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donna madre

III

IMMAGINE E SOMIGLIANZA DI DIO

Libro della Genesi

6. Dobbiamo collocarci nel contesto di quel «principio» biblico, in cui la verità rivelata sull'uomo come «immagine e somiglianza di Dio» costituisce l'immutabile base di tutta l'antropologia cristiana(22). «Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gen 1, 27). Questo passo conciso contiene le verità antropologiche fondamentali: l'uomo è l'apice di tutto l'ordine del creato nel mondo visibile - il genere umano, che prende inizio dalla chiamata all'esistenza dell'uomo e della donna, corona tutta l'opera della creazione -; ambedue sono esseri umani, in egual grado l'uomo e la donna, ambedue creati a immagine di Dio. Questa immagine e somiglianza con Dio, essenziale per l'uomo, dall'uomo e dalla donna, come sposi e genitori, viene trasmessa ai loro discendenti: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela» (Gen 1, 28). Il Creatore affida il «dominio» della terra al genere umano, a tutte le persone, a tutti gli uomini e a tutte le donne, che attingono la loro dignità e vocazione dal comune «principio».

Nella Genesi troviamo ancora un'altra descrizione della creazione dell'uomo - uomo e donna (cf. 2, 18-25) -, alla quale ci si riferirà in seguito. Fin d'ora, tuttavia, bisogna affermare che dalla notazione biblica emerge la verità sul carattere personale dell'essere umano. L'uomo è una persona, in eguale misura l'uomo e la donna: ambedue, infatti, sono stati creati ad immagine e somiglianza del Dio personale. Ciò che rende l'uomo simile a Dio è il fatto che - diversamente da tutto il mondo delle creature viventi, compresi gli esseri dotati di sensi (animalia) -l'uomo è anche un essere razionale (animal rationale)(23). Grazie a questa proprietà l'uomo e la donna possono «dominare» sulle altre creature del mondo visibile (cf. Gen 1, 28).

Nella seconda descrizione della creazione dell'uomo (cf. Gen 2, 18-25) il linguaggio in cui viene espressa la verità sulla creazione dell'uomo e, specialmente, della donna, è diverso, in un certo senso è meno preciso, è - si potrebbe dire - più descrittivo e metaforico: più vicino al linguaggio dei miti allora conosciuti. Tuttavia, non si riscontra alcuna essenziale contraddizione tra i due testi. Il testo di Genesi 2, 18-25 aiuta a comprendere bene ciò che troviamo nel passo conciso di Genesi 1, 27-28 e, al tempo stesso, se letto unitamente ad esso, aiuta a comprendere in modo ancora più profondo la fondamentale verità, ivi racchiusa, sull'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio come uomo e donna.

Nella descrizione di Genesi 2, 18-25 la donna viene creata da Dio «dalla costola» dell'uomo ed è posta come un altro «io», come un interlocutore accanto all'uomo, il quale nel mondo circostante delle creature animate è solo e non trova in nessuna di esse un «aiuto» adatto a sé. La donna, chiamata in tal modo all'esistenza, è immediatamente riconosciuta dall'uomo come «carne della sua carne e osso delle sue ossa» (cf. Gen 2, 23) e appunto per questo è chiamata «donna». Nella lingua biblica questo nome indica l'essenziale identità nei riguardi dell'uomo: 'is - 'issah, cosa che in generale le lingue moderne non possono purtroppo esprimere. «La si chiamerà donna ('issah), perché dall'uomo ('is) è stata tolta» (Gen 2, 23).

Il testo biblico fornisce sufficienti basi per ravvisare l'essenziale uguaglianza dell'uomo e della donna dal punto di vista dell'umanità(24). Ambedue sin dall'inizio sono persone, a differenza degli altri esseri viventi del mondo che li circonda. La donna è un altro «io» nella comune umanità. Sin dall'inizio essi appaiono come «unità dei due», e ciò significa il superamento dell'originaria solitudine, nella quale l'uomo non trova «un aiuto che gli sia simile» (Gen 2, 20). Si tratta qui solo dell'«aiuto» nell'azione, nel «soggiogare la terra»? (cf. Gen 1, 28). Certamente si tratta della compagna della vita, con la quale, come con una moglie, l'uomo può unirsi divenendo con lei «una sola carne» e abbandonando per questo «suo padre e sua madre» (cf. Gen 2, 24). La descrizione biblica, dunque, parla dell'istituzione, da parte di Dio, del matrimonio contestualmente con la creazione dell'uomo e della donna, come condizione indispensabile della trasmissione della vita alle nuove generazioni degli uomini, alla quale il matrimonio e l'amore coniugale per loro natura sono ordinati: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela» (Gen 1, 28).

