00 19/06/2013 10:11
Venga il tuo regno

 

     Abbiam detto che lo Spirito Santo ci indirizza [con la preghiera del Pater] ad amare, desiderare e chiedere rettamente, oltre che ispirarci un santo timore, in forza del quale domandiamo che il nome di Dio venga santificato.

    Segue, qui, un altro dono, il dono della pietà: dolce e devoto affetto verso chi ci ha generati, nonché verso chiunque si trovi in condizioni di miseria.

    Essendo Dio il nostro Padre, come si è dimostrato, noi lo dobbiamo non solo riverire e temere, ma verso di lui nutrire una devota tenerezza. È questo sentimento che ci inclina a chiedere la venuta del regno di Dio. Nella lettera a Tito si legge: «Viviamo nel presente con moderazione, giustizia e pietà... in attesa della beata speranza e della gloriosa manifestazione del grande Dio e nostro salvatore, Gesù Cristo» (Tt 2, 12-13).

    Potremmo chiederci: «Ma, dato che il regno di Dio è a lui coeterno, che senso ha chieder che venga?» Invece può avere un triplice significato.

 

    I. Innanzi tutto può accadere che un re abbia l'autorità sovrana, la facoltà cioè di dominare senza che in effetti il suo dominio si eserciti compiutamente, perché non tutti gli si sono assoggettati. In tal caso il suo regno potrà dirsi realizzato appieno solo allorché i sudditi ne sosterranno la sovranità.

    Per sua natura Dio è il Signore universale, come pure lo è Cristo per l'unione ipostatica. Di lui ha scritto Daniele: «Gli venne conferito il potere, la maestà e il regno, sì che tutti i popoli, le nazioni e le genti di ogni lingua lo servivano» (Dn 7, 14).

    Quindi è giusto che ogni cosa stia sotto il dominio di colui che è il Signore; siccome però non si tratta d'una realtà attuale, lo diverrà [pienamente] al dissolversi di questo mondo. Ce lo conferma san Paolo: «E' necessario che Cristo governi [la Chiesa] 'fino a che non abbia debellato tutti i nemici'» (107).

    Perciò glielo chiediamo, dicendo «venga il tuo regno», con tre intenti : [che] la conversione dei giusti si rinnovi incessantemente, [che] i peccatori ricevano il castigo (108) e la morte sia annientata. Volenti o nolenti, gli uomini debbono sottomettersi al Cristo. Poiché la volontà divina è di tale efficacia da conseguire un completo successo - ed essendo stabilito che tutto ceda il passo alla sovranità del Messia -, i casi sono due: o l'uomo farà la volontà di Dio spontaneamente, sottomettendosi ai suoi voleri - ed è quanto fanno i giusti; oppure Dio compirà lo stesso i propri disegni a dispetto dei suoi nemici, punendo gli ostinati peccatori alla fine dei tempi. Dice profeticamente il salmo 108: «Siedi alla mia destra, mentre che io pongo gli oppositori come sgabello sotto i tuoi piedi» (Sal 108, 1).

    Per i giusti, chiedere che venga il regno di Dio, ossia disporsi nel modo più perfetto a compiere la divina volontà, è cosa gradita. Ma ai peccatori una simile richiesta incute spavento, coincidendo con 1'esecuzione inflessibile della sentenza condannatoria. Amos li avverte: «Guai a voi che state in attesa del giorno di Dio! A che potrà giovarvi, quel giorno? Sarà giorno di tenebre, non di luce... Giorno d'oscurità, senza splendore!» (Am 5, 18).

    E nel medesimo istante verrà annientata la morte, questa nemica della vita. Nella prima lettera ai Corinti è detto: «L'ultimo avversario a essere distrutto sarà la morte» (I Cor 15, 26), e ciò accadrà nel momento della risurrezione finale; l'istante in cui, secondo l'espressione dell'Apostolo: «Gesù Cristo trasformerà il nostro miserevole corpo rendendolo simile al suo corpo glorioso, per mezzo della potenza che egli ha di assoggettarsi ogni cosa» (Fil 3, 21).

 

    2. Regno dei cieli, poi, è lo stesso che dire gloria del paradiso, e non deve far meraviglia dal momento che l'idea del regno sottintende quella di governo. Ora il miglior regime si ha dove non esistono motivi d'opposizione contro chi governa. Principale intento di Dio è di procurare agli uomini la salvezza; egli desidera che tutti si salvino; e ciò sarà vero soprattutto in paradiso, dove non può trovarsi alcunché di avverso al bene dell'uomo. Accadrà quanto dice l'evangelista: «Gli angeli elimineranno dal suo regno tutti gli scandali e quelli che avranno compiuto iniquità» (Mt 13, 41).

