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14. Il primo monumento della predicazione volgare: il «corpus» delle prediche di fra Giordano da Pisa

L'uso del volgare nella predicazione ai laici dovette essere fin dal XIII secolo frequente soprattutto in Toscana, ma solo all'inizio del Trecento, a Firenze, per iniziativa di alcuni uditori, viene conservata una vastissima raccolta di prediche (circa 700), tenute in varie chiese e piazze fiorentine, ma soprattutto in Santa Maria Novella, da fra Giordano da Pisa (1260-1311). Preso l'abito domenicano nel convento di Santa Caterina in Pisa, egli aveva percorso le tappe obbligate del dotto domenicano: dopo gli studi a Bologna e a Parigi, aveva a sua volta insegnato nelle scuole domenicane della Provincia Romana (Siena, Perugia, Viterbo). Nel 1302 approda al convento di Santa Maria Novella e viene affiancato come lector al maestro Remigio de' Girolami. Giordano non si dedica solo all'insegnamento, ma con un'energia eccezionale si dà alla predicazione, intensa soprattutto dal 1303 al 1305. Egli si rivolge al gran pubblico che si accalca per ascoltarlo sulle piazze della città, ma cura in special modo quei gruppi di laici che si raccolgono nelle numerose confraternite affiliate a Santa Maria Novella. Tra questi laici vanno cercati i raccoglitori (certo più d'uno) dei sermoni giordaniani; a loro è riservata una serie triennale di collazioni vespertine sui primi capitoli del Genesi, secondo un programma di grande ambizione, se si pensa che il commento del primo libro della Scrittura è appannaggio del magister, e che tutto sommato costituisce una rarità nell'esegesi contemporanea. Sfortunatamente possediamo solo il primo e il terzo ciclo sul Genesi, essendo smarrito quello tenuto nel 1305-1306.

La cultura di fra Giordano è vasta e tutt'altro che comune. Accanto agli autori più noti alla tradizione omiletica (Agostino, Gerolamo, Gregorio Magno, san Bernardo, Giovanni Grisostomo e Giovanni Damasceno, Boezio, lo pseudo Dionigi), egli cita con precisione ed esplicitamente Aristotile «il sommo filosofo e il re de' filosofi» (v. TESTO N. 18c), di cui conosce, probabilmente attraverso i commentari di Tommaso d'Aquino, la Fisica, la Metafisica, la Politica, soprattutto l'Etica Nicomachea, un libro che rinnova completamente le coordinate morali del Basso Medioevo. Frate Tommaso d'Aquino, «quel savio uomo», è ricordato solo una volta con ammirazione e affetto da Giordano, in una conversazione su san Paolo tenuta a pochi suoi fedelissimi; ma tutta la sua predicazione si ispira alle idee tomiste, insegnate ufficialmente nelle scuole domenicane già dalla fine del XIII secolo. Come il suo diretto superiore, Remigio de' Girolami, egli persegue l'opera di divulgazione delle dottrine di san Tommaso, già iniziata una generazione precedente da Aldobrandino Cavalcanti. Soprattutto nel ciclo di prediche sul Credo tenute nella quaresima del 1304-1305 [1], e nel citato ciclo sul Genesi, fra Giordano raggiunge una notevole capacità di espressione filosofica. Non a torto dantisti della classe di un Barbi, di un Maggini, di un Sapegno, hanno spesso commentato passi della Commedia e del Convivio con citazioni dalle prediche di fra Giordano. Vi è la stessa aria di famiglia: non che tra i due vi sia un vero e preciso contatto, ma le idee, a volte le espressioni e le immagini, sono le stesse, attinte a una identica cultura. Giordano non fu insensibile alla letteratura profana: conosce Vegezio, la cui strategia viene allegoricamente adattata alle battaglie dell'anima; cita Orosio, le Metamorfosi di Ovidio, definito «pessimo pagano» e «omo carnale e vizioso».
Le sirene, i centauri, Ercole, Atlante, Ulisse e Circe fanno una fugace apparizione nelle sue prediche, naturalmente interpretati in chiave allegorica. Non mancano riferimenti alla letteratura in volgare: Giordano cita il Serventese del Maestro di tutte le arti di Ruggieri Apugliese, un giullare senese; dimostra di avere una certa conoscenza dei romanzi [2], anche se ostenta verso di essi disprezzo affermando che «sono tutti favola e poca verità ci ha». Sembra che egli abbia avuto una notevole preparazione linguistica: nella sua opera si trovano citazioni francesi, riferimenti alla cultura e alla lingua ebraica e greca, e perfino citazioni dall'arabo [3]. In particolare egli non si stanca di esaltare, con un entusiasmo quasi preumanistico, la bellezza del greco, «la più bella lingua del mondo».

