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  17 — Come si devono ammonire gli umili e gli orgogliosi


 


Diverso è il modo di ammonire gli umili e gli orgogliosi. Ai primi bisogna suggerire quanto sia vera quella superiorità che possiedono nella speranza; gli altri bisogna persuaderli quanto nulla valga la gloria temporale che essi, pur tenendola stretta, non possiedono. Ascoltino gli umili quanto è eterno ciò a cui aspirano e quanto è transitorio ciò che trascurano; e gli orgogliosi ascoltino quanto è passeggero ciò che ambiscono ed eterno ciò che perdono. Ascoltino gli umili, dalla maestra voce della Verità: Chi si umilia sarà esaltato (Lc. 18, 14); ascoltino gli orgogliosi: Chi si esalta sarà umiliato (Lc. 18, 14). Ascoltino gli umili: L’umiltà precede la gloria (Prov. 15, 33); ascoltino gli orgogliosi: Lo spirito si esalta prima della rovina (Prov. 16, 18). Ascoltino gli umili: A chi volgerò lo sguardo se non all’umile e tranquillo e che teme le mie parole? (Is. 66, 2); ascoltino gli orgogliosi: Perché insuperbisce la terra e la cenere? (Sir. 10, 9). Ascoltino gli umili: Dio volge lo sguardo alle cose umili (Sal. 137, 6); ascoltino gli orgogliosi: e conosce da lontano le alte (Sal. 137, 6). Ascoltino gli umili: Poiché il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito ma per servire (Mt. 20, 28); ascoltino gli orgogliosi: poiché la superbia è l’inizio di ogni peccato (Sir. 10, 15). Ascoltino gli umili: poiché il nostro Redentore umiliò se stesso fatto obbediente fino alla morte (Fil. 2, 8); ascoltino gli orgogliosi ciò che è scritto del loro capo: Egli è re sopra tutti i figli della superbia (Giob. 41, 25). Dunque, la superbia del diavolo fu l’occasione della nostra perdizione, e l’umiltà di Dio fu trovata argomento della nostra redenzione. Infatti il nostro nemico, creatura come tutte, volle apparire innalzata su tutte; ma il nostro Redentore, pur rimanendo grande su tutte,. si degnò di diventare piccolo fra tutte.

Si dica dunque agli umili che nel loro abbassarsi si elevano alla somiglianza di Dio; si dica agli orgogliosi che con il loro innalzarsi cadono ad imitazione dell’angelo apostata. Perciò, che cosa c’è di più basso dell’orgoglio, che nel tendersi al di sopra di sé si allontana dalla misura della vera altezza? E che cosa è più sublime dell’umiltà che nell’abbassarsi fino al fondo si unisce al suo Creatore, il quale rimane al di sopra dell’altezza più eccelsa? C’è tuttavia dell’altro che in essi si deve valutare con prudenza, poiché spesso alcuni restano ingannati dalla apparenza di umiltà e altri peccano per ignoranza del proprio orgoglio. Spesso infatti ad alcuni che si stimano umili si unisce un timore che non deve essere portato a uomini; mentre non di rado l’affermazione di una propria franchezza accompagna gli orgogliosi; e così, quando bisogna rimproverare certi vizi altrui, i primi tacciono per timore, e tuttavia pensano di tacere per umiltà; i secondi invece parlano con l’impazienza dell’orgoglio e si immaginano di parlare mossi da una libera rettitudine. Dunque, la colpa della paura, sotto l’apparenza dell’umiltà, trattiene quelli dal rimproverare i vizi altrui; mentre, sotto l’immagine di uno spirito libero, la sfrenatezza dell’orgoglio spinge questi a fare rimproveri che non devono, o a fare più rimproveri di quel che devono. Perciò gli orgogliosi vanno ammoniti a non essere franchi di quanto è conveniente; e gli umili a non stare sottomessi più di quanto è opportuno, affinché i primi non voltino in difesa della giustizia l’esercizio della superbia, e i secondi, quando si applicano a sottomettersi agli uomini più del necessario, non siano spinti a rispettare anche i loro vizi.
Bisogna però considerare che spesso si correggono più utilmente gli orgogliosi, se mescoliamo le correzioni con qualche incoraggiamento di lode. Infatti, bisogna riconoscere altre cose buone che sono in loro o, se non ci sono, dire almeno quelle che potrebbero esserci; solo allora si deve togliere quanto c’è in loro di male che a noi dispiace, quando cioè è stato fatto precedere il ricordo delle loro cose buone e che ci piacciono, con cui il loro cuore si è disposto a un ascolto placato. Infatti, anche i cavalli irrequieti li tocchiamo prima con mano leggera, per sottometterceli poi più pienamente anche con le frustate; e a un bicchiere di amara medicina si aggiunge la dolcezza del miele perché ciò che deve giovare alla salute non debba essere gustato proprio col sapore di un’aspra amarezza; e invece, mentre il gusto resta ingannato dalla dolcezza, l’umore mortifero viene espulso con l’amarezza. Pertanto, nell’accusa rivolta agli orgogliosi, l’inizio deve essere temperato con la lode, affinché con l’accoglimento degli elogi che amano, essi accettino insieme le correzioni che odiano.

