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9. La prima generazione domenicana

San Pietro Martire è il personaggio di maggior rilievo della prima generazione domenicana. Nato a Verona da una famiglia catara, viene allo Studio bolognese e qui, dalle mani stesse di san Domenico, riceve l'abito (1221). Perfettamente conscio degli scopi del Fondatore dell'Ordine, che del resto collimano con quelli del Papato, egli si getta nella lotta contro gli eretici, e nello stesso tempo dà impulso all'organizzazione della borghesia cittadina ortodossa nei quadri delle confraternite laiche: la Società della Fede e la Società della Vergine Maria; che, dopo la sua morte, si chiamerà di san Pietro Martire. La sua azione di abile organizzatore e di temibile controversista si svolse a Firenze, dove fu chiamato dallo stesso Inquisitore, il domenicano Ruggiero Calcagni; e soprattutto in Lombardia. Secondo il cronista milanese Galvano Fiamma, Pietro era a Milano già nel 1233, l'anno dell' Alleluja, ma non tutti gli studiosi sono d'accordo sulla validità della testimonianza. Certo Pietro vi fu nel 1251: Inquisitore a Cremona, poi a Milano e a Como, egli cadde infine sotto i colpi degli eretici, mentre viaggiava in compagnia di un socius da Como a Milano (v. TESTO N. 7).

La leggenda e l'iconografia hanno cristallizzato la scena del martirio in tratti di un sublime macabro, fissando indelebilmente nell'immaginazione popolare la figura del santo che, in ginocchio, con il capo spaccato da una pesante mannaia, recita i versetti del Credo. Pietro da Verona segna la via a tutta la predicazione domenicana del secolo: per l'ordine dei Predicatori non si tratta solo di domare l'eresia, ma di educare con una predicazione specifica la borghesia cittadina e di controllare i pericolosi e incomposti moti della devotio popolare, incanalandola nelle salde e pacate strutture delle confraternite. Sarà questa la preoccupazione dei domenicani e dei francescani durante l'anno dell' Alleluja (1233) e di nuovo, nel 1260, quando il movimento dei Disciplinati o Flagellanti, suscitato a Perugia da Ranieri Fasani, guadagnerà tutta l'Italia in un turbine di esaltazione mistica e penitenziale. Purtroppo non ci è giunto nulla della predicazione tenuta in queste circostanze dai Mendicanti; ma, per quanto riguarda l' Alleluia, possiamo contare su di un testimone eccezionale, il francescano fra Salimbene de Adam, che ci ha lasciato nella sua Chronica, scritta in un pittoresco latino che ricalca il volgare padano, alcuni ritratti indimenticabili di predicatori.

L' Alleluja nasce spontaneamente a Parma, la patria di Salimbene, nel 1233, in una pausa delle lotte tra i comuni lombardi e Federico II, come effusione di gioia popolare, la quale si manifesta in processioni e acclamazioni di lode trinitaria. A capo di questo moto di pietà è da principio una bizzarra figura di predicatore popolare: fra Benedetto. « Homo simplex et illitteratus» – così lo definisce fra Salimbene – , sciolto da ogni ordine religioso, veniva soprannominato «fra Cornetta», perché al suono terribile o dolce della sua tromba la folla si raccoglieva nelle chiese e nelle piazze (v. TESTO N. 6). Da Parma il movimento si allarga ben presto ai comuni vicini; ed è a questo punto che i Mendicanti, soprattutto i domenicani, intervengono a conferire all' Alleluia un aspetto politico e penitenziale. La figura più eminente tra i predicatori dell' Alleluia è il domenicano Giovanni da Vicenza, che ebbe un grande successo a Bologna, dove esercitò per alcuni anni un potere quasi tirannico.
Accanto a lui Salimbene ricorda Iacobino da Reggio, uomo colto (era lettore in teologia), ma capace di parlare semplicemente alle folle trascinandole in un entusiasmo che, nel racconto del cronista parmigiano, sfiora il grottesco. A Parma predicò in quegli anni anche fra Bartolomeo di Breganze, primo Reggente della Facoltà di Teologia dello Studium Romanae Curiae fondato da Innocenzo IV (1244-1245), poi vescovo di Vicenza, dove istituì il convento di Santa Corona. In questa città si conserva, inedita, la sua Cronica sermocinalis: una serie di prediche tenute al clero e al popolo da fra Bartolomeo, quando non era ancora vescovo, più tardi rimaneggiate in forma di sermonario e dedicate a Clemente IV (1265-1268). L'opera di Bartolomeo da Vicenza non ebbe molto successo: contrastando l'indirizzo aristotelico che stava conquistando la scuola domenicana, egli si ispira alla tradizione mistica dei Vittorini.

