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L'ombra del Sant'Uffizio

Comunque lo si giudichi, è dunque un fatto oggettivo: il cosiddetto "gendarme della fede" non è in realtà uomo della Nomenklatura, un funzionario che conosca solo curie e apparati; è uno studioso con una esperienza pastorale concreta.

Ma anche la Congregazione che è stato chiamato a presiedere non è certo più quel Sant'Uffizio attorno al quale (per effettive responsabilità storiche, ma anche per influsso della propaganda antichiesastica dal Settecento europeo sino ad oggi) si era creata una tenebrosa leggenda nera". Oggi è la stessa ricerca storica di parte laica che riconosce come il Sant'Uffizio reale sia stato assai più equo, moderato, cauto di quanto non voglia certo mito tenace.

Gli studiosi raccomandano poi di distinguere tra "Inquisizione spagnola" e "Inquisizione Romana e Universale". Questa fu fondata nel 1542 da Paolo III, il papa che cercava in ogni modo di convocare quel Concilio che sarebbe passato alla storia con il nome di Trento. Come prima misura per la riforma cattolica e per fermare l'eresia che da Germania e Svizzera minacciava di dilagare ovunque, Paolo III istituì uno speciale organismo composto di sei cardinali con la potestà di intervenire dappertutto fosse giudicato necessario. La nuova istituzione non aveva, all'inizio, carattere permanente e neppure un nome ufficiale: soltanto dopo venne chiamata Sant'Uffizio o Congregazione della Inquisizione Romana e Universale. Essa non subì mai ingerenze del potere secolare e si adeguò a procedure precise e in qualche modo garantiste, almeno relativamente alla situazione giuridica dei tempi e all'asprezza delle lotte di religione. Cosa che non avvenne invece con l'Inquisizione spagnola, che fu ben altra cosa: fu infatti un tribunale del re di Spagna, uno strumento dell'assolutismo statale che (sorto all'origine contro ebrei e musulmani sospetti di "finta conversione" a un cattolicesimo inteso dalla Corona come strumento anche politico), agì spesso in contrasto con Roma, da dove i Papi non mancarono di ammonire e di protestare.

Comunque sia, ora, anche per l'ex-Inquisizione romana o ex-Sant'Uffizio, tutto questo - a cominciare dal nome stesso - non è che un ricordo. Come dicevamo, la Congregazione fu la prima a essere riformata da Paolo VI, con un motu proprio del 7 dicembre 1965, ultimo giorno del Concilio. La riforma le riconfermò, pur mutandone le procedure, il compito di vigilare sulla retta fede ma le assegnò anche un ruolo positivo: di stimolo, di proposta, di indicazione.

Quando ho chiesto a Ratzinger se gli fosse costato passare dalla condizione di teologo (magari tenuto d'occhio da Roma ... ) a quello di controllore del lavoro dei teologi, non ha esitato a rispondermi: "Mai avrei accettato questo servizio alla Chiesa se il mio compito fosse stato innanzitutto quello del controllo. Con la riforma, la nostra Congregazione ha conservato sì compiti di decisione e di intervento, ma il motu proprio di Paolo VI le pone come obiettivo prioritario il ruolo costruttivo di "promuovere la sana dottrina per dare nuove energie agli annunciatori del Vangelo". Naturalmente, siamo chiamati come prima anche a vigilare, a "correggere gli errori e a ricondurre sulla retta via gli erranti", come dice lo stesso documento, ma questa difesa della fede deve essere volta alla sua promozione".

Un servizio incompreso?

Eppure, malgrado ogni riforma, anche tra i cattolici molti oggi non riescono più a capire il senso del servizio reso alla Chiesa da questa Congregazione. La quale, trascinata sul banco degli imputati, ha diritto anch'essa a far sentire le sue ragioni. Che suonano più o meno così, se abbiamo bene inteso quanto si trova in documenti e pubblicazioni e ciò che ci è stato detto da teologi che ne difendono la funzione, giudicandola "più che mai essenziale".

Dicono dunque costoro:

"Punto irrinunciabile di partenza è, ancora e sempre, una prospettiva religiosa, al di fuori della quale ciò che è servizio apparirebbe intolleranza, ciò che è sollecitudine doverosa sembrerebbe dogmatismo. Se si entra dunque in una dimensione religiosa, si comprende come la fede sia il bene più alto e prezioso, proprio perché la verità è l'elemento fondamentale per la vita dell'uomo. Dunque, la preoccupazione perché la fede non si corrompa dovrebbe essere considerata - almeno dai credenti - ancor più necessaria della preoccupazione per la salute del corpo. Il vangelo ammonisce di "non temere coloro che uccidono il corpo", ma di temere "piuttosto coloro che, assieme al corpo, possono uccidere anche l'anima" (Mt 10,28). E lo stesso vangelo che ricorda come l'uomo non viva di "solo pane", ma innanzitutto della "Parola di Dio" (Mt 4,4). Ma quella Parola, più indispensabile del cibo, va accolta nella sua autenticità e va preservata da ogni alterazione. È lo scetticismo di fronte alla possibilità per l'uomo di conoscere la verità con la conseguente perdita del concetto vero di Chiesa e l'appiattimento della speranza nella sola storia (dove ciò che soprattutto conta è il "corpo" il "pane", non più "l’anima", la "Parola di Dio che ha fatto sì che appaia irrilevante, quando non anacronistico o addirittura dannoso, il servizio di una Congregazione come quella per la dottrina della fede".

Continuano i difensori della Congregazione di cui ora è Joseph Ratzinger il Prefetto: "Circolano dei facili slogans. Secondo uno di questi, ciò che oggi conta sarebbe solo l'ortoprassi, cioè il "comportarsi bene", l’"amare il prossimo". Sarebbe invece secondaria, se non alienante, la preoccupazione per l'ortodossia e, cioè, il "credere in modo giusto", secondo il senso vero della Scrittura letta all'interno della Tradizione viva della Chiesa. Slogan facile perché superficiale: infatti i contenuti dell'ortoprassi, dell'amore per il prossimo, non cambiano forse radicalmente a seconda dei modi di intendere l'ortodossia? Per trarre un esempio attuale dal tema scottante del Terzo Mondo e dell'America Latina: qual è la giusta prassi per soccorrere i poveri in modo davvero cristiano e dunque efficace? La scelta di una retta azione non presuppone forse un retto pensiero, non rinvia forse alla ricerca di una ortodossia?".

Queste, dunque alcune delle ragioni sulle quali siamo invitati a pronunciarci.

Parlando con lui di queste questioni preliminari, indispensabili prima di entrare nel vivo del discorso, lo stesso Ratzinger mi ha detto: "In un mondo dove, in fondo, lo scetticismo ha contagiato anche molti credenti, è un vero scandalo la convinzione della Chiesa che ci sia una Verità con la maiuscola, e che questa Verità sia riconoscibile, esprimibile e, entro certi limiti, anche definibile in modo preciso. È uno scandalo che è condiviso anche da cattolici che hanno perso di vista l'essenza della Chiesa. La quale non è un’organizzazione solo umana, deve difendere un deposito che non è suo, ne deve garantire l'annuncio e la trasmissione attraverso un Magistero che lo ripresenti in modo adeguato e autentico agli uomini di ogni tempo".

Ma su questo tema della Chiesa, precisa subito, ritornerà più avanti e più volte; perché qui starebbe, per lui, una delle radici della crisi attuale.

