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Ma non è qui tutto il filosofare, o, a meglio dire, il delirare di costoro. Imperocché in siffatto sentimento essi non riscontrano solamente la fede: ma colla fede e nella fede stessa quale da loro è intesa, sostengono che vi si trovi altresì la Rivelazione. E che infatti può pretendersi di vantaggio per una rivelazione? O non è forse rivelazione, o almeno principio di rivelazione, quel sentimento religioso che si manifesta d'un tratto nella coscienza? Non è rivelazione l'apparire, benché in confuso, che Dio fa agli animi in quello stesso sentimento religioso? Aggiungono anzi di più che, essendo Iddio in pari tempo e l'oggetto e la causa della fede, la detta rivelazione è al tempo stesso di Dio e da Dio: ha cioè insieme Iddio e come rivelante e come rivelato. Di qui, Venerabili Fratelli, quell'assurdissimo effato dei modernisti che ogni religione, secondo il vario aspetto sotto cui si riguardi, debba dirsi egualmente naturale e soprannaturale. Di qui lo scambiar che fanno, come di pari significato, coscienza e rivelazione. Di qui la legge, per cui la coscienza religiosa si dà come regola universale, da porsi in tutto a pari della rivelazione, ed alla quale tutti hanno obbligo di sottostare, non esclusa la stessa autorità suprema della Chiesa, sia che ella insegni, sia che legiferi in materia di culto o di disciplina.

Se non che in tutto questo procedimento dal quale, a detta dei modernisti, saltan fuori la fede e la rivelazione, egli è mestieri tener d'occhio un punto, che è di capitale importanza per le conseguenze storico critiche, che essi ne derivano. Quell'inconoscibile, di cui parlano, non si presenta già alla fede come nudo in sé ed isolato; ma si bene congiunto strettamente a un qualche fenomeno, che, quantunque appartenga al campo della scienza e della storia, pure in certa guisa ne trapassa i confini. Tal fenomeno potrà essere un fatto qualsiasi della natura, che in sé racchiude alcun che di misterioso: potrà essere altresì un uomo, il cui carattere, i cui gesti, le cui parole mal si compongano colle leggi ordinarie della storia. Or bene la fede, attirata dall'inconoscibile racchiuso nel fenomeno, s'impadronisce di tutto intero il fenomeno stesso e lo penetra in certo qual modo della sua vita. Da ciò due cose conseguitano. La prima, una tal trasfigurazione del fenomeno, per una, diremmo, quasi elevazione sulle condizioni sue proprie, che lo renda acconcio, come materia, alla forma del divino che la fede v'introdurrà. La seconda, un certo sfiguramento, nato da ciò che avendo la fede tolto il fenomeno ai suoi aggiunti di tempo e di luogo, facilmente gli attribuisce quello che nella realtà delle cose non ha di fatto: il che soprattutto avviene quando si tratti di fenomeni di antica data, e tanto più se sono remoti. Da questi due capi i modernisti traggono per loro due canoni; i quali, uniti a un terzo già dedotto dall'agnosticismo, formano quasi la base della critica storica. Illustriamo il fatto con un esempio, preso dalla persona dl Gesù Cristo. Nella persona di Cristo, dicono, la scienza e la storia non trovan nulla al di là dell'uomo. Dunque, in vigore del primo canone dato dall'agnosticismo, dalla storia dl essa deve cancellarsi tutto quanto sa di divino. Più oltre, in conformità del. secondo canone, la persona di Cristo è stata trasfigurata dalla fede: dunque fa d'uopo spogliarla di tutto ciò che la innalza sopra le condizioni storiche. Per ultimo, la stessa è stata sfigurata dalla fede, secondo insegna il terzo canone: dunque non da rimuoversi da lei i discorsi, i fatti, tutto quello insomma che non risponde al suo carattere, alla sua condizione ed educazione, al luogo ed al tempo in cui visse. Strano per fermo parrà a noi questo modo di ragionare; ma qui sta la critica dei modernisti.