    Quaggiù, invece, sono tante le cose che minacciano la salvezza dell'uomo. Perciò, quando chiediamo «venga il tuo regno», stiamo pregando d'essere fatti partecipi del regno celeste e della gloria del paradiso.

    Tre caratteristiche [del regno celeste] ci devono spingere a desiderarlo intensamente:

    Per la somma giustizia che vi regna. Ne sottolinea la portata Isaia: «Il tuo popolo sarà un popolo di giusti» (Is 60, 21). Quaggiù infatti i cattivi sono frammisti ai buoni, mentre lassù non si troverà un solo malvagio, un solo peccatore;

    Per la libertà autentica [che vi si gode]. In terra non c'è una vera libertà, sebbene tutti vi aspirino istintivamente; là, invece, la liberazione da ogni forma di condizione servile sarà assoluta, secondo la promessa di Paolo: «Il mondo [soggetto fino a quel momento alle leggi della disgregazione] ne verrà affrancato» (Rm 8, 21). E ciascuno non soltanto diverrà libero, ma somiglierà a un re; attesta l'Apocalisse: «Ci hai fatti, per il nostro Dio, re e sacerdoti; e regneremo sopra la terra [rinnovata]» (Ap 5, 10). E questa è la ragione: che ognuno sarà concorde col divino volere: Dio vuole ciò che vogliono i santi, e i santi ciò che a lui piace. Sicché nel compiere la volontà di Dio si adempirà il volere dei singoli, e Dio sarà come il diadema che cingerà la fronte del giusto: la «splendida corona, il serto magnifico» di cui parla Isaia (Is 28, 5).

    Infine, [il regno celeste è oggetto di desiderio] per la sua meravigliosa ricchezza; una ricchezza tale da far dire al profeta: «Nessun orecchio ha mai sentito, nessun occhio ha veduto mai un altro Dio far tanto per coloro che in lui han riposto la propria speranza» (Is 64, 4); e il salmo 102 rassicura che «Egli sazierà di beni i tuoi giorni e tu rinnoverai, come l'aquila, la tua giovinezza» (Sal 102, 5).

    Nota inoltre che l'uomo troverà in Dio, esclusivamente, e nella misura più eccellente e perfetta, ciò che quaggiù ora va elemosinando.

    Tu cerchi la gioia? Ne troverai, in Dio, una insuperabile. Brami le ricchezze? In lui le avrai da soddisfarti, ché son ricchezze divine.

    Nelle Confessioni, Agostino ha scritto: «Finché s'intorbida staccandosi da te, Signore, l'anima cercherà, ma non in te, cose limpide e pure, che non riuscirà a trovare se non quando ti si sarà riaccostata».

 

    3. L'avvento del regno [di Dio] va implorato inoltre perché, sia pure temporaneamente, tra gli uomini regna il peccato ogni volta che uno di noi segue, acconsentendo, i suoi istinti sregolati. Nel vostro essere mortale - ci raccomanda san Paolo - non lasciate che regni la concupiscenza (cf. Rm 6, 12); deve regnare Dio, nel tuo cuore (cf. Is 52, 7). E questo sarà vero se ti mostrerai pronto a ubbidire a Dio, mettendo in pratica. i suoi precetti: dunque, quando chiediamo che venga il suo regno, esprimiamo il desiderio che su di noi non regni il peccato, ma Dio stesso.

    Attraverso questa petizione attingiamo [anche] quella beatitudine che il Signore riserva ai miti (109).

    Secondo la prima interpretazione del passo, infatti, desiderando che Dio sia il Signore universale, l'uomo non provvederà da sé a vendicarsi delle offese che avesse ricevuto, ma ne lascia a Dio il compito. Se ti facessi giustizia da te medesimo, non sarebbe segno che tu brami davvero l'avvento del regno di Dio.

    In base poi alla seconda interpretazione [che abbiamo segnalato], se tu attendi la venuta del regno - cioè la gloria del paradiso -, non ti devi dolere per la perdita di un qualche bene terreno. Paolo poteva lodare i cristiani della Giudea, per aver accettato con gioia la confisca dei beni da parte delle autorità civili (110).

    Nel terzo significato su esposto, se chiedi che in te regni Dio, assieme al Cristo che fu mitissimo, anche tu devi essere mansueto, prendendo esempio da lui (cf. Mt 11, 29).

 

 
Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra

 

    Il terzo dono [connesso con le invocazioni del Pater] è il dono della scienza. L'azione dello Spirito Santo non soltanto rende l'uomo riverente e affezionato nei confronti di Dio, ma lo fa diventare saggio. Era quanto desiderava Davide: «Insegnami la bontà, una condotta disciplinata e il discernimento [per agire nel migliore dei modi]» (Sal 118, 66). Si tratta dunque della sapienza che insegna a ben vivere.

