00 19/06/2013 10:01
Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto

 

    Accolta la realtà dell'incarnazione del Verbo nella persona di Cristo, il cristiano deve credere alla sua vita sofferente, che si concluse con la morte [in croce]. Che cosa ci avrebbe giovato il nascere - si chiede san Gregorio -, se poi non avessimo trovato un redentore ?

    Questo mistero, che cioè Cristo sia morto per noi, è talmente sublime, che il nostro intelletto riesce a farsene appena una pallida idea. Impossibile penetrarlo sino in fondo! Davvero, nella vicenda del Cristo si è compiuta un'opera divina quasi incredibile a raccontarsi (cf. At 13, 41; Ab 1, 5). La gratuita carità di Dio nei nostri riguardi è stata così munifica, che stentiamo a percepirne la portata.

    Non dobbiamo tuttavia credere che, morendo il Cristo, sia morta la stessa divinità. Fu soggetta alla morte la natura umana unita al Verbo. Cristo morì in quanto uomo, non certo in quanto era Dio. Vediamo di spiegarci meglio.

    Quando muore uno di noi, ossia quando l'anima si separa dal corpo, è in quest'ultimo che si spegne la vita, giacché l'anima sopravvive. In Gesù sopravvissero e l'anima e la divinità.

    Si affaccia a questo punto una obiezione: se non uccisero la divinità, i giudei [che decisero l'eliminazione del Cristo] sono colpevoli di un semplice omicidio. Al che rispondo: se qualcuno insudicia intenzionalmente la veste del sovrano, non viene considerato colpevole di reato allo stesso modo che se ne avesse imbrattato la persona? Perciò, sebbene non abbiano ucciso Cristo-Dio (cosa impossibile), gli autori [morali] della morte di Gesù hanno meritato, in base alle loro intenzioni, una gravissima condanna (59).

    E poi, come si è detto, il Figlio di Dio, Parola dell'eterno Padre, incarnandosi s'è reso in qualche modo visibile, leggibile come uno scritto davanti ai nostri occhi. Chi lacerasse un decreto regio, attenta alla stessa maestà regale; e quindi il peccato di quei giudei è di tentato deicidio.

    Altra possibile domanda: era necessario che il Verbo divino patisse per noi? Sì, era necessario, oltre che opportuno.

    Dalla passione del Cristo deriva un rimedio molteplice, contro le conseguenze del peccato.

    I. Infatti, peccando, l'uomo deturpa la propria anima dato che la virtù è un'interiore bellezza, che viene a essere imbruttita dalla colpa. Riecheggia il lamento del profeta: «Per qual motivo, o Israele, sei in terra nemica, invecchi in un paese straniero, ti vai contaminando tra i morti, (...) tra coloro che discendono nell'abisso?» (Bar 3, 10-11). La passione sofferta dal Cristo vi apporta il giusto rimedio: il sangue sparso da lui è come un lavacro spirituale, in cui i peccatori potranno purificarsi (cf. Ap I, 5). Il sacramento del battesimo acquista una forza rigeneratrice, in virtù appunto del sangue di Gesù.

    Chiunque pecchi dopo il battesimo, reca a Cristo una maggiore offesa, secondo la giusta ammonizione di Paolo: «Colui che abbia violato la legge di Mosè è messo a morte - sulla deposizione di due o tre testimoni - senza misericordia; di qual supplizio più atroce pensate voi non sarà degno colui che avrà calpestato il Figlio di Dio e reputa come immondo il sangue della sua alleanza, col quale è stato santificato, e avrà fatto oltraggio allo Spirito della grazia?» (Eb 10, 28-29).

 

    2. Peccando, offendiamo Dio. Come l'uomo carnale ama la bellezza fisica, così egli predilige l'interiore armonia che abbellisce l'anima. Il peccato la inquina, Dio ne rimane offeso e ne prova disgusto: «Il Signore odia in egual misura l'empio e la sua empietà» (Sap 14, 9).

    Cristo pone rimedio a tale situazione, rendendo al Padre quella soddisfazione che l'uomo non avrebbe mai potuto dargli. La carità del Figlio, la sua ubbidienza hanno superato la portata dello stesso peccato d'origine. «Siamo stati riconciliati con Dio, noi suoi nemici, mediante la morte del suo Figlio» (Rm 5, 10).

