00 19/06/2013 10:15
L'amore verso Dio 

 

    Cristo, poco prima di offrirsi in sacrificio, interrogato dai dottori della legge su quale fosse il primo e principale comandamento, rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima tua e con tutta la tua mente: è questo il più grande, il primo dei comandamenti» (Mt 22, 37).

    E davvero questo è il massimo, più nobile e utile tra tutti, come facilmente si rileva da quanto premesso. Dalla sua osservanza risulteranno adempiuti anche gli altri precetti.

    Ma affinché l'adempimento della prima norma possa dirsi perfetto, devono concorrere quattro elementi.

 

    I. Innanzitutto vanno tenuti nella debita considerazione i divini benefici, dato che ogni cosa - l'anima, il corpo, i beni esteriori - l'abbiamo ricevuta da Dio. Quindi è giusto che usiamo di questi doni per il suo servizio, riamandolo di cuore. Troppo ingrato sarebbe l'uomo che, cosciente d'essere stato beneficato, non ama il benefattore. «Tutto da te proviene, e noi altro non facciamo che restituire ciò che ricevemmo dalle tue mani», così Davide ringrazia Dio, nel libro delle Cronache (I Cr 29, -14). Un modello di riconoscenza lo trovi anche nelle parole del Siracide: «[Davide] di tutto cuore lodò il Signore, e amò il Dio che l'aveva creato» (Sir 47, 8).

 

    2. Altro requisito per una autentica osservanza [del precetto d'amare Dio] è la considerazione della sua - assoluta superiorità: egli è infinitamente più vasto del nostro spirito (cf. I Gv 3, 20); per cui anche quando l'avremo servito con il massimo impegno, non avremo saldato ancora il debito per intero. Ci raccomanda la Scrittura: «Esaltate il Signore quanto più potete, perché sarà sempre al di sopra della vostra lode. Nell'esaltarlo raddoppiate il vostro slancio, e non vi stancate, poiché mai giungerete a dargli una lode che sia degna di lui» (Sir 43, 32-33).

 

    3. Bisogna poi rinunziare [alla priorità data] ai beni terreni, poiché reca non piccola ingiuria a Dio chiunque lo abbassi al livello di una cosa creata. Preso dallo sgomento, chiedeva il profeta: «A chi lo avete paragonato, Dio?» (Is 40, 18). Eppure è proprio quel che tentiamo di fare ogni volta che vorremmo amare, a un tempo, e Dio e le cose temporali, corruttibili; ma è pretesa assurda, a proposito della quale si può ripetere: «Il letto è così angusto che uno dei due dovrà cadere, e la coperta corta non può bastare a coprire l'uno e l'altro» (Is 28, 20). E il cuore umano che qui è paragonato a quel giaciglio troppo stretto e a quella coltre eccessivamente piccola; e lo è veramente. Quando nel tuo cuore alloggi qualcos'altro al posto di Dio, è lui che ne scacci. Egli non tollera di trovare nell'anima qualcosa o qualcuno a fargli concorrenza; somiglia in ciò a uno sposo che non ammette altri amanti accanto alla propria donna. Dice in proposito egli stesso: «Io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso» (Es 20, 5).

 

    4. Infine, per un amore perfetto, è necessaria la fuga totale dal peccato. Nessuno, infatti, che si trovi in colpa grave, può amare Dio nel contempo. «Non riuscirete a servire a Dio e insieme le [inique] ricchezze» (Mt 6, 24); e se siete caduti in peccato non potete affermare d'aver amato Dio [col massimo impegno].

    Isaia, che lo amava, poteva ripetere: «Ricordati, Signore, te ne prego, che ho camminato fedelmente davanti a te, con cuore sincero, compiendo ciò che è gradito ai tuoi occhi» (Is 38, 3). Elia [al popolo sviato si dietro a Baal] poteva chiedere: «E fino a quando barcollerete da entrambi i lati?» (I Re 18, 21). Simile allo sciancato, che oscilla ora da una parte ora dall'altra, così il peccatore si abbandona al peccato e subito appresso vorrebbe credere d'esser fedele a Dio. Dice bene il Signore, nel libro di Gioele: «Ritornate a me con tutta l'anima» (Gl 2, 12).

    Vanno contro il precetto [dell'amore verso Dio] due categorie di uomini. Coloro che mentre evitano un genere di peccati - mettiamo, la lussuria - ne compiono altri di diversa specie, come l'usura. Sono riprovevoli, poiché «chi avrà mancato su un solo punto, contesta il valore legale dei rimanenti» (Gc 2, 10) (164).

    Poi vi sono quelli che manifestano i propri peccati soltanto in parte, oppure un po' a un confessore e un po' a un altro. Neanche questi sono da lodare, anzi peccano così facendo, dal momento che vorrebbero ingannare Dio e mostrano poca riverenza nei confronti di cosa tanto sacra. Qualcuno ha scritto in proposito: «E’ quasi un sacrilegio sperare da Dio un perdono a metà», ed è sempre valido l'invito: «Davanti a lui effondi il tuo cuore» (Sal 51, 9), ossia rivelati per intero nella confessione, senza riserve.

    Abbiamo mostrato finora come l'uomo debba darsi a Dio integralmente. Vediamo adesso che. cosa donargli [in particolare]. Il cuore, l'animo, la mente e le energie [fisiche]. Questo chiede il Signore: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente e con tutte le tue forze» (Mt 12, 37).

    Per cuore si intendono qui, le intenzioni. Il loro influsso è tale da riguardare qualunque azione; sicché, ogni bene che venga compiuto con intenti non retti, diventa cattivo: «Se il tuo occhio (e qui sta per intenzione, sguardo interiore) sarà semplice, ne risulterà illuminato tutto il corpo; se poi sarà perverso, tutta la persona risulterà ottenebrata» (Lc 11, 34): l'insieme delle opere finiranno con l'essere intorbidite.

    Perciò, qualunque cosa facciamo, la nostra intenzione deve essere rivolta al Signore: «Sia che mangiate, sia che beviate, fatelo per amore di Dio» (I Cor 10, 31).

    Tuttavia la retta intenzione non è sufficiente, dato che deve attuarsi con probità; è quello che qui indichiamo con il termine di anima. Spesso, infatti, accade che uno faccia progetti [in se stessi] rispettabili ma non per questo opportuni, mancando in essi l'onestà dei mezzi. Metti il caso di uno che rubasse col proposito di sfamare i poveri: l'intento è lodevole, mentre è immorale l'azione [con cui si vuole raggiungere lo scopo], non potendosi giustificare alcun fine, per quanto buono, che debba realizzarsi facendo ricorso a espedienti immorali. San Paolo ci invita a non imitare coloro che pensano: «Facciamo [anche] il male, purché ne venga del bene» (Rom 3, 8). E giusta, conclude l'Apostolo, una loro condanna.

    Il buon volere è accompagnato dalla retta intenzione quando concorda con la divina volontà, ed è ciò che chiediamo ogni giorno: «Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra» (Mt 6, 10). Così, in un salmo si legge: «Di me sta scritto nel rotolo [della Scrittura] ch'io faccia la tua volontà. O mio Dio, è questo che io voglio, e la tua legge l'ho come incisa nel cuore» (Sal 39, 19).

    Ecco, dunque, il senso di quel «con tutta la tua anima», giacché nella Scrittura l'anima è indicata col termine «volontà»; vedi ad es.: «[Il giusto] vivrà di fede; se tornasse indietro, egli non piacerebbe all'anima mia» (Eb 10, 8).

    Talvolta, ancora, c'è la retta intenzione e il buon volere, eppure nell'intelligenza può annidarsi qualcosa di peccaminoso. L'intelletto quindi va sottomesso interamente a Dio, «facendo schiavo ogni pensiero, riducendolo all'ubbidienza di Cristo», secondo che scrive san Paolo (2 Cor 10, 5).

    Molti, infatti, non peccano esteriormente, e tuttavia si pascono di continuo d'oggetti malsani. Contro costoro ha parlato Isaia: «Dalla vostra mente eliminate i pensieri perversi» (Is I, 16).

    Vi sono altri che, confidando troppo in una propria filosofia, ricusano d'assentire alla fede; la mente di tali persone non accetta di assoggettarsi a Dio; quindi sono rivolte loro le parole dei Proverbi: «Non basarti sulla tua saggezza» (Prv 3, 5).

    E d'altronde neanche questa [ulteriore offerta d'una parte del nostro essere] può bastare, poiché occorre dedicare al Signore tutte le rimanenti energie. Dobbiamo dire: «Voglio riporre in te la mia forza» (Sal 58, 10), diversamente da quelli che usano del proprio vigore per peccare, e lo ritengono una manifestazione di potenza; li ammonisce il profeta: «Guai a quelli che son bravi nel mescere il vino e valenti nel versare liquori che inebriano» (Is 5, 22).

    C'è pure chi ostenta bravura e forza nel far del male al prossimo, mentre ciò dovrebbe servire per portare soccorso. «Libera l'innocente che è condotto a morte; salvalo dal rischio d'essere ucciso» (Prv 24, 11).

    È dunque evidente che la vera carità verso Dio esige l'offerta delle intenzioni, della volontà, della mente e delle proprie forze.

 

L'amore verso il prossimo

 

    Alla domanda su quale dei precetti fosse il più importante, Gesù diede due risposte: «Amerai il Signore, tuo Dio» (e di ciò abbiamo parlato finora) e: «[Amerai] il prossimo tuo, come [ami] te stesso». Chi li osserva entrambi, costui si dimostra osservante dell'intera legge, sulla linea di san Paolo che afferma: «Tutti i comandamenti si compendiano in queste parole: 'Amerai il prossimo tuo, come te stesso'. L'amore non fa del male al prossimo. Il compimento della legge è dunque l'amore» (Rm 13, 9b-10).

    Quattro cose possono condurci ad amare il prossimo.

 

   I. L'amore che portiamo a Dio, innanzitutto. Se uno infatti dicesse di amare Dio mentre odia il proprio fratello, costui «è un bugiardo» (I Gv 4, 20) alla stregua di chi, dopo aver affermato di voler bene a una data persona, non avesse riguardo verso il figlio o il corpo di essa. E noi, credenti nel medesimo Dio, siamo suoi figli [adottivi] e membra del corpo [mistico] del Cristo. «Voi siete il corpo del Cristo ­ insegna l'Apostolo -, e sue membra, ciascuno con una sua funzione» (I Cor 12, 27). Ne segue che chi è sdegnato col prossimo, non può dire di far cosa gradita a Dio.

 

    2. L'espresso desiderio del Signore. Cristo, infatti, in vista del suo ritorno al cielo, raccomandò ai discepoli, tra tutti i precetti evangelici, quello dell'amore. Giovanni ne è testimone: «Questo è il comandamento che più mi sta a cuore: che vi amiate scambievolmente, come io ho amato voi» (Gv 15, 12). Chiunque odia un altro, non fa quanto Dio desidera, mentre l'amore [nei confronti di chiunque] è la controprova d'una reale osservanza della legge divina. Giovanni riferisce in proposito il pensiero di Gesù: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni verso gli altri» (Gv 13, 35). Non dice: «Vi crederanno miei imitatori quando richiamerete in vita qualche morto, oppure quando compirete altri grandiosi prodigi»; no, la dimostrazione più evidente sarà solo questa: «Se cercherete di trattarvi con amore scambievole». Meditando su queste parole del Signore, Giovanni scriveva nella sua prima lettera: «Sappiamo che siam passati dalla morte alla vita». E il motivo? «Perché amiamo i nostri fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello, è un omicida» (1 Gv 3, 14).

 

    3. Ci sospinge ad amarci, inoltre, la comunanza nella stessa natura, in base alla quale gli uomini, come del resto gli altri esseri viventi (cf. Sir 13, 19), devono beneficarsi vicendevolmente. L'odio, di conseguenza, non soltanto va contro la volontà di Dio ma anche contro la legge naturale.

 

    4. E infine, l'utilità che ne deriva, poiché in forza della carità i beni dell'uno diventano utili a un altro; ed è sempre la carità che unisce i cristiani facendone una Chiesa, nella più ampia comunione di tutto ciò che è buono. Più del salmista, noi possiamo ripetere: «Sono il compagno di tutti quelli che ti temono, [Signore], e osservano i tuoi voleri» (Sal 118, 63).

    «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Questo, dell'amore del prossimo, è il secondo precetto della legge di Dio. Fin qui si è visto quanto debba estendersi questo amore; resta adesso da vedere la maniera in cui conviene esprimerlo: e già vi accenna quel «come te stesso».

    Possiamo fare al riguardo ulteriori considerazioni.

    Ameremo davvero il prossimo come amiamo noi stessi, allorché potremo dire di volere il suo bene, e non il nostro [a sue spese]. Vi sono tre specie di amore, delle quali le prime due solo apparenti. Una si ha quando amiamo in vista di un guadagno. «Vi è l'amico che ti è compagno a mensa, ma non lo trovi più nei giorni della sventura» (Sir 6, 10). Non c'è dubbio che in questo caso non possiamo parlare neppur lontanamente di amore. Un semplice rapporto che [essendo basato sul tornaconto] cessa non appena venga meno il proprio utile. Allora è evidente che non stavamo volendo bene al prossimo, ma piuttosto a noi stessi.

    Altra forma di amore apparente: quello che si regge sul piacere, ed è falso quanto il precedente dato che cessa di esistere appena l'amico non ci dà più gusto. Di nuovo, non era il bene la ragione principale dei nostri rapporti, bensì la mia incontentabile avidità.

    C'è però una terza forma di amore, fondata sopra un nobile motivo, e solo quest'ultima merita il nome di amore. Amiamo in tal caso il prossimo non in funzione nostra ma del suo stesso bene.

    L'amore poi deve essere ben ordinato, sì da non farci amare nessuna creatura al di sopra di Dio o alla pari con lui: il prossimo va amato in conformità col divino volere, come del resto dobbiamo amare noi medesimi. Di questa subordinazione il Signore fa cenno esplicito nel vangelo secondo Matteo: «Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me; e chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me» (Mt 10, 37).

    Infine, il bene che vogliamo al nostro prossimo deve essere concretamente efficace. Tu non ti ami soltanto a parole: ti dai da fare per procurarti molte cose buone, e i fastidi li fuggi con altrettanta sollecitudine. Bene, devi comportarti così anche verso il tuo prossimo. «Non amiamo solo con la lingua, a parole, ma coi fatti e nella sincerità» (1 Gv 3, 18). Certo, ancora peggio fanno quelli che, cordiali all'apparenza, gli sono nemici nell'intimo, simili a coloro di cui parla il salmista: «Parlano di pace col prossimo, mentre covano malvagità in cuore» (Sal 27, 3). La vera carità non ammette finzioni (cf. Rm 12, 9).

    E bisogna essere perseveranti nell'amare gli altri, come non ci stanchiamo [troppo facilmente] di noi stessi. Ci ricorda la Scrittura che «l'amico ama in ogni tempo»: tanto nel momento delle avversità quanto in quello della prosperità; anzi è proprio nel sopraggiungere delle prime che egli si rivela: «nelle angustie potrai verificare la sua fraternità» (Prv 17, 17).

    Per serbare a lungo un'amicizia sarà bene tenere a mente due utili norme. Pazienza prima di tutto; infatti «carbone sulla brace e legna sul fuoco, tale è il litigante nell'eccitare la rissa» (Prv 26, 21). Quindi umiltà, che fa essere pazienti. L'orgoglioso invece non fa che suscitare litigi (cf. Prv 13, 10); col suo credersi al di sopra di tutti e guardare gli altri dall'alto in basso, non può sopportare i difetti.

    Il prossimo va amato conforme alle esigenze della giustizia e della santità, ossia eliminando ogni secondo fine peccaminoso: tu stesso non potresti amarti sino a perdere - offendendolo - l'amicizia con Dio. Il Signore ci invita a restare suoi amici (cf. Gv 15, 9), nella più tenera affettuosità (cf. Sir 24, 24).

    «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Un concetto, questo, che giudei e farisei non riuscivano a intendere rettamente, pensando che Dio comandasse, con l'amore verso gli amici, l'odio del nemico. Sicché per loro era «prossimo» soltanto l'amico. Appunto tale errata interpretazione volle disapprovare Cristo, dicendo: «Amate [anche] i vostri nemici, fate del bene [anche] a chi vi odia» (Mt 5, 44).

    Bisogna sapere che chiunque nutre dell'odio verso un suo fratello, non contribuisce in tal modo alla propria salvezza: «chi pensa d'essere nella luce e odia il fratello, è ancora nelle tenebre» (I Gv 2, 11).

    Può costituire difficoltà il fatto che talvolta i santi dichiararono la loro avversione per qualcuno. Ma il salmista parla di «un odio estremo» che egli nutre verso i nemici del suo Signore, violenti o bestemmiatori (Sal 138, 22). E Gesù medesimo afferma di non considerare suo discepolo chi non sia disposto a preferire lui a chiunque altro (cf. Lc 14, 26).

    In questa, come in qualunque situazione umana, il comportamento del Cristo assume per noi valore di esempio. Egli ama nell'uomo ciò che è radicalmente buono, ossia la natura nostra, mentre detesta ciò che moralmente è riprovevole, le scelte non bene ordinate. Quindi se ci augurassimo che qualcuno finisca all'inferno, certo avremmo in odio la sua natura; al contrario, se c'è una cosa da odiare, questa è il peccato, e nutrire simile ripugnanza equivale ad amare il prossimo. Anche il Signore detesta la cattiva condotta dei malfattori (cf. Sal 5, 7); non aborrisce nulla di quanto ha creato (cf. Sap 11, 25), nulla tranne il peccato.

    Può succedere che taluno possa far del male ad altri senza che ciò costituisca una colpa: allorché compie qualcosa di non gradito al prossimo ma per il bene del medesimo. Dio fa altrettanto. Si dà il caso di persone sviate che, colpite dalla malattia, ritrovano il giusto sentiero; oppure il caso del malvagio che cambia vita passando dalla prosperità alla sventura. Non di rado infatti il dolore fa ritrovare il senno (cf. Is 28, 19).

    Altro caso: non pecchi se, animato dall'amore per la Chiesa, desideri la caduta del persecutore: prima ti deve stare a cuore il bene della Chiesa che non la vita di un tiranno. «In ogni cosa sia benedetto il nostro Dio - dissero i Maccabei -, che ha consegnato [alla morte] gli empi» (2 Mac I, 17).

    Questa avversione al male ciascuno di noi deve non solo auspicarla, ma alimentarla concretamente. Ne è peccato l'esecuzione capitale di un malfattore, dopo un equo processo (165); i giudici, secondo l'espressione di Paolo, sono in tal caso «esecutori del potere di Dio» (166), e non agiscono contro la carità dato che la condanna ha valore di castigo, oppure serve a qualche finalità superiore. Vale infatti di più il bene di un'intera città [liberata dall'iniquo dominatore ], che l'esistenza fisica di costui.

    Non basta d'altra parte astenersi dall'odiare il prossimo, avendo noi l'obbligo di desiderare il suo vero bene, cioè che si converta e possa conseguire anch'egli la vita eterna.

    Due sono i modi: possiamo amare qualcuno in senso generico, in quanto è creatura di Dio e potenziale candidato alla vita eterna; più in particolare, possiamo amarlo se è nostro amico e nostro compagno di fede.

    Da un amore di fondo non possiamo escludere alcuna persona: bisogna pregare per tutti ed esser pronti a beneficiare chiunque si trovasse in estrema necessità. Non esiste invece un obbligo di trattare familiarmente anche chi ti avesse maltrattato, a meno che non abbia chiesto di perdonargli, ché in tal caso egli rientra nella cerchia degli amici. Se tu ti rifiutassi, saresti uno che respinge chi ti vuol essere [di nuovo] amico.