La prosa giordaniana ha giustamente interessato il lessicografo, fin dal Cinquecento, ma è degna di attenzione anche da un punto di vista strettamente letterario, soprattutto per l'uso abile e discreto dell' exemplum. Nella sua predicazione si contano non meno di sessanta esempi, tratti dalle raccolte più note (che abbiamo citato nel cap. 8) e perfino dalla Summa e dal De Malo di Tommaso d'Aquino. Il motto arguto, la punta epigrammatica, il dialogo sciolto e vivace di impronta popolaresca segnano i momenti migliori di questa prosa narrativa: per essi Giordano merita a pieno diritto il posto di iniziatore della novellistica sacra in volgare. Il corpus giordaniano è un prezioso e vasto affresco della vita fiorentina del primo decennio del Trecento. Se i riferimenti a fatti precisi politici e militari sono scarsi – si ricorda la giornata della Lastra, l'assedio di Pistoia, i tentativi di riconciliazione tra Bianchi e Neri – in ogni predica si possono spigolare notizie sulla situazione sociale ed economica di Firenze, sulle tensioni che dall'esterno e dall'interno minacciano la vita della Chiesa. Il problema della povertà tocca ormai anche la coscienza dei laici, raggiunti dalla vivissima predicazione degli Spirituali francescani, e certo nota a Giordano, che sembra conoscere le argomentazioni dell'Olivi. Per il predicatore domenicano non si tratta soltanto di giustificare agli occhi del proletariato cittadino lo spettacolo della ricchezza degli ecclesiastici (v. TESTO N. 18b), ma soprattutto di guidare la coscienza di uditori che in gran parte appartengono alla borghesia mercantile, detentrice del potere politico in Firenze. Giordano, come i suoi confratelli, ritiene necessaria e di volontà divina la distinzione tra ricchi e poveri, senza la quale non vi sarebbe il bene delle elemosine, via regale per i ricchi borghesi che intendano esercitare la «povertà in ispirito», una sorta di usus pauper laicale. Vi sono spesso nelle prediche giordaniane cenni patetici alle condizioni dei contadini, dei marinai, ridotti a mangiare « pane biscotto verminoso che si spezza colle scuri», delle filatrici sfruttate disumanamente dai maestri della lana: ma si avverte bene che il discorso del predicatore non è rivolto a queste classi, bensì vuole illuminare la mente e purificare i costumi di mercanti, banchieri, imprenditori, fattori delle Compagnie, membri delle potenti Arti fiorentine. Giordano ha una conoscenza capillare del mondo mercantile, in particolare dell'Arte della Lana (v. TESTO N. 18a). Dietro i rimproveri e l'indignazione del moralista si legge una sorta di irresistibile ammirazione per l'audace avarizia di questi uomini che si avventurano lungo tutte le rotte e le piste del commercio, da Parigi ad Alessandria d'Egitto, dall'Inghilterra alla Provenza, celebrando quella che è stata definita «l'epopea della mercatura».

[1] L'anno a Firenze iniziava il 25 marzo, giorno dell'Annunciazione: perciò la quaresima cadeva tra la fine dell'anno e l'inizio del nuovo.

[2] Cita ad esempio la leggenda napoletana dei figli di Amone, caduti nella difesa di Napoli e sepolti nella grotta di san Gennaro; paragona i Magi ai cavalieri erranti.

[3] In una predica del Quaresimale 1305-1306 (15 marzo: n. LIV della mia edizione) Giordano cita una traduzione araba del Vangelo, e i copisti dei codici più autorevoli si sforzano di riprodurre alla meglio i segni arabici.