 

    3. Cresce la nostra fragilità morale. Possiamo illuderci di riuscire a evitare nuove cadute, ma l'esperienza ci convince facilmente del contrario. A seguito del primo cedimento l'uomo risulterà debilitato e proclive a cedere. Il peccato ci domina gradualmente e, abbandonati a noi stessi, rassomigliamo sempre più a chi si getta in un pozzo da cui non potrà uscire se altri non lo aiuta.

    La natura umana è stata indebolita e corrotta dal peccato d'origine, l'uomo è maggiormente incline a cadere. Ed ecco il Cristo, che viene a ridurre la portata di questa nostra infermità morale. La natura non è ricondotta allo stato primigenio, ma l'uomo trae energia dai meriti della passione di Cristo, mentre la forza del male è in qualche modo sotto controllo di quella grazia divina che ci proviene dall'uso dei sacramenti. I nostri sforzi per risalire la china non saranno dunque più vani, come per l'uomo vecchio, schiavo del peccato (cf. Rm 6, 6). Prima che Gesù si offrisse in olocausto, ben pochi saranno stati gli uomini cui riuscì di vivere senza colpe gravi. Dopo, invece, tantissimi son vissuti e vivono liberi da tale schiavitù.

 

    4. Un altro effetto del peccato è la conseguenza penale che trae seco. La divina giustizia esige che chiunque abbia peccato debba essere punito, commisurando la pena sulla gravità della colpa. Ora, essendo praticamente infinita una colpa come quella del peccato mortale - un attentato al bene infinito che è Dio e che viene gravemente offeso dal trasgressore della legge -, la pena dovrà essere proporzionata.

    In forza dei suoi patimenti, Cristo ci ha liberati dall'obbligo di saldare un debito umanamente insolvibile. Pagò egli stesso, al posto nostro, di persona. Egli, secondo l'espressione apostolica, «ha portato su di sé i nostri peccati: nel proprio corpo crocifisso al legno della croce, affinché noi, separati da tutto ciò che è peccato, vivessimo secondo giustizia. Siete stati guariti al prezzo delle sue piaghe» (I Pt 2, 24).

    La passione di Gesù fu di tale efficacia, che sarebbe sufficiente a espiare i peccati di tutto il mondo, fossero pure in numero infinito.

    Questo è il motivo per cui, a contatto col sacramento, i battezzati ricevono la piena remissione delle loro colpe. È la passione del Cristo che conferisce al sacerdote un potere assolutorio, e quanto maggiormente una persona si conforma alla passione del Cristo, tanto più ampio è il perdono e più abbondante la grazia.

 

    5. Il peccatore perde ogni diritto d'entrare nel regno dei cieli, secondo la pena dell'esilio riservata ai colpevoli di lesa maestà. Adamo, per primo, fu scacciato dal paradiso [terrestre], e alle sue spalle venne sbarrato l'ingresso anche di quello celeste. Cristo lo riaprì grazie ai meriti della sua passione [e morte]. Gli esuli videro revocato il divieto di rientrare in patria. La porta del regno dei cieli fu di nuovo aperta nel momento in cui veniva squarciato il fianco al Cristo, spirato sulla croce. Versato che fu il suo sangue, scomparve la macchia del peccato, fu placato lo sdegno del Padre, la fragilità umana trovò un rimedio, ed espiata la pena gli esuli sono richiamati in patria!

    A uno dei due malfattori [morente sul Calvario] venne fatta la promessa: «Oggi stesso sarai con me in paradiso» (Lc 23, 43). Non sono parole rivolte a qualcun altro, ad Adamo per esempio, o ad Abramo il patriarca o al re e profeta David... Qui non si tratta di profezia che dovrà attendere per lungo tempo d'essere adempiuta: «Oggi», gli dice, nel giorno stesso in cui la porta dei cieli venne riaperta. Il delinquente pentito ottenne senza dilazioni il perdono implorato. Sperimentò in quel medesimo giorno ciò che dice san Paolo: «Grazie al sangue di Gesù Cristo, abbiamo la certezza di poter entrare nel santuario» (Eb 10, 19).

    Quanti utili esempi, poi, ricaviamo dalla meditazione del sacrificio di Cristo! Infatti, come nota sant'Agostino, la passione di Gesù è sufficiente per impostare di sana pianta l'umana esistenza. Chiunque voglia vivere una vita di perfezione, altro non dovrà fare che disprezzare ciò che il Salvatore respinse fino alla croce, e non amare qualcosa di diverso da ciò che egli amò.

    Non c'è virtù che dalla morte in croce del Cristo non tragga incentivo.

