00 19/06/2013 10:13

COMMENTO AI DUE PRECETTI DELLA CARITA'

E AI DIECI COMANDAMENTI

 

Introduzione

 

    Per conseguire la salvezza, l'uomo deve conoscere alcune nozioni di base: cosa credere, cosa desiderare e infine che cosa fare. Alla prima esigenza ha risposto il Simbolo, che raccoglie gli articoli della rivelazione; alla seconda, la preghiera del «Padre nostro»; e alla terza, la legge [di Dio].

    Partendo da questa indagine circa le cose che bisogna praticare [in ordine alla salvezza], ci troviamo di fronte a quattro tipi di legge.

    Innanzitutto c'è la legge naturale, che altro non è se non il lume della ragione di cui ci ha dotato il Creatore, e in base al quale possiamo conoscere ciò che va fatto e ciò che invece dobbiamo evitare.

    Questa luce orientativa fu inserita nella natura umana all'atto della creazione; e tuttavia molti credono d'essere scusati circa l'inosservanza della legge appellandosi all'ignoranza della medesima. Il profeta [Davide], dopo aver riportato ciò che essi dicono a propria discolpa («Chi ci mostrerà il bene che dobbiamo fare?» (Sal 4, 6), risponde loro dicendo: «Su di noi è impressa, o Signore, la luce della tua bontà» (Sal 4, 7): il lume cioè della retta ragione. Nessuno infatti ignora che non è bene fare ad altri quanto noi stessi non vorremmo subire, e norme fondamentali del genere.

    Però, mentre Dio ci ha fatto dono della legge naturale, in un secondo tempo il diavolo ha scatenato nell'uomo un'altra legge: quella della concupiscenza (145). Fino a quando l'anima dei nostri progenitori rimase soggetta a Dio e ossequiente ai divini precetti, anche la parte fisica dell'uomo restò sottomessa ai dettami della ragione. Allorché, suggestionandolo (146), il diavolo distolse l'uomo dall'osservanza del volere di Dio, anche la carne si ribellò allo spirito (147). E da quel momento accadde che, pur desiderando di compiere il bene indicatogli dalla riflessione, l'uomo si sente tuttavia spinto dalla concupiscenza a muoversi in senso opposto. Era il lamento di san Paolo: «Secondo l'uomo interiore, provo diletto nella legge di Dio; ma vedo nelle membra un'altra inclinazione che lotta contro la legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra» (148).

     Si spiega così perché tanto spesso l'impeto della sensualità rende vana la voce della coscienza, ossia la corretta valutazione di ciò che è bene e di ciò che è male.

     In tale stato di cose si rendeva necessario un recupero della persona umana; e ai fini di allontanare l'uomo da una condotta viziosa, la legge promulgata dalla Scrittura fu quanto mai opportuna.

     Ricorderemo in proposito che egli può essere distolto dal malaffare, e indotto al bene, attraverso due metodi: o quello del timore, o quello dell'amore.

     Difatti il deterrente più efficace per strappare un individuo dal peccato è la paura dell'inferno [che accoglierebbe il peccatore] dopo l'estremo giudizio. «Principio di saggezza è il timor di Dio» (Sir I, 16) giacché scaccia la tentazione del peccare (cf. Sir I, 27). Sebbene non possa considerarsi senz'altro un giusto colui che evita di incorrere in colpa per il solo timore dei castighi, tuttavia la sua riabilitazione prende di qui l'avvio.

     Questa era la prassi attraverso cui, nella legge mosaica (149), l'uomo veniva dissuaso dal crimine e invogliato a vivere onestamente. I suoi trasgressori potevano essere condannati a morte; infatti «se uno vìola la legge di Mosè (150), sulla deposizione di due o tre testimoni è messo a morte senza misericordia» (Eb 10, 28).

    Ma un tale modo d'agire è insufficiente, sicché la legge data tramite Mosè rimase valida per un certo periodo. Se arrivava a frenare la mano, non riusciva a dominare nell'intimo l'attaccamento al male.

    Vi è però un'altra possibilità d'intervento: quella da parte dell'amore. Tale è la legge di Cristo: la legge della carità evangelica.

    Varie le differenze tra legge dell'amore e legge del timore. Questa rende servile 1'animo di chi la osserva, mentre la prima crea degli uomini liberi (151). Chi si comporta bene soltanto per paura del castigo, si comporta da servo; chi si ispira all'amore fa invece come i figli, come l'uomo che sia padrone delle proprie azioni (152). «Dove è lo spirito del Signore, ivi c'è libertà» (2 Cor 3, 17).

    Altro contrasto tra le due leggi l: chi osservava i precetti della legge mosaica otteneva per ricompensa determinati beni temporali (153). Vedi ad esempio, in Isaia: «Se sarete docili e ubbidirete [dice il Signore], potrete godere delle risorse del paese» (Is I, 19), ma chi praticherà gli insegnamenti del vangelo avrà la sua porzione di beni celesti. Osservando i precetti della legge e della carità entreremo nella vita eterna (cf. Mt 19, 17); con l'avvento del regno dei cieli anche la penitenza dovrà ispirarsi all'amore.

    La terza differenza sta nel fatto che ogni legge basata sul timore è gravosa. Durante il concilio di Gerusalemme, Pietro scongiura la frangia giudaizzante di non voler imporre «sul collo dei fratelli un giogo che né i nostri padri, né noi abbiamo potuto portare» (154), mentre dal canto suo Paolo, scrivendo ai fedeli di Roma, ricorda loro come non abbiano ricevuto uno spirito che rende schiavi, che li condurrebbe a un rapporto di timore nei confronti del Padre (cf. Rm 8, 15).

    Dunque, sono quattro le leggi sotto cui può trovarsi l'uomo: della ragione naturale, della concupiscenza, dell'A. T. e infine la legge della carità - o della grazia - predicata da Cristo.

    È chiaro che non tutti possono dedicarsi agli studi [lunghi e severi]; per questo la legge di Cristo è quanto mai breve; chiunque può con facilità ritenerla a mente e nessuno ritenersi scusato, se non l'osserva, adducendo il motivo che si tratta di una legge complessa.

    Estremamente semplice, la legge divina dell'amore costituisce la norma di qualunque atto umano. Nel campo dei manufatti, giudichiamo ben riuscito quello che meglio corrisponde alle caratteristiche del relativo progetto; in maniera analoga, un'azione umana è definita retta, virtuosa, quando concorda con le regole dell'amore divino; al contrario, quella stessa azione non è classificabile come buona, retta e ordinabile alla perfezione nella misura in cui si discosta dalla suddetta norma. Le scelte umane, per esser chiamate davvero buone, devono concordare con la regola della carità.

    Nell'uomo che la osserva, essa produce quattro effetti, assai desiderabili.

 

    I. La carità [che ispira la nuova legge di Cristo] accende nell'uomo una vita spirituale. Infatti chiunque ama ha come in sé la cosa o la persona amata; e quindi se amiamo Dio, abbiamo Dio in noi stessi: «Chi sta nell'amore sta in Dio, e Dio sta in lui» (I Gv 4, 26).

    L'amore ha poi la proprietà di assimilare colui che ama all'oggetto di tale amore, sicché se amiamo realtà vili e caduche finiamo col divenire noi stessi meschini e insicuri. Era quanto lamentava Osea: «[I figli d'Israele, deportati in esilio] diventarono abominevoli come l'oggetto delle loro brame» (Os 9, 10). Amando Dio invece siamo quasi divinizzati poiché «chi s'unisce al Signore, diventa un solo Spirito con lui» (I Cor 6, 17).