Ma spesso possiamo persuadere meglio e più utilmente gli orgogliosi, se facciamo passare il loro progresso piuttosto come pin vantaggioso per noi che per loro, se chiediamo che il loro miglioramento si compia più per noi che per loro stessi. Poiché è facile che l’orgoglio si pieghi al bene se crede che la propria condiscendenza giovi ad altri. Perciò Mosè che aveva Dio come guida e attraversava il deserto dietro la nuvola d’aria, volendo allontanare il suo parente Hobab dalla consuetudine pagana e sottometterlo alla signoria di Dio onnipotente, [lo pregò dicendo]: Noi partiamo per il luogo che il Signore ci darà; vieni con noi affinché ti facciamo del bene perché il Signore ha promesso dei beni a Israele. Ma poiché quello gli rispose: Non verrò con te ma ritornerò alla terra dove sono nato, aggiunse subito: Non ci abbandonare, perché tu conosci in quali luoghi attraverso il deserto, dobbiamo porre l’accampamento e sarai nostra guida (Num. 10, 29 ss.). Certo l’ignoranza riguardo al viaggio non angustiava l’animo di Mosè, lui che la conoscenza della divinità aveva dilatato alla scienza della profezia; che la colonna precedeva all’esterno, e che il colloquio familiare della conversazione assidua con Dio istruiva, all’interno, su ogni cosa. Ma evidentemente, da uomo avveduto, che stava trattando con un ascoltatore orgoglioso, lo pregò di un aiuto per poterglielo dare: cercava in lui una guida per il viaggio, per potergli essere guida alla vita. E agi in modo che l’ascoltatore superbo tanto più si offrisse alla voce che lo attirava verso beni migliori quanto più si sentiva considerato necessario; ma proprio nello stimarsi come colui che precede chi lo esorta, di fatto obbediva alle sue parole.

 

18 — Come si devono ammonire gli ostinati e gli incostanti

 

Diverso è il modo di ammonire gli ostinati e gli incostanti. Ai primi bisogna dire che essi si stimano più di quello che sono e perciò non acconsentono ai consigli altrui; i secondi bisogna convincerli che poiché si disprezzano e non hanno alcuna considerazione di sé, i loro pensieri mancano di fermezza e così mutano il loro giudizio a seconda dei momenti. A quelli bisogna dire che se non si stimassero migliori degli altri, non posporrebbero i consigli di tutti alla propria decisione; a questi bisogna dire che se fissassero comunque l’attenzione del proprio animo a ciò che sono, il vento dell’instabilità non li trascinerebbe per tanta diversità di posizioni. A quelli è detto per mezzo di Paolo: Non siate prudenti presso voi stessi (Rom. 12, 6). Al contrario, questi si sentono dire: Non facciamoci portare in giro da ogni vento di dottrina (Ef. 4, 14). Di quelli, per mezzo di Salomone è detto: Mangeranno il frutto della loro via e si sazieranno dei loro consigli (Prov. 1, 31). Di questi, ancora lo stesso scrive: Il cuore degli stolti sarà mutevole (Prov. 15, 7). Infatti il cuore dei sapienti è sempre uguale a se stesso, perché mentre riposa su persuasioni rette è costante nel bene operare. Ma il cuore degli stolti è mutevole perché mostrandosi vario nell’instabilità, non rimane mai ciò che è stato prima. E poiché certi vizi, come ne generano altri da se stessi così da altri nascono, è importantissimo sapere che tanto più riusciamo a toglierli, attraverso la correzione, quanto più asciughiamo la fonte stessa della loro amarezza.