 

    6. Difatti, se cerchi un esempio d'amore (e nessuno ne ha uno più grande di chi sappia sacrificare la vita per gli amici) (cf. Gv 15, 13), vedi che Cristo te lo seppe dimostrare salendo al tuo posto in croce. Se quindi ha esposto la propria vita nel suo farsi olocausto d'amore, non dobbiamo giudicare eccessivo il soffrire le nostre croci per amor suo. Niente di più gradito potrò offrire al Signore, in cambio dei molti doni che mi ha elargito (cf. Sal 115, 12).

 

    7. Se invece vi cerchi mi esempio di pazienza, la croce del Cristo è di per sé la risposta più eloquente. Un uomo dà prova di vera pazienza quando accetta le grandi traversie della vita, oppure qualora si esponga a gravi disagi che potrebbe evitare.

    Ebbene, la pazienza del Cristo fu magnanima specie sulla croce. Avrebbe potuto ripeterci: «Oh, voi tutti che passate per la via, fermatevi a considerare se vi sia un dolore simile al mio!» (Lam I, 12). Tollerò pazientemente ogni spasimo, e «ingiuriato, non rispondeva con ingiurie» (I Pt 2, 23). Di lui aveva profetato Isaia: «Era maltrattato ma restava sereno, non diceva una parola, simile a un agnello che si porti a uccidere; come la pecora rimane muta dinanzi a chi la tosa, egli non aprì la bocca per lamentarsi» (Is 53, 7).

    Avrebbe potuto facilmente evitare tanta sofferenza, ma preferì andarle incontro; e a Pietro che aveva usato la spada per difenderlo, chiedeva: «Credi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si adempirebbero le Scritture, secondo le quali bisogna che avvenga così?» (60). Giudica tu, da te stesso, se fu grande la pazienza del Cristo in croce. Perciò, «corriamo [anche noi] nell'arena che ci è aperta dinanzi, tenendo lo sguardo fisso all'autore e perfezionatore della fede, Gesù, il quale anziché il gaudio di cui poteva disporre, preferì sopportare la croce senza curarsi dell'ignominia» (Eb 12, 1-2).

    8. Nel Crocifisso troverai il modello per la tua umiltà: Dio che si lascia trascinare in tribunale, dinanzi a Ponzio Pilato, per subirvi un [iniquo] processo ed essere condannato a morte. La sua causa parve subito quella di un pregiudicato (cf. Gb 36, 17), di un delinquente della peggiore specie, cui viene riservata una morte ignominiosa (cf. Sap 2, 20). Il Signore che si espone a morire al posto del suo servo! Colui che è vita degli angeli, si lascia uccidere per noi uomini!

 

    9. Non potresti trovare un più alto esempio d'ubbidienza, alla scuola di colui che fu ubbidiente al Padre sino a morire! (cf. Fil 2, 8). E «come per la disubbidienza di un solo uomo gli altri sono stati resi peccatori, così per l'ubbidienza di uno, gli altri saranno resi giusti» (Rm 5, 19).

 

    10. E se infine vai cercando un perfetto esempio di disprezzo delle cose terrene, segui il Re dei re, il Sovrano dei sovrani, colui che racchiude in sé la sapienza in grado massimo: e tuttavia lo trovi spoglio sulla croce, dove muore dopo essere stato schernito, oggetto di sputi, percosso e abbeverato con fiele e aceto...

    Non attaccarti perciò eccessivamente a vesti e ricchezze, di fronte a Gesù che ti ripeterebbe: «Si dividono tra loro gli abiti miei; tirano a sorte la mia tunica» (Sal 21, 19); non attaccarti agli onori, giacché [l'Uomo dei dolori] ti ricorda: «Io ho conosciuto gli insulti e le percosse. Non mirare alle posizioni di prestigio, se a me fu riservata una corona di rami spinosi intrecciati; non alle cose che danno gusto, se per me i carnefici seppero trovare soltanto una spugna imbevuta d'aceto».

    Commentando il passo in cui l'Apostolo considera i patimenti sofferti dal Figlio di Dio (cf. Eb 12, 1-2), Agostino ha scritto: «Gesù Cristo spregiò tutte le cose terrene, per insegnarci a disprezzarle».

 

 

Discese agli inferi  

Il terzo giorno risuscitò da morte

 

    La morte di Cristo, s'è visto, sopravvenne per la separazione dell'anima dal corpo, come accade per tutti gli uomini; ma la divinità, congiunta indissolubilmente con l'uomo-Cristo, seguitò a pervadere nel modo più completo sia l'anima che il corpo dissociati. Perciò il Figlio di Dio fu nel sepolcro assieme al corpo di Gesù, e ne accompagnò l'anima nella sua discesa oltre la tomba.