Adunque il sentimento religioso, che per vitale immanenza si sprigiona dai nascondigli della subcoscienza, è il germe di tutta la religione, ed è insieme la ragione di quanto fu o sarà per essere in qualsivoglia religione. Rude dapprima e quasi informe, a poco a poco, sotto l'influsso del misterioso principio che gli diede origine, esso e venuto perfezionandosi, a seconda dei progressi della vita umana. di cui, come si disse, e una forma. Ecco pertanto la nascita di qualsiasi religione, sia pure soprannaturale: esse altro non sono che semplici esplicazioni dell'anzidetto sentimento. Né credasi già che diversa sia la sorte della religione cattolica; anzi in tutto pari alle altre: imperocché non altrimenti essa è nata, che per processo di vitale immanenza nella coscienza di Cristo, uomo di elettissima natura, quale mai altro simile si vide né mai si troverà. Nell'udir tali cose Noi trasecoliamo di fronte ad affermazioni cotanto audaci e sacrileghe! Eppure, Venerabili Fratelli, non sono esse un parlar temerario solamente d'increduli. Sono uomini cattolici, sono anzi sacerdoti non pochi che così la discorrono pubblicamente; e con siffatti delirii si dànno vanto di riformare la Chiesa! Qui, non trattasi più del vecchio errore, che alla natura umana concedeva quasi un diritto all'ordine soprannaturale. Si va assai più lungi; sino cioè ad afferrare che la religione nostra santissima, nell'uomo Cristo del pari che in noi, è frutto interamente spontaneo della natura. Del quale asserto non sappiamo qual sia mezzo più acconcio per sopprimere ogni ordine soprannaturale. Perciò con somma ragione il Concilio Vaticano pronunziò: "Se alcuno dirà, non poter l'uomo essere elevato da Dio a una conoscenza e perfezione che superi la natura, ma potere e dovere di per sé stesso, con un perpetuo progresso, giungere finalmente al possesso di ogni vero e di ogni bene, sia anatema" (De Revel., can. III).

Fin qui però, o Venerabili Fratelli, non abbiam visto farsi punto luogo all'azione dell'intelletto. Eppure, secondo le dottrine dei modernisti, ha essa ancora la sua parte nell'atto di fede. E giova osservare in che modo. In quel sentimento, dicono, di cui sovente si è parlato, appunto perché egli è sentimento e non cognizione, Dio si presenta bensì all'uomo, ma in maniera così confusa che nulla o a malapena si distingue dal soggetto credente. Fa dunque d'uopo che sopra quel sentimento si getti un qualche raggio di luce, sì che Dio ne venga fuori per intero e pongasi in contrapposto col soggetto. Ora, è questo il compito dell'intelletto; di cui è proprio il pensare ed analizzare, e per mezzo del quale l'uomo prima traduce in rappresentazioni mentali i fenomeni di vita che sorgono in lui, e poi li significa con verbali espressioni. Di qui il detto volgare dei modernisti, che l'uomo religioso deve pensare la sua fede. L'intelletto adunque, sopravvenendo al sentimento, su di esso si ripiega e vi fa intorno un lavorio somigliante a quello di un pittore che illumina e ravviva il disegno di un quadro svanito per la vecchiaia. Il paragone è di uno dei maestri del modernismo. Doppio poi è l'operar della mente in siffatto negozio; dapprima, con un atto nativo e spontaneo, esprimendo la sua nozione con una proposizione semplice e volgare; indi, con riflessione e più intima penetrazione, o, come dicano, lavorando il suo pensiero, rende ciò che ha pensato con proposizioni secondarie, derivate bensì dalla prima, ma più affinate e distinte. Le quali proposizioni, ove poi ottengano la sanzione del magistero supremo della Chiesa, costituiranno appunto il dogma.

Con ciò, nella dottrina dei modernisti, ci troviamo giunti ad uno dei capi di maggior rilievo, all'origine cioè e alla natura stessa del dogma. Imperocché l'origine del dogma la ripongon essi in quelle primitive formole semplici; le quali, sotto un certo aspetto, devono ritenersi come essenziali alla fede, giacché la rivelazione, perché sia veramente tale, richiede la chiara apparizione di Dio nella coscienza. Il dogma stesso poi, secondo che paiono dire, è costituito propriamente dalle formole secondarie. A conoscere però bene la natura del dogma, è uopo ricercare anzi qual relazione passi fra le formole religiose ed il sentimento religioso. Nel che non troverà punto difficoltà, chi tenga fermo, che il fine di cotali formole altro non è, se non di dar modo al credente di rendersi ragione della propria fede. Per la qual cosa stanno esse formole come di mezzo fra il credente e la fede di lui; per rapporto alla fede, sono espressioni inadeguate del suo oggetto e sono dai modernisti chiamate simboli; per rapporto al credente, si riducono a meri istrumenti. Non è lecito pertanto in niun modo sostenere che esse esprimano una verità assoluta: essendoché, come simboli, sono semplici immagini di verità, e perciò da doversi adattare al sentimento religioso in ordine all'uomo; come istrumenti, sono veicoli di verità, e perciò da acconciarsi a lor volta all'uomo in ordine al sentimento religioso. E poiché questo sentimento, siccome quello che ha per obbietto l'assoluto, porge infiniti aspetti, dei quali oggi l'uno domani l'altro può apparire; e similmente colui che crede può passare per altre ed altre condizioni, ne segue che le formole altresì che noi chiamiamo dogmi devono sottostare ad uguali vicende ed essere perciò variabili. Così si ha aperto il varco alla intima evoluzione dei dogmi. Infinito cumulo di sofismi che abbatte e distrugge ogni religione!

E questa, non pur possibile, ma necessaria evoluzione e mutazione dei dogmi non solo i modernisti l'affermano arditamente ma è conseguenza legittima delle loro sentenze. Infatti fra i capisaldi della loro dottrina vi è ancor questo, tratto dal principio dell'immanenza vitale: che le formole cioè religiose, perché tali siano in verità e non mere speculazioni dell'intelletto, è mestieri che sieno vitali e che vivano della stessa vita del sentimento religioso. Il che non è da intendersi quasiché tali formole, specie se puramente immaginative, sieno costruite a bella posta pel sentimento religioso; giacché poco monta della loro origine, come altresì del loro numero e della loro qualità; ma cosi, che le stesse, fatte se occorre all'uopo delle modificazioni, vengano vitalmente assimilate dal sentimento religioso. E per dirla in altri termini, fa di mestieri che la formola primitiva sia accettata e sancita dal cuore, e che il susseguente lavorio per la formazione delle formole secondarie sia fatto sotto la direzione del cuore. Di qui procede che siffatte formole, perché sieno vitali, devono essere e mantenersi adatte tanto alla fede quanto al credente. Laonde, se per una ragione qualsiasi cotale adattamento venga meno, perdono elle il primitiva significato e vogliono essere cambiate. Or tale essendo il valore e la sorte mutevole delle formole dogmatiche, non reca stupore che i modernisti le abbiano tanto in dileggio; mentre al contrario non fanno che ricordare ed esaltare il sentimento religioso e la vita religiosa. Perciò pure criticano con somma audacia la Chiesa, accusandola di camminare fuor di strada, né saper distinguere fra il senso materiale delle formole e il loro significato religioso e morale, e attaccandosi con ostinazione, ma vanamente, a formole vuote di senso, lasciar che la religione precipiti a rovina. Oh! Veramente ciechi e conduttori di ciechi, che, gonfi del superbo nome di scienza, vaneggiano fino al segno di pervertire l'eterno concetto di verità e il genuino sentimento religioso: "spacciando un nuovo sistema, col quale, tratti da una sfrontata e sfrenata smania di novità, non cercano la verità ove certamente si trova; e disprezzate le sante ed apostoliche tradizioni, si attaccano a dottrine vuote, futili, incerte, riprovate dalla Chiesa, e con esse, uomini stoltissimi, si credono di puntellare e sostenere la stessa verità" (Gregorio XVI, Lett. Enc."Singulari Nos", 25 giugno 1834).