Persona - Comunione - Dono

7. Penetrando col pensiero l'insieme della descrizione di Genesi 2, 18-25, ed interpretandola alla luce della verità sull'immagine e somiglianza di Dio (cf. Gen 1, 26-27), possiamo comprendere ancora più pienamente in che cosa consista il carattere personale dell'essere umano, grazie al quale ambedue - l'uomo e la donna - sono simili a Dio. Ogni singolo uomo, infatti, è ad immagine di Dio in quanto creatura razionale e libera, capace di conoscerlo e di amarlo. Leggiamo, inoltre, che l'uomo non può esistere «solo» (cf. Gen 2, 18); può esistere soltanto come «unità dei due», e dunque in relazione ad un'altra persona umana. Si tratta di una relazione reciproca: dell'uomo verso la donna e della donna verso l'uomo. Essere persona ad immagine e somiglianza di Dio comporta, quindi, anche un esistere in relazione, in rapporto all'altro «io». Ciò prelude alla definitiva autorivelazione di Dio uno e trino: unità vivente nella comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

All'inizio della Bibbia non sentiamo ancora dire questo direttamente. Tutto l'Antico Testamento è soprattutto la rivelazione della verità circa l'unicità e l'unità di Dio. In questa fondamentale verità su Dio il Nuovo Testamento introdurrà la rivelazione dell'imperscrutabile mistero della vita intima di Dio. Dio, che si lascia conoscere dagli uomini per mezzo di Cristo, è unità nella Trinità: è unità nella comunione. In tal modo è gettata una nuova luce anche su quella somiglianza ed immagine di Dio nell'uomo, di cui parla il Libro della Genesi. Il fatto che l'uomo, creato come uomo e donna, sia immagine di Dio non significa solo che ciascuno di loro individualmente è simile a Dio, come essere razionale e libero. Significa anche che l'uomo e la donna, creati come «unità dei due» nella comune umanità, sono chiamati a vivere una comunione d'amore e in tal modo a rispecchiare nel mondo la comunione d'amore che è in Dio, per la quale le tre Persone si amano nell'intimo mistero dell'unica vita divina. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, un solo Dio per l'unità della divinità, esistono come persone per le imperscrutabili relazioni divine. Solamente in questo modo diventa comprensibile la verità che Dio in se stesso è amore (cf. 1 Gv 4, 16).

L'immagine e somiglianza di Dio nell'uomo, creato come uomo e donna (per l'analogia che si può presumere tra il Creatore e la creatura), esprime pertanto anche l'«unità dei due» nella comune umanità. Questa «unità dei due», che è segno della comunione interpersonale, indica che nella creazione dell'uomo è stata inscritta anche una certa somiglianza della comunione divina («communio»). Questa somiglianza è stata inscritta come qualità dell'essere personale di tutt'e due, dell'uomo e della donna, ed insieme come una chiamata e un compito. Sull'immagine e somiglianza di Dio, che il genere umano porta in sé fin dal «principio», è radicato il fondamento di tutto l'«ethos» umano: l'Antico e il Nuovo Testamento svilupperanno tale «ethos», il cui vertice è il comandamento dell'amore(25).

Nell'«unità dei due» l'uomo e la donna sono chiamati sin dall'inizio non solo ad esistere «uno accanto all'altra» oppure «insieme», ma sono anche chiamati ad esistere reciprocamente «l'uno per l'altro».

Viene così spiegato anche il significato di quell'«aiuto», di cui si parla in Genesi 2, 18-25: «Gli darò un aiuto simile a lui». Il contesto biblico permette di intenderlo anche nel senso che la donna deve «aiutare» l'uomo - e a sua volta questi deve aiutare lei - prima di tutto a causa del loro stesso «essere persona umana»: il che, in un certo senso, permette all'uno e all'altra di scoprire sempre di nuovo e confermare il senso integrale della propria umanità. E' facile comprendere che - su questo piano fondamentale - si tratta di un «aiuto» da ambedue le parti e di un «aiuto» reciproco. Umanità significa chiamata alla comunione interpersonale. Il testo di Genesi 2, 18-25 indica che il matrimonio è la prima e, in un certo senso, la fondamentale dimensione di questa chiamata. Però non è l'unica. Tutta la storia dell'uomo sulla terra si realizza nell'ambito di questa chiamata. In base al principio del reciproco essere «per» l'altro, nella «comunione» interpersonale, si sviluppa in questa storia l'integrazione nell'umanità stessa, voluta da Dio, di ciò che è «maschile» e di ciò che è «femminile». I testi biblici, a cominciare dalla Genesi, ci permettono costantemente di ritrovare il terreno in cui si radica la verità sull'uomo, il terreno solido ed inviolabile in mezzo ai tanti mutamenti dell'esistenza umana.