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15. La predicazione domenicana nel Trecento

La predicazione volgare di fra Giordano non è un fenomeno isolato. L'Ordine domenicano nel Trecento sembra impegnato in un'opera tenace di volgarizzamento della cultura, che avviene innanzitutto attraverso la predicazione, ma anche con altre iniziative atte a promuovere l'educazione religiosa del laicato. Centro importantissimo di queste iniziative è il più volte citato convento di Santa Caterina di Pisa: qui Domenico Cavalca (1270-1342) e Bartolomeo da San Concordio († 1347) compongono alcuni trattati ispirati alla loro predicazione e diretti a fornire materiali e suggerimenti ad altri predicatori. La traduzione delle Vite dei Santi Padri, certo il capolavoro del Cavalca e della sua officina, è una galleria di exempla che ispirerà non solo l'iconografia (si pensi agli affreschi del Camposanto pisano), ma la predicazione e in generale la letteratura di pietà. L'Esposizione del Credo e del Pater Noster continuano la tradizione dei cicli di prediche sui testi fondamentali della preghiera e della liturgia, raccomandati fin dal secolo precedente dai Concili, e particolarmente familiari ai domenicani: si pensi alle prediche sul Credo di san Tommaso, di Aldobrandino da Toscanella, di Giordano da Pisa. La Medicina del cuore e il Trattato sulle trenta stoltizie per l'impianto, basato sulle distinctiones, per i materiali usati (exempla, catene di auctoritates) risentono evidentemente della tecnica predicatoria del Cavalca. Gli ammaestramenti degli antichi di Bartolomeo da San Concordio sono una raccolta di citazioni sacre e profane, elemento immancabile nella predica, come s'è visto; in particolare la Distinzione II (Di dottrina e modo di parlare) contiene suggerimenti retorici che sembrano riprendere alcuni tópoi delle artes praedicandi.

È noto che lo Specchio di vera penitenza di Jacopo Passavanti (1302-1357), uno dei capolavori della letteratura devota del Trecento, è derivato dalle prediche tenute in volgare in Santa Maria Novella «per molti anni e spezialmente nella passata Quaresima dell'anno presente 1354», come si esprime l'autore nel Prologo. Recentemente si sono rintracciati del Passavanti trenta Sermones de Tempore, che vanno dall'Avvento alla prima domenica dopo la festa della Trinità: sono ovviamente modelli ad uso dei predicatori, costruiti secondo le regole della divisio del versetto iniziale. Vi si leggono citazioni ed esempi già noti dallo Specchio, ma questo sermonario risale probabilmente alla giovinezza dell'autore, che qui ci si presenta nelle vesti del frate classicista, appassionato studioso di mitologia e di storia antica, infaticabile collezionista di citazioni tratte da autori profani e sacri. I sermoni dovettero avere circolazione limitata, e ciò soprattutto per la loro eccezionale lunghezza: il sermone della domenica IV dopo l'Ottava di Pasqua, che è il più esteso, è un vero trattato sulla Beatitudine. Lo stesso autore nel prologo esorta il lettore a non indietreggiare di fronte alla mole dell'opera, e ad estrarre solo ciò che gli può servire:

"Non ergo exterreat sermonum prolixitas, quia sunt taliter ordinati quod lector resecare poterit secundum suum arbitrium, ut placuerit et tempus et locus et auditorum condicio requisierit."

"[Non si spaventi il lettore per la lunghezza dei sermoni, perché sono ordinati in modo che possa ricavare ciò che gli piace, a secondo del tempo, del luogo e della condizione dell'uditorio]."