La sua predicazione è basata su una conoscenza e un amore vivissimo per le Scritture, ma si apre anche alle suggestioni neoplatoniche dello pseudo-Dionigi e alla poesia di Adamo da San Vittore. Scopo fondamentale della sua opera è chiarire i principi dell'ortodossia, colpendo implacabilmente gli eretici, ma anche i cattolici più tiepidi (come i Frati Godenti bolognesi), oggetto di battute sarcastiche e di impietose denunce. Il suo linguaggio, che convoglia un ricco lessico vernacolo appena mascherato da forme latine, è quello di uno scrittore robusto, un poco arcigno, ma degno di essere studiato.

10. I sermonari domenicani

Secondo un uso inaugurato nelle Università, i sermoni venivano raccolti da uditori, spesso gli allievi stessi dello Studium dove il predicatore insegnava e predicava. A volte, servendosi dei suoi appunti o utilizzando le reportationes degli ascoltatori, il predicatore raccoglieva i suoi discorsi in una sorta di manuale, un sermonario, che forniva per ogni occasione liturgica un modello facilmente usufruibile dai discepoli o dai confratelli meno dotati. Gran parte della predicazione domenicana del XIII secolo, anche quando ebbe un piglio popolare, ci è giunta in questa forma rimaneggiata. Tra i più antichi e venerandi sermonari è quello di Giacomo di Benevento, definito «excellentissimus predicator» da Gerardo de Frachet nelle Vitae Fratrum, fonte importantissima della storia domenicana. Giacomo compare più volte in documenti dal 1255 al 1271: il suo De Tempore, che raccoglie una serie di sermoni dall'Avvento alla fine dell'anno liturgico, e i Sermones de Sanctis, dedicati al ciclo santorale, sono due classici manuali diffusi in un gran numero di codici (v. TESTO N. 17). Anche il Tractatus de Antichristo et de iudicio, di cui esistono varie redazioni, è costruito con materiali derivati da un ciclo di predicazione; e il Viridarium consolationis, noto agli italianisti soprattutto per un volgarizzamento falsamente attribuito a Bono Giamboni, si presenta come un ricco florilegio di citazioni sacre e profane, utilissime al predicatore.

Anche Jacopo da Varazze, vescovo di Genova (1286), famoso soprattutto per la citata Legenda Aurea, scrisse a istanza dei suoi confratelli una serie di sermonari (Sermones dominicales, quadragesimales, mariales) che furono copiati e più tardi stampati per molte generazioni. Non meno famosa fu la Postilla Parmensis di Antonio Azaro di Parma, entrato nell'ordine domenicano nel 1259-1260. Postilla è il nome assunto nel Duecento dal commentario biblico, prima noto come Glossa: i sermonari dell'Azaro, che vengono addirittura ordinati secondo la liturgia romana onde assicurarne una maggiore diffusione fuori dagli àmbiti domenicani [1], prendono il titolo di postilla proprio per la ricchezza dei materiali esegetici nuovi messi a disposizione dei lettori. A differenza dell'Azaro, che mantiene un certo gusto per l'esposizione letterale del testo scritturale, il suo confratello Giovanni da San Gemignano nei suoi cicli omiletici (Sermones dominicales, pro adventu, Quadragesimale, Sermones de sanctis, de mortuis) darà il modello di una predicazione fatta di generiche e scontate moralitates. Nato tra il 1260 e il 1270, lettore ad Arezzo (1299) e a Santa Maria sopra Minerva (1305), priore del convento di Siena (dove istituì uno Studium), e fondatore del convento domenicano di San Gimignano (1329), Giovanni ebbe una grande esperienza del pulpito e della scuola: «un autentico mestierante del pulpito», lo definì forse troppo severamente il Davidsohn.

[1] I domenicani avevano una loro liturgia, fissata da Umberto di Romans nel 1256.

