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La concezione che assegna allo stato un'autorità illimitata non è, venerabili fratelli, soltanto un errore pernicioso alla vita interna delle nazioni, alla loro prosperità e al maggiore e ordinato incremento del loro benessere, ma arreca altresì nocumento alle relazioni fra i popoli, perché rompe l'unità della società soprannazionale, toglie fondamento e valore al diritto delle genti, apre la via alla violazione dei diritti altrui e rende difficili l'intesa e la convivenza pacifiche.

Infatti il genere umano, quantunque per disposizione dell'ordine naturale stabilito da Dio si divida in gruppi sociali, nazioni o stati, indipendenti gli uni dagli altri, in quanto riguarda il modo di organizzare e di dirigere la loro vita interna, è tuttavia legato, da mutui vincoli morali e giuridici, in una grande comunità, ordinata al bene di tutte le genti e regolata da leggi speciali, che ne tutelano l'unità e ne promuovono la prosperità.

Ora non è chi non veda come l'affermata autonomia assoluta dello stato si ponga in aperto contrasto con questa legge immanente e naturale, la neghi anzi radicalmente, lasciando in balìa della volontà dei reggitori la stabilità delle relazioni internazionali, e togliendo la possibilità di una vera unione e di una collaborazione feconda in ordine all'interesse generale. Perché, venerabili fratelli, all'esistenza di contatti armonici e duraturi e di relazioni fruttuose è indispensabile che i popoli riconoscano e osservino quei princìpi di diritto naturale internazionale, che regolano il loro normale svolgimento e funzionamento. Tali princìpi esigono il rispetto dei relativi diritti all'indipendenza, alla vita e alla possibilità di uno svolgimento progressivo nelle vie della civiltà; esigono, inoltre, la fedeltà ai patti, stipulati e sanciti in conformità alle norme del diritto delle genti.

Il presupposto indispensabile di ogni pacifica convivenza tra le leggi e l'anima delle relazioni giuridiche, vigenti fra di esse, è senza dubbio la mutua fiducia, la previsione e persuasione della reciproca fedeltà alla parola data, la certezza che dall'una e dall'altra parte si è convinti che «meglio è la sapienza che le armi guerresche» (cf. Eccle 9,18) e si è disposti a discutere e a non ricorrere alla forza o alla minaccia della forza nel caso in cui sorgessero ritardi, impedimenti, mutamenti e contestazioni: cose tutte che possono anche derivare non da cattiva volontà, ma da mutate circostanze e da reali interessi contrastanti.

Ma d'altra parte, staccare il diritto delle genti dall'àncora del diritto divino, per fondarlo sulla volontà autonoma degli stati, significa detronizzare quello stesso diritto e togliergli i titoli più nobili e più validi, abbandonandolo all'infausta dinamica dell'interesse privato e dell'egoismo collettivo tutto intento a far valere i propri diritti e a disconoscere quelli degli altri.

È pur vero che, col volgere del tempo e il mutar sostanziale delle circostanze, non previste e forse neanche prevedibili all'atto della stipulazione, un trattato o alcune sue clausole possono divenire o apparire ingiusti o inattuabili o troppo gravosi per una delle parti, ed è chiaro che, quando ciò avvenisse, si dovrebbe tempestivamente procedere a una leale discussione per modificare o sostituire il patto. Ma il considerare i patti per principio come effimeri e l'attribuirsi tacitamente la facoltà di rescinderli unilateralmente, quando più non convenissero, toglierebbe ogni fiducia reciproca fra gli stati. E così rimarrebbe scardinato l'ordine naturale, e verrebbero scavate delle fosse incolmabili di separazione fra i vari popoli e nazioni.

Oggi, venerabili fratelli, tutti osservano con spavento l'abisso a cui hanno portato gli errori da Noi caratterizzati e le loro pratiche conseguenze. Son cadute le orgogliose illusioni di un progresso indefinito; e chi ancora non fosse desto, il tragico presente lo scuoterebbe con le parole del profetar «Ascoltate, o sordi, e rimirate, o ciechi» (Is 42,18). Ciò che appariva esternamente ordine, non era se non invadente perturbamento: scompiglio nelle norme di vita morale, le quali si erano staccate dalla maestà della legge divina e avevano inquinato tutti i campi dell'umana attività. Ma lasciamo il passato e rivolgiamo gli occhi verso quell'avvenire che, secondo le promesse dei potenti di questo mondo, cessati i sanguinosi scontri odierni, consisterà in un nuovo ordinamento, fondato sulla giustizia e sulla prosperità. Sarà tale avvenire veramente diverso, sarà soprattutto migliore?