E fin qua, o Venerabili Fratelli, del modernista considerato come filosofo. Or, se facendoci oltre a considerarlo nella sua qualità di credente, vogliam conoscere in che modo, nel modernismo, il credente si differenzi dal filosofo, convien osservare che quantunque il filosofo riconosca per oggetto della fede la realtà divina, pure questa realtà non altrove l'incontra che nell'animo del credente, come oggetto di sentimento e di affermazione: che esista poi essa o no in sé medesima fuori di quel sentimento e di quell'affermazione, a lui punto non cale. Per contrario il credente ha come certo ed indubitato che la realtà divina esiste di fatto in se stessa, né punto dipende da chi crede. Che se poi cerchiamo, qual fondamento abbia cotale asserzione del credente, i modernisti rispondono: l'esperienza individuale. Ma nel dir ciò, se costoro si dilungano dai razionalisti, cadono nell'opinione dei protestante dei pseudomistici. Così infatti essi discorrono. Nel sentimento religioso, si deve riconoscere quasi una certa intuizione del cuore; la quale mette l'uomo in contatto immediato colla realtà stessa di Dio, e tale gl'infonde una persuasione dell'esistenza di Lui e della Sua azione sì dentro, sì fuori dell'uomo, da sorpassar di gran lunga ogni convincimento scientifico. Asseriscono pertanto una vera esperienza, e tale da vincere qualsivoglia esperienza razionale; la quale se da taluno, come dai razionalisti, e negata, ciò dicono intervenire perché non vogliono porsi costoro nelle morali condizioni, che son richieste per ottenerla. Or questa esperienza, poi che l'abbia alcuno conseguita, è quella che lo costituisce propriamente e veramente credente. Quanto siamo qui lontani dagli insegnamenti cattolici! Simili vaneggiamenti li abbiamo già uditi condannare dal Concilio Vaticano. Vedremo più oltre come, con siffatte teorie, congiunte agli altri errori già mentovati, si spalanchi la via all'ateismo. Qui giova subito notare che, posta questa dottrina dell'esperienza unitamente all'altra del simbolismo, ogni religione, sia pure quella degl'idolatri, deve ritenersi siccome vera. Perché infatti non sarà possibile che tali esperienze s'incontrino in ogni religione? E che si siano di fatto incontrate non pochi lo pretendono. E con qual diritto modernisti negheranno la verità ad una esperienza affermata da un islamita? con qual diritto rivendicheranno esperienze vere pei soli cattolici? Ed infatti i modernisti non negano, concedono anzi, altri velatamente altri apertissimamente, che tutte le religioni son vere. E che non possano sentire altrimenti, è cosa manifesta. Imperocché per qual capo, secondo i loro placiti, potrebbe mai ad una religione, qual che si voglia, attribuirsi la falsità? Senza dubbio per uno di questi due: o per la falsità del sentimento religioso, o per la falsità della formola pronunziata dalla mente. Ora il sentimento religioso, benché possa essere più o meno perfetto, è sempre uno: la formola poi intellettuale, perché sia vera, basta che risponda al sentimento religioso ed al credente, checché ne sia della forza d'ingegno in costui. Tutt'al più, nel conflitto fra diverse religioni, i modernisti potranno sostenere che la cattolica ha più di verità perché più vivente, e merita con più ragione il titolo di cristiana, perché risponde più pienamente alle origini del cristianesimo. Che dalle premesse date scaturiscano siffatte conseguenze, non può per fermo sembrare assurdo. Assurdissimo è invece che cattolici e sacerdoti, i quali, come preferiamo credere, aborrono da tali enormità, si portino in fatto quasi le ammettessero. Giacché tali sono le lodi che tributano ai maestri di siffatti errori, tali gli onori che rendono loro pubblicamente, da dar agevolmente a supporre che essi non onorano già le persone, forse non prive di un qualche merito, ma piuttosto gli errori che quelle professano apertamente e cercano a tutt'uomo propagare.

