta novem martyrum. I Frati erano sopraffatti dallo stupore. Altri e poi altri vollero accertarsi. Era scritto così! Fra Sadoc, rapito, esorta i suoi figli a morire con coraggio e tutto il giorno seguente le quarantanove vittime segnate dalla Provvidenza si prepararono al sacrificio. Infatti quel giorno stesso, i Tartari s’impadronirono della città. Era la sera, dopo Compieta. Secondo l’uso dell’Ordine, i Predicatori cantavano la Salve Regina. I Tartari penetrarono nella chiesa e li trucidarono. Il loro ultimo grido fu un grido di speranza e di amore verso la Madre di Dio: Spes nostra, salve.


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Da quel tempo presso i Predicatori, ogni volta che un religioso giunge all’ora estrema, i Frati si radunano attorno al suo letto per cantar dolcemente la Salve Regina, il canto della confidenza che lo addormenta nelle braccia della Madonna, Regina e Madre dell’Ordine.
Anziché scoraggiarlo, questi fatti stimolarono l’ardore apostolico dei figli di S. Domenico. Un insaziabile desiderio di soffrire per Cristo li spinge­va fino ai confini del mondo. Si faceva a gara a chi ottenesse il permesso di partire per le contrade reputate le più pericolose, sicché i Maestri Generali e i Papi stessi, dovettero adoperarsi per moderare questa sete di martirio.
Abbiamo, purtroppo, perduto il nome di molti di questi felici Predicatori, ma sappiamo che furono numerosissimi.
Non era tuttavia che un principio. Durante tutto il secolo XIV e XV, gli eretici e i Tartari continuarono ad immolare i Predicatori al loro odio del vero Dio.
Ma più ancora quando il Protestantesimo ebbe scatenata la guerra religiosa sulle nazioni cristiane e quando la scoperta delle Indie ebbe offerto un nuovo campo d’apostolato ai missionari, il numero dei martiri si moltiplicò gloriosamente. Allora ‑ dice il P. Lacordaire ‑ tra i due mondi si gareggiava a chi spandesse più largamente il sangue domenicano. I Protestanti lo versavano a torrenti in Europa. L’America, l’Asia, l’Africa l’offrivano in sacrificio ad altri errori. L’Ordine di S. Domenico non aveva mai presentato un così grande spettacolo. Chi l’avesse visto dall’alto e con un solo sguardo, come Dio, non avrebbe potuto credere possibile che un così piccolo numero di uomini potesse parlare tante lingue, occupar tanti luoghi, dirigere tante opere e versar tanto sangue...


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E nondimeno, pochi anni appresso, Santa Teresa annunziava, dopo una visione, una nuova era di martiri domenicani: “Essendo io in preghiera, vicino al SS. Sacramento, racconta ella nella sua Vita ‑ S. Domenico mi apparve con un gran libro in mano, e mi disse di leggervi certe parole scritte in grossi caratteri ed io lessi questo cenno: Nel tempo avvenire, quest’Ordine fiorirà e avrà molti martiri.
La profezia si verificò: da Santa Teresa in poi l’Ordine diede alla Chiesa altre centinaia di martiri.
Nel corso dei secoli XVII, XVIII e XIX, il sangue domenicano scorse di nuovo a rivi in tutto quanto il mondo: in Francia, in Irlanda, in Inghilterra, in Fiandra, nei Paesi Bassi, in Polonia (dal 1648 al 1672 soltanto, la provincia di S. Giacinto diede 444 martiri alla Chiesa), in Russia, in Lituania, nell’Armenia, in Algeria, in Etiopia, nello Zambese, nel Monomotapa, nel Madagascar, a San Domingo, nella Guadalupa, nel Cile, nel Perù, a Vera Paz, nel Messico, nelle Filippine, nelle isole della Sonda, a Timor, nel Bengala, nell’Indostan, nell’isola di Solor, nell’isola d’Ende, sulla costa del Malabar, nel Siam, nel Tonchino, nell’Annam, a Formosa, in Cina, nel Giappone.
L’Ordine diede alla Chiesa: il primo martire d’America il B. Francesco da Cordova, il primo martire del Perù, Ven. Vincenzo di Valverde; primi martiri di Vera Paz, i venerabili Domenico di Vico e Andrea Lopez; il primo martire della Cina, S. Francesco de Capillas; il primo martire di Formosa, San Francesco di S. Domenico; il primo martire del Sian, San Girolamo della Croce; il prillo martire francese del Giappone, il B. Guglielmo Courtet.