Questa verità riguarda anche la storia della salvezza. Al riguardo, è particolarmente significativo un enunciato del Concilio Vaticano II. Nel capitolo sulla «comunità degli uomini» della Costituzione pastorale Gaudium et spes leggiamo: «Il Signore Gesù, quando prega il Padre, perché "tutti siano una cosa sola" (Gv 17, 21-22), mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l'unione delle Persone divine e l'unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l'uomo, il quale sulla terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa, non può ritrovarsi pienamente se non mediante un dono sincero di sé»(26).

Con queste parole il testo conciliare presenta sinteticamente l'insieme della verità sull'uomo e sulla donna - verità che si delinea già nei primi capitoli del Libro della Genesi - come la stessa struttura portante dell'antropologia biblica e cristiana. L'uomo - sia uomo che donna - è l'unico essere tra le creature del mondo visibile che Dio Creatore «ha voluto per se stesso»: è dunque una persona. L'essere persona significa: tendere alla realizzazione di sé (il testo conciliare parla del «ritrovarsi»), che non può compiersi se non «mediante un dono sincero di sé».

Modello di una tale interpretazione della persona è Dio stesso come Trinità, come comunione di Persone. Dire che l'uomo è creato a immagine e somiglianza di questo Dio vuol dire anche che l'uomo è chiamato ad esistere «per» gli altri, a diventare un dono.

Ciò riguarda ogni essere umano, sia donna che uomo, i quali lo attuano nella peculiarità propria dell'una e dell'altro. Nell'ambito della presente meditazione circa la dignità e la vocazione della donna, questa verità sull'essere umano costituisce l'indispensabile punto di partenza. Già il Libro della Genesi permette di scorgere, come in un primo abbozzo, questo carattere sponsale della relazione tra le persone, sul cui terreno si svilupperà a sua volta la verità sulla maternità, nonché quella sulla verginità, come due dimensioni particolari della vocazione della donna alla luce della Rivelazione divina. Queste due dimensioni troveranno la loro più alta espressione all'avvento della «pienezza del tempo» (cf. Gal 4, 4) nella figura della «donna» di Nazareth: Madre-Vergine.

L'antropomorfismo del linguaggio biblico

8. La presentazione dell'uomo come «immagine e somiglianza di Dio» subito all'inizio della Sacra Scrittura riveste anche un altro significato. Questo fatto costituisce la chiave per comprendere la Rivelazione biblica come un discorso di Dio su se stesso. Parlando di sé sia «per mezzo dei profeti, sia per mezzo del Figlio» (cf. Eb 1, 1. 2) fattosi uomo, Dio parla con linguaggio umano, usa concetti e immagini umane. Se questo modo di esprimersi è caratterizzato da un certo antropomorfismo, la ragione sta nel fatto che l'uomo è «simile» a Dio: creato a sua immagine e somiglianza. E allora anche Dio è in qualche misura «simile» all'uomo, e, proprio in base a questa somiglianza, egli può essere conosciuto dagli uomini. Allo stesso tempo il linguaggio della Bibbia è sufficientemente preciso per segnare i limiti della «somiglianza», i limiti dell'«analogia». Infatti, la rivelazione biblica afferma che, se è vera la «somiglianza» dell'uomo con Dio, è ancor più essenzialmente vera la «non somiglianza»(27), che separa dal Creatore tutta la creazione. In definitiva, per l'uomo creato a somiglianza di Dio, Dio non cessa di essere colui «che abita una luce inaccessibile» (1 Tm 6, 16): è il «Diverso» per essenza, il «totalmente Altro».

Questa osservazione sui limiti dell'analogia - limiti della somiglianza dell'uomo con Dio nel linguaggio biblico - deve essere tenuta in considerazione anche quando, in diversi passi della Sacra Scrittura (specie nell'Antico Testamento), troviamo dei paragoni che attribuiscono a Dio qualità «maschili» oppure «femminili». Troviamo in essi l'indiretta conferma della verità che ambedue, sia l'uomo che la donna, sono stati creati ad immagine e somiglianza di Dio. Se c'è somiglianza tra il Creatore e le creature, è comprensibile che la Bibbia abbia usato nei suoi riguardi espressioni che gli attribuiscono qualità sia «maschili» sia «femminili».

Riportiamo qui qualche passo caratteristico del profeta Isaia: «Sion ha detto: "Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato". Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se una donna si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai» (49, 14-15). E altrove: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; in Gerusalemme sarete consolati» (Is 66, 13). Anche nei Salmi Dio viene paragonato a una madre premurosa: «Come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia. Speri Israele nel Signore» (Sal 131, 2-3). In diversi passi l'amore di Dio, sollecito per il suo popolo, è presentato a somiglianza di quello di una madre: così come una madre, Dio «ha portato» l'umanità e, in particolare, il suo popolo eletto nel proprio seno, lo ha partorito nei dolori, lo ha nutrito e consolato (cf. Is 42, 14; 46, 3-4). L'amore di Dio è presentato in molti passi come amore «maschile» dello sposo e padre (cf. Os 11, 1-4; Ger 3, 4-19), ma talvolta anche come amore «femminile» della madre.