I trattati di pace, il nuovo ordine internazionale alla fine di questa guerra saranno animati da giustizia e da equità verso tutti, da quello spirito, il quale libera e pacifica, o saranno una lamentevole ripetizione di antichi e recenti errori? Sperare un decisivo mutamento esclusivamente dallo scontro guerresco e dal suo sbocco finale è vano, e l'esperienza ce lo dimostra. L'ora della vittoria è un'ora dell'esterno trionfo per la parte che riesce a conseguirla; ma è in pari tempo l'ora della tentazione, in cui l'angelo della giustizia lotta con il dèmone della violenza; il cuore del vincitore troppo facilmente s'indurisce; la moderazione e una lungimirante saggezza gli appaiono debolezza; il bollore delle passioni popolari, attizzato dai sacrifici e dalle sofferenze sopportate, vela spesso l'occhio anche ai responsabili e fa sì che non badino alla voce ammonitrice dell'umanità e dell'equità, sopraffatta o spenta dall'inumano «Guai ai vinti!». Le risoluzioni e le decisioni nate in tali condizioni rischierebbero di non essere che ingiustizia sotto il manto della giustizia.

No, venerabili fratelli, la salvezza non viene ai popoli dai mezzi esterni, dalla spada, che può imporre condizioni di pace, ma non crea la pace. Le energie, che devono rinnovare la faccia della terra, devono procedere dall'interno, dallo spirito. Il nuovo ordine del mondo, la vita nazionale e internazionale, una volta cessate le amarezze e le crudeli lotte presenti, non dovrà più riposare sulla infida sabbia di norme mutabili ed effimere, lasciate all'arbitrio dell'egoismo collettivo e individuale. Esse devono piuttosto appoggiarsi sull'inconcusso fondamento, sulla roccia incrollabile del diritto naturale e della divina rivelazione.

Ivi il legislatore umano deve attingere quello spirito di equilibrio, quell'acuto senso di responsabilità morale, senza cui è facile misconoscere i limiti tra il legittimo uso e l'abuso del potere. Solamente così le sue decisioni avranno interna consistenza, nobile dignità e sanzione religiosa, e non saranno alla mercé dell'egoismo e della passione. Se è vero che i mali di cui soffre l'umanità odierna provengono in parte dallo squilibrio economico e dalla lotta degli interessi per una più equa distribuzione dei beni che Dio ha concessa all'uomo come mezzi per il suo sostentamento e il suo progresso, non è men vero che la loro radice è più profonda e interna, poiché tocca le credenze religiose e le convinzioni morali pervertitesi con il progressivo distaccarsi dei popoli dall'unità di dottrina e di fede, di costumi e di morale, una volta promossa dall'opera indefessa e benefica della chiesa. La rieducazione dell'umanità, se vuole sortire qualche effetto, deve essere soprattutto spirituale e religiosa: deve, quindi, muovere da Cristo come da suo fondamento indispensabile, essere attuata dalla giustizia e coronata dalla carità.

Compiere quest'opera di rigenerazione, adattando i suoi mezzi alle mutate condizioni dei tempi e ai nuovi bisogni del genere umano, è ufficio essenziale e materno della chiesa. La predicazione dell'evangelo, affidatale dal suo divino Fondatore, nella quale vengono inculcate agli uomini la verità, la giustizia e la carità, e lo sforzo di radicarne saldamente i precetti negli animi e nelle coscienze, sono il più nobile e più fruttuoso lavoro in favore della pace. Questa missione, nella sua grandiosità, sembrerebbe dover scoraggiare i cuori di coloro che formano la chiesa militante. Ma l'adoprarsi alla diffusione del regno di Dio, che ogni secolo compì in vari modi, con diversi mezzi, con molteplici e dure lotte, è un comando a cui è obbligato chiunque sia stato strappato dalla grazia del Signore alla schiavitù di satana e chiamato nel battesimo ad essere cittadino di quel regno.