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L’Ordine Domenicano in ogni secolo ha dato un generoso contributo di sangue per la testimonianza della Fede. Dai Martiri dei primi secoli, caduti sotto il terrore dei Tartari o la scimitarra musulmana, a quelli vittime degli eretici Paterini, Boemi e Protestanti dal secolo XIII fino al XVI, a quelli numerosissimi trucidati dai Russi scismatici nel sec. XVII, fino a quelli che hanno versato il loro sangue durante le persecuzioni in Cina ed in Giappone, nella rivoluzione francese e nelle altre rivoluzioni dei due ultimi secoli, essi raggiungono il numero di circa 1600, dei quali alcune centinaia sono stati elevati agli onori degli Altari col titolo di Santi o di Beati.
Grazie a Dio, non vi è un paese nel mondo che i Predicatori non abbiano irrigato col loro sangue. E tutto fa sperare che la Provvidenza loro continuerà la felice ventura di dare la suprema testimonianza dell’amore: non è gran tempo che ventisei figli di S. Domenico venivano crocifissi in Cina, e Pio XII, durante il suo Pontificato, ha collocato sugli altari 25 martiri domenicani.
Quando si pensa che per una bontà affatto gratuita di Dio, il Frate Predicatore è diventato il fra­tello di tanti santi, gloriosi o ignoti, i cui meriti lo portano e lo strascinano, egli sente ravvivato il suo coraggio e gli pare che l’anima sua si dilati.
Sarebbe a lui possibile il lasciar che si spenga il ricordo degli antenati? Eccolo, questo ricordo, sempre attivo, incessantemente ravvivato dalle loro opere e dai luoghi in cui essi vissero; questo ricordo che solleva l’uomo più mediocre al di sopra delle sue miserie e lo stabilisce nelle regioni dell’eroismo. Esso impone un dovere e obbliga al merito; la loro fortezza obbliga alla fortezza; la santità dei padri decreta la santità dei figli. Per questo ricordo il più umile dei religiosi sente di far parte di un Ordine, cioè a dire, di una società retta da leggi più che umane, arricchita di una tradizione inesauribile, animata da un soffio spirituale.
Ogni generazione ha consegnato a quella che l’ha seguita una tradizione sempre più ricca di virtù e di verità. Noi attingiamo le nostre forze da un tesoro accumulato da migliaia di Predicatori che, per sette secoli, consumarono la loro vita nella pratica della forte disciplina regolare e nelle apostoliche fatiche. Noi ne viviamo. Il Frate Predicatore non ha da mendicare lezioni e una formula di vita. Qual regola, più che la sua, potrebbe dargli il senso della grandezza cristiana? Quale storia, più che la storia dei suoi padri, potrebbe fargli comprendere la fecondità del sacrificio religioso, stimolare il suo zelo e far nascere nel suo cuore più larghe ambizioni?
Noi abbiamo una tradizione e viviamo avvolti nei ricordi: ecco la nostra forza. Quale è il Conven­to che non possa citare un nome, una lista di nomi illustri? Nelle nostre celle vissero dei santi; e dei martiri vi si resero degni del loro sacrificio: noi vi possiamo raccogliere il loro spirito. Qui il Frate, quando ricorda, è testimonio di grandi vite. Se egli serba l’anima sua attenta, vede sorgere dai chiostri, ove egli medita, non sterili ricordi, ma chiamate e­nergiche, perpetuo rimprovero a quei che esitasse­ro, ode le voci amate dei grandi antecessori: “Vieni dietro a noi, figlio del nostro spirito! Raccogli la nostra eredità, accresci l’onore del nostro nome!”.