Questa caratteristica del linguaggio biblico, il suo modo antropomorfico di parlare di Dio, indica anche indirettamente il mistero dell'eterno «generare», che appartiene alla vita intima di Dio. Tuttavia, questo «generare» in se stesso non possiede qualità «maschili» né «femminili». E' di natura totalmente divina. E' spirituale nel modo più perfetto, poiché «Dio è spirito» (Gv 4, 24), e non possiede nessuna proprietà tipica del corpo, né «femminile» né «maschile». Dunque, anche la «paternità» in Dio è del tutto divina, libera dalla caratteristica corporale «maschile», che è propria della paternità umana. In questo senso l'Antico Testamento parlava di Dio come di un Padre e si rivolgeva a lui come ad un Padre. Gesù Cristo, che ha posto questa verità al centro stesso del suo Vangelo come normativa della preghiera cristiana, e che si rivolgeva a Dio chiamandolo: «Abbà Padre» (Mc 14, 36), quale Figlio unigenito e consostanziale, indicava la paternità in questo senso ultra-corporale, sovrumano, totalmente divino. Parlava come Figlio, legato al Padre dall'eterno mistero del generare divino, e ciò faceva essendo nello stesso tempo Figlio autenticamente umano della sua Madre Vergine.

Se all'eterna generazione del Verbo di Dio non si possono attribuire qualità umane, né la paternità divina possiede caratteri «maschili» in senso fisico, si deve invece cercare in Dio il modello assoluto di ogni «generazione» nel mondo degli esseri umani. In un tale senso - sembra - leggiamo nella Lettera agli Efesini: «Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome» (3, 14-15). Ogni «generare» nella dimensione delle creature trova il suo primo modello in quel generare che è in Dio in modo completamente divino, cioè spirituale. A questo modello assoluto, non-creato, viene assimilato ogni «generare» nel mondo creato. Perciò tutto quanto nel generare umano è proprio dell'uomo, come pure tutto quanto è proprio della donna, ossia la «paternità» e «la maternità» umane, porta in sé la somiglianza, ossia l'analogia col «generare» divino e con quella «paternità» che in Dio è «totalmente diversa»: completamente spirituale e divina per essenza. Nell'ordine umano, invece, il generare è proprio dell'«unità dei due»: ambedue sono «genitori», sia l'uomo sia la donna.

IV

EVA - MARIA

Il «principio» e il peccato

9. «Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l'uomo, però, tentato dal Maligno, fin dagli inizi della storia abusò della sua libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio»(28). Con queste parole l'insegnamento dell'ultimo Concilio ricorda la dottrina rivelata sul peccato e, in particolare, su quel primo peccato che è quello «originale». Il biblico «principio» - la creazione del mondo e dell'uomo nel mondo - contiene in sé al tempo stesso la verità su questo peccato, che può essere chiamato anche il peccato del «principio» dell'uomo sulla terra. Anche se ciò che è scritto nel Libro della Genesi è espresso in forma di narrazione simbolica, come nel caso della descrizione della creazione dell'uomo come maschio e femmina (cf. Gen 2, 18-25), al tempo stesso svela ciò che bisogna chiamare «il mistero del peccato» e, più pienamente ancora, «il mistero del male» esistente nel mondo creato da Dio.

Non è possibile leggere «il mistero del peccato» senza fare riferimento a tutta la verità circa l'«immagine e somiglianza» con Dio, che sta alla base dell'antropologia biblica. Questa verità presenta la creazione dell'uomo come una speciale donazione da parte del Creatore, nella quale sono contenuti non solo il fondamento e la fonte dell'essenziale dignità dell'essere umano - uomo e donna - nel mondo creato, ma anche l'inizio della chiamata di tutt'e due a partecipare alla vita intima di Dio stesso. Alla luce della Rivelazione creazione significa nello stesso tempo inizio della storia della salvezza. Proprio in questo inizio il peccato si inscrive e si configura come contrasto e negazione.