    Tra le cose che concorrono a renderci sapienti, questa superiore saggezza fa sì che l'uomo non confidi troppo nel proprio parere. Anche il libro dei Proverbi ammonisce: «Non appoggiarti [oltre il ragionevole] alla tua intelligenza» (111). Quelli, infatti, che presumono eccessivamente di sé al punto da non far conto dei consigli altrui, comportandosi da stolti, sono giudicati come tali. «Hai visto di quelli che si credono persone sagge? Uno stolto può più di loro nutrire speranza [di rinsavire]» (Prv 26, 12). Che invece l'uomo non faccia credito [esclusivamente] a se stesso, è segno di umiltà, e quindi di sapienza (112). I superbi, al contrario, san pieni di sé.

    Mediante il dono della scienza, lo Spirito ci insegna dunque a preferire la volontà di Dio alla nostra. Perciò chiediamo che ogni divina intenzione si realizzi, appieno, nel cielo e sulla terra. Ecco il dono della scienza. Diciamo: «Sia fatta la tua volontà» allo stesso modo in cui un malato, rivolgendosi al medico senza una precisa idea [di quale sia il rimedio opportuno], semplicemente si rimette al parere dell'esperto. Volersi imporre a quest'ultimo sarebbe una sciocchezza.

    Così, da Dio non dobbiamo chiedere altro che questo: che - in qualunque situazione ci troviamo implicati ­ abbia il sopravvento il suo volere; che la sua volontà si compia per intero.

    L'animo umano è in regola quando si accorda con la divina volontà. Cristo fece a questo modo: «Io son disceso dal cielo per eseguire non la mia, ma la volontà di chi mi ha inviato» (Gv 6, 38).

    In quanto Dio egli stesso, la sua volontà coincideva con quella del Padre; distinta invece la facoltà volitiva del Verbo da quella dell'uomo Gesù (113). Ed è di quest'ultima, che egli parla allorché afferma che intende conformarsi alla volontà del Padre. Di conseguenza insegna, anche a noi, a pregare: «Sia fatta, o Padre, la tua volontà».

    Leggendo però in un salmo (cf. Sal 134, 6) che il Signore compie tutto ciò che vuole, viene spontaneo chiederci: se ogni cosa, in cielo e sulla terra, si compie conforme a quanto egli ha stabilito, che senso può avere il nostro fiat?

    Bisogna sapere in proposito che Dio desidera, per il bene degli uomini, tre cose; quelle appunto di cui, nel Pater, noi chiediamo il compimento.

 

    I. La vita eterna. Chiunque tenda verso un qualsiasi fine, dispone anche i mezzi adatti a conseguirlo. E così Dio, creando l'uomo, non poteva avviarlo verso il nulla. « È possibile che tu, Signore, abbia creato l'umanità senza uno scopo?» (Sal 88, 48). Ma nostro fine [specifico] non potranno mai essere i piaceri sensibili, che anche i bruti appetiscono; bensì una vita [felice] che non abbia termine. Ecco cosa vuole Dio, per l'uomo: che giunga a godere la vita eterna.

    Quando un essere raggiunge lo scopo al quale era destinato, diciamo che è riuscito a salvarsi (114); mentre all'opposto, di qualunque realtà che non arrivi a buon fine, dobbiamo concludere che sia andata in rovina; la consideriamo perduta. Avendoci Dio creati in ordine alla vita eterna, chiunque di noi che la raggiunga ha conseguito la salvezza. Ed è quanto il Padre desidera, sulla parola di Gesù: «Questa è la volontà del Padre mio che mi ha mandato: che qualunque persona giunga a conoscere il Figlio e accetti di credere in lui, abbia la vita eterna» (Gv 6, 40).

    Tale suo desiderio si è di già realizzato negli angeli e nei santi, in cielo, i quali vedono Dio, lo conoscono e vi trovano la loro beatitudine. Noi, chiedendo che sia fatta la sua volontà, desideriamo che essa ci trovi disponibili ad attuarla, come accade negli spiriti beati.

 

    2. Poi, Dio desidera da noi l'osservanza dei suoi comandamenti. Chi si prefigge un fine, vuole anche i relativi mezzi. Simile al medico che, in ordine alla salute da riacquistare prescrive la dieta, le medicine e altre necessità del caso, Dio chiede che osserviamo i suoi precetti se ci sta a cuore la vita eterna (cf. Mt 19, 17). In un testo paolino, la volontà del Padre è definita «buona, gradevole e perfetta» (Rm 12, 2).

    Volontà buona, ossia tutta indirizzata a nostro vantaggio, come si rileva da diversi passi della Scrittura (115). Volontà accettevole, che ad altri apparirà ripugnante, non però a colui che ama [il Signore]: luce, cioè, per il giusto, letizia per chi possiede un animo retto (cf. Sal 96, 11). Volontà perfettiva, che rendendo perfetto l'uomo, gli conferisce bellezza interiore. «Cercate d'essere perfetti, come perfetto è il Padre vostro celeste» (Mt 5, 48).