    Egli vi andò per quattro motivi.

 

    I. Per addossarsi interamente la pena relativa ai nostri peccati e, in tal modo, espiarli del tutto. Il castigo comminato per la colpa originale non consisteva soltanto nella morte fisica dell'uomo ma nelle sofferenze che l'anima umana avrebbe sperimentato trovandosi privata della visione divina.

    Finché una simile pena fosse rimasta valida, tutti gli uomini, compresi i patriarchi e i giusti dell'antica alleanza, morendo dovevano scendere nel limbo e restarvi fino a quando non fosse venuto in terra il Redentore, a soddisfare anche questo debito. Allora, prefiggendosi di estinguerlo interamente, Cristo volle seguire in tutto il destino del genere umano: morire e scendere nell'oltretomba (61). Con questa differenza: che mentre gli altri vi dimoravano in qualità di prigionieri, Cristo vi giunse libero, da liberatore.

 

    2. Poté aiutare così nella maniera più perfetta i propri amici. Ne aveva non solo quaggiù, ma nel limbo dei giusti. Qui in terra suoi amici sono quanti vivono nella carità; nell'aldilà gli sono amici tutti coloro che passarono da questa vita amando Dio e protési nella speranza verso il Messia venturo: Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, David e altri uomini retti.

    Essendosi intrattenuto con gli amici viventi in questo mondo sino al giorno in cui morì sulla croce, Cristo volle visitare anche gli eletti recando loro aiuto nella dimora ultraterrena. Come la divina sapienza cantata dall'Ecclesiastico, poté ripetere: «Penetrerò nelle più profonde regioni del creato, getterò lo sguardo sui dormienti e illuminerò chiunque abbia riposto la propria speranza nel Signore» (Sir 24, 25).

 

    3. La discesa nell'oltretomba costituì una compiuta vittoria sul diavolo. Non si limitò a vincerlo sul campo di battaglia ma lo inseguì, occupandone il dominio e spodestandolo dal trono. Sulla croce, la vittoria: «il principe di questo mondo» perde la sua prerogativa di dominatore assoluto (cf. Gv 12, 31). Il Cristo risorto lo volle incatenare nel regno infernale: vi penetrò scardinando ogni cosa, strinse il nemico in ceppi e gli tolse di mano le anime [dei giusti] che teneva quale preda di guerra. Il Padre, mediante l'opera del Figlio, spogliò i principati e le potestà infernali e li espose alla pubblica derisione (cf. Col 2, 15).

    Dominatore del cielo e della terra, Cristo estese il dominio fino al regno dei morti, in maniera che si avverò quanto proclama l'Apostolo: «Nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, in terra e negli inferi, e ogni lingua riconosca che Cristo Gesù è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 10). Nome, il suo, di illimitata potenza, se ai discepoli inviati a predicare il vangelo sarebbe bastato pronunciarlo per mettere in fuga gli spiriti del male! (cf. Mc 16, 17).

 

    4. Volle morire infine per liberare [come si è accennato al n. 2] i santi che lo attendevano nel limbo. Affrancati i viventi da una morte senza risurrezione, Cristo estese il beneficio anche ai defunti. Il Messia, il re mansueto e pacifico cantato dal profeta, in forza del sangue con cui siglò la nuova alleanza tra gli uomini e Dio ha fatto uscire «i prigionieri dalla fossa arida» (cf. Zc 9, 11). Egli poté ripetere le parole profetizzate da Osea: «Li libererò dal sepolcro, li salverò dal potere della morte. A cosa son servite le tue stragi, o morte, che valgono i tuoi micidiali flagelli, o inferno?» (Os 13, 14). [L'antica versione di questo passo] dice: «Io sarò come un morso, per te, o inferno», poiché mentre egli pose fine a una condizione di morte [eterna], per l'ade fu una grave lacerazione, in quanto che liberò non tutti i prigionieri ma solo quelli che vi si trovavano immuni dal peccato d'origine (dal quale erano stati salvati individualmente per il rito della circoncisione) e da altri peccati mortali. Del resto, anche prima che la circoncisione venisse praticata, i piccoli innocenti conseguivano la salvezza mediante la fede dei genitori [verso il Messia venturo], e gli adulti grazie alle offerte sacrificali e, sempre, alla fede.