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11. San Tommaso e la sua scuola

Tommaso d'Aquino (1225-1274) ebbe un influsso determinante sullo sviluppo della predicazione medievale, non tanto perché egli sia stato un grande maestro di eloquenza [1], ma per il rinnovamento radicale che egli provocò nella cultura del suo tempo, e in particolare del suo Ordine. I suoi biografi, soprattutto Guglielmo di Tocco, danno notizie abbastanza generiche sulla sua predicazione; i cataloghi antichi delle Biblioteche registrano un ciclo di Sermones de Sanctis e di Sermones dominicales et festivi, che non sono stati rintracciati. Fatalmente, a partire dal XVI secolo fino a tempi recenti, si attribuirono all'Aquinate e si stamparono tra le sue opere centinaia di prediche che, nella migliore delle ipotesi, sono di mano dei suoi allievi. Autentici sono pochi sermoni conservati in raccolte antologiche molto antiche (XIII-XIV secolo), che conservano la predicazione universitaria dei grandi filosofi della Scolastica. In questi sermoni, per lo più destinati agli studenti degli Studia domenicani (e particolarmente agli studenti parigini di Saint Jacques) non vi è nulla di semplice né di popolare, nulla di banale. Il prothema, la parte più elegante e difficile della predica medievale, non manca mai.

Spesso san Tommaso utilizza il sermone come il mezzo più adatto a sintetizzare e a propagandare certe posizioni dottrinali: predicando sul versetto Ecce rex tuus tibi venit mansuetus (Matteo 21, 5) a Parigi nella prima domenica d'Avvento del 1270, egli espone con insuperata chiarezza la sua dottrina della Regalità di Cristo (v. TESTO N. 16): Il Sermo de Eucharistia, recitato il Giovedì Santo «in consistorio coram Papa Urbano [IV] et cardinalibus» è di un eccezionale interesse, se si pensa che quel papa, istituendo la festa del Corpus Domini (1264), diede all'Aquinate l'incarico di scrivere l'Ufficio liturgico (del quale fa parte il Pange, lingua). Non mancano altri resti della predicazione che san Tommaso tenne in Italia (1259-1268): così un sermone «editus in domo Praedicatorum Bononie, coram Universitate» e un altro « editus Mediolani coram clero et populo civitatis»: entrambi per la prima domenica dell'Avvento. Purtroppo non possediamo la redazione originaria del Quaresimale tenuto a Napoli nel 1273, ma, come è noto, il materiale di quella predicazione fu rifuso nell'esposizione del Credo, stampata tra gli Opuscula theologica.

Proprio quest'opera viene esplicitamente citata (e con essa il Commentario di san Tommaso sulle Sententiae) dal beato Ambrogio Sansedoni, di boccacciana memoria (cfr. Decameron VII, 3), che fu compagno di Studi dell'Aquinate alla scuola di Alberto Magno, a Colonia e a Parigi, e poi insegnante negli Studi della Provincia Romana. I Sermones dominicales di Ambrogio, inediti, pur essendo ridotti a schematici appunti ad uso degli scolari, sono meno anonimi di quelli raccolti in altri sermonari: vi sono tracce di movenze e atteggiamenti propri di una predicazione popolare, addirittura resti di locuzioni senesi; riferimenti geografici precisi. Vi si parla ad esempio del Bulicame, un laghetto solforoso presso Viterbo, al quale Dante (Inferno XII, 117 e XIV, 79) paragonerà il Flegetonte.

In Italia la dottrina tomista trovò un importante canale di diffusione proprio nell'omiletica: Aldobrandino Cavalcanti, Aldobrandino da Toscanella e Remigio de' Girolami sono tra i maggiori responsabili dell'opera di volgarizzamento del tomismo soprattutto nell'àmbito della cultura fiorentina di fine secolo. Il Cavalcanti (1217-1279), che fu più volte priore di Santa Maria Novella, è personaggio di rilievo nella storia politica e culturale di Firenze: fu lui a chiamare quale paciere tra Bianchi e Neri il domenicano cardinale Latino Malabranca; egli promosse la costruzione della nuova chiesa di Santa Maria Novella, capolavoro dell'architettura gotica. Gli studi recenti del Kaeppeli hanno indicato nel Cavalcanti il vero autore di gran parte dei sermoni stampati sotto il nome di san Tommaso. Non è chiaro come si sia determinato lo scambio, ma di per sé il fatto indica il livello intellettuale di questo predicatore. Non si sa ancora nulla dei Sermones quadragesimales, una raccolta che giace inesplorata in un codice del Museo Nazionale di Budapest. L'orazione funebre per le esequie di Aldobrandino fu pronunciata da fra Remigio de' Girolami (c. 1245-1319), ed è una delle più antiche che ci siano giunte di questo grande oratore di parata. Nato da una famiglia dell'antico patriziato cittadino, partecipe della vita politica del Comune [2], Remigio è uno degli uomini più autorevoli di Firenze nell'età di Dante.