Si può dire paradossalmente che il peccato presentato in Genesi (c. 3) è la conferma della verità circa l'immagine e somiglianza di Dio nell'uomo, se questa verità significa la libertà, cioè la libera volontà, di cui l'uomo può usare scegliendo il bene, ma può anche abusare scegliendo, contro la volontà di Dio, il male. Nel suo significato essenziale, tuttavia, il peccato è negazione di ciò che Dio è - come creatore - in relazione all'uomo e di ciò che Dio vuole, sin dall'inizio e per sempre, per l'uomo. Creando l'uomo e la donna a propria immagine e somiglianza, Dio vuole per loro la pienezza del bene, ossia la felicità soprannaturale, che scaturisce dalla partecipazione alla sua stessa vita. Commettendo il peccato l'uomo respinge questo dono e contemporaneamente vuol diventare egli stesso «come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3, 5), cioè decidendo del bene e del male indipendentemente da Dio, suo creatore. Il peccato delle origini ha la sua «misura» umana, il suo metro interiore nella libera volontà dell'uomo ed insieme porta in sé una certa caratteristica «diabolica»(29), come è messo chiaramente in rilievo nel Libro della Genesi (3, 1-5). Il peccato opera la rottura dell'unità originaria, di cui l'uomo godeva nello stato di giustizia originale: l'unione con Dio come fonte dell'unità all'interno del proprio «io», nel reciproco rapporto dell'uomo e della donna («communio personarum») e, infine, nei confronti del mondo esterno, della natura.

La descrizione biblica del peccato originale in Genesi (c. 3) in un certo modo «distribuisce i ruoli» che in esso hanno avuto la donna e l'uomo. A ciò faranno riferimento ancora più tardi alcuni passi della Bibbia, come, per esempio, la Lettera paolina a Timoteo: «Prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna» (1 Tm 2, 1314). Non c'è dubbio, tuttavia, che, indipendentemente da questa «distribuzione delle parti» nella descrizione biblica, quel primo peccato è il peccato dell'uomo, creato da Dio maschio e femmina. Esso è anche il peccato dei «progenitori» al quale è collegato il suo carattere ereditario. In questo senso lo chiamiamo «peccato originale».

Tale peccato, come già è stato detto, non può essere compreso adeguatamente senza riferirsi al mistero della creazione dell'essere umano - uomo e donna - a immagine e somiglianza di Dio. Per mezzo di tale riferimento si può capire anche il mistero di quella «non-somiglianza» con Dio, nella quale consiste il peccato e che si manifesta nel male presente nella storia del mondo; di quella «non-somiglianza» con Dio, che «solo è buono» (cf. Mt 19, 17) ed è la pienezza del bene. Se questa «non-somiglianza» del peccato con Dio, la stessa Santità, presuppone la «somiglianza» nel campo della libertà, della libera volontà, si può allora dire che proprio per questa ragione la «non somiglianza» contenuta nel peccato è tanto più drammatica e tanto più dolorosa. Bisogna anche ammettere che Dio, come creatore e Padre, viene qui toccato, «offeso» e, ovviamente, offeso nel cuore stesso di quella donazione che appartiene all'eterno disegno di Dio nei riguardi dell'uomo.

Nello stesso tempo, però, anche l'essere umano - uomo e donna - viene toccato dal male del peccato, di cui è autore. Il testo biblico di Genesi (c. 3) lo mostra con le parole che descrivono chiaramente la nuova situazione dell'uomo nel mondo creato. Esso mostra la prospettiva della «fatica» con cui l'uomo si procurerà i mezzi per vivere (cf. Gen 3, 17-19), nonché quella dei grandi «dolori» con i quali la donna partorirà i suoi figli (cf. Gen 3, 16). Tutto ciò, poi, è segnato dalla necessità della morte, che costituisce il termine della vita umana sulla terra. In questo modo l'uomo, come polvere, «tornerà alla terra, perché da essa è stato tratto»: «Polvere tu sei e in polvere tornerai» (cf. Gen 3, 19).

Queste parole trovano conferma di generazione in generazione. Esse non significano che l'immagine e la somiglianza di Dio nell'essere umano, sia donna che uomo, è stata distrutta dal peccato; significano, invece, che è stata «offuscata»(30) e, in un certo senso, «diminuita». Il peccato, infatti, «diminuisce» l'uomo, come ricorda anche il Concilio Vaticano II(31). Se l'uomo, già per la sua stessa natura di persona, è immagine e somiglianza di Dio, allora la sua grandezza e la sua dignità si realizzano nell'alleanza con Dio, nell'unione con lui, nel tendere a quella fondamentale unità che appartiene alla «logica» interiore del mistero stesso della creazione. Questa unità corrisponde alla profonda verità di tutte le creature dotate di intelligenza e, in particolare, dell'uomo, il quale tra le creature del mondo visibile è stato sin dall'inizio elevato, mediante l'eterna elezione da parte di Dio in Gesù: «In Cristo (...) egli ci ha scelti prima della creazione del mondo (...) nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà» (cf. Ef 1, 4-6). L'insegnamento biblico nel suo insieme ci consente di dire che la predestinazione riguarda tutte le persone umane, uommi e donne, ciascuno e ciascuna senza eccezione.

«Egli ti dominerà»

10. La descrizione biblica del Libro della Genesi delinea la verità circa le conseguenze del peccato dell'uomo, come indica, altresì, il turbamento di quell'originaria relazione tra l'uomo e la donna che corrisponde alla dignità personale di ciascuno di essi. L'uomo, sia maschio che femmina, è una persona e, dunque, «la sola creatura che sulla terra Dio abbia voluto per se stessa»; e nello stesso tempo proprio questa creatura unica e irripetibile «non può ritrovarsi se non mediante un dono sincero di sé»(32). Da qui prende inizio il rapporto di «comunione», nella quale si esprimono l'«unità dei due» e la dignità personale sia dell'uomo che della donna. Quando dunque leggiamo nella descrizione biblica le parole rivolte alla donna: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà» (Gen 3, 16), scopriamo una rottura e una costante minaccia proprio nei riguardi di questa «unità dei due», che corrisponde alla dignità dell'immagine e della somiglianza di Dio in ambedue. Tale minaccia risulta, però, più grave per la donna. Infatti, all'essere un dono sincero, e perciò al vivere «per» l'altro subentra il dominio: «Egli ti dominerà». Questo «dominio» indica il turbamento e la perdita della stabilità di quella fondamentale eguaglianza, che nell'«unità dei due» possiedono l'uomo e la donna: e ciò è soprattutto a sfavore della donna, mentre soltanto l'eguaglianza, risultante dalla dignità di ambedue come persone, può dare ai reciproci rapporti il carattere di un'autentica «communio personarum». Se la violazione di questa eguaglianza, che è insieme dono e diritto derivante dallo stesso Dio Creatore, comporta un elemento a sfavore della donna, nello stesso tempo essa diminuisce anche la vera dignità dell'uomo. Tocchiamo qui un punto estremamente sensibile nella dimensione di quell'«ethos» che è inscritto originariamente dal Creatore già nel fatto stesso della creazione di ambedue a sua immagine e somiglianza.

Questa affermazione di Genesi 3, 16 è di una grande, significativa portata. Essa implica un riferimento alla reciproca relazione dell'uomo e della donna nel matrimonio. Si tratta del desiderio nato nel clima dell'amore sponsale, che fa sì che «il dono sincero di sé» da parte della donna trovi risposta e completamento in un analogo «dono» da parte del marito. Solamente in base a questo principio tutt'e due, e in particolare la donna, possono «ritrovarsi» come vera«unità dei due» secondo la dignità della persona. L'unione matrimoniale esige il rispetto e il perfezionamento della vera soggettività personale di tutti e due. La donna non può diventare «oggetto» di «dominio» e di «possesso» maschile. Ma le parole del testo biblico riguardano direttamente il peccato originale e le sue durature conseguenze nell'uomo e nella donna. Gravati dalla peccaminosità ereditaria, essi portano in sé il costante «fomite del peccato», cioè la tendenza a intaccare quell'ordine morale, che corrisponde alla stessa natura razionale ed alla dignità dell'uomo come persona. Questa tendenza si esprime nella triplice concupiscenza, che il testo apostolico precisa come concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne e superbia della vita (cf. 1 Gv 2, 16). Le parole della Genesi, riportate precedentemente (3, 16), indicano in che modo questa triplice concupiscenza, quale «fomite del peccato», graverà sul reciproco rapporto dell'uomo e della donna.

Quelle stesse parole si riferiscono direttamente al matrimonio, ma indirettamente raggiungono i diversi campi della convivenza sociale: le situazioni in cui la donna rimane svantaggiata o discriminata per il fatto di essere donna. La verità rivelata sulla creazione dell'uomo come maschio e femmina costituisce il principale argomento contro tutte le situazioni, che, essendo oggettivamente dannose, cioè ingiuste, contengono ed esprimono l'eredità del peccato che tutti gli esseri umani portano in sé. I Libri della Sacra Scrittura confermano in diversi punti l'effettiva esistenza di tali situazioni ed insieme proclamano la necessità di convertirsi, cioè di purificarsi dal male e di liberarsi dal peccato: da ciò che reca offesa all'altro, che «sminuisce» l'uomo, non solo colui a cui vien fatta offesa, ma anche colui che la reca. Tale è l'immutabile messaggio della Parola rivelata da Dio. In ciò si esprime l'«ethos» biblico sino alla fine(33).