CONCLUSIONE

L’Ordine ha durato. Il 22 dicembre 1216 Onorio III lo confermava colla sua suprema autorità, considerando, diceva, che i Frati saranno i campioni della fede e la luce del mondo. Sette secoli sono lì per attestare se le speranze del gran Papa si siano avverate. Che cumulo di rovine da quegli inizi tormentosi del secolo XIII! Rivoluzioni repentine e sanguinose, evoluzioni lente e profonde cambiarono lo stato dei popoli e soffocarono istituzioni e dinastie, che si promettevano lunghe speranze: chi potrebbe contarle in questo processo di tempo? Ogni secolo assistette a qualche gran funerale. Ciononostante l’Ordine dei Predicatori restava saldo, come una schiatta forte e fedele a se stessa, schiatta di monaci, di dottori, di apostoli e di martiri che non vuole spegnersi. La storia conosce poche istituzioni che abbiano resistito a tante età contrarie. Dopo sette secoli, questa si trova, identica a se stessa, sempre nuova e feconda, e pronta a prolungare indefessamente la sua perpetua giovinezza.
Con questo passato noi formiamo le nostre speranze. Santa Teresa assicura che “l’Ordine di S. Domenico è uno dei soli che sussisterà sino alla fine del mondo per lottare contro l’Anticristo” (Profezia citata negli atti della Canonizzazione, c. XXX). Noi vogliamo crederlo. Qualsiasi difficoltà non può spegnere le nostre speranze. Abbiamo trionfato su tante dure prove. Fin dai primi giorni e in tutto il corso della sua esistenza, l’Ordine dovette lottare, ma non cessò di formare dottori e santi. Esso ne forma ancora: Pio X ha collocato sugli altari undici domenicani, Benedetto XV tre, Pio XI due, Pio XII ventisei.