    Sant' Agostino precisa che come l'anima dà vita al corpo, così Dio è vita [soprannaturale] per l'anima stessa. Dicendo che un corpo è vivo, intendiamo attribuire ogni suo movimento, ogni operazione, all'influsso dell'anima, tant'è vero che non appena essa si distacca dal corpo, quest'ultimo cessa qualunque attività.

    Similmente, l'anima opera nel migliore dei modi allorché attua le varie virtù in forza della carità, mediante la quale Dio abita in lei. Mancando la carità, l'anima non compie nulla di [validamente] virtuoso. Anzi, «chi non ama rimane nella morte» (I Gv 3, 14).

    Uno potrebbe possedere anche tutti i doni dello Spirito: ebbene, se non ha insieme la carità, costui non ha la vita divina. Questa non può esserci trasmessa dal dono delle lingue (155) né da quello della fede (156) o da qualsiasi altro carisma. Un cadavere rimane tale anche se lo si riveste d'oro e di pietre pregiate. La vita soprannaturale, dunque, è il primo risultato del rapporto affettivo tra noi e Dio.

 

    2. Essa poi rende possibile l'osservanza dei precetti divini. Secondo che scrive san Gregorio, «l'amore di Dio non è mai ozioso»: chi lo possiede compie grandi cose, altrimenti è segno che la carità in lui è estinta. Manifesto indizio che amiamo Dio è la sollecitudine che poniamo nel fare la sua volontà. Ogni innamorato è felice di compiere cose grandi e difficili per la persona amata. Quindi, se uno ama Gesù ne osserva la dottrina (cf. Gv 14, 23). E si badi: chi adempie il precetto fondamentale della legge divina che è la carità, costui ha onorato l'intera legge. I precetti di Dio sono infatti di due specie: taluni positivi (157), ed è la carità che ce ne ispira l'osservanza dal momento che solo l'amore verso Dio può render possibile il rispetto della legge in cui si articola compiutamente il suo volere. Altri invece sono proibenti, e ancora una volta è la carità a sostenerci [nelle delicate e molteplici relazioni col nostro prossimo] (158).

 

    3. La carità costituisce un valido presidio di fronte alle avversità: chi la possiede non resterà danneggiato ma, all'opposto, trarrà profitto dalle stesse sventure. Ce lo ricorda san Paolo: «Ogni cosa concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8, 28); anzi - a chi ama davvero - perfino le cose avverse e difficili appaiono quasi soavi, ed è un'esperienza che ognuno può far da sé (159).

 

    4. Conduce alla felicità, essendo l'eterna beatitudine una promessa serbata per chi avrà vissuto nella pratica della carità. Tutto il resto non conta, se manca l'amore soprannaturale (160). Ormai prossimo al martirio, l'apostolo Paolo confidava di poter ricevere la corona che il Signore, giudice giusto, darà nell'ultimo giorno «a tutti quelli che avranno vissuto con amore l'attesa della sua venuta» (2 Tm 4, 8).

    La beatitudine sarà concessa in grado maggiore o minore, in rapporto al grado di carità e non alla perfezione con cui poté essere praticata un'altra virtù. Tanto è vero che si potrebbero citare non poche persone che condussero una vita di maggior astinenza rispetto agli apostoli, eppure questi sorpassano chiunque altro nel grado di beatitudine avendo superato ciascuno di noi per l'ardore della carità, essi che - come Paolo scrisse ai romani - godettero per primi dei doni dello Spirito (161).

     Questi i principali vantaggi che derivano dalla pratica della carità; ma ve ne sono anche altri, che è bene non trascurare.