E in effetti, l’ostinazione è generata dalla superbia, l’incostanza dalla leggerezza. Perciò bisogna ammonire gli ostinati a riconoscere l’orgoglio del proprio pensiero e ad applicarsi per vincere se stessi, perché mentre all’esterno rifiutano con disprezzo di lasciarsi vincere dai giusti consigli di altri, interiormente non siano tenuti prigionieri dalla superbia. Bisogna ammonirli a considerare che il Figlio dell’uomo, che ha sempre una sola volontà col Padre, per offrirci l’esempio di come spezzare la nostra volontà, dice: Non cerco la mia volontà ma la volontà del Padre che mi ha mandato (Gv. 5, 30). Egli che, per meglio raccomandare la grazia di questa virtù, affermò che l’avrebbe conservata nell’ultimo giudizio, dicendo: Io non posso fare nulla da me stesso, ma come ascolto giudico (Gv. 5, 30). Dunque, con quale coscienza l’uomo disdegna di sottostare alla volontà altrui, quando il Figlio di Dio, e dell’uomo, venuto a manifestare la gloria della sua potenza, afferma di non giudicare da se stesso? Al contrario, bisogna ammonire gli incostanti a rafforzare la loro mente con la fermezza Infatti essi inaridiscono in sé i frutti della mutevolezza, se prima strappano dal cuore la radice della leggerezza, perché si costruisce un edificio stabile quando si provvede prima un luogo solido in cui porre le fondamenta. Pertanto, se prima non si provvede a togliere la leggerezza dalla mente, non si vince per nulla l’incostanza del pensiero. Paolo mostra di essere stato alieno da costoro, quando dice: Ho forse usato della leggerezza? Oppure penso secondo la carne così che in me ci siano il si e il no? (2 Cor. 1, 17). Come se dicesse apertamente: Non sonomosso dal vento della instabilità perché non soggiaccio al vizio della leggerezza.

 

19 — Come si devono ammonire gli intemperanti nel cibo e i parchi

 

Diverso è il modo di ammonire i golosi e i temperanti. Infatti nei primi il vizio è accompagnato dall’eccesso del parlare, dalla leggerezza dell’operare e dalla lussuria; agli altri si unisce spesso l’impazienza e spesso anche la superbia. Infatti, se la loquacità smodata non rapisse i golosi, quel ricco di cui si dice che banchettava splendidamente ogni giorno non sarebbe stato arso più gravemente nella lingua. Infatti dice: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a bagnare la punta del suo dito nell’acqua, per dare sollievo alla mia lingua, perché sono tormentato in questa fiamma (Lc. 16, 24). Con queste parole, certamente si mostra che banchettando ogni giorno, aveva peccato più frequentemente con la lingua, egli che pur ardendo tutto cercava refrigerio soprattutto per essa. E ancora l’autorità della Sacra Scrittura attesta che la leggerezza dell’operare segue immediatamente i golosi, dicendo: Il popolo si sedette per mangiare e bere, e si alzò per divertirsi (Es. 32, 6). E spesso la voracità trascina costoro fino alla lussuria, perché quando il ventre si distende nella sazietà, si eccitano gli stimoli della libidine. Perciò all’astuto nemico, che apri la sensualità del primo uomo alla bramosia del frutto e la strinse poi col laccio del peccato, è detto dalla voce divina: Striscerai sul petto e sul ventre (cf. Gen. 3, 14), come se gli venisse detto apertamente: dominerai suoi cuori umani coi pensieri cattivi e la golosità. Che poi la lussuria tenga dietro ai golosi, lo attesta il profeta, che mentre racconta ciò che è manifesto denuncia ciò che è nascosto, dicendo: Il principe dei cuochi distrusse le mura di Gerusalemme (cf. 2 Re, 25, 10. LXX). Infatti il principe dei cuochi è il ventre, al quale si presta gran cura da parte dei cuochi, perché possa riempirsi di cibi nel piacere. Le mura di Gerusalemme poi, sono le virtù dell’anima innalzate verso il desiderio della pace celeste.
Pertanto il principe dei cuochi abbatte le mura di Gerusalemme, perché mentre il ventre si distende per la ingordigia, le virtù dell’anima vengono distrutte dalla lussuria. Al contrario, se per lo più, la impazienza non scuotesse le menti dei temperanti dalla loro tranquillità, Pietro non direbbe: Sforzatevi di unire la virtù alla vostra fede, e alla virtù la scienza e alla scienza la temperanza; per aggiungere subito oculatamente: e alla temperanza la pazienza (2 Pt. 1, 5). Ammoni cioè i temperanti ad avere quella pazienza che sapeva mancare loro. E ancora: se la colpa della superbia non trapassasse i pensieri dei temperanti, Paolo non avrebbe detto affatto: Chi non mangia non giudichi chi mangia (Rom. 14, 3). E poi, parlando ad altri nel restringere il campo dei precetti per coloro che si gloriavano per la virtù dell’astinenza, aggiunse: Tutte cose che possiedono certo un aspetto di sapienza nella loro religiosità umiltà e austerità del corpo, ma non hanno alcun valore contro la soddisfazione della carne (Col. 2, 23). In ciò va notato che nella sua argomentazione, il predicatore egregio accosta alla scrupolosità un certo aspetto di umiltà, poiché quando il corpo viene indebolito più del necessario dall’astinenza, si manifesta esteriormente umiltà, ma proprio per questa umiltà si insuperbisce gravemente nell’intimo. E se non fosse vero che l’animo talvolta si gonfia d’orgoglio per la virtù dell’astinenza, il fariseo non avrebbe enumerato con diligente presunzione questa virtù fra i suoi grandi meriti, dicendo: Digiuno due volte la settimana (Lc. 18, 12). Pertanto bisogna ammonire i golosi che, mentre sono dediti al piacere dei cibi, non si facciano trafiggere dalla spada della lussuria, e vedano con quanta forza, attraverso il mangiare, li insidiano la loquacità e la leggerezza della mente, affinché mentre servono con la mollezza il ventre non si trovino crudelmente stretti nei lacci dei vizi.

Infatti, tanto più ci si allontana dal secondo genitore quanto più, col tendere la mano ad uso smodato del cibo, si ripete la caduta del primo genitore. Ma al contrario, bisogna ammonire i temperanti a fare molta attenzione che, mentre fuggono il vizio della gola, non si generino, quasi dalla stessa virtù, vizi ancora peggiori; così che mentre macerano la carne, lo spirito erompa nell’impazienza. Poiché la vittoria sulla carne non costituisce più una virtù, se lo spirito si lascia vincere dall’ira. Ma talvolta, quando il cuore dei temperanti riesce a trattenersi dall’ira, lo coglie come una gioia insolita che lo corrompe, e il bene della astinenza si perde quanto meno si custodisce dai vizi spirituali. Perciò giustamente è detto per mezzo del profeta: Nei giorni dei vostri digiuni si manifestano le vostre volontà (cf. Is. 58, 3 - LXX). E poco dopo: Voi digiunate nelle liti e nelle risse e fate a pugni (cf. Is. 58, 4). La volontà si riferisce alla gioia e il pugno all’ira. Invano dunque si prostra il corpo con l’astinenza, se il cuore, abbandonato a moti disordinati, si dissipa nei vizi. E ancora, bisogna ammonire i temperanti a custodire la loro astinenza sempre intatta, senza credere mai che essa rappresenti una virtù eccelsa presso il Giudice occulto, perché se si dovesse credere che in essa ci sia gran merito, il cuore non si esalti nell’orgoglio. Perciò infatti è detto per mezzo del profeta: È forse questo il digiuno che ho scelto? Spezza invece il tuo pane a chi ha fame e conduci a casa tua i pellegrini bisognosi (Is. 58, 5.7). In ciò dunque bisogna considerare come viene stimata piccola la virtù dell’astinenza, che non si raccomanda se non per la presenza di altre virtù. Perciò Gioele dice: Santificate il digiuno (Gioe. 1, 14).

Infatti, santificare il digiuno significa mostrare a Dio una astinenza del corpo resa degna per l’aggiunta di altre virtù. Bisogna ammonire i temperanti a tenere presente che essi offrono un’astinenza gradita a Dio solo quando i cibi che sottraggono al proprio nutrimento li distribuiscono ai bisognosi. Bisogna sapientemente ascoltare ciò che il Signore rimprovera, per mezzo del profeta, dicendo: Quando digiunavate e piangevate, il quinto e il settimo mese, per questi settant’anni, forse facevate un digiuno per me? E quando avete mangiato e bevuto, non avete mangiato forse per voi stessi e bevuto per voi stessi? (Zac. 7, 5 s.). Infatti non si digiuna per Dio ma per sé, quando ciò che in certi tempi si sottrae al ventre, non lo si distribuisce ai bisognosi, ma lo si custodisce per offrirlo di nuovo al ventre in altri momenti. E così, affinché la golosità non faccia decadere gli uni dalla stabilità dello spirito, e la mortificazione della carne non faccia inciampare gli altri con l’orgoglio, ascoltino i golosi dalla bocca della Verità: Badate a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano nella crapula e nell’ubriachezza e nelle preoccupazioni di questo mondo (Lc. 21, 34). E quindi aggiunge a ciò l’utile timore: E sopravvenga improvviso su di voi quel giorno. Infatti sopravverrà come un laccio su tutti coloro che siedono sulla faccia di tutta la terra (Lc. 21, 35). E i temperanti ascoltino: Non ciò che entra nella bocca corrompe l’uomo, ma ciò che esce dalla bocca corrompe l’uomo (Mt. 15, 11). Ascoltino i golosi: Il cibo è per il ventre e il ventre è per i cibi: ma Dio distruggerà questi e quello (1 Cor. 6, 13). E ancora: Non in gozzoviglie e ubriachezze (Rom. 13, 13). E ancora: Il cibo non ci raccomanda a Dio (1 Cor. 8, 8). Ascoltino i temperanti: Perché tutto è puro per i puri; ma per i corrotti e gli infedeli niente è puro (Tit. 1, 15). Ascoltino i golosi: Loro dio è il ventre e la loro gloria in ciò che è la loro vergogna (Fil. 3, 19).
Ascoltino i temperanti: Alcuni si allontaneranno dalla fede (1 Tim. 4, 1); e poco dopo: Alcuni proibiscono di sposarsi, vogliono che ci si astenga dai cibi, che Dio ha creato perché siano presi con rendimento di grazie dai fedeli e da coloro che hanno conosciuto la verità (1 Tim. 4, 3). Ascoltino i golosi: È bene non mangiare carne e non bere vino, né ciò, per cui il tuo fratello si scandalizza (Rom. 14, 21). Ascoltino i temperanti: Prendi un poco di vino per via dello stomaco e delle tue frequenti debolezze (1 Tim. 5, 23). Ciò perché gli uni non imparino a non desiderare disordinatamente i cibi della carne e gli altri non osino condannare ciò che essi non desiderano e tuttavia è stato creato da Dio.

 

20 — Come si devono ammonire coloro che distribuiscono i propri beni e coloro che rapiscono quelli altrui

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che già elargiscono i propri beni con misericordia, e coloro che ancora si danno da fare per rapire i beni degli altri. I primi infatti bisogna ammonirli a non innalzarsi con pensiero superbo su coloro a cui elargiscono i beni terreni, e non si stimino migliori perché vedono gli altri sostenuti coi loro mezzi. Infatti il padrone di una casa terrena, nel distribuire i ruoli e i servizi dei servi, stabilisce questi a governare e quelli a essere governati dagli altri. Ordina ai primi di provvedere il necessario ai secondi, e a questi di prendere ciò che hanno ricevuto da quelli. E tuttavia spesso coloro che governano, dispiacciono al padrone di casa, e restano invece nella sua grazia coloro che sono governati. Coloro che sono dispensatori si trovano a meritare la sua ira; gli altri, che sottostanno alla distribuzione fatta dai primi, restano senza ricevere danno. Dunque, bisogna ammonire coloro che già dispensano con misericordia ciò che possiedono, a riconoscersi come posti dal Padrone celeste a dispensare aiuti temporali, e a offrirli tanto più umilmente quanto più capiscono che quel che dispensano è roba altrui. E quando considerano di essere stati costituiti nel servizio di coloro cui elargiscono i beni ricevuti, la superbia non esalti il loro animo, ma lo trattenga invece il timore. Perciò è necessario che badino con grande cura a non distribuire in modo indegno i beni che gli sono stati affidati, e a darne così a chi non devono darne, o a non darne affatto a chi devono qualcosa; a dare molto a chi devono dar poco, o a darne poco a chi devono dar molto; a disperdere inutilmente, per precipitazione, ciò che distribuiscono o a tardare a dare a chi chiede, affliggendolo così in modo colpevole.

Non si insinui qui l’intenzione di ricevere gratitudine; e il desiderio di una lode passeggera non estingua lo splendore del donare. L’offerta del dono non sia accompagnata da una opprimente tristezza, ma neppure l’animo di chi offre si rallegri più del conveniente; e quando avranno compiuto tutto per bene, non attribuiscano nessun merito a se stessi così da perdere, tutto in una volta, quanto di bene hanno compiuto. Infatti, per non attribuire a sé la virtù della propria liberalità, ascoltino ciò che è scritto: Se qualcuno esercita un ufficio, lo faccia secondo la capacità che Dio gli comunica (1 Pt. 4, 11). Per non gioire smodatamente delle proprie beneficenze, ascoltino ciò che è scritto: Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili, abbiamo fatto quello che dovevamo fare (Lc. 17, 10). E perché la tristezza non guasti la liberalità, ascoltino ciò che è scritto: Dio ama chi dà con gioia (2 Cor. 9, 7). Affinché non cerchino una lode passeggera in cambio del dono, ascoltino ciò che è scritto: Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra (Mt. 6, 3), cioè: a un dono fatto con intenzione pia, non si mescoli la gloria della vita presente, e il desiderio della lode non tocchi un’azione giusta. Affinché non cerchino il contraccambio della grazia fatta, ascoltino ciò che è scritto: Quando fai un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici o i tuoi fratelli o i parenti o i vicini ricchi, perché non avvenga che essi ti ricambino l’invito e tu ne abbia il compenso; invece, quando fai un pranzo, invita i poveri, i malati, gli zoppi, i ciechi; e sarai beato perché loro non hanno da restituirti (Lc. 14, 12 ss.). E affinché non si tardi a dare ciò che va dato in fretta, ascoltino ciò che è scritto: Non dire al tuo amico: Va’ e ritorna e domani ti darò, quando puoi dare subito (Prov. 3, 28). Affinché, sotto il pretesto della liberalità, non dissipino inutilmente ciò che possiedono, ascoltino ciò che è scritto: Sudi, l’elemosina nella tua mano1. E perché non diano poco là dove è necessario molto, ascoltino ciò che è scritto: Chi semina con parsimonia, mieterà pure con parsimonia (2 Cor. 9, 6). Affinché, dove basta poco non offrano molto, e poi loro stessi, non potendo in alcun modo sopportare l’indigenza, erompano nell’impazienza, ascoltino ciò che è scritto: Non perché ci sia sollievo per gli altri e tribolazione per voi, ma perché nell’uguaglianza, la vostra abbondanza supplisca la loro indigenza, e la loro abbondanza venga a supplire la vostra indigenza (2 Cor. 8, 13-14). Infatti, quando l’animo di chi dà non sa sopportare l’indigenza, se si priva di molto cerca un’occasione di impazienza contro se stesso. Poiché prima bisogna predisporre l’animo alla pazienza e solo allora distribuire molto o anche tutto, perché non vada perduta la mercede della liberalità prestata; e la mormorazione che inoltre si aggiungerebbe non faccia perire più gravemente l’anima per il fatto che non si riesce a sopportare in pace l’improvviso bisogno. Affinché non avvenga che non diano nulla affatto a coloro cui qualcosa, anche poco, bisogna dare, ascoltino ciò che è scritto: Da’ a chiunque ti chiede (Lc. 6, 30). Ma affinché non diano, anche poco, a chi non debbono assolutamente nulla, ascoltino ciò che è scritto: Da’ al buono e non accogliere il peccatore: fa’ il bene all’umile e non dare all’empio (Sir. 12, 5-6). E ancora: Poni il tuo pane e il tuo vino sul sepolcro del giusto, e non mangiarne né berne insieme con i peccatori (Tob. 4, 18).