    Nel Vangelo puoi leggere che «se perdonate agli uomini i loro falli, il Vostro Padre celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonate agli uomini, nemmeno il Padre vostro perdonerà i vostri peccati» (Mt 6, 14-15); e, nella preghiera dettata dal Signore: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6, 9).

    «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Abbiamo detto che, non concedendo venia a chi te la chiede, sei tu che pecchi, e sai pure che una carità alla ricerca della perfezione ti spingerà a trovar la maniera di riavvicinare l'offensore, benché tu non ne abbia il dovere. Per indurti a fare questo passo, considera quante ragioni ne indicano la convenienza.

 

    I. La tutela della propria dignità. A ciascun grado di nobiltà corrisponde una particolare insegna, e nessuno deve rinunciarvi. La maggiore di tutte le dignità umane è quella d'essere figli di Dio. Il blasone che ci distingue è precisamente l'amore esteso anche all'avversario. «Amate i vostri nemici... affinché siate figli del Padre vostro che sta nei cieli» (Mt 5, 44-45). Restringere l'affetto unicamente all'amico non può essere la prova decisiva a favore della filiazione divina, tant'è vero che anche i pubblicani e i pagani sanno farlo (cf. Mt 5, 46).

    2. Il desiderio di vincere, che è qualcosa di connaturato in ciascuno di noi. O tu conquisti alla causa dell'amore, mediante la bontà, la persona che ti ha offeso (e allora sei tu a superarlo); oppure è l'altro che riesce a coinvolgerti sul sentiero dell'odio, e tu perdi la battaglia [assieme a lui]. Tu dunque «non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male col bene» (Rm 12, 21).

 

    3. I vantaggi che ne derivano, come il farsi degli amici. Ricordandoci che la vendetta spetta al giudice divino, l'apostolo Paolo raccomanda: «Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare, se ha sete dagli da bere, poiché così facendo radunerai carboni ardenti sopra la sua testa» (167). Sant'Agostino prosegue: «Nessun invito più efficace all'amore, che cominciare noi per primi a mostrare benevolenza. Nessuno sarà così insensibile, per quanto deciso a non prender l'iniziativa di far la pace, da respingere il buon esempio». Un amico che resta fedele anche se messo a dura prova, si mostrerà impareggiabile (cf. Sir 6, 15); e quando il Signore ha gradito la condotta di un uomo, gli riconcilierà perfino i nemici (cf. Prv 16, 7).

 

    4. Le tue preghiere troveranno più facilmente ascolto. Perciò, commentando il passo di Geremia: «Se si presentassero a me Mosè e Samuele, ecc.» (Ger 15, 1) san Gregorio fa notare che questi due personaggi son ricordati in particolare perché essi intercedettero per i propri nemici (168). Anche Cristo lo fece, dicendo: «Padre, perdona loro» (Lc 23, 34), e così pregando, Stefano procurò alla Chiesa un vantaggio straordinario: la conversione di Paolo.

 

    5. Più facile risulterà la fuga dal peccato, il che deve starci parecchio a cuore. Talvolta infatti pecchiamo, e ci scordiamo di Dio; allora egli ci attrae a sé daccapo servendosi di una infermità o di espedienti consimili. Pur di sospingerci sul retto sentiero, egli chiuderà coi rovi della sofferenza ogni altro varco di cui parla Osea (cf. Os 2, 6). Così Saulo divenne prigioniero del Cristo, e l'autore di un salmo si fa portavoce del peccatore pentito: «Sono andato errando qual pecora smarrita: vieni in cerca del tuo servo, o Signore» (Sal 118, 176), o, la sposa nel Cantico: «Prendimi con te: corriamo!» (Ct 1, 3).

    Ebbene, otterremo [più agevolmente] questo risultato allorché, facendo il primo passo verso la riconciliazione, apriamo le braccia verso chi si era reso nostro nemico. «Sarà usata per voi la stessa misura di cui vi sarete serviti» (Lc 6, 38), e poco avanti: «Perdonate e sarete perdonati» (Lc 6, 37), mentre Matteo ci annunzia la beatitudine della misericordia: «Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia» (Mt 5, 7).

    Non vi è misericordia superiore a quella di offrire il perdono a chi ci abbia offeso.


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)