Ma, oltre al detto, questa dottrina dell'esperienza è per un altro verso contrarissima alla cattolica verità. Imperocché viene essa estesa ed applicata alla tradizione quale finora fu intesa dalla Chiesa, e la distrugge. Ed infatti dai modernisti è la tradizione così concepita che sia una comunicazione dell'esperienza originale fatta agli altri, mercè la predicazione, per mezzo della formola intellettuale. A questa formola perciò, oltre al valore rappresentativo, attribuiscono una tal quale efficacia di suggestione, che si esplica tanto in colui che crede, per risvegliare il sentimento religioso a caso intorpidito e rinnovar l'esperienza già avuta una volta, quanto in coloro che ancor non credono, per suscitare in essi la prima volta il sentimento religioso e produrvi l'esperienza. Di questa guisa l'esperienza religiosa si viene a propagare fra i popoli; né solo nei presenti per via della predicazione, ma anche fra i venturi sì per mezzo dei libri e sì per la trasmissione orale dagli uni agli altri. Avviene poi che una simile comunicazione dell'esperienza si abbarbichi talora e viva, talora isterilisca subito e muoia. Il vivere è pei modernisti prova di verità; giacché verità e vita sono per essi una medesima cosa. Dal che è dato inferir di nuovo, che tutte le religioni, quante mai ne esistono, sono egualmente vere, poiché se nol fossero non vivrebbero. E tutto questo si spaccia per dare un concetto più elevato e più ampio della religione!

Condotte fin qui le cose, o Venerabili Fratelli, abbiamo abbastanza in mano per conoscere qual ordine stabiliscano i modernisti fra la fede e la scienza; con qual nome di scienza intendono essi ancor la storia. E in primo luogo si deve tenere che l'oggetto dell'una è affatto estraneo all'oggetto dell'altra e da questo separato. Imperocché la fede si occupa unicamente di cosa, che la scienza professa essere a sé inconoscibile. Quindi diverso il campo ad entrambe assegnato: la scienza è tutta nella realtà dei fenomeni, ove non entra affatto la fede: questa al contrario si occupa della realtà divina che alla scienza è del tutto sconosciuta. Dal che si viene a conchiudere che tra la fede e la scienza non vi può essere mai dissidio: giacché, se ciascuna tiene il suo campo, non potranno mai incontrarsi, né perciò contraddirsi. Che se a ciò si opponga, nel mondo visibile esservi cose che pure appartengono alla fede, come la vita umana di Cristo; i modernisti rispondono negando. Perché quantunque tali cose sieno nel novero dei fenomeni, pure, in quanto sono vissute dalla fede e, nel modo già indicato, sono state da essa trasfigurate e sfigurate, furono tolte dal mondo sensibile e trasferite ad essere materia del divino. Quindi, qualora più oltre si ricercasse se Cristo abbia fatto veri miracoli e vere profezie, severamente sia risorto ed asceso al Cielo; la scienza agnostica lo negherà, la fede lo affermerà; né perciò vi sarà lotta fra le due. Imperocché lo negherà il filosofo qual filosofo parlando a filosofie considerando unicamente Cristo nella sua realtà storica; l'affermerà il credente come credente parlando a credenti e considerando la vita di Cristo quale è vissuta dalla fede e nella fede.

S'ingannerebbe però a partito chi, date queste teorie, si credesse autorizzato a credere, essere la fede e la scienza indipendenti l'una dall'altra. Sì, della scienza ciò è fuori di dubbio; ma è ben altro della fede; la quale, non per uno ma per tre capi, deve andar soggetta alla scienza. Imperocché da riflettersi in primo luogo che in ogni fatto religioso, toltane la realtà divina e l'esperienza che di essa ha chi crede, tutto il rimanente ed in specialità le formole religiose, non escono dal campo dei fenomeni: e cadono quindi sotto il dominio della scienza. Esca pure il credente dal mondo, se gli vien fatto; finché però resterà nel mondo, non potrà mai sottrarsi, lo voglia o no, alle leggi, all'osservazione, ai giudizi della scienza e della storia. Di più, benché sia detto che Dio è oggetto della sola fede, ciò nondimeno deve solo intendersi della realtà divina, non già della idea di Dio. L'idea di Dio è pur essa sottoposta alla scienza; la quale, mentre spazia nell'ordine logico, si solleva fino all'assoluto ed all'ideale. È dunque diritto della filosofia o della scienza sindacare l'idea di Dio, dirigerla nella sua evoluzione, correggerla qualora vi si immischi qualche elemento estraneo: quindi il ripetere che fanno i modernisti che l'evoluzione religiosa deve essere coordinata colla evoluzione morale ed intellettuale; ossia, come insegna uno dei loro maestri, deve essere subordinata. Per ultimo è pur da osservare che l'uomo non soffre in sé dualismo: per la qual cosa il credente prova in se stesso un intimo bisogno di armonizzare siffattamente la fede colla scienza che non si opponga al concetto generale che scientificamente si ha dell'universo. Così dunque si evince essere la scienza affatto libera dalla libera fede; la fede invece, tuttoché si decanti estranea alla scienza, essere a questa sottoposta. Le quali cose tutte, Venerabili Fratelli, sono diametralmente contrarie a ciò che insegnava il Nostro Antecessore Pio IX: "Essere dovere della filosofia, in materia di religione, non dominare ma servire, non prescrivere ciò che si debba credere, ma abbracciarlo con ragionevole ossequio, né scrutar l'altezza dei misteri di Dio, ma piamente ed umilmente venerarla" (Breve al Vescovo di Breslavia, 15 giugno 1857). I modernisti invertono del tutto le parti. Ond'è che ad essi può applicarsi ciò che l'altro Nostro Predecessore Gregorio IX scriveva di taluni teologi del suo tempo: "Alcuni fra voi, gonfi come otri dello spirito di vanità, si sforzano con novità profana di valicare i termini segnati dai Padri; piegando alla dottrina filosofica dei razionali l'intelligenza delle pagine Celesti, non per profitto degli uditori ma per far pompa di scienza... Questi sedotti da dottrine diverse e peregrine, tramutano in coda il capo e costringono la regina a servire all'ancella" (Lettera ai maestri di Teologia di Parigi, 7 luglio 1223).

Il che parrà più manifesto dalla condotta stessa dei modernisti, interamente conforme a quel che insegnano. Negli scritti e nei discorsi sembrano essi non rare volte sostenere ora una dottrina ora un'altra, talché si è facilmente indotti a giudicarli vaghi ed incerti. Ma tutto ciò è fatto avvisatamente; per l'opinione cioè che sostengono della mutua separazione della fede e della scienza. Quindi avviene che nei loro libri si incontrano cose che ben direbbe un cattolico; ma, al voltar della pagina, si trovano altre che si stimerebbero dettate da un razionalista. Di qui, scrivendo storia, non fanno pur menzione della divinità di Cristo; predicando invece nelle chiese, l'affermano con risolutezza. Di qui parimente, nella storia non fanno nessun conto né di Padri né di Concilî; ma se catechizzano il popolo, li citano con rispetto. Di qui, distinguono l'esegesi teologica e pastorale dall'esegesi scientifica e storica. Similmente dal principio che la scienza non ha dipendenza alcuna dalla fede, quando trattano di filosofia, di storia, di critica, non avendo orrore di premere le orme di Lutero (Prop. 29, condannata da Leone X, Bolla. "Exsurge Domine", 15 maggio 1520: "Ci si è aperta la strada per isnervare l'autorità dei Concilî e contraddire liberamente alle loro deliberazioni, e giudicare i lor decreti e confessare arditamente tutto ciò che ci sembra vero, sia approvato o condannato da qualunque Concilio"), fanno pompa di un certo disprezzo delle dottrine cattoliche, dei santi Padri, dei sinodi ecumenici, del magistero ecclesiastico: e se vengono di ciò ripresi, gridano alla manomissione della libertà. Da ultimo, posto l'aforisma che la fede deve soggettarsi alla scienza, criticano di continuo e all'aperto la Chiesa, perché con somma ostinatezza rifiuta di sottoporre ed accomodare i suoi dogmi alle opinioni della filosofia: ed essi, da parte loro, messa fra i ciarpami la vecchia teologia, si adoperano di porne in voga una nuova, tutta ligia ai deliramenti dei filosofi.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)