    Dicendo: «Sia fatta la tua volontà» chiediamo di saper compiere quanto Dio si attende da noi. I giusti s'ingegnano di farlo, non altrettanto i peccatori; e i primi richiamano alla mente l'idea del cielo, i secondi quella della terra [pesante e oscura] (116). Vogliamo quindi che la volontà di Dio sia realizzata «in terra», ossia dai peccatori, come lo è «nei cieli», grazie al retto agire dei giusti.

    C'è per noi - sotteso alla formula di cui parliamo - un insegnamento. Infatti non dice fai [tu, Padre], e neppure noi [uomini] faremo, ma «sia fatta». Per meritare la vita eterna sono necessarie due cose: grazia di Dio e buon volere da parte dell'uomo. Sebbene abbia saputo crearlo senza che l'uomo [inesistente] vi cooperasse, Dio non ti salverà se non collabori alla tua propria salvezza (117). Esplicita, nelle parole del profeta, la condizione: «Convertitevi a me! ... Così io mi volgerò a voi» (Zc I, 3). E altrettanto chiaro il pensiero dell'apostolo Paolo: «Son quel che sono per misericordia di Dio; e una tale grazia io non l'ho ricevuta invano» (1 Cor 15, 10).

    Perciò non esser presuntuoso, ma fai assegnamento sull'aiuto della grazia; d'altra parte non mostrarti negligente ma sollecito [nel metterla a frutto].

    Non usa, intenzionalmente, la formula faremo, noi [uomini] perché non si pensi che l'azione della grazia sia affatto superflua; e neanche [Padre] fai tu, interamente da te, quasi che la nostra volontà, il nostro sacrificio non conti per nulla.

    «Sia fatta», invece, mette bene in luce la cooperazione tra grazia divina e libero arbitrio nel realizzarsi della volontà del Padre.

 

    3. Dio vuole che l'uomo sia reintegrato in quella dignità in cui fu creato il capostipite del genere umano. Un dominio tale da far sì che lo spirito, l'anima, non subisse violenza alcuna da parte della sensualità (118).

    Finché l'anima si tenne a Dio sottomessa, la carne restò soggetta allo spirito da non sentire la minima corruzione - inizio di morte -, nessuna infermità o passione. Quando invece lo spirito, (medio tra Dio e la carne) insorse peccando contro il Creatore, anche il corpo si ribellò allo spirito: e l'uomo sperimentò malattie, morte, e la continua rivolta dei sensi contro lo spirito (119). «Vedo - ammetteva san Paolo - un'altra legge nelle mie membra che fa guerra alla legge della mia mente» (Rm 7, 23), poiché «la carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito li ha contrari alla carne» (Gal 5, 17). Diuturno conflitto, tra la carne e lo spirito; e l'uomo si logora progressivamente nel peccato.

     Pertanto è volontà di Dio che l'uomo riconquisti lo stato originario, in maniera che nulla, da parte della carne, si opponga alle esigenze dello spirito. «La volontà di Dio è questa: la vostra santificazione» (1 Ts 4, 3).

    Un restauro del genere non può trovare piena realizzazione durante questa vita terrena, bensì con la risurrezione dei santi, quando cioè i corpi glorificati cominceranno a esistere incorruttibili e nobilissimi (cf. 1 Cor 15, 43).

    Tuttavia [fin d'ora] il volere santificante di Dio si attua nei giusti mediante una vita saggia, informata ai dettami della giustizia. Nel Pater così, preghiamo affinché la sua volontà si adempia anche adesso, nella nostra condizione mortale.

    Lo spirito umano è quasi un riflesso del cielo, come la carne richiama il pensiero della terra [da cui trasse origine]. La tua volontà, dunque, Signore, si compia in terra, ossia nel nostro corpo, come in cielo, nello spirito che - come è giusto - a te si sottomette.

    Facendo la volontà del Padre sperimentiamo, in mezzo alle afflizioni, la beatitudine di cui parla Matteo: «Beati gli afflitti, poiché saranno consolati» (Mt 5, 5). Infatti: se davvero desideriamo la vita eterna, l'attesa dovrebbe risultare così pungente da indurci al pianto. Non esclamava il salmista: «Ahimé, perché il mio peregrinare si prolunga tanto?» (Sal 119, 5). Nei santi questo desiderio è tanto intenso da spingerli [talvolta] a bramare quella morte che, di per sé, anch'essi dovrebbero aborrire. «Sapendo che mentre siamo nel corpo, siamo come esiliati e lontani dal Signore... pieni di fiducia vorremmo dipartirci dal corpo e abitare accanto al Signore!» (2 Cor 5, 8).