Infatti offre ai peccatori il suo pane e il suo vino colui che dà sussidi agli iniqui perché sono iniqui; perciò anche parecchi ricchi di questo mondo, mentre i poveri di Cristo sono afflitti dalla fame, mantengono con effusa liberalità gli istrioni. Chi invece dà il suo pane a un povero, anche peccatore, non perché è peccatore ma perché è uomo, evidentemente non mantiene un peccatore ma un povero giusto, poiché in lui non ama la colpa ma la. natura. Bisogna ammonire coloro che già distribuiscono i propri beni con misericordia, ad attendere con gran cura, mentre le elemosine redimono i peccati commessi, a non commetterne degli altri; e non stimino venale la giustizia di Dio così da pensare di poter peccare impunemente proprio mentre si preoccupano di distribuire denari per i peccati. Infatti l’anima vale più del cibo e il corpo più del vestito (Mt. 6, 25); chi allora dà cibo o vestito ai poveri, ma si macchia con l’iniquità dell’anima o del corpo, ha offerto ciò che vale di meno alla giustizia e ciò che vale di più al peccato; infatti, a Dio ha dato i suoi beni, e al diavolo se stesso. Al contrario, bisogna ammonire coloro che ancora si danno da fare per rapire i beni degli altri, ad ascoltare con sollecitudine quanto dice il Signore venendo al giudizio. Infatti dice: Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero pellegrino e non mi avete accolto, nudo e non mi avete coperto, infermo e in carcere e non mi avete visitato (Mt. 25, 42-43). E ad essi, subito prima dice: Allontanatevi da me, maledetti, nel fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e i suoi angeli (Mt. 25, 41). Ecco, quelli non ascoltano affatto questa sentenza perché abbiano commesso rapine e ogni genere di violenze, ma tuttavia vengono abbandonati al fuoco dell’eterna geenna. Da ciò bisogna dedurre quanto sarà grande la pena che colpirà coloro che rapiscono i beni altrui, se vengono colpiti con una punizione tanto grande coloro che semplicemente conservano troppo gelosamente i propri. Valutino con quale peccato li avvince il bene rapito se quello che non è stato semplicemente partecipato sottopone a una tale pena. Valutino che cosa meriti una ingiustizia inferta, se è degno di così grande castigo l’avere mancato di offrire pietà.
Quando si propongono di rubare i beni altrui, ascoltino ciò che è scritto: Guai a colui che moltiplica i beni non propri: fino a quando accumula contro di sé denso fango? (Ab. 2, 6). Per un avaro, cioè, accumulare il peso di denso fango significa accumulare guadagni terrestri col peso del peccato. Quando bramano di dilatare sempre più l’ampiezza della loro abitazione, ascoltino ciò che è scritto: Guai a voi che aggiungete casa a casa e unite campi a campi fino ai confini del paese. Forse abitate solo voi in mezzo alla terra? (Is. 5, 8). Come se dicesse apertamente: Fin dove volete estendervi, voi che, in questo mondo che è di tutti, non potete avere altri partecipi della vostra fortuna? In effetti voi opprimete i vostri vicini, ma trovate sempre contro chi farvi valere per estendervi. Quando anelano ad aumentare il loro denaro, ascoltino ciò che è scritto: L’avaro non si riempie col denaro e chi ama le ricchezze non trarrà frutto da esse (Qo. 5, 9). Certo ne trarrebbe frutto se volesse distribuirle bene senza amarle, ma chi le conserva con amore le abbandonerà assolutamente senza frutto. Quando ardono di riempirsi di tutte le ricchezze insieme, ascoltino ciò che è scritto: Chi ha fretta di arricchirsi non sarà senza colpa (Prov. 28, 20); infatti è certo, che chi aspira ad aumentare le sue ricchezze, trascura di evitare il peccato e, catturato come un uccello, mentre fissa avidamente l’esca di beni terreni, non si accorge da quale laccio di peccato resta strangolato. Quando desiderano guadagni di qualsiasi genere, del mondo presente, e ignorano i danni che dovranno patire in quello futuro, ascoltino ciò che è scritto: L’eredità per la quale ci si affretta in principio, alla fine non avrà benedizione (Prov. 20, 21). Cioè, da questa vita noi traiamo inizio per giungere a ottenere benedizione alla fine; pertanto, chi ha fretta di ereditare in principio, taglia via da sé la sorte della benedizione alla fine. Poiché, mentre per il peccato di avarizia bramano di moltiplicare qui i loro beni, là resteranno diseredati del patrimonio eterno. Quando o ambiscono a molti beni o possono raggiungere tutto quanto hanno ambito, ascoltino ciò che è scritto: Che cosa giova all’uomo se guadagna tutto il mondo ma reca danno alla sua anima? (Mt. 16, 26).