E se appartenere ad esso, vivere conforme al suo spirito, lavorare al suo incremento e rendere accessibili i suoi beni anche a quella parte dell'umanità che ancora non ne fa parte, ai giorni nostri equivale a dover affrontare impedimenti e opposizioni vaste, profonde e minuziosamente organizzate, come mai prima, ciò non dispensa dalla franca e coraggiosa professione di fede, ma incita piuttosto a tener fermo nella lotta, anche a prezzo dei massimi sacrifici. Chi vive dello spirito di Cristo non si lascia abbattere dalle difficoltà che si oppongono, anzi si sente spinto a lavorare con tutte le sue forze e con piena fiducia in Dio; non si sottrae alle strettezze e necessità dell'ora, ma ne affronta le durezze pronto al soccorso, con quell'amore che non rifugge dal sacrificio, è più forte della morte, e non si lascia spegnere dalle impetuose acque della tribolazione.

Un intimo conforto, una gioia celeste, per cui giornalmente rivolgiamo a Dio il Nostro ringraziamento umile e profondo, Ci dà, venerabili fratelli, l'osservare in tutte le regioni del mondo cattolico evidenti segni di uno spirito che coraggiosamente affronta i compiti giganteschi dell'epoca presente, che con generosità e decisione è teso a riunire in feconda armonia con il primo ed essenziale dovere della santificazione propria anche l'attività apostolica per l'accrescimento del regno di Dio. Dal movimento dei congressi eucaristici, promossi con amorosa cura dai Nostri predecessori, e dalla collaborazione dei laici, formati nell'Azione cattolica alla profonda coscienza della loro nobile missione, promanano fonti di grazia e riserve di forze, che, nei tempi attuali, in cui aumentano le minacce, maggiori sono i bisogni e arde la lotta tra cristianesimo e anticristianesimo, difficilmente potrebbero essere adeguatamente stimate.

Quando si deve con tristezza osservare la sproporzione tra il numero e i compiti dei sacerdoti, quando vediamo verificarsi anche oggi la parola del Salvatore: «La messe è molta, gli operai sono pochi» (Mt 9,37; Lc 10,2), la collaborazione dei laici all'apostolato gerarchico, numerosa, animata da ardente zelo e generosa dedizione, appare un prezioso ausilio all'opera dei sacerdoti e mostra possibilità di sviluppo che legittimano le più belle speranze. La preghiera della chiesa al Signore della messe, perché mandi operai nella sua vigna (cf. Mt 9,38; Lc 10,2) è stata esaudita in maniera conforme alle necessità dell'ora presente, e felicemente supplisce e completa le energie, spesso impedite e insufficienti, dell'apostolato sacerdotale.

Una fervida falange di uomini e di donne di giovani e di giovinette, ubbidendo alla voce del sommo pastore, alle direttive dei loro vescovi, si consacra con tutto l'ardore dell'anima alle opere dell'apostolato, per ricondurre a Cristo le masse di popolo che da lui s'erano distaccate. Ad essi vada in questo momento, così importante per la chiesa e l'umanità, il Nostro saluto paterno, il Nostro commosso ringraziamento, la Nostra fiduciosa speranza. Essi hanno veramente posto la loro vita e la loro opera sotto il vessillo di Cristo re, e possono ripetere con il Salmista: «Al re io espongo le opere mie» (Sal 44,1). «Venga il tuo regno» è non solamente il voto ardente delle loro preghiere, ma anche la direttiva del loro operare. In tutte le classi, in tutte le categorie, in tutti i gruppi questa collaborazione del laicato con il sacerdozio rivela preziose energie, a cui è affidata una missione che cuori nobili e fedeli non potrebbero desiderare più alta e consolante. Questo lavoro apostolico, compiuto secondo lo spirito della chiesa, consacra il laico quasi a «ministro di Cristo» in quel senso che sant'Agostino così spiega: «O fratelli, quando udite il Signore che dice: "Dove sono io, ivi sarà pure il mio ministro", non vogliate correre col pensiero soltanto ai buoni vescovi e ai buoni chierici. Anche voi, a modo vostro, dovete essere ministri di Cristo, vivendo bene, facendo elemosine, predicando il suo nome e la sua dottrina a chi potrete, di modo che ognuno, anche se padre di famiglia, riconosca di dovere, anche per tale titolo, alla sua famiglia un affetto paterno. Per Cristo e per la vita eterna ammonisca i suoi, li istruisca, li esorti, li rimproveri, loro dimostri benevolenza, li contenga nell'ordine; così egli eserciterà in casa sua l'ufficio di chierico e in certo qual modo di vescovo, servendo a Cristo, per essere con lui in eterno».(6)