    Conoscono l'afflizione anche quanti osservano la legge di Dio, nel senso che, cara allo spirito, questa costituisce però una continua macerazione per la carne. Si applica benissimo il versetto del salmo: «Andavano camminando e piangevano - mortificando le passioni dei sensi -; ma tornando, verranno con allegrezza per la gioia che l'anima ne ricava» (Sal 125, 6).

    Infine, un altro motivo di sofferenza deriva dalla lotta continua tra la carne e lo spirito: è impossibile che, nel combattimento, l'anima non rimanga in qualche modo scalfita [per così dire] dal peccato veniale; e tutto ciò si risana nella compunzione. Le parole di Davide: «Ogni notte bagnerò di pianto il mio giaciglio» (Sal 6, 7) sono vere: la «notte» rappresenta l'oscurità prodotta dai peccati e il «giaciglio» corrisponde alla coscienza.

    Chi coltiva questo senso di compunzione giungerà in patria. Che Dio voglia accompagnarci, lassù.

 

 

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

 

    Non di rado si dà il caso di uomini che restano come impacciati [davanti alla realtà concreta], a causa della grande cultura e della sapienza [entro la quale sono immersi]. Affinché non crollino nel confronto con certe difficoltà, è loro necessaria quella forza d'animo che è dono dello Spirito Santo. Il dono precisamente della fortezza, che «dà energie allo stanco, e a quelli che vengono meno accresce resistenza e vigore» (Is 40, 29). Anche il profeta Ezechiele sperimentò «una forza che - egli scrive - mi rimise in piedi» (Ez 2, 2).

    Grazie a quest'altro dono, il cuore dell'uomo non si sgomenta nel timore di non riuscire a procurarsi le tante cose necessarie a noi mortali. Egli riacquisterà fiducia, nel convincimento che quanto è indispensabile gli verrà assicurato dalla provvidenza divina. Lo Spirito Santo perciò ci induce a chiedere, al Padre: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Così c'insegna lo Spirito che rinvigorisce [l'uomo, nel corpo e nell'animo].

    Fin qui abbiamo preso in esame le tre petizioni spirituali che quaggiù vengono soddisfatte parzialmente, mentre troveranno pieno esito nella vita eterna. Chiedendo, difatti, che sia «santificato il nome di Dio, desideriamo che ne venga manifestata a chiunque la santità; quando preghiamo che venga il suo regno, mostriamo di bramare d'essere annoverati tra gli eletti che avranno parte alla vita beata; e allorché desideriamo che sia fatta la volontà divina, ci disponiamo noi stessi a eseguirla. Nobili desideri, ma realizzabili pienamente solo nella vita futura.

    Era giusto perciò che un'orazione perfetta [qual'è questa, rivolta al Padre] considerasse in pari tempo alcune naturali esigenze, appagabili quaggiù per intero. Lo Spirito Santo così ci esorta a chiedere certe cose d'ordine temporale, di cui non possiamo fare a meno. Dio provvederà anche a questo.

    Mediante le parole con cui chiediamo il pane quotidiano il Signore ci ammaestra come evitare i cinque errori più comuni, derivanti dall'appetito delle cose transitorie.

 

    I. Primo eccesso in materia è una voglia smodata di beni temporali, che sorpassa le giuste esigenze della propria condizione sociale. Il soldato sogna di poter indossare la divisa d'ufficiale; il chierico non si contenta della [disadorna] talare e invidia i paludamenti del vescovo. Tale avidità distoglie gli uomini dagl'interessi dello spirito, invischiandoci nella pània dei beni effimeri.

    Il Signore ci aiuta a evitare un simile sbaglio insegnando a chiedere il «pane», che simboleggia i beni sostanziali, necessari alla condizione terrena di chiunque. Non cose delicate, non la loro varietà e ricercatezza, ma semplicemente il pane. L'essenziale per poter sopravvivere, l'unico bene che ci accomuna. «Le prime necessità della vita umana sono l'acqua e il pane» (Sir 29, 28); e scrivendo a Timoteo, san Paolo aggiunge: «Quando abbiamo vitto e vestito, possiamo dirci contenti» (I Tm 6, 8).

 

    2. Altra abitudine riprovevole: pur di accumulare beni temporali, vi son molti che non esitano a toglierli, con la violenza o con la frode, al prossimo. È una maniera d'agire assai pericolosa, dal momento che è poi difficile restituirli (120). Questa colpa - della sottrazione indebita - non può trovare assoluzione se, come insegna Agostino, non si restituisca il maltolto.

    «Dacci - perciò - il pane nostro», non già quello che appartiene ad altri. Chi ruba o commette rapina, non mangia di certo un pane che possa dirsi suo, avendo lo sottratto al prossimo.

 

    3. Altro errore sta nell'avere il culto del superfluo: c'è infatti chi non è mai contento di ciò che possiede e vorrebbe avere sempre di più. Questa sollecitudine è eccessiva, dato che i desideri vanno commisurati alle necessità. Un savio dice al Signore: «Non concedermi grandi fortune e scampami [nel medesimo tempo] dalla mendicità: dammi quel che è necessario per vivere» (Prv 30, 8). Pane «quotidiano» è quello del giorno corrente, quello proporzionato ai bisogni dell'oggi.

 

    4. L'immoderata voracità spinge altri a consumare in un giorno ciò che potrebbe bastare a lungo: neppure costoro cercano il pane quotidiano ma quello di... dieci giorni consecutivi (121). Con delle spese pazze, sciupano i patrimoni. «Chi passa la vita a sbevazzare e organizzando banchetti finirà in rovina» (Prv 23, 21); «Un operaio ubriacone non diverrà mai ricco» (Qo 19, 1).

 

    5. L'ingratitudine, infine. Quando qualcuno si sente importante per via delle ricchezze che possiede e non riconosce di averle ricevute da Dio in usufrutto, fa qualcosa di assai scorretto. Ciò che possiamo avere - materiale o spirituale che sia - è tutta roba che appartiene al Signore (cf. I Cr 29, 14). Giustamente ci fa ripetere «dacci» e «il pane nostro», affinché ci ricordiamo che tutto il «nostro» è, in ultima analisi, suo.

    Del resto è un fatto sperimentabile, appena vediamo qualcuno che, proprietario di grandi ricchezze, non ricava da esse un vero vantaggio ma solo danni e spirituali e materiali. Più d'uno è morto proprio per colpa delle sue fortune. Documenta una simile verità la lunga esperienza del Qoèlet. «C'è un altro guaio che ho riscontrato sotto il sole, ed è frequente tra gli uomini. A un tale, Dio ha permesso ricchezze e sostanze e onori; nulla gli manca di tutto ciò che il suo cuore desidera. Ma Dio non gli permette di goderne, per cui un estraneo gli divora ogni cosa, Una delusione, una vera disdetta» (Qo 6, 1-2). E a questo mondo non di rado accade che i beni, gelosamente custoditi dal padrone, d'un tratto si sciupano [impiegati in un cattivo affare].

    Dobbiamo chiedere perciò [la grazia] che il benessere, se capita, concorra al nostro [spirituale o comunque onesto] profitto. Favorisce tale disposizione d'animo il ripetere: «Dacci [oggi] il nostro pane [quotidiano]», nel senso di: rendi giovevoli i beni di cui potrò disporre. Che non debba dirsi anche di noi quanto ha scritto Giobbe, dell'empio infelice: «Egli vomiterà le ricchezze che ha divorato... Porterà le conseguenze del male che ha fatto... in proporzione alla totalità dei suoi [disonesti] guadagni egli dovrà soffrire. Perché egli oppresse e spogliò i poveri, e rapì la casa che non aveva edificato. E il suo ventre non ne fu sazio; e quando avesse tutto quello che bramava, non potrà tenerlo» (Gb 20, 15; 18-20).

    Non sarà inutile tornare sul difetto della sollecitudine eccessiva (122). C'è di quelli che si preoccupano, oggi, di affanni che saranno reali soltanto di qui a un anno. Vivono nell'inquietudine. Ma Gesù ci ricorda: «Non state a preoccuparvi, dicendo: 'Cosa mangeremo?', oppure: 'Avremo da bere?' o 'Di che ci vestiremo?'» (Mt 6, 31). Egli vuole cioè che si chieda, oggi, il pane dell'oggi, quello che fa bisogno al presente.

    Ma vi sono altre due specie di pane, oltre a quello [puramente] materiale: l'eucaristia e la parola di Dio. «Io sono il pane venuto dal cielo» (Gv 6, 51).

    Chiediamo dunque questo pane sacramentale, che ogni giorno è approntato sugli altari, e riceviamolo debitamente, come esige un bene [sacro] ordinato alla salute dello spirito. Diversamente «chi ne mangia... senza discernere [dal pane comune] il corpo del Signore, mangia... la sua propria condanna» (I Cor 11, 29).

    L'altro pane [di cui ha fame il nostro spirito] è la parola di Dio. «L'uomo non vive di solo pane, ma d'ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4, 4). Nel «Padre nostro» chiediamo che ci venga somministrato anch'esso.

    Ne deriverà la beatitudine che risponde alla fame di [un'esistenza ispirata alla] giustizia. «Beati gli affamati e gli assetati di giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5, 6). I beni spirituali infatti più si hanno e più sono bramati: una fame che è nobile desiderio, cui seguirà il più completo appagamento nella vita eterna.