È come se la Verità dicesse apertamente: Che cosa giova all’uomo raccogliere tutto quello che esiste fuori di lui, se danna questa sola cosa che è lui stesso? Tuttavia spesso si corregge più rapidamente l’avarizia degli uomini rapaci, se nelle parole di chi li ammonisce si dimostra quanto sia fugace la vita presente; se si richiama la memoria di coloro che a lungo hanno cercato di arricchire in questa vita e tuttavia non poterono restare a lungo a godere delle ricchezze ottenute, poiché la morte improvvisa, di colpo e tutto in una volta, ha portato via tutto ciò che, non di colpo né tutto in una volta, la loro iniquità aveva messo insieme; ed essi non solamente lasciarono qui le ricchezze rubate, ma condussero con sé, al giudizio, le accuse di rapina. Ascoltino dunque gli esempi offerti da costoro, che senza dubbio loro stessi condannano a parole, affinché quando queste parole di condanna rientrano nel loro cuore, arrossiscano almeno di imitare coloro che giudicano.

 

21 — Come bisogna ammonire coloro che non bramano i beni altrui, ma si tengono i propri e coloro che pur distribuendo i propri, rapiscono tuttavia quelli degli altri

 

Diverso è il modo di ammonire coloro che né bramano i beni altrui né elargiscono i propri; e coloro che distribuiscono i beni che hanno e tuttavia non desistono di rapire quelli altrui. Bisogna ammonire coloro che né bramano i beni altrui né elargiscono i propri, a sapere che quella terra dalla quale sono stati presi è comune a tutti gli uomini e perciò produce anche i mezzi di sopravvivenza a tutti allo stesso modo. Pertanto vanamente si considerano innocenti coloro che rivendicano ad uso privato il dono comune di Dio; i quali, quando non distribuiscono ciò che hanno ricevuto, operano in qualche modo l’assassinio del prossimo; perché quasi ogni giorno ne uccidono tanti, quanti sono i poveri che muoiono mentre essi nascondono presso di sé quegli aiuti che erano loro. Infatti, quando distribuiamo agli indigenti qualunque cosa, non elargiamo roba nostra ma restituiamo loro ciò che ad essi appartiene; e assolviamo piuttosto a un debito di giustizia più che compiere opere di misericordia. Perciò la Verità stessa parlando di nome non bisogna ostentare la misericordia, dice: Badate di non fare la vostra giustizia davanti agli uomini (Mt. 6, 1). E a ciò si accorda pure il salmista che dice: Disperse, diede ai poveri, la sua giustizia rimane in eterno (Sal. 111, 9). Infatti, dopo avere nominato la liberalità esercitata verso i poveri, preferisce chiamarla giustizia e non misericordia, poiché è certamente giusto che quanto viene distribuito dal comune Signore, chiunque ne riceve lo usi a vantaggio comune. Perciò anche Salomone dice: Chi è giusto darà e non cesserà (Prov. 21, 26). Bisogna anche ammonirli a stare molto attenti che l’agricoltore esigente si lamenta contro il fico che non dà frutto perché, oltre a ciò, tiene occupato il terreno. Il fico, cioè, tiene il terreno occupato senza frutto quando l’animo degli avari conserva inutilmente ciò che avrebbe potuto giovare a molti. Il fico occupa senza frutto il terreno quando lo stolto opprime con l’ombra della pigrizia un luogo che un altro sarebbe stato in grado di sfruttare col sole delle buone opere. Costoro tuttavia spesso sogliono dire: Usiamo ciò che ci è stato dato e non cerchiamo la roba d’altri, e se non agiamo in modo degno di una ricompensa di misericordia, tuttavia non commettiamo nulla di male. E pensano così perché evidentemente chiudono l’orecchio del cuore alle parole celesti; infatti neppure il ricco dell’Evangelo, che vestiva di porpora e di bisso e banchettava splendidamente ogni giorno (cf. Lc. 16, 19 ss.), aveva rapito i beni altrui, ma è dimostrato che egli aveva usato dei propri senza frutto; e dopo questa vita lo accolse la geenna vendicatrice, non perché aveva compiuto qualcosa di illecito, ma perché si era dato tutto alle cose lecite con uso smodato.
Bisogna ammonire questi avari a rendersi conto che la prima offesa la fanno a Dio, poiché a colui che dà loro tutto, essi non rendono alcun sacrificio di misericordia. Perciò il salmista dice: Non darà a Dio la sua espiazione né il prezzo del riscatto della sua anima (Sal. 48, 8-9). Infatti dare il prezzo del riscatto è rendere una buona opera alla grazia che ci previene. Perciò Giovanni esclama: La scure è ormai alla radice dell’albero. Ogni albero che non fa buon frutto sarà tagliato e gettato nel fuoco (Lc. 3, 9). Dunque, coloro che si giudicano innocenti perché non rubano i beni altrui, faranno bene a prevedere il colpo della scure vicina e a rigettare il torpore di una improvvida sicurezza, affinché, mentre trascurano di portare il frutto di buone opere, non vengano tagliati via del tutto dalla presente vita, come da una rigogliosa radice. Al contrario, bisogna ammonire coloro che distribuiscono ciò che hanno e poi non cessano di rapire i beni altrui, a non aspirare di apparire sommamente munifici e così divenire peggiori sotto l’apparenza del bene. Costoro infatti, distribuendo senza discrezione i propri beni, non solo, come abbiamo già detto, cadono nella mormorazione dell’impazienza, ma poi, costretti dal bisogno, ripiegano fino all’avarizia. Che cosa c’è dunque di più infelice dell’animo di coloro per i quali l’avarizia nasce dalla liberalità e la messe dei peccati è come avesse il suo seme nella virtù? Così bisogna innanzi tutto ammonirli a sapere conservare con raziocinio i propri beni e quindi a non ambire a quelli degli altri; se infatti la colpa non viene bruciata alla radice proprio nel suo stesso espandersi, la spina dell’avarizia, diffondendosi per i rami, non si secca mai. Pertanto si toglie l’occasione di rubare, se in precedenza si stabiliscono con chiarezza i limiti del diritto di possedere. Allora solo, coloro che sono stati così ammoniti, ascoltino in che modo devono distribuire, secondo misericordia, ciò che possiedono; cioè, quando avranno imparato a non mescolare il bene della misericordia con la malizia del furto, giacché essi ricercano poi, con la violenza, ciò che hanno elargito con la misericordia.

Ma altra cosa è fare misericordia per i peccati e altra peccare per fare misericordia; che, fra l’altro, non si può nemmeno più chiamare misericordia, poiché non può dare dolce frutto l’albero che diviene amaro per il veleno di una radice pestifera. È perciò, infatti, che per mezzo del profeta il Signore rimprovera gli stessi sacrifici dicendo: Io, il Signore, che ama la giustizia e odia la rapina nel sacrificio (Is. 61, 8). Perciò ancora disse: Abominevoli sono i sacrifici degli empi, che vengono offerti dal delitto (Prov. 21, 27). Poiché essi spesso sottraggono anche ai poveri ciò che offrono a Dio. Ma con quanto biasimo li rifiuti, il Signore lo dimostra dicendo, per mezzo di un sapiente: Chi offre un sacrificio con le sostanze dei poveri è come uno che immola un figlio alla vista di suo padre (Sir. 34, 24). Infatti, che cosa può esserci di pila insopportabile che la morte del figlio davanti agli occhi del padre? Si manifesta così con quanta ira sia riguardato questo sacrificio che viene paragonato al dolore di un padre privato del figlio. E tuttavia spesso pesano quel che danno, ma omettono di considerare quel che rubano. Contano quel che danno come fosse una paga, ma rifiutano di pesare attentamente le colpe.

Ascoltino pertanto ciò che è scritto: Chi ha raccolto le paghe le ha messe in un sacchetto bucato (Ag. 1, 6), poiché si vede, quando si mette il denaro in un sacchetto bucato, ma non si vede quando lo si perde. Pertanto, coloro che guardano a quanto elargiscono, ma non considerano quanto rapiscono, mettono le paghe in un sacchetto bucato, perché certamente le accumulano guardando alla speranza di ricompensa cui si affidano; ma senza guardare le perdono.

 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)