Ai nostri tempi la questione dei «diritti della donna» ha acquistato un nuovo significato nel vasto contesto dei diritti della persona umana. Illuminando questo programma, costantemente dichiarato e in vari modi ricordato, il messaggio biblico ed evangelico custodisce la verità sull'«unità» dei «due», cioè su quella dignità e quella vocazione che risultano dalla specifica diversità e originalità personale dell'uomo e della donna. Perciò, anche la giusta opposizione della donna di fronte a ciò che esprimono le parole bibliche: «Egli ti dominerà» (Gen 3, 16) non può a nessuna condizione condurre alla «mascolinizzazione» delle donne. La donna - nel nome della liberazione dal «dominio» dell'uomo - non può tendere ad appropriarsi le caratteristiche maschili, contro la sua propria «originalità» femminile. Esiste il fondato timore che su questa via la donna non si «realizzerà», ma potrebbe invece deformare e perdere ciò che costituisce la sua essenziale ricchezza. Si tratta di una ricchezza enorme. Nella descrizione biblica l'esclamazione del primo uomo alla vista della donna creata è un'esclamazione di ammirazione e di incanto, che attraversa tutta la storia dell'uomo sulla terra.

Le risorse personali della femminilità non sono certamente minori delle risorse della mascolinità, ma sono solamente diverse. La donna dunque - come, del resto, anche l'uomo - deve intendere la sua «realizzazione» come persona, la sua dignità e vocazione sulla base di queste risorse, secondo la ricchezza della femminilità, che ella ricevette nel giorno della creazione e che eredita come espressione a lei peculiare dell'«immagine e somiglianza di Dio». Solamente su questa via può essere superata anche quell'eredità del peccato che è suggerita dalle parole della Bibbia: «Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». Il superamento di questa cattiva eredità è, di generazione in generazione, compito di ogni uomo, sia donna che uomo. Infatti, in tutti i casi nei quali l'uomo è responsabile di quanto offende la dignità personale e la vocazione della donna, egli agisce contro la propria dignità personale e la propria vocazione.

Protovangelo

11. Il Libro della Genesi attesta il peccato che è il male del «principio» dell'uomo, le sue conseguenze che sin da allora gravano su tutto il genere umano, ed insieme contiene il primo annuncio della vittoria sul male, sul peccato. Lo provano le parole che leggiamo in Genesi 3, 15 solitamente dette «Protovangelo»: «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno». E' significativo che l'annuncio del redentore, del salvatore del mondo, contenuto in queste parole, riguardi «la donna». Questa è nominata al primo posto nel Proto-vangelo come progenitrice di colui che sarà il redentore dell'uomo(34). E, se la redenzione deve compiersi mediante la lotta contro il male, per mezzo dell'«inimicizia» tra la stirpe della donna e la stirpe di colui che, come «padre della menzogna» (Gv 8, 44), è il primo autore del peccato nella storia dell'uomo, questa sarà anche l'inimicizia tra lui e la donna.

In queste parole si schiude la prospettiva di tutta la Rivelazione, prima come preparazione al Vangelo e poi come Vangelo stesso. In questa prospettiva si congiungono sotto il nome della donna le due figure femminili: Eva e Maria.

Le parole del Protovangelo, rilette alla luce del Nuovo Testamento, esprimono adeguatamente la missione della donna nella lotta salvifica del redentore contro l'autore del male nella storia dell'uomo.

Il confronto Eva-Maria ritorna costantemente nel corso della riflessione sul deposito della fede ricevuta dalla Rivelazione divina ed è uno dei temi ripresi frequentemente dai Padri, dagli scrittori ecclesiastici e dai teologi(35). Di solito in questo paragone emerge a prima vista una differenza, una contrapposizione. Eva, come «madre di tutti i viventi» (Gen 3, 20), è testimone del «principio» biblico, in cui sono contenute la verità sulla creazione dell'uomo ad immagine e somiglianza di Dio e la verità sul peccato originale. Maria è testimone del nuovo «principio» e della «creatura nuova» (cfr. 2 Cor 5, 17). Anzi, ella stessa, come la prima redenta nella storia della salvezza, è «creatura nuova»: è la «piena di grazia». E' difficile comprendere perché le parole del Protovangelo mettano così fortemente in risalto la «donna», se non si ammette che in lei ha il suo inizio la nuova e definitiva Alleanza di Dio con l'umanità, l'Alleanza nel sangue redentore di Cristo. Essa ha inizio con una donna, la «donna», nell'annunciazione a Nazareth. Questa è l'assoluta novità del Vangelo: altre volte nell'Antico Testamento Dio, per intervenire nella storia del suo Popolo, si era rivolto a delle donne, come alla madre di Samuele e di Sansone; ma per stipulare la sua Alleanza con l'umanità si era rivolto solo a degli uomini: Noè, Abramo, Mosè. All'inizio della Nuova Alleanza, che deve essere eterna e irrevocabile, c'è la donna: la Vergine di Nazareth. Si tratta di un segno indicativo che «in Gesù Cristo» «non c'è più uomo né donna» (Gal 3, 28). In lui la reciproca contrapposizione tra l'uomo e la donna - come retaggio del peccato originale - viene essenzialmente superata. «Tutti voi siete uno in Cristo Gesù», - scriverà l'Apostolo (Gal 3, 28).

