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[SM=g1740758] Dimensione sacramentale della santificazione

Non sembra fondato il timore, espresso nel documento (cf. n. 14), che nella visione cattolica della santificazione sia messa in pericolo l’assoluta gratuità della salvezza, in quanto si è ben consci che le comunicazioni, totalmente libere, della grazia discendono dall’alto (cf. Gv 3,7).

Si deve invece sottolineare come il documento non abbia tenuto sufficientemente presente la dimensione sacramentale della santificazione, riservando solo brevi accenni ai sacramenti post-battesimali, che sono le modalità privilegiate della comunicazione della grazia. Oltre all’eucaristia, a cui non si fa che una fugace allusione senza molto rigore dottrinale (cf. nn. 16 e 27), sarebbe stato in particolare necessario sottolineare il significato e la necessità del sacramento della penitenza, di cui — secondo la dottrina cattolica — la « repentance » (n. 21) non è che un aspetto, per quanto fondamentale, non riducibile, per altro, a delle « discipline penitenziali » (n. 22). [SM=g1740721]

Soprattutto meritava di essere ulteriormente precisata l’affermazione del documento: « è attraverso il pentimento quotidiano e la fede che noi riacquistiamo la nostra libertà dal peccato » (n. 21). È vero che il pentimento (e la fede che ne è un presupposto) costituisce il nucleo della conversione dal peccato e che il dolore perfetto riconcilia a Dio. Il concilio di Trento fa però al riguardo la seguente decisiva specificazione in questo contesto: « Benché si verifichi talvolta che la contrizione sia resa perfetta dalla carità e riconcili l’uomo con Dio prima della ricezione effettiva del sacramento, tuttavia questa riconciliazione non dev’essere attribuita alla contrizione stessa a prescindere dal desiderio del sacramento (« votum sacramenti »), che è in essa incluso » (DS 1677). Infatti, l’uomo è liberato dal « peccato che conduce alla morte » (1Gv 5,16) attraverso il contatto sacramentale con il Redentore o almeno attraverso il voto di venir sanato da una grazia sacramentale che nessuno può dare a se stesso.

Libertà e merito

Non senza motivo, il documento cerca di affrontare la questione delle buone opere a partire da una riflessione sulla libertà; ma l’approccio adottato resta insufficiente sotto molti aspetti. Giustamente viene sottolineato il dono eccellente della libertà riscattata: « Ristabilendoci nella sua somiglianza, Dio dona la libertà all’umanità decaduta ».
Ma la precisazione che segue non può non suscitare perplessità: « Questa non è la libertà naturale di scegliere tra diverse alternative, ma la libertà di fare la sua volontà » (n. 19). Una simile opposizione fra due tipi di libertà potrebbe infatti rimandare a una concezione della libertà umana che non tiene pienamente conto della consistenza creaturale, che le è propria. Secondo la dottrina cattolica, la privazione della giustizia originale, seguita al peccato di Adamo, rende l’uomo incapace di tendere, con le forze che gli restano, al fine soprannaturale per cui è stato creato.
Tuttavia — aggiunge in questa prospettiva il concilio di Trento — il peccato non corrompe totalmente la natura umana; esso la ferisce senza toglierle la capacità originale di piacere a Dio (cf. DS 1555, 1557, ecc.).
La perplessità, che il documento lascia su questo punto, è rafforzata dall’idea equivoca menzionata sopra, secondo cui noi dovremmo « riappropriarci » ogni giorno « della nostra libertà dal peccato » (n. 21). [SM=g1740733]

Queste premesse consentono di trattare ora il problema del merito. Al fine di escludere, giustamente, il senso inaccettabile di un « a causa di opere » che farebbe supporre la possibilità dell’uomo di accedere con le proprie forze alla salvezza, il documento rinvia all’espressione paolina « in vista delle buone opere » (Ef 2,10; cf. anche 2Cor 9,8). Il principale capitolo dedicato a questo tema (n. 19 e seguenti) si sforza di accordare tra loro gli insegnamenti di S. Paolo (Gal 2,16) e di S. Giacomo (Gc 2,17 ss.) a riguardo delle opere.
Ma una loro collocazione più esatta nei rispettivi contesti avrebbe contribuito a cogliere meglio il punto segnalato in proposito dalla Congregazione per la Dottrina della Fede.
San Giacomo afferma che noi siamo giustificati attraverso le opere e non attraverso la fede solamente (Gc 2,24), mentre S. Paolo sottolinea fortemente che le opere anteriori alla fede non sono meritorie, senza d’altronde aver timore di invitare il credente a « ornarsi di buone opere » (1Tm 2,10). Ciò significa che l’uomo non può meritare la giustificazione fondamentale, cioè non può passare per i propri meriti dallo stato di peccato allo stato di grazia, ma che è chiamato e reso capace di « portar frutto in ogni opera buona » (Col 1,10): non producendola « da se stesso » (Gv 15,4), ma « restando nell’amore » di Cristo (Gv 15,9-10), amore che « è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato » (Rm 5,5).

In questo senso, dire che i cristiani « non possono rendere Dio debitore nei loro confronti » (n. 24), significa limitarsi a un’affermazione troppo estrinseca rispetto al mistero della cooperazione intima alla grazia, così come la Chiesa lo contempla in modo eminente nella cooperazione di Maria all’opera della salvezza. Una tale cooperazione non è la condizione del nostro gradimento agli occhi di Dio o del suo perdono; è piuttosto una grazia che Cristo conferisce liberamente e con assoluta liberalità. Essa è il frutto della « fede che opera per mezzo della carità » (Gal 5,6).



[SM=g1740771]  continua............

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)