    La macchia del peccato d'origine contaminava la natura stessa dell'uomo, per cui l'intero genere umano avrebbe trovato il suo liberatore esclusivamente nel Cristo. Egli, dunque, lasciò nell'oltretomba [infernale] gli adulti, morti in stato di colpa grave, e [nel limbo ] i piccoli se incirconcisi (62).

    Dalla considerazione di questo articolo del Credo si rafforza in noi la speranza d'essere accetti a Dio. Per quanto possa trovarsi nell'afflizione, l'uomo dovrà sempre sperare nell'aiuto dell'Altissimo, confidare in lui. Nulla, infatti, vi è di più grave dell'inferno; ora, se Cristo provvide a liberare dall'oltretomba le anime che vi si trovavano, molto più il cristiano, amico di Dio, dovrà confidare che sarà liberato dalle angustie. La Sapienza del Padre discese a confortare il giusto che giaceva tra le mura del carcere, rimase al fianco di chi stava in catene, finché gli procurò lo scettro del regno, gli dette potere sopra i suoi stessi tiranni, demolì la sicurezza ostentata dagli avversari e lo coronò di gloria immortale (cf. Sap 10, 13-14).

    E poiché Dio aiuta specialmente i suoi servi, deve sentirsi sicuro chiunque si ponga al suo servizio. «Chi teme il Signore non ha timori né perde il coraggio, poiché Dio è la sua speranza» (Sir 34, 14).

    Dobbiamo alimentare il timor [di Dio] e respingere ogni presunzione. Pur restando vero che Cristo è sceso nell'oltretomba per recare alle anime i frutti della redenzione, è vero altresì che egli non liberò dal potere di Satana chiunque vi si trovasse, ma solo quanti lo attendevano privi di gravi colpe. Lasciò nell'inferno coloro che erano morti in peccato mortale. Perciò non s'illuda, chiunque entri in simili condizioni nell'aldilà. Dovrà restare nell'inferno quanto i giusti si tratterranno in paradiso: per l'eternità. «I dannati andranno all'eterno supplizio, gli eletti invece all'eterna gloria» (Mt 25, 46).

    Altro beneficio: la discesa di Cristo agli inferi ci rende maggiormente solleciti. Egli infatti vi andò per evitarci quella che, per noi, sarebbe una discesa senza ritorno. Dobbiamo perciò andarvi frequentemente col pensiero, considerando le pene che vi si soffrono, sull'esempio di Ezechia, il quale usava ripetere: «A metà della mia vita me ne dovrò andare, varcando la soglia dell'aldilà» (Is 38, 10).

    Chi vi si sofferma spesso con la riflessione, facilmente eviterà di dovervi andare morendo. Convien fare un po' quel che vediamo far attorno a noi, da quanti cercano di non infrangere il codice [penale] considerandone le severe sanzioni. Quanto più dunque dobbiamo guardarci dall'agire male riflettendo sulle pene infernali, che superano ogni altra pena sia per la durata, sia per l'asprezza e la varietà dei tormenti. «In ogni azione pensa alla tua fine, e non peccherai!» (Sir 7, 40).

    Quale esempio, infine, di come dobbiamo amare le anime dei defunti, Cristo scese agli inferi per liberare i suoi amici. Noi pure, con i suffragi, dobbiamo affrettare la liberazione dei nostri.

    Da sole, nulla possono le anime del purgatorio, mentre possiamo alleviare noi le loro sofferenze. Mostrerebbe una grande durezza di cuore chi trascurasse d'aiutare una persona cara rinchiusa in un carcere. Assai più lo è il cristiano che non porge il minimo aiuto agli amici che stanno nel purgatorio, non essendovi proporzione tra le sofferenze di questo mondo e quelle del purgatorio. Ciascun'anima che vi si trova sembra ripeterci l'invocazione di Giobbe: «Pietà di me, pietà di me, amici miei, ché la mano di Dio mi ha percosso!» (Gb 19, 21). Pietoso e utile, dunque, è il pregare per i defunti, affinché venga affrettata la loro purificazione.

    Possiamo recare loro soccorso in tre maniere, come insegna sant'Agostino: 

offrendo il sacrificio della Messa, pregando, e distribuendo elemosine in suffragio dei defunti; san Gregorio vi aggiunge il digiuno. Mi sembra giusto se pensiamo che, anche in questo mondo, tra amici ci si aiuta l'un l'altro. Dunque, un nostro sacrificio può valere a pro di un'anima che stia espiando in purgatorio. Non per i dannati.