Nel promuovere questa collaborazione dei laici all'apostolato, così importante ai tempi nostri, spetta una speciale missione alla famiglia, perché lo spirito della famiglia influisce essenzialmente sullo spirito delle giovani generazioni.
Fino a che nel focolare domestico splende la sacra fiamma della fede in Cristo e i genitori foggiano e plasmano la vita dei figli conforme a questa fede, la gioventù sarà sempre pronta a riconoscere nelle sue prerogative regali il Redentore, e ad opporsi a chi lo vuole bandire dalla società o ne vìola sacrilegamente i diritti. Quando le chiese vengono chiuse, quando si toglie dalle scuole l'immagine del Crocifisso, la famiglia resta il rifugio provvidenziale e, in un certo senso, inattaccabile della vita cristiana. E rendiamo infinite grazie a Dio nel vedere che innumerevoli famiglie compiono questa loro missione con una fedeltà, che non si lascia abbattere né da attacchi né da sacrifici. Una potente schiera di giovani e di giovinette, anche in quelle regioni dove la fede in Cristo significa sofferenza e persecuzione, restano fermi presso il trono del Redentore con quella tranquillità e sicura decisione, che Ci fa ricordare i tempi più gloriosi delle lotte della chiesa. Quali torrenti di beni si riverserebbero sul mondo, quanta luce, quanto ordine, quanta pacificazione verrebbero alla vita sociale, quante energie insostituibili e preziose potrebbero contribuire a promuovere il bene dell'umanità, se si concedesse ovunque alla chiesa, maestra di giustizia e di amore, quella possibilità di azione, alla quale ha un diritto sacro e incontrovertibile in forza del mandato divino! Quante sciagure potrebbero venir evitate, quanta felicità e tranquillità sarebbero create, se gli sforzi sociali e internazionali per stabilire la pace si lasciassero permeare dai profondi impulsi dell'evangelo dell'amore nella lotta contro l'egoismo individuale e collettivo!

Tra le leggi che regolano la vita dei fedeli cristiani e i postulati di una genuina umanità non vi è contrasto, ma comunanza e mutuo appoggio. Nell'interesse dell'umanità sofferente e profondamente scossa materialmente e spiritualmente, Noi non abbiamo desiderio più ardente di questo: che le angustie presenti aprano gli occhi a molti, affinché considerino nella loro vera luce il Signore Gesù Cristo e la missione della sua chiesa su questa terra, e che tutti coloro i quali esercitano il potere si risolvano a lasciare alla chiesa libero il cammino per lavorare alla formazione delle generazioni, secondo i princìpi della giustizia e della pace. Questo lavoro pacificatore suppone che non si frappongano impedimenti all'esercizio della missione affidata da Dio alla sua chiesa, non si restringa il campo della sua attività e non si sottraggano le masse, e specialmente la gioventù, al suo benefico influsso. Perciò Noi, come rappresentanti sulla terra di colui, che fu detto dal profeta «Principe della pace» (Is 9,6), facciamo appello ai reggitori dei popoli e a coloro che hanno in qualsiasi modo influenza nella cosa pubblica, affinché la chiesa goda sempre piena libertà di compiere la sua opera educatrice, annunziando alle menti la verità, inculcando la giustizia, e riscaldando i cuori con la divina carità di Cristo.

Se la chiesa, da una parte, non può rinunziare all'esercizio di questa sua missione, che ha come fine ultimo di attuare quaggiù il disegno divino di «instaurare tutte le cose in Cristo, sia le celesti sia le terrestri» (Ef 1,10), dall'altra, oggi la sua opera si dimostra più che in ogni altro tempo necessaria, giacché una triste esperienza insegna che i soli mezzi esterni e i provvedimenti umani e gli espedienti politici non portano un efficace lenimento ai mali, dai quali l'umanità è travagliata.

Edotti appunto dal fallimento doloroso degli espedienti umani per allontanare le tempeste che minacciano di travolgere la civiltà nel loro turbine, molti rivolgono con rinnovata speranza lo sguardo alla chiesa, rocca di verità e di amore, a questa cattedra di Pietro, donde sentono che può essere ridonata al genere umano quell'unità di dottrina religiosa e di codice morale, che in altri tempi diede consistenza alle relazioni pacifiche tra i popoli. Unità, a cui guardano con occhio di nostalgico rimpianto tanti uomini responsabili delle sorti delle nazioni, i quali esperimentano giornalmente quanto siano vani i mezzi, nei quali un giorno avevano posto fiducia; unità, che è il desiderio delle schiere tanto numerose dei Nostri figli, i quali invocano quotidianamente «il Dio di pace e di amore» (cf. 2 Cor 13,11); unità, che è l'attesa di tanti nobili spiriti, da Noi lontani, i quali nella loro fame e sete di giustizia e di pace, volgono gli occhi alla sede di Pietro e ne aspettano guida e consiglio.