 

    5. Chi ottiene la remissione dei peccati. Lo sappiamo tutti che se uno ha offeso una persona ma poi comincia a volerle bene di cuore, certamente sarà perdonato. E lo stesso fa Dio verso i peccatori, appena cominciano ad amarlo. «La carità riesce a nascondere un gran numero di peccati» (I Pt 4, 8; cf. Prv 10, 12), quasi che Dio non volendo punire chi adesso lo ama, distolga lo sguardo dalle precedenti mancanze. E non ne nasconde solo «un gran numero», ma la totalità delle colpe che una persona abbia potuto commettere; e l'esempio più lampante lo vediamo nel caso della Maddalena. Di lei disse il Signore: «I suoi tanti peccati sono stati rimessi, poiché costei ha molto amato» (Lc 7, 47).

    Qualcuno potrebbe pensare: «Allora, per ottenere il perdono dei miei peccati basta la carità: non c'è bisogno di ricorrere alla penitenza». E un fatto però che nessuno ama davvero, se davvero non si pente. Cioè, quanto più amiamo qualcuno, tanto più ci rattrista l'idea di averlo potuto offendere: e questo è segno di carità.

 

    6. La carità illumina il nostro spirito. Tutti noi, secondo l'espressione di Giobbe «siamo avvolti dalle tenebre» (Gb 37, 19): assai spesso non sappiamo se sia bene ciò che vorremmo fare od ottenere, ed ecco la carità che ci insegna quanto è veramente necessario in ordine alla salvezza. Questo è il senso delle parole di Giovanni: «L'unzione dello Spirito vi farà lume, in ogni questione» (I Gv 2, 27). Dov'è lo Spirito Santo c'è anche viva la carità; ed egli, l'Onnisciente, ci condurrà per la via maestra (cf. Sal 138, 24; cf. Sal 142, 8). Raccomanda inoltre il libro del Siracide: «Voi che temete il Signore amatelo, e la luce splenderà nei vostri cuori» (Sir 2, 10).

 

    7. Conferisce pienezza alle gioie dell'uomo. Nessuno può illudersi di conoscere la felicità se non vive nell'amore di Dio. Chi infatti desidera una cosa, non si rallegra né si dà pace finché non l'abbia acquistata, ma mentre nelle cose temporali accade che le bramiamo quando non si posseggono e poi invece cominciamo ad averle in uggia, il contrario succede coi beni dello spirito. Chi ama Dio, lo possiede: per questo l'animo di colui che lo ama e desidera amarlo ancor più trova, in questo moto dell'anima, il proprio riposo. «Chi sta nella carità sta in Dio, e Dio in lui» (I Gv 4, 16).

 

    8. Produce, in altri termini, una pace perfetta. Come si era detto, nelle cose terrene, così spesso bramate, l'animo non trova requie per averle ottenute: avuta una cosa, subito ne vorrebbe un'altra. Il nostro cuore somiglia spesso a quel mare in tempesta di cui parla l'agiografo: «un mare che non può calmarsi, i cui Rutti rigettano schiuma e fango» (Is 57, 20). Non ci sarà pace per chi non ha Dio nel proprio cuore (cf. Is 57, 21).

    Chi invece lo ama, gusta una profonda pace. «Gran pace ha chi ama la tua legge, e non teme inciampi» (Sal 118, 165). Dio soltanto basta a riempire ogni nostro desiderio, Dio che è ben più vasto del nostro cuore (cf. I Gv 3, 20). «Ci hai fatti per te, Signore - esclama Agostino -, e il nostro cuore sarà inquieto finché non si riposa in te». Egli che, leggiamo nel salmo, «sazierà di bene le tue brame» (Sal 102, 5).

 

    9. Infine, la carità comunica all'uomo una superiore dignità. Tutte le creature, certo, rendono testimonianza alla maestà del Creatore come le opere artificiali sono soggette al loro artefice. Con questa differenza però, che la carità rende l'uomo, da servo che era, libero e amico di Dio, sulla parola del Signore: «Non vi chiamo più servi ma amici» (Gv 15, 15).

    Si dirà: «Ma come, Paolo non fu servo di Cristo?». E anche gli altri apostoli si firmavano con questo appellativo. Bisogna allora sapere che si danno due generi di servitù: una è basata sul timore, penosa e non meritoria. Astenersi dal peccato soltanto per paura di doverne pagare le conseguenze non dà certo diritto a un premio, ed è comportamento servile. Diverso il caso di chi agisce bene non per timore della giustizia ma per l'amore che si porta a Dio; questo è il comportamento della persona interiormente libera. Se il Signore non ci vuol chiamare servi, ciò deriva dal fatto che siamo stati oggetto di soprannaturale adozione (162). Il timore dunque non può convivere con la carità filiale (cf. I Gv 4, 18), che ci trasforma in figli di Dio (cf. I Gv 3, 1).

    Un estraneo, infatti, viene assunto al rango di figlio adottivo allorché gli venga concesso il diritto all'eredità; nel caso nostro, amando acquistiamo il privilegio di aver parte alla stessa eredità di Dio, che è l'eterna vita. Ne parla l'apostolo Paolo: «Siamo figli di Dio, quindi ne siamo anche eredi; eredi di Dio e coeredi con Cristo, se però soffriamo con lui, per essere con lui glorificati» (Rm 8, 16-17). E il libro della Sapienza riferisce lo stupore degli empi nel vedere glorificato e a testa alta il giusto, da essi tante volte deriso: eccolo annoverato tra i figli di Dio (cf. Sap 5, 5).

    Ormai dovrebbero essere evidenti i vantaggi derivanti dalla carità, da indurci a far di tutto per acquistarla e tenercela cara.

    Non è tuttavia impresa che un uomo possa condurre avanti con le sole sue forze: essa è dono esclusivo di Dio, che - come scrive san Giovanni - «per primo ci ha amati» (I Gv 4, 10). Non possiamo certo affermare che egli ci abbia amato dopo essere stato oggetto d'amore da parte nostra, dal momento che questa medesima capacità di riamarlo ci proviene da lui.

    Inoltre, sebbene ogni dono di cui godiamo tragga origine dal «Padre della luce» (Gc 1,17), questo in particolare si rivela eccellente. Difatti altri doni potremmo averli pure disgiunti dalla carità e dalla presenza in noi dello Spirito, ma chi vive nella carità ha necessariamente in sé lo Spirito Santo. «L'amore di Dio – così l’Apostolo - è stato diffuso con abbondanza nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). Invece [ripeto] il dono delle lingue o delle scienze o delle profezie può aversi anche senza lo Spirito o la grazia [santificante].

    Quantunque sia un dono divino, per ottenere la carità occorrono da parte nostra le debite disposizioni: più precisamente, due per acquisirla, altre due per custodirla.

 

    I. L'ascolto diligente della divina parola, come del resto accade nell'ordine naturale delle cose: sentendo parlare bene di qualcuno, siamo portati a volergli bene anche noi. Alla stessa maniera, ascoltando la Parola ci sentiremo presi dall'amore, tanto più che si tratta di un linguaggio capace più d'ogni altro d'infiammare il cuore degli uomini (cf. Sal 118, 140; cf. Sal 104, 19). Perciò i due discepoli [sulla strada di Emmaus] si dicevano l'un l'altro: «Non sentivamo arderci il cuore, qua dentro, mentre ci parlava per la via, spiegandoci le Scritture?» (Lc 24, 32). Lo stesso effetto si rileva dagli Atti, che cioè Pietro ancora non aveva finito di parlare «e lo Spirito Santo scese sopra quelli che lo ascoltavano» (At 10, 44). E qualcosa di simile può succedere tutt'oggi durante le prediche: la gente che vi si era accostata col cuore indurito, poi si trova ad ardere d'amore verso Dio, nel contatto con la sua Parola...