Dopo avere ascoltato le lezioni di san Tommaso a Parigi (1269-1272), egli insegnò a lungo nel convento di Santa Maria Novella, esponendo le dottrine del maestro (dal 1273-1274 alla morte). Si è a lungo discusso sulla possibilità che Dante, il quale in alcuni passi del Convivio (IV xi 8 e xii 5 e 8) e in Inferno (VII, 56-57) sembra rifarsi a precisi luoghi del De peccato usure di Remigio, abbia seguito le sue lezioni; ma i pareri su questo problema restano discordi. Il Girolami è un oratore attento ai fatti politici che si svolgono in Firenze: a volte egli può sembrare superficiale e vanitoso, ma nelle sue parole vi è sempre una sincera preoccupazione per la grandezza e la libertà fiorentine, per il bene comune, cioè la pace, minacciati dalle fazioni politiche. Molte delle sue prediche furono tenute in occasioni storiche, quando re, papi e signori venivano accolti in Santa Maria Novella. Così nel 1281 egli salutò l'arrivo di Carlo I d'Angiò, nel 1294 accolse Carlo Martello, una delle più alte amicizie di Dante, ricordata in Paradiso VIII, 33 ss.; nel 1301 si rivolgeva a Carlo di Valois, che proprio nel convento domenicano riceveva la signoria e la difesa della città. Nel 1294-1295, in momenti burrascosi, egli si rivolse francamente ai priori esponendo idee politiche riprese più ampiamente nel De bono pacis e nel De bono communi. In confronto ai sermoni d'occasione, i cicli legati alla liturgia (Sermones de Sanctis, de Tempore, il Quadragesimale) sembrano più scialbi e banali; ma la fatica della lettura di questi testi ancora inediti è ripagata dalla scoperta di pagine personalissime, aperte su una realtà quotidiana colta con sicuro piglio realistico.

Aldobrandino da Toscanella († 1314), lettore nei conventi di Pisa, Pistoia, Siena e Viterbo tra il 1287 e il 1292, è autore di due famosi sermonari (De Sanctis e De Tempore), citati ancora nel XV secolo da Nicola di Cusa, il quale fregiò questo predicatore dell'epiteto di «vir intelligens», quasi a sottolineare la sua soda cultura filosofica. Aristotile è spesso citato con precisione nei sermoni di Aldobrandino, che scrive soprattutto per i suoi allievi dei conventi toscani; vi sono passi interi che derivano ad verbum da san Tommaso. Con Aldobrandino la tendenza a trasformare la predica in trattato (già notata a proposito dell'esposizione sul Credo di san Tommaso) diventa sempre più evidente [3]. Infatti gran parte della sua predicazione ci è giunta in forma di trattato: l' Expositio decem preceptorum deriva da un quaresimale; l' Expositio orationis dominice, cioè la spiegazione del Pater Noster, da un altro ciclo di prediche. Alcuni trattati per nostra fortuna sono conservati in duplice redazione, cioè la forma omiletica e quella rimaneggiata a trattato: è il caso delle Collationes de peccatis e della Scala fidei.

[1] A torto gli si attribuì un Tractatulus solennis de arte et vero modo predicandi, più volte stampato nel XV secolo.

[2] I Girolami sono tra i mallevadori di parte guelfa nella Pace del Cardinal Latino (1280).

[3] Anche il popolarissimo Libellus de ludo scaccorum , volgarizzato in tutte le lingue europee, compreso l'italiano, non è altro che un ciclo di prediche tenute «ad populum» da Jacopo da Cessole, vissuto verso la fine del Duecento nel convento domenicano di Genova. In esso il gioco degli scacchi è interpretato moralmente e si risolve in una serie di ammonimenti alle diverse classi sociali.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)