Essi riconoscono nella chiesa cattolica la bimillenaria saldezza delle norme di fede e di vita, l'incrollabile compattezza della gerarchia ecclesiastica, la quale, unita al successore di Pietro, si prodiga nell'illuminare le menti con la dottrina dell'evangelo, nel guidare e santificare gli uomini, ed è larga di materna condiscendenza verso tutti, ma ferma, quando, anche a prezzo di tormenti o di martirio, ha da pronunziare: «Non è lecito».

Eppure, venerabili fratelli, la dottrina di Cristo, che sola può fornire all'uomo fondamento di fede, tale da allargargli ampiamente la vista e dilatargli divinamente il cuore e dare un rimedio efficace alle odierne gravissime difficoltà, e l'operosità della chiesa per insegnare quella dottrina, diffonderla e modellare gli animi secondo i suoi precetti, sono fatte talvolta oggetto di sospetti, quasi che scuotessero i cardini della civile autorità e ne usurpassero i diritti.

Contro tali sospetti Noi con apostolica sincerità dichiariamo - fermo restando tutto ciò che il Nostro predecessore Pio XI di v.m. nella sua enciclica Quas primas dell'11 dicembre 1925 insegnò circa la potestà di Cristo re e della sua chiesa che simili scopi sono del tutto alieni dalla chiesa medesima, la quale allarga le sue braccia materne verso questo mondo, non per dominare, ma per servire. Essa non pretende di sostituirsi nel campo loro proprio alle altre autorità legittime, ma offre loro il suo aiuto, sull'esempio e nello spirito del suo divino Fondatore, il quale «passò beneficando» (At 10,38).

La chiesa predica e inculca obbedienza e rispetto all'autorità terrena, che trae da Dio la sua nobile origine, e si attiene all'insegnamento del divino Maestro, che disse: «Date a Cesare quel che appartiene a Cesare» (Mt 22,21); non ha mire usurpatrici e canta nella sua liturgia: «Non rapisce i regni terreni Colui che dà i regni celesti».(7) Non deprime le energie umane, ma le eleva a tutto ciò che è magnanimo e generoso e forma caratteri, che non transigono con la coscienza. Né essa, che rese civili i popoli, ha mai ritardato il progresso dell'umanità, del quale anzi con materna fierezza si compiace e gode. Il fine della sua attività fu dichiarato mirabilmente dagli angeli sulla culla del Verbo incarnato, quando cantarono gloria a Dio e annunziarono pace agli uomini di buona volontà (cf. Lc 2,14). Questa pace, che il mondo non può dare, è stata lasciata come eredità ai suoi discepoli dallo stesso divino Redentore: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv 14,27); e così seguendo la sublime dottrina di Cristo, compendiata da lui medesimo nel duplice precetto dell'amore di Dio e del prossimo, milioni di anime l'hanno conseguita, la conseguono e la conseguiranno. La storia - chiamata sapientemente da un sommo oratore romano «maestra della vita»(8) - da quasi duemila anni dimostra quanto sia vera la parola della Scrittura, che non avrà pace chi resiste a Dio (cf. Gb 9,4). Poiché Cristo solo è la «pietra angolare» (cf. Ef 2,20), sulla quale l'uomo e la società possono trovare stabilità e salvezza.

Su questa pietra angolare è fondata la chiesa, e perciò contro di essa le potenze avverse non potranno mai prevalere: «Le porte dell'inferno non prevarranno» (Mt 16,18), né potranno mai svigorirla, ché anzi le lotte interne ed esterne contribuiscono ad accrescerne la forza e ad aumentare le corone delle sue gloriose vittorie. Al contrario, ogni altro edificio che non si fondi saldamente sulla dottrina di Cristo, è appoggiato sulla sabbia mobile, e destinato a rovinare miseramente (cf. Mt 7,26-27).





[SM=g1740771]  continua....

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)