"L'eresia esiste ancora"


Malgrado il ruolo anche positivo assunto dalla Congregazione, essa conserva tuttavia il potere di intervenire là, dove sospetti si annidino "eresie" che minaccino l'autenticità della fede. All'orecchio di noi moderni, i termini "eresia", "eretico", suonano talmente inconsueti che si è costretti a metterli tra virgolette. Pronunciandoli o scrivendoli, ci si sente trascinati verso epoche che sembrano remote. Eminenza, chiedo, ci sono davvero ancora degli "eretici", ci sono ancora le "eresie"?

"Mi permetta innanzitutto - replica - di richiamare a questo proposito la risposta che dà il nuovo codice di diritto canonico, promulgato nel 1983 dopo 24 anni di lavoro che l'hanno completamente rifatto e perfettamente allineato al rinnovamento conciliare. Al canone (cioè articolo) 751 si dice: "Viene detta eresia l'ostinata negazione, dopo aver ricevuto il battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa". Per quanto riguarda le sanzioni, il canone 1364 stabilisce che l'eretico - al pari dell'apostata e dello scismatico - incorre nella scomunica latae sententiae. Ciò vale per tutti i fedeli ma i provvedimenti sono aggravati contro l'eretico che sia anche sacerdote. Vede dunque che, anche per la Chiesa postconciliare (per quanto vale questa espressione "postconciliare" che non accetto, e spiegherò perché), eretici ed eresie - rubricate dal nuovo Codice come "delitti contro la religione e l'unità della Chiesa" esistono e si è previsto il modo per difenderne la comunità dei credenti".

Continua: "La parola della Scrittura è attuale per la Chiesa di ogni tempo così come rimane sempre attuale la possibilità per l'uomo di cadere in errore. È dunque attuale anche oggi l'ammonimento della seconda lettera di Pietro a guardarsi "dai falsi profeti e dai falsi maestri che introdurranno eresie perniciose" (2, 1). L'errore non è complementare alla verità. Non si dimentichi che, per la Chiesa, la fede è un "bene comune", una ricchezza di tutti, a cominciare dai poveri, i più indifesi davanti ai travisamenti: dunque, difendere l'ortodossia è, per la Chiesa, opera sociale a favore di tutti i credenti. In questa prospettiva, quando si è davanti all'errore, non bisogna dimenticare che vanno tutelati i diritti del singolo teologo ma vanno tutelati anche i diritti della comunità. Naturalmente tutto va sempre visto alla luce del grande ammonimento evangelico: "verità nella carità". Anche per questo, quella scomunica in cui ancor oggi incorre l'eretico, è considerata come "sanzione medicinale": una pena, cioè, che non vuole castigarlo quanto correggerlo, guarirlo. Chi si convince del suo errore e lo riconosce è sempre riaccolto a braccia aperte, come un figlio particolarmente caro, nella piena comunione della Chiesa".

Eppure, osservo, tutto questo sembra - come dire? - troppo semplice e chiaro per corrispondere alla realtà del nostro tempo, tanto poco riconducibile a schemi prefissati.

"È vero - ammette -. In concreto le cose non sono così chiare come le definisce (né può fare diversamente) il nuovo Codice. Quella "negazione", e quel "dubbio ostinato" di cui si parla, oggi non li incontriamo quasi mai in forma palese. Che nonostante ciò essi esistano in un'epoca spiritualmente complessa come la nostra è da attenderselo: solamente essi non vogliono apparire come tali. Quasi sempre si opporranno le proprie ipotesi teologiche al Magistero, dicendo che questo non esprime la fede della Chiesa, ma solo "l'arcaica teologia romana". Si dirà che non la Congregazione per la fede ma essi, gli "eretici", individuano il senso "autentico" della fede trasmessa. Dove c'è ancora un legame ecclesiale un po' più forte, ci si imbatte in un fenomeno diverso eppure collegato: io resto ogni volta meravigliato dall'abilità di teologi che riescono a sostenere l'esatto contrario di ciò che sta scritto in chiari documenti del Magistero. Eppure quel rovesciamento è presentato, con abili artifici dialettici, come il significato "vero" del documento in questione".

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)