    L'uomo deve considerare due verità fondamentali, circa la gloria [beatificante] di Dio e le pene infernali. Attratti dal desiderio di una immortalità gloriosa e atterriti dal pensiero degli eterni castighi, gli uomini stanno più cauti e cercano di evitare i peccati. Si tratta, purtroppo di verità non facilmente percepite dalla sola ragione naturale.

    Nel primo caso, è vero ciò che leggiamo nel libro della Sapienza: «A stento sappiamo comprendere ciò che è terreno, conosciamo così poco persino le cose che abbiamo tra mano; quindi, chi riuscirà a capire le cose celesti?» (Sap 9, 16). E la difficoltà cresce per l'uomo immerso nella realtà mondana. Di lui Gesù diceva: «Chi viene dalla terra, alla terra appartiene e parla secondo una mentalità materialistica» (Gv 3, 31). Invece l'uomo spirituale [a imitazione del Cristo] ha pensieri elevati. Dal cielo, il Verbo è sceso su questo mondo, per svelarci le verità soprannaturali.

    Ugualmente difficile farsi una chiara idea dei castighi eterni. [Dicono molti]: «Nessuno è mai tornato dall'oltretomba» (Sap 2, 1). Ma è un ritornello ormai privo di senso poiché la medesima Persona che venne in terra a insegnarci la dottrina che conduce alla vita eterna, è risuscitata dai morti per confermare l'esistenza di un aldilà [dove la giustizia divina punisce i peccatori]. È necessario perciò credere che Dio non soltanto si è incarnato ed è morto in croce, ma «il terzo giorno risuscitò dai morti».

    Sappiamo che diverse persone vennero risuscitate, come Lazzaro, il figlio della vedova [di Naim] e la figliola del caposinagoga [di Cafarnao]. Ma tra queste risurrezioni e quella del Cristo vi sono alcune [radicali] diversità.

    Intanto, la causa della risurrezione. Fu Cristo a operare direttamente questo genere di miracoli, oppure essi ebbero luogo per l'intercessione di qualche santo. Cristo invece risuscitò per virtù propria: essendo nello stesso tempo Dio e uomo (e la divinità del Verbo non fu mai separata né dall'anima né dal corpo), egli poté ricomporre gli elementi costitutivi della persona umana quando volle. L'aveva predetto, del resto: «Io ho il potere di cedere spontaneamente la mia vita, e di riprenderla quando mi piaccia» (Gv 10, 18).

    Morì davvero, non però [direttamente] in seguito ai maltrattamenti o per l'esaurirsi delle forze fisiche: morì perché permise che la morte facesse il suo corso naturale. Chi muore ormai privo di vigore, si spegne in un ultimo soffio; Gesù, al contrario, nell'attimo in cui rese lo spirito nelle mani del Padre gridò ad alta voce (63). Il centurione esclamò [anche per questo motivo]: «Costui era veramente il Figlio di Dio!» (Mt 27, 54). E come tale, Cristo ebbe la facoltà di ritornare in vita quando gli piacque. «Risuscitò dai morti», non «venne risuscitato». Poteva dire, nel suo passare dalla morte alla vita, le parole che Davide disse riferendosi al normale sonno: «Mi ero adagiato per dormire e mi assopii; dopo fui nuovamente sveglio» (Sal 3, 6). Non c'è contraddizione con quanto riferiscono gli Atti: «Costui è quel Gesù che Dio ha risuscitato» (At 2, 32); infatti il Cristo venne richiamato alla sua integra vita d'uomo dal Padre e dal Verbo insieme. La loro divina potenza è inscindibile.

    Diverso, inoltre, è lo stato di vita nuova a cui giunsero Cristo e gli altri risorti, poiché Gesù iniziò un'esistenza beata e permanente «a gloria del Padre» (Rm 6, 4); gli altri, come Lazzaro, furono riammessi a questa vita terrena per un certo numero di anni.

    Una terza differenza si riscontra nella portata dei vari casi di risurrezione. Gli uomini richiamati in vita ne trassero un beneficio circoscritto alla propria persona, mentre è in forza della risurrezione di Gesù che tutti potranno risorgere. Ciò accade fin dal momento in cui Cristo morì. Infatti «molti santi che riposavano nei sepolcri, risuscitarono» (Mt 27, 52), e l'apostolo Paolo lo chiama «primizia dei risorti dal sonno della morte» (1 Cor 15, 20).

    Fa' attenzione, a questo punto, che Cristo giunse alla gloria attraverso le sofferenze (cf. Lc 26, 26), sicché varrà anche per noi l'insegnamento di Paolo e Barnaba, che «è inevitabile passare per molte tribolazioni prima di entrare nel regno di Dio» (At 14, 21).