Queste parole trattano di quell'originaria «unità dei due» che è legata alla creazione dell'uomo, come maschio e femmina, ad immagine e somiglianza di Dio, sul modello di quella perfettissima comunione di Persone che è Dio stesso. Le parole paoline costatano che il mistero della redenzione dell'uomo in Gesù Cristo, figlio di Maria, riprende e rinnova ciò che nel mistero della creazione corrispondeva all'eterno disegno di Dio Creatore. Proprio per questo, il giorno della creazione dell'uomo come maschio e femmina «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1, 31). La redenzione restituisce, in un certo senso, alla sua stessa radice, il bene che è stato essenzialmente «sminuito» dal peccato e dal suo retaggio nella storia dell'uomo.

La «donna» del Protovangelo è inserita nella prospettiva della redenzione. Il confronto Eva-Maria si può intendere anche nel senso che Maria assume in se stessa e abbraccia il mistero della «donna», il cui inizio è Eva, «la madre di tutti i viventi» (Gen 3, 20): prima di tutto lo assume e lo abbraccia all'interno del mistero di Cristo - «nuovo ed ultimo Adamo» (cf. 1 Cor 15, 45) -, il quale ha assunto nella propria persona la natura del primo Adamo. L'essenza della Nuova Alleanza consiste nel fatto che il Figlio di Dio, consostanziale all'eterno Padre, diventa uomo: accoglie l'umanità nell'unità della Persona divina del Verbo. Colui che opera la Redenzione è al tempo stesso un vero uomo. Il mistero della Redenzione del mondo presuppone che Dio-Figlio abbia assunto l'umanità come eredità di Adamo, divenendo simile a lui e ad ogni uomo in tutto, «escluso il peccato» (Eb 4, 15). In questo modo egli ha «svelato anche pienamente l'uomo all'uomo e gli ha fatto nota la sua altissima vocazione», come insegna il Concilio Vaticano II(36). In un certo senso, lo ha aiutato a riscoprire «chi è l'uomo» (cf. Sal 8, 5).

In tutte le generazioni, nella tradizione della fede e della riflessione cristiana su di essa, l'accostamento Adamo-Cristo spesso si accompagna con quello Eva-Maria. Se Maria è descritta anche come «nuova Eva», quali possono essere i significati di questa analogia? Sono certamente molteplici. Occorre, in particolare, soffermarsi su quel significato che vede in Maria la rivelazione piena di tutto ciò che è compreso nella parola biblica «donna»: una rivelazione commisurata al mistero della Redenzione. Maria significa, in un certo senso, oltrepassare quel limite di cui parla il Libro della Genesi (3, 16) e riandare verso quel «principio» in cui si ritrova la «donna» così come fu voluta nella creazione, quindi nell'eterno pensiero di Dio, nel seno della Santissima Trinità. Maria è «il nuovo principio» della dignità e vocazione della donna, di tutte le donne e di ciascuna(37).

Chiave per la comprensione di ciò possono essere, in particolare, le parole poste dall'evangelista sulle labbra di Maria dopo l'annunciazione, durante la sua visita a Elisabetta: «Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente» (Lc 1, 49). Esse riguardano certamente il concepimento del Figlio, che è «Figlio dell'Altissimo» (Lc 1, 32), il «santo» di Dio; insieme, però, esse possono significare anche la scoperta della propria umanità femminile. «Grandi cose ha fatto in me»: questa è la scoperta di tutta la ricchezza, di tutta la risorsa personale della femminilità, di tutta l'eterna originalità della «donna», così come Dio la volle, persona per se stessa, e che si ritrova contemporaneamente «mediante un dono sincero di sé».

Questa scoperta si collega con la chiara consapevolezza del dono, dell'elargizione da parte di Dio. Il peccato già al «principio» aveva offuscato questa consapevolezza, in un certo senso l'aveva soffocata, come indicano le parole della prima tentazione ad opera del «padre della menzogna» (cf. Gen 3, 1-5). All'avvento della «pienezza del tempo» (cf. Gal 4, 4), mentre comincia a compiersi nella storia dell'umanità il mistero della redenzione, questa consapevolezza irrompe in tutta la sua forza nelle parole della biblica «donna» di Nazareth. In Maria, Eva riscopre quale è la vera dignità della donna, dell'umanità femminile. Questa scoperta deve continuamente giungere al cuore di ciascuna donna e dare forma alla sua vocazione e alla sua vita.



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)