1SAN TOMMASO, Somma teologica, II-II, 188, 4.
2SAN TOMMASO, Somma teologica, II-II, 188, 6.
3 SALAMANTICENSES, Dello stato religioso, Disp. II, dub. III, p. III, n. 31. E proseguono: “Per una vita attiva che proceda dalla contemplazione non bastano alcuni atti di preghiera, come una meditazione, un esame di coscienza, il ricordo della presenza di Dio, un ritiro di qualche giorno ed altre cose simili che si chiamano ordinariamente esercizi. Infatti non c'è vita religiosa, per attiva che s'immagini, che non abbia questi esercizi e altri più importanti. Inoltre anche tanti laici nello stato matrimoniale li praticano, come lo dimostra l'esperienza. Una vita attiva procede dalla contemplazione e conseguentemente contiene eminentemente la perfezione della vita puramente contemplativa e qualcosa di più quando essa prescrive ai suoi figli i mezzi appropriati alla contemplazione, come la clausura, il silenzio, la mortificazione dei sensi, la penitenza, il digiuno, le veglie, la salmodia, le pie letture ed altre cose simili. Una vita religiosa che compie queste pratiche, e non le interrompe se non quando bisogna aiutare il prossimo con la predicazione e con l'insegnamento dottrinale, è una vita religiosa che professa la vita mista, cioè discendente dalla contemplazione all'azione. Tale è il caso (per non citare che un esempio) dell'Ordine dei Frati Predicatori il quale, quantunque sembri ordinato anzitutto all'insegnamento dottrinale, tuttavia non solo impiega tutti i mezzi appropriati alla contemplazione che abbiamo enumerati, ma li fa precedere a tale insegnamento”(Ibidem).
4PASSERINI, O.P., De hominum statibus et officiis, in ultimas septem quaestiones, II-II, 188, 6.
5Ibidem.
6Ibidem.
7SAN TOMMASO, Somma teologica, II-II, 186, 1.
8SAN TOMMASO, De perfectione vitae spiritualis, 17.
9LACORDAIRE, Vita di S. Domenico.
10Cf. MORTIER, Hist. des Maitr. Gen., t. 1, pp. 485 486.
11DANZAS, Les temps primitifs de l’Ordre de S. Dom., t. II, p. l9.
12Vitae Fratrum (Ferrua), n. 38.
13Vitae Fratrum (Ferrua), n. 168.
Questo è interessante, perché sta a significare che un gran numero di quelli che abbracciarono l’Ordine si erano sempre conservati puri. Solo una minoranza era entrata dopo aver macchiato l’innocenza battesimale (nota del traduttore).
14Nel processo di canonizzazione numerosi testimoni dichiararono che egli non aveva mai perso la grazia del Battesimo.
15 Cfr. Atti di canonizzazione..
16 S. CATERINA DA SIENA, Dialogo, c. 158.
17 “vigiliis, jejuniis, flagellis et aliis cruciatibus carnem suam affligebat”.
18 CARTIER, Le P. Besson, Poussielgue, t. I, p. 259.
19 SAN TOMMASO, Somma teologica, II-II, q. 88, a. 2, ad 3.
20 S. Vincenzo Ferreri, La Vita spirituale, II, c. IV.
21 «Si fabbricarono sopra la terra angusti palazzi; si eressero mausolei sublimi; si fecero a Dio delle dimore quasi divine; ma l'arte e il cuore dell'uomo non si spinsero mai più innanzi che nella creazione del monastero» (LACORDAIRE, Vita di S. Domenico, c. VIII).
22 È dovere del Priore di vigilare affinché il religioso dedito al ministero non si esaurisca per eccesso di vita attiva; egli deve impedire ogni sovraffatica e procurare ai suoi religiosi un tempo di ritiro. Il Padre Lacordaire scriveva al Priore di Nancy, nel 1846: “Un punto di grand’importanza è che i Frati non predichino oltre misura, senz’aver il tempo di raccogliersi e di preparare i loro discorsi... Bisogna che i religiosi abbiano una parte del loro tempo consacrato al ritiro e alla meditazione, a fine di ritemprarsi nello studio, nella penitenza e nella sottomissione”.
23 Le Costituzioni domenicane impongono un anno di noviziato, durante il quale il novizio studia lo spirito dell’Ordine, la sua tradizione, e si forma alla vita religiosa. Al termine dell’anno, egli fa professione semplice per tre anni, ed è immediatamente applicato agli studi, dimorando nello studentato sotto la direzione di un Padre Maestro. Dopo i tre anni, salvo disposizioni particolari, è chiamato a far professione solenne, e, se possiede le condizioni fissate per li studi, può ricevere gli ordini sacri. Egli lascia lo studentato quand’è sacerdote. Ma il religioso non è mai applicato al ministero se non dopo compiuto il corso dei suoi studi teologici e dopo un esame speciale in vista del sacro ministero.
24 Costituzioni primitive.
25 Costit. 573. Spiegando questo testo, il B. Umberto fa questa giusta osservazione: “In questo passo, le Costituzioni non pongono lo studio al disopra della preghiera, ma gli sacrificano soltanto la possibilità esagerata di questa. Difatti è preferibile avere un ufficio breve con lo studio, anziché un ufficio lungo ma che impedisce di studiare, e ciò a cagione dei numerosi vantaggi dello studio” (De vita regulari, t. II, p. 37).
26 DOUAIS, Essai..., pp. 113-144.
27 “Et quia sine sanctarum notitia Scripturarum perfectus praedicator nemo esse potest, (S. Dominicus) hortabatur fratres ut semper in novi et veteris Testamenti lectione essent” (Thierry d’Apolda).
28 S. TOMMASO, Somma teologica, II-II, 188, 6, ad 3.
29 Il canto domenicano è il canto liturgico, tal quale fu raccolto nella prima metà del secolo XIII. È il canto gregoriano, ma con sfumature proprie e certe abbreviazioni che lo rendono più sobrio, più rapido e in certo modo più virile e meglio appropriato ad un Ordine d’apostoli.
30 La liturgia domenicana contiene certe antifone ed inni che non si trovano altrove e che figurano tra le bellezze d’ogni liturgia: per esempio l’inno di Compieta: Christe qui lux es et dies, la cui melodia è così commovente nella sua mesta dolcezza, o l’ammirabile responsorio: Media vita. Si racconta nella vita di S. Tommaso che quand’egli sentiva cantare quest’ultimo responsorio, ogni volta questa tragica e sublime invocazione gli strappava le lacrime: “Nel mezzo della vita, noi siamo nella morte... Non ci rigettare nel tempo della vecchiaia. Quando verrà meno la nostra forza, o Signore, non ci abbandonare. Dio santo! Dio forte! Santo e misericordioso Salvatore non ci abbandonare all’amara morte! ...”. Siffatti gridi dell’anima, sostenuti e sollevati da un canto che ne moltiplica l’ardore, danno ai nostri uffici una grandezza commovente.
31 Nel suo bel libro, La vita dei chierici nei secoli passati, Don Paolo Benoit scrive queste righe suggestive: “La grande preoccupazione degli antichi vescovi per convertire e santificare le anime era di stabilire e mantenere presso di loro un numeroso e fervente presbiterio. Non credevano necessario mettere ad ogni istante un prete in rapporto con questo e con quel fedele. Non c’era bisogno di moltiplicare, come nei tempi moderni, ciò che si chiama le opere, e di associarvi i laici perchè subissero il contatto e l’influenza ecclesiastica. Bastava stabilire nei centri un collegio fervente di santi ministri del Vangelo. La spettacolo delle loro preghiere incessanti e della loro santa vita era una potenza contro cui nulla poteva reggere, che finiva col convertire i più ribelli e riusciva a sollevare fino alle più sublimi virtù le anime favorite di grazie più grandi” (p. 102).
32 Oeuvres. t. II. p. 260.
33 DON FESTUGIERE, La liturgie catholique, Maredsous, 1913, p. 119.


Pubblicato 06.02.2007 su AMICIDOMENICANI


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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)