    Un'ultima diversità, tra la risurrezione operata dal Cristo in sé medesimo e la risurrezione cui è destinato il genere umano. Quest'ultima, infatti, è rinviata alla fine del mondo, eccetto pochi privilegiati come la beata Vergine e (secondo che si narra) Giovanni evangelista. Cristo risuscitò tre giorni dopo la morte.

    Risurrezione, morte e nascita di Gesù erano ordinate alla nostra salvezza. Volle perciò tornare in vita nel momento più opportuno al compimento dell'opera redentrice.

    Se infatti fosse risorto pochi istanti dopo essere spirato, sarebbe rimasto il dubbio di una morte solo apparente. Al contrario, se avesse dilazionato troppo l'ora del suo risveglio dai morti, i primi discepoli avrebbero potuto perdere la fede, e il suo tanto patire sarebbe risultato inutile.

    Risuscitò il terzo giorno affinché non restassero dubbi circa la realtà della sua morte, né la fede di chi sperava in lui restasse delusa.

    Per concludere, facciamo qualche riflessione applicabile a ciascuno di noi.

 

    I. Studiamoci di risorgere con sollecitudine dalla morte spirituale prodotta dal peccato; torniamo a una vita virtuosa, mediante la penitenza. Ci esorta l'Apostolo: «Svégliati, tu che dormi; risorgi dai morti; e Cristo ti illuminerà» (Ef 5, 14). È la prima risurrezione, cui allude l'Apocalisse: «Felice e santo chi partecipa della prima risurrezione! Su costui la seconda morte non ha alcun potere» (Ap 20, 6).

 

    2. Non rimandiamo [la conversione] sino al momento della morte: «Non indugiare a pentirti, non rimandare da un giorno all'altro» (Sir 5, 7). Forse, gravato dalle infermità, non riusciresti a provvedere alla tua salvezza. Oltre a ciò, perdi una parte dei meriti di cui si arricchisce la Chiesa, mentre l'ostinazione nel peccato aggrava l'infermità dell'anima. Quanto più a lungo uno resterà sotto il dominio del diavolo - osserva Beda il Venerabile -, tanto più difficilmente Satana rinuncerà alla preda.

 

     3. Riottenuta la vita di grazia, vediamo di non contaminarla nuovamente; vi sia in noi cioè il proposito di evitare le colpe mortali. Simili al Cristo che, risorto dai morti, più non si assoggetterà alla morte (cf. Rm 6, 29), «anche voi - ci raccomanda san Paolo - pensate che siete morti nei confronti del peccato e che dovete vivere per Iddio in Gesù Cristo. Non regni dunque la colpa nel vostro corpo mortale, in modo da tenervi tuttora soggetti alle sue concupiscenze. Non abbandonate le vostre membra al servizio del peccato, sì che non diveniate strumento di iniquità. Offritevi interamente a Dio, come viventi, da morti che eravate, e fate servire a Dio le vostre membra, come strumenti di giustizia» (ib. 11-13).

 

    4. Sia nobile la nuova vita [in grazia], evitando le occasioni che portarono la morte nell'anima. «Come Cristo è risuscitato dai morti a gloria del Padre, così noi pure dobbiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6, 4): una vita ispirata alla giustizia [soprannaturale], che rigenera l'uomo spiritualmente e lo conduce alla gloriosa eternità.

 

 

Salì al cielo, ove siede alla destra di Dio, Padre onnipotente

 

    Bisogna credere poi nell'ascensione del Cristo, avvenuta quaranta giorni dopo la risurrezione. Si trattò di un fatto sublime, conveniente e utile. Vediamone il perché.

 

    I. Salì il più in alto possibile. Sopra qualunque altra realtà corporea, oltrepassò i cieli più lontani, per primo, giacché fino a quel momento i corpi, nella cui composizione entrava l'elemento terra, non potevan trovarsi che circoscritti nell'ambito sublunare. Adamo medesimo [pur essendo ricco d'ogni sorta di doni] visse nel paradiso terrestre.

    Passò ancora oltre; oltre quei cieli spirituali che sono le gerarchie angeliche. «[Il Padre celeste] dimostrò la sua sovrana potenza in Cristo, risuscitandolo da morte e facendolo sedere alla sua destra nell'alto dei cieli, al di sopra di ogni principato, potestà, virtù e dominazione, al di sopra di qualsiasi dignità o grandezza che possa esser nominata non solo lungo i secoli ma nell'eternità» (Ef 1, 20; cf. Ef 4, 10).