Vi fu chi risparmiò ai lettori questa fatica, cioè Nicoluccio d'Ascoli, un domenicano educato a Bologna, più tardi priore di Sant'Andrea a Faenza e di San Pietro Martire ad Ascoli Piceno. I suoi notissimi Sermones de mortuis secundum evangelia dominicalia sono una riduzione del sermonario passavantiano. Ancora più diffusi furono i Sermones de epistulis et evangeliis dominicalibus, scritti dopo il 1342; e i Sermones 46 de epistolis ferialibus et dominicalibus Quadragesimae, che circolarono perfino in àmbito agostiniano. Nicoluccio, che ha l'arte di variare il discorso con curiosi esempi (uno è tratto dal Milione di Marco Polo) e con rarità dottrinali, godette di straordinario successo: lo dimostra anche il fatto che sotto il suo nome circolarono alcune raccolte (Sermones de Sanctis, Collationes super Lucam), compilate dal domenicano Francesco Galvani, inquisitore a Genova dal 1348 al 1352.

Nello Studium di Santa Maria Novella, accanto al Passavanti e ad altri famosi domenicani (quali Riccoldo da Monte Croce, Filippo da Pistoia), visse Taddeo Dini (1284-1359), personaggio tanto popolare da essere assunto come protagonista di una novella del Sacchetti (v. Trecentonovelle LX). Il Necrologio del convento ne esalta la pronta inventiva e l'abbondanza della parola: egli avrebbe composto molte migliaia di sermoni diffusissimi nell'ordine domenicano, poiché l'autore li prestava generosamente ai confratelli. Fino a ora si conoscono di Taddeo un centinaio di sermoni latini e un Tractatus de latitudinibus f ormarum, opere del tutto inedite; è falsa invece l'attribuzione di tre prediche in volgare. L'autore di queste prediche è fra Giordano da Pisa; il Dini, che lo venerava, probabilmente si servì delle sue prediche e le conservò tra i suoi schemi latini.

Alla corte di Napoli, dove l'eloquenza sacra sotto il regno di Roberto d'Angiò divenne un mezzo di espressione perfino per i laici, fiorì nella prima metà del secolo fra Giovanni Regina. Passato il periodo degli studi a Parigi (1309-1317), egli insegnò e predicò nel convento di San Domenico Maggiore, godendo di stima e protezione a corte. Promotore della canonizzazione di san Tommaso, il Regina si reca più volte ad Avignone, ascoltato e consultato dai papi: nel 1317, di ritorno da Parigi, vi pronuncia il discorso di saluto al Generale dei Minori, non ancora caduto in disgrazia, Michele da Cesena; nel 1322 espone le sue dottrine sulla povertà e l'anno seguente tiene una serie di allocuzioni, purtroppo perdute, per la canonizzazione di Tommaso d'Aquino. Divenuto Cappellano pontificio (1347), accompagna e presenta alla Curia avignonese (1348) la regina Giovanna, che viene a prestare giuramento di fedeltà e a chiedere la dispensa per le nuove nozze con Luigi di Taranto. Il Regina è uno dei predicatori più vivaci del Trecento: ai pochi documenti della sua predicazione universitaria parigina (8 prediche del 1314), si contrappone una serie di sermoni sui santi, e soprattutto di allocuzioni funebri tenute in San Domenico Maggiore, tutte di notevole interesse storico. Alcune delle figure più importanti della tormentata storia napoletana del Trecento, da Carlo II al principe Filippo di Taranto ad altri meno noti dignitari di corte, vengono evocate con pacata e solenne commozione nei discorsi di questo Bossuet trecentesco.

Non tutto purtroppo ci è giunto del Trecento domenicano. Mancano alcuni famosi sermonari, ad esempio quelli vari e ricchi, adatti a diverse circostanze (De Tempore, De Sanctis, De Mortuis) attribuiti dal cronista domenicano Leandro Alberti al più antico cronista forlivese, fra Girolamo da Forlì (1348-1437), che tuttavia nel gusto dell'aneddoto, delle etimologie, nell'ibridismo linguistico del suo Chronicon rivela alcuni tratti silistici e linguistici che dovevano caratterizzare la sua eloquenza. La predicazione domenicana tiene il campo per tutto il Trecento per mole e per qualità dottrinale e letteraria: aperta a Firenze dalla prosa dotta e tersa di fra Giordano è conclusa dalla eloquenza severa e incalzante di Giovanni Dominici (1357-1419), che in quella stessa città suscita entusiasmi popolari e reagisce alla nuova cultura umanistica.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)