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Peccati e reati 2 (del primato della coscienza e dell’umanità del potere)

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Per continuare la riflessione su peccati e reati, iniziata nel precedente articoloriflettevo stamattina su come ci sia una differenza radicale tra i due nella diversa valutazione data all’intenzione, che nel giudizio su un peccato è essenziale, mentre in quello su un reato è del tutto irrilevante. Normalmente al vigile che mi fa la multa non importa nulla dei motivi che avevo per passare con il rosso. Partendo da questo mi sono domandato: ma non sarà anche per questo che la nostra società non conosce più peccati, ma solo reati? Non sarà che vediamo solo reati perché siamo diventati totalmente indifferenti alle intenzioni?

Non so voi, ma a me una società indifferente alle intenzioni fa paura. Intendiamoci, uno dei capisaldi della civiltà giuridica è l’impersonalità della legge, espressa nel principio “la legge è uguale per tutti”, principio che andrebbe inevitabilmente a farsi benedire se si dovessero applicare ad ogni fattispecie le infinite variabili dell’intenzione.

Eppure al tempo stesso non abbiamo ciascuno di noi il sentimento che per un giudizio veramente giusto sarebbe necessario che il giudice ci conoscesse intimamente, che sapesse davvero tutto di noi? Si sente spesso dire che per essere oggettivi bisogna giudicare le cose “da fuori”, cioè senza farsi influenzare da valutazioni personali. In realtà però, tutti noi quando veniamo giudicati vorremmo essere giudicati “da dentro”, cioè a partire dalle nostre motivazioni e dai nostri sentimenti. Sfortunatamente solo Dio può giudicare così, solo Dio può essere dentro ciascuno e giudicarlo a partire da quel dentro.

Anche il diritto però conosce in una certa misura questo principio e per questo introduce le attenuanti e lascia al giudice un certo margine di discrezionalità nell’applicazione della legge. Per questo un giudice non può mai essere un computer, che valuta in modo impersonale, ma deve essere innanzitutto un uomo, consapevole di giudicare un altro uomo e non semplicemente un gesto.

Ricordo una volta, appena ordinato sacerdote, che mentre mi stavo precipitando in ospedale per amministrare l’unzione degli infermi ad un malato venni fermato perché ero passato col rosso. Consapevole di aver sbagliato mi stavo predisponendo a pagare con l’intenzione di fare il più in fretta possibile e chiesi anche al vigile di fare in fretta, per la medesima ragione. Quello che mi sorprese moltissimo fu che non solo il vigile stracciò la multa, ma mi si mise davanti a sirena accesa per farmi arrivare al più presto.

Come valutare questo gesto? Da una parte indubbiamente tutti gli altri automobilisti sanzionati da quel vigile potrebbero risentirsi per quella che ai loro occhi può sembrare una discriminazione, dall’altra il vigile ha fatto un’operazione prettamente umana: cioè una ponderazione di valori (almeno suppongo). In altre parole ha valutato che per un credente, come ovviamente erano il malato da cui stavo andando e la sua famiglia, l’unzione degli infermi vale quanto la vita stessa e che quindi in quella situazione la rapidità era essenziale. Non so se fosse un credente anche lui, ma è certamente entrato dentro le mie motivazioni e il mio sistema di valori, mi ha giudicato “da dentro”.

Io credo che ci sia qualcosa di eroico, di epico perfino, nel sorriso del vigile che straccia una multa. E’ una rivendicazione di autonomia, la proclamazione del primato della coscienza sopra l’oggettività dei regolamenti, l’affermazione di un potere dal volto umano, incarnato in una persona e non espressione di un impersonale e burocratico governo.

Il problema è che per fare una ponderazione di valori e quindi una decisione secondo coscienza, che parta “da dentro”, occorre averla una coscienza. E qui casca l’asino. Credo che il vero motivo per cui questa società non conosce più peccati, ma solo reati e quindi non è più capace di giudicare in maniera umana, ma solo in forma meccanica, limitandosi alla mera applicazione della legge, sia che appunto non ha più la minima idea di cosa sia la coscienza.

La coscienza infatti non è il giudizio soggettivo. Molte volte le persone quando dicono che fanno una cosa “in coscienza” intendono dire solo che la fanno consapevolmente, cioè sapendo quello che fanno. In questa accezione praticamente bisognerebbe essere ubriachi per non agire in coscienza e a questo punto ci si domanda che bisogno c’è di aggiungere che una decisione è presa in coscienza. Qualsiasi decisione che non sia del tutto scriteriata diventa una decisione di coscienza!

In verità la coscienza è tutt’altra cosa. Anche prescindendo dalla definizione che ne da il Concilio Vaticano II che la definisce “voce di Dio nell’intimo dell’uomo” quando scopre in se stesso una legge che non è egli stesso a darsi, cioè la morale naturale, anche limitandosi alla definizione laica di “ponderazione di valori”, non possiamo parlare di coscienza senza ammettere l’esistenza di valori esterni a noi che precedono il nostro giudizio, tra cui appunto la coscienza deve orientarsi per applicarli alla concretezza della vita. Coscienza quindi è esattamente il contrario di arbitrio, implica il riconoscimento di una o più autorità superiori a sé e la necessaria sottomissione ad esse. Ultimamente Coscienza è obbedienza.

Il nostro vigile, quello che straccia la multa, allora rappresenta l’ideale di un potere-dotato-di-coscienza, cioè di un potere dal volto umano, non anonimo, incarnato da persone vere. Purtroppo ormai il volto umano del potere sta rapidamente diventando una bestia mitologica, più rara di un unicorno. Sempre di più vediamo le persone che intorno a noi devono esercitare un minimo di potere (in qualsiasi forma: dall’impiegato allo sportello, al maestro di scuola, alla segretaria della palestra, al vigile urbano appunto e perfino a volte al parroco) intrappolate nelle maglie della burocrazia, trincerarsi dietro regolamenti sempre più complessi, soffocanti e capziosi, impossibilitati a qualsiasi decisione di coscienza perché incapaci di assumersi ogni responsabilità.

Di chi è la colpa di questa disumanizzazione del potere? Ancora una volta della sparizione della morale comune. Se c’è una morale condivisa infatti non è necessario prescrivere minuziosamente ogni comportamento perché certe cose appaiono ovvie, come alzarsi e cedere il posto ad un anziano in autobus ad esempio.

Ancora una volta: è indispensabile tornare ad una educazione morale, ad un’etica condivisa, e quindi alla fine dei conti ad una legge morale naturale, per non perdere ogni possibilità di convivenza umana.





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)