 

 

   E rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori

 

    Vi sono uomini di una viva intelligenza e intrepidi ma eccessivamente sicuri di sé, sicché finiscono per comportarsi in maniera non saggia e non sempre conducono in porto le loro imprese. «I progetti traggono nuovo slancio dai [saggi] consigli» (Prv 20, 18). Ebbene, lo Spirito Santo ci dà, oltre che il dono della fortezza, anche quello del consiglio. Ogni savia determinazione, profittevole all'umana salvezza, proviene da lui. Ne abbiamo bisogno, specie in mezzo alle miserie [dello spirito], come del consulto medico quando cadiamo infermi. Spiritualmente malati a causa del peccato, abbiamo necessità di conoscere come poter riacquistare [e serbare] la buona salute [dell'anima]. [Ecco il consiglio del profeta Daniele al re Nabucodonosor:] «Cancella i tuoi peccati con l'elemosina» (Dn 4, 24).

    In effetti, sono ottimi - tra gli altri rimedi - l'elemosina e le diverse opere di misericordia. Lo Spirito Santo suggerisce ai peccatori di pregare così: «Rimetti a noi i nostri debiti».

    A Dio va restituito ciò che, dei suoi diritti, possiamo avere illegalmente sottratto. E diritto fondamentale del Signore è che si adempia, piuttosto che il nostro, il suo volere. Noi facciamo l'opposto ogni volta che preferiamo agire discordi dalla sua legge. Questo è il peccato, e «nostri debiti» sono precisamente le nostre colpe. Chiedere che ci vengano condonati i debiti è, appunto, chieder perdono d'aver peccato.

    A questo punto faremo alcune considerazioni, indagando sul motivo della petizione in esame, in quale modo essa trovi esaudimento, e a quali condizioni.

 

    I. Bisogna sapere che risultano utilissime all'uomo viatore le virtù del timor di Dio, dell'umiltà [e della speranza] (123).

    Non è mancato chi sostenesse che l'uomo può vivere, nella sua condizione di creatura decaduta, evitando il peccato senza l'appoggio della grazia. Ma questo si è verificato esclusivamente nel Cristo, il quale ebbe in sé lo Spirito [connaturale al Verbo] (124), e nella Vergine Maria - la piena di grazia - immune dalla minima colpa. Usava dire sant'Agostino che in materia di peccato egli non ammetteva neppure che si facesse il nome di Maria.

    Un simile privilegio, di evitare perfino i peccati veniali, non fu concesso neanche ai più grandi tra i santi. Lo stesso Giovanni [il discepolo prediletto da Cristo] confessava umilmente: «Se dicessimo - me compreso - d'essere immuni da colpa, inganniamo noi stessi; non parliamo secondo verità» (I Gv I, 8).

    La petizione di cui trattiamo ne è una riprova. Tutti, si sa, non esclusi gli uomini di santa vita, ripetono la preghiera del Pater, con il suo «rimetti a noi i nostri debiti». Dunque, ognuno si riconosce fallibile, debitore almeno nei riguardi di Dio. E allora, se sai d'essere tale, devi temere la divina giustizia.

    Eppoi [occorre] vivere nella speranza. È vero, siamo peccatori, ma non dobbiamo lasciarci abbattere da questa verità, col rischio di abbandonarci poi ad altre e forse più gravi colpe. È quanto [descrivendo le miserevoli condizioni dei pagani] scrive san Paolo: «Privi di speranza (125), si sono abbandonati all'impudicizia, facendo a gara ogni sorta di azioni infami» (Ef 4, 19).

    Quindi è assai utile non rinunciare mai a nutrire fiducia che Dio, vedendo contrito il peccatore e sinceramente disposto alla conversione, gli conceda il perdono. La speranza si ravviva con le parole: «rimetti a noi i nostri debiti».

    Mortificarono tale speranza i novaziani (126), insegnando che le colpe commesse dopo il battesimo erano destinate a restare senza condono. È falso, in quanto la loro dottrina contrasta con le parole di Gesù [verità per essenza, nella parabola dei servi debitori]: «Io ti ho condonato il debito per intero» (Mt 18, 32).

    Qualunque sia il tuo peccato, se sarai sinceramente pentito, troverai misericordia da parte di Dio (127). Timore, quindi, e speranza; contriti e fidenti, tutti gli uomini saranno accolti dalla misericordia divina.

    Non poteva mancare nella preghiera del Signore questo invito a sperare.

 

    2. Nel peccato vi sono due componenti: la colpa, come offesa di Dio, e la pena che ne deriva. Ora, la colpa è perdonata per effetto della contrizione dell'uomo che stabilisca di confessarsi nonché di riparare debitamente. Davide propose, tra sé: «Riconoscerò la mia iniquità, senza aver riguardo a me stesso» (Sal 31, 5), e il Signore gli accordò il perdono.

     Nessun motivo, quindi, di lasciarsi prender dallo sconforto, sapendo che per la remissione della colpa bastano un dolore perfetto [unito al proponimento di non ricadere] (128), e l'intenzione ferma di ricorrere quanto prima al sacramento della penitenza.

    Qualcuno potrà obiettare: «Ma se la contrizione è tanto essenziale da ottenerci il perdono, allora a che serve il confessore?».

    Rispondiamo che Dio, apprezzando il pentimento di chi lo aveva offeso, gli perdona la colpa, commutando del pari la pena eterna in un'altra, temporanea. Ed a quest'ultima, da soddisfare, che resta obbligato il peccatore [assolto]. Se egli morisse prima d'aver potuto far ricorso al sacramento della penitenza (purché non vi sia disprezzo della medesima, ma solo un'imprevista mancanza di tempo), la sua anima andrebbe in purgatorio. Le cui pene, avverte sant'Agostino, son tutt'altro che trascurabili.

    Allorché invece ti confessi, in virtù del potere delle chiavi (129) il sacerdote ti assolve dalla [residua] pena. Ha detto agli apostoli il Signore: «Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti» (Gv 20, 22-23). Di conseguenza, confessandoci, la pena ci vien rimessa un po' ogni volta; e potrebbe darsi che essa risulti estinta per intero, nel corso di susseguenti confessioni (130).

    I successori degli apostoli hanno ideato altri modi ancora per facilitare l'estinzione della pena [temporale]: il beneficio [ad esempio] delle indulgenze che, per un'anima già rientrata nel rapporto di grazia, hanno quel determinato valore indicato caso per caso, e nella misura in cui saranno adempite le relative condizioni.

    Che ciò rientri nelle facoltà pontificie è abbastanza chiaro. Di molti santi sappiamo che vissero evitando la colpa grave e - compiendo anzi opere altamente meritorie. Il profitto eccedente torna in favore del corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa, assommandosi ai meriti del Cristo e della beata Vergine, in un unico tesoro [di grazie]. Quindi il sommo Pontefice, e quelli a cui egli conceda la facoltà, possono distribuire i suddetti meriti secondo i nostri bisogni.

    Resta così appurato che i peccati trovano remissione non solo quanto alla colpa, bensì riguardo alla pena: mediante il sacramento della penitenza e le indulgenze.

 

    3. Noi, da parte nostra, dobbiamo perdonare al prossimo le offese che ci avesse fatto. S'arricchisce il significato del «rimetti a noi i nostri debiti». Diversamente Dio non condonerebbe i nostri. «Un uomo serba rancore verso un proprio simile e chiede a Dio che lo guarisca [nell'anima]?» (Sir 28, 3). «Perdonate - piuttosto -, e sarete perdonati» (Lc 6, 37). A questa sola domanda del Pater è posta accanto una condizione: chiedendo d'essere assolti dalle nostre mancanze come noi [cioè se noi] perdoneremo al prossimo, condizioniamo da noi medesimi l'esaudimento che ci sta a cuore.

    Potresti tentare, forse, una scappatoia. Pensare cioè: «Dirò [al Padre]: 'Rimetti i nostri debiti', evitando però di pronunziare la frase successiva».

    E tu credi di riuscire a ingannare il Cristo? Stai tranquillo che non ti riuscirà. Egli sa a mente la preghiera che ha composto per noi... E allora, se la dici, dilla [per intero], col cuore e coi propositi più concreti.

    Altra questione. Ammesso che taluno decida nel suo intimo di negare il perdono a un altro, deve, costui, o no, aggiungere: «Come noi li rimettiamo ai nostri debitori?» Sembrerebbe meglio di no, altrimenti dirà una menzogna.

    Ma il suo è uno scrupolo fuori luogo, dato che [pur astenendosi dall'aderirvi personalmente] egli continua la preghiera [del «Padre nostro»] quale membro della Chiesa, che non sarà delusa [nei suoi desideri]. Vi era una buona ragione, dunque, per esprimere anche questa petizione al plurale.

    Infine, va tenuto presente che il perdono si può concedere in due maniere: quella preferita dai migliori che, divenendo oggetto d'offesa, cercano di promuovere essi stessi la riconciliazione con l'offensore, seguendo il suggerimento: «Cerca la pace e restale assiduamente vicino» (Sal 33, 15). L'altro modo, più comune impone l'obbligo a ciascuno di noi di non negare il 

perdono a chiunque lo chieda. «Perdona al tuo prossimo che ti ha fatto un torto: e allorché pregherai, ti saranno rimessi i peccati» (Sir 28, 2).

    Ne proviene la beatitudine della misericordia: «Beati i misericordiosi» (Mt 5, 7). Troveremo misericordia, in cambio della misericordia [che] ci dispone ad aver pietà delle altrui miserie e debolezze.

 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)