    Si fermò accanto al trono del Padre. Daniele lo aveva veduto in visione, ed esclamava: «Egli avanzò fino all'Eterno (...), che gli conferì potere, maestà e regno, sì che tutti i popoli, le nazioni e le genti.di ogni lingua lo servivano. Il suo potere è un potere eterno, che non verrà meno, e il suo regno non sarà mai distrutto» (Dn 7, 13-14). La profezia si avvera nella testimonianza dell'evangelista: «Il Signore Gesù, dopo aver loro parlato, si elevò nel cielo, e siede alla destra di Dio» (Mc 16, 19).

    L'espressione «alla destra di Dio» è evidentemente metaforica: cioè, in quanto Verbo di Dio, il Cristo ottenne la perfetta eguaglianza con lui; in quanto uomo, entrò in possesso dei beni più grandi (cf. Ef I, 20). Era la sublime altezza di gloria bramata da Lucifero: «Salirò fino al cielo, innalzerò il mio trono sopra le stelle di Dio; mi assiderò sul monte dell'adunanza nelle estremità settentrionali. Salirò ben più in là delle nubi: sarò simile all'Altissimo!» (64).

    Ma a una tale sommità non poté giungervi altri che il Cristo. Egli solo può sedere alla destra del Padre, che lo invitò: «Siedi alla mia destra» (Sal 109, 1).

 

    2. Ragionevole, ossia giusta, fu l'ascensione del Cristo. Il cielo gli apparteneva in forza della divina natura. È infatti conveniente che ciascuno ritorni là da dove trasse origine, e il Verbo di Dio trasse origine dal Padre, l'Altissimo. Gesù lo insegnò apertamente: «Uscito dal Padre, son venuto nel mondo; ora lascio il mondo e mi accingo a tornare al Padre» (Gv 16, 28). Oppure, sempre nel vangelo di Giovanni: «Nessuno è asceso al cielo, se non colui che ne è disceso, il Figlio dell'uomo che è in cielo» (Gv 3, 13).

    Anche ai santi è concesso di salire al cielo, ma non come poté fare il Cristo, per virtù propria cioè: i santi salgono al cielo in quanto attratti da Cristo.

    Si potrebbe anche dire che egli sia l'unico a penetrare davvero nei cieli: gli altri vi pervengono nella loro qualità di membra di Cristo, che è il capo della Chiesa, suo corpo mistico.

    Il cielo gli spettava quale premio per la sua vittoria. Venuto quaggiù per lottare contro il diavolo, lo aveva sconfitto. Per questo meritava d'essere esaltato al di sopra dell'intera creazione. L'Apocalisse ne riporta le parole d'esultanza: «Io, che ho vinto, mi sono assiso sul trono accanto al Padre!» (Ap 3, 21).

    Lo aveva guadagnato, il cielo, con la sua umiltà. Mai potrà esservi abbassamento più profondo di quello vissuto dal Cristo: Dio, volle farsi uomo; dominatore, si fece servo di tutti, ubbidiente fino alla morte (cf. Fil 2, 8); e scese ancora: negli abissi del creato. Meritò ampiamente di essere innalzato al trono dell'Altissimo, avendo percorso [per amore] tutta intera la via dell'umiltà: «Chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14, 11).

 

    3. Molteplice, infine, l'utilità derivante dal mistero dell'ascensione. L'umanità aveva smarrito il sentiero che conduce al cielo, sicché il Cristo vi ascese facendoci da guida, simile al condottiero che cammina alla testa d'una moltitudine (cf. Mic 2, 13). Per rafforzare la nostra speranza di aver parte al regno dei cieli, vi entrò lui per primo: «Vado a prepararvi un posto» (Gv 14, 2).

    La speranza diviene certezza, al pensiero che Cristo si trova in cielo, immortale e onnipotente, per intercedere in nostro favore (cf. Eb 7, 25). Presso il Padre abbiamo un avvocato: «Gesù Cristo il Giusto» (I Gv 2, 1).

    È asceso al cielo per attrarvi il nostro cuore, nel disprezzo dei beni che passano. Se Cristo vale più di qualunque altro tesoro, il nostro spirito deve serbarsi in sintonia con lui (cf. Mt 6, 21). «Se siete risuscitati con Cristo - conclude l'Apostolo -, cercate le cose del cielo, dov'è Cristo assiso alla destra del Padre: aspirate alle cose di lassù e non a quelle che son sulla terra. (...) La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio» (65).

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)