 

    2. È poi necessaria una continua riflessione, che aiuti il fuoco a divampare nell'intimo (cf. Sal 38, 4). Dunque, se desideri bruciare di amore verso Dio, medita gli innumerevoli benefici che Dio ti ha elargito (163). Mostrerebbe di possedere un animo del tutto insensibile una persona che, ripensando ai doni avuti, ai pericoli da cui fu miracolosamente scampata e, infine, alla beatitudine che Dio le promette, non si sentisse ardere di carità... Durezza d'animo dell'uomo che, pur non mettendo ostacoli all'iniziativa divina, neppure si sforza di ricambiare con la riconoscenza. Ma in generale, come i sentimenti perversi distruggono la carità, così i buoni pensieri ce la procurano, la nutrono e difendono. Dunque, «fate cessare le vostre cattive azioni dai miei occhi» (Is I, 16), raccomanda il Signore, mentre nel libro della Sapienza ci vien ricordato che «i pensieri malvagi allontanano da Dio» (Sap I, 3).

 

    3. Ad aumentare la carità che già si possiede contribuisce il distacco del cuore dai beni terreni. Esso non può occuparsi interamente di realtà tra loro contrapposte: nessuno cioè potrà mai amare insieme e Dio e il mondo. Quindi, nella misura in cui l'anima si libera dall'attaccamento per le cose di quaggiù, tanto più si consolida nella predilezione per la vera carità. Scrive sant'Agostino che è veleno per la carità ogni prospettiva d'entrare in possesso o di starsene attaccati ai beni temporali, mentre tale virtù trae alimento dalla diminuzione della cupidigia; essa trova la suprema perfezione nella totale rimozione di ogni bramosia, poiché questa è la radice di tutti i mali.

    Dunque, chi desidera nutrire la carità, si ingegni di imbrigliare le proprie voglie mondane.

    Cos'altro è la cupidigia, se non il desiderio sfrenato di accumulare beni temporali? Questa tendenza comincia a esser contenuta dal timor di Dio; ma non è che l'inizio, poiché Dio va amato quanto merita. Funzione d'ogni forma di culto è di sottrarre l'animo umano alla tirannia dei beni mondani, corruttibili, per elevarlo verso le realtà divine. È un concetto, questo, ben simboleggiato nella storia dei Maccabei: «Il sole, che prima era oscurato dalle nubi, fece brillare i suoi raggi» (2 Mac I, 22). L'intelletto nostro è simile al sole nascosto dietro le nuvole, finché sta immerso nelle cose transitorie; prende a rifulgere non appena lo si sottrae e allontana dagli amori terreni. Allora splende, allora sfolgora compenetrato dall'amore di Dio!

 

    4. Infine, ad aumentare la carità contribuisce la fortezza di fronte alle avversità. È noto a chiunque infatti che, quando accettiamo di portare il peso della tribolazione per amore di qualcuno, quel sentimento che ci ha sostenuti viene a esserne rinforzato. Le «grandi acque» di cui parla il Cantico dei Cantici - ossia le più varie tribolazioni - «non poterono spegnere l'amore, né i numi sommergerlo» (Ct 8, 7).

    Per questo, i santi che sopportano le prove della vita per amore di Dio, ne escono rinvigoriti, con una carità più accesa, un po' come l'artista che predilige l'opera su cui maggiormente si è affaticato. In modo analogo, quanto più han da soffrire per mantenersi fedeli a Dio nelle angustie, di tanto i giusti si elevano nella scala della carità. Può applicarsi loro l'espressione biblica: «Le acque crebbero e sollevarono l'arca, la quale si alzò al di sopra della terra; ingrossarono e crebbero ancora... e l'arca galleggiava alla superficie. Andarono ancor più aumentando... di modo che tutte le montagne che sono sotto il cielo furono coperte... Non scampò che Noè con quelli che erano insieme a lui nell'arca» (Gn 7, 17). Ebbene, «l'arca» - si intenda la Chiesa o l'anima del giusto - rimarrà a galla sotto l'imperversare delle prove, grazie proprio alla carità.

 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)