DIFENDERE LA VERA FEDE

LA PAZIENZA DEL TRADIZIONALISTA VERO: ottimo articolo di Don Alfredo Morselli, imperdibile

  • Messaggi
  • OFFLINE
    Caterina63
    Post: 39.988
    Sesso: Femminile
    00 11/12/2013 19:00




    La Madonna Santa e il latino liturgico

     
    di Don Alfredo Morselli


    1. La pazienza del tradizionalista a dura prova

    Una delle obiezioni, che mette più a dura prova la pazienza del cosiddetto tradizionalista, è quella che suona nel seguente modo: «Ma io non so il latino e non capisco la Messa; la Messa in latino è incomprensibile e io desidero capire la Messa… vogliopartecipare attivamente… etc etc».
     
    E così il tradizionalista si ritrova, suo malgrado, a essere identificato come colui che non vuole capire la S. Messa, e/o come colui che neppure vuol far capire agli altri la S. Messa, e/o come colui che non vuole assolutamente partecipare attivamente alla S.Messa, e tutto questo - o tempora, o mores - dopo il Concilio! ovvero niente meno che nell’età dell’oro della liturgia, dove certe cose non dovrebbero passare neppure per l’anticamera del cervello.
     
    Al che, il tradizionalista, avendo fatto il callo all’enchiridion stupiditatum, ovvero al Denzinger dei nuovi dogmi dell’ideologia paraconciliare - per alcuni gli unici dogmi indiscutibili - scuote la testa e riprende con maggior zelo il suo bonum certamen.
     
    Queste righe non vogliono altro che essere, in ossequio alla natura razionale della fede, la ricerca dell’intellectus - id est della credibilità e della ragionevolezza - della plurisecolare prassi della S. Madre Chiesa, assistita dallo Spirito Santo non solo negli ultimi cinquant’anni.

    2. Una bella pretesa: capire la Messa

    Innanzi tutto, l’espressione voglio capire la Messa è quasi blasfema (se intesa nel senso di capire perfettamente tutto): questa pretesa, spesso enunciata trionfalmente, è a prova più eclatante della sconfitta di una certa prassi pastorale-liturgica postconciliare. La Messa non si capisce, come non si capisce la SS. Trinità, o l’Unione ipostatica. Per spiegare queste affermazioni, vorrei fare alcune considerazioni su come, verosimilmente, la Vergine Santissima assisteva alle prime S. Messe celebrate dagli Apostoli. Oltre che ad essere modello della nostra partecipazione liturgica, non si potrà dire che non partecipava attivamente!
     
    3. La Madonna e le prime Messe celebrate dagli Apostoli
     
    Il santo evangelista Luca ci narra due episodi della vita di Gesù, in cui si dice che la Madonna custodiva nel suo Cuore i fatti accaduti: si tratta della vista dei pastori a Gesù bambino (Lc 2,19: “Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”) e del ritrovamento di Gesù tra i dottori del tempio (Lc 2,52: “Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore”). Possiamo ragionevolmente ritenere che Maria custodisse nel suo Cuore Immacolato non solo questi misteri della santa infanzia, ma tutti i misteri della vita del Figlio.
    Ora pensiamo a quando la Vergine assisteva alle prime S.Messe celebrate dagli Apostoli. La S. Messa è innanzi tutto - simpliciter - la rinnovazione del Santo Sacrificio del Calvario, ma - secundum quid - contiene tutti i misteri della vita di Cristo: da un lato, come afferma Dionigi Certosino, “tutta la vita di Gesù Cristo è stata una celebrazione della santa Messa, nella quale Egli stesso era l’altare, il tempio, il sacerdote e la vittima”; dall’altro, come afferma il Sanchez, chi assiste a una Messa è “come se avesse vissuto ai tempi del Salvatore e avesse assistito a tutti i suoi misteri” (cit. in Martino de Cochem O.M.C., La Santa Messa, Milano 1932, p. 62). E San Bonaventura afferma che nella S. Messa ci sono tanti misteri “quante gocce d’acqua sono nel mare, quanti atomi di polvere nell’aria e quanti angeli nel cielo” (cit. in Ibidem, p. 36).
    In conseguenza di ciò, quando la Vergine assisteva alla Messa, rivedeva e ripensava a tutti i misteri della vita del Figlio, misteri custoditi nel suo Cuore Immacolato.
     
    4. Come la Madonna custodiva nel Cuore i misteri della vita del Figlio, e quindi della Messa.
     
    La Madonna custodiva i Misteri della vita del Figlio alla luce della fede; noi sappiamo che la fede della Madonna è sempre stata integra e mai adulterata da alcun dubbio (cf. Lumen Gentium, 63); ma quella visione di fede non era ancora era quella comprensione perfetta che ora Ella in ha in cielo: la sua fede era certissima, ma non evidente.
    Come dice San Tommaso, “la fede comporta una cognizione imperfetta (…) Trascende l'opinione, in quanto comporta una ferma adesione; rispetto alla scienza, manca del fatto che non ha l’evidenza [S. Th. Iª-IIae q. 67 a. 3 co.]”; ancora l’Aquinate: “L’atto del credere ha un'adesione ferma a una data cosa, e in questo chi crede è nelle condizioni di chi conosce per scienza, o per intuizione: tuttavia la sua conoscenza non è compiuta mediante una percezione evidente; e da questo lato chi crede è nelle condizioni di chi dubita, di chi sospetta e di chi sceglie una opinione. E sotto questo aspetto è proprio del credente cogitare approvando: ed è così che l'atto del credere si distingue da tutti gli atti intellettivi che hanno per oggetto il vero e il falso” [S. Th.IIª-IIae q. 2 a. 1 co]
    La perfetta fede di Maria non implicava quindi che Ella avesse chiari tutti i misteri della fede e che non facesse alcuna fatica a credere: i misteri della fede sopravanzavano anche le capacità dell'intelletto della Madonna e quindi anche Maria pativa l'inevidenza dei misteri stessi. Anche Lei cogitava approvando.
    Ora pensiamo a quando la Vergine assisteva gli Apostoli, che, tremebondi e commossi, adempivano per le prime volte al mandato fate questo in memoria di me: Ella ripercorreva tutti i misteri della vita del Figlio, non li comprendeva ancora come in Cielo, non ne aveva l’evidenza ma li serbava tutti nel suo Cuore (avendone ferma approvazione).
     
     5. La parola-fatto
     
    S. Luca, quando vuole indicare ciò che Maria Santissima custodiva nel Cuore, usa il termine greco rêma, che non significa semplicemente parola, ma corrisponde all’ebraico dabar, che significa parola-fatto. Il cristianesimo non è una teoria, è una persona, è il regno di Dio fattosi vicino nella persona di Gesù Cristo; ma non è neanche una esperienza irrazionale, bensì comprende necessariamente l’adesione a una dottrina e la formulazione di giudizi.
    La parola ebraica dabar, nel suo significato di parola-fatto, è dunque particolarmente adatta ad indicare i misteri della vita di Nostro Signore, che non sono né fatti senza pensiero, né pensieri senza fatti.
    Chiude dunque la porta al mistero chi ipertrofizza l’importanza della comprensione razionale esplicita rispetto al fatto, chi confonde la catechesi liturgica con la celebrazione (pensiamo alle continue mozioni spesso abusive, durante la Messa, per spiegare il mistero che, proprio perché troppo esplicitato, rimane sostanzialmente incompreso). La liturgia totalmente in volgareper capire non è altro che un goffo tentativo di rendere more geometrico demonstrato  ciò che non è dimostrabile, ma ciò di cui si può solo cogitare assentendo, alla scuola della Vergine Maria. In altre parole, una banalizzazione, da cui ci ha messi in guardia Benedetto XVI, in uno dei suoi ultimi interventi:
    “Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio – se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle Epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo.  

    (…)
    “Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata … e il vero Concilio ha avuto difficoltà a concretizzarsi, a realizzarsi; il Concilio virtuale era più forte del Concilio reale. Ma la forza reale del Concilio era presente e, man mano, si realizza sempre più e diventa la vera forza che poi è anche vera riforma, vero rinnovamento della Chiesa” (Incontro con i Parroci e il Clero di Roma,  14 febbraio 2013).
    6. La lingua sacra.
     
    Quando diciamo sacro e profano, non diciamo buono e cattivo, ma parliamo di due cose in sé ottime, ma di due ordini diversi.
    Sentiamo ancora San Tommaso:
    “…dalle differenze di tali beni scaturiscono le differenze dell'amore di Dio verso la creatura. C'è infatti un amore universale, con il quale "egli ama tutte le cose esistenti", come dice la Scrittura; e in forza di esso viene elargita l'esistenza naturale a tutte le cose create. C'è poi un amore speciale, di cui Dio si serve per innalzare la creatura ragionevole, sopra la condizione della natura, alla partecipazione del bene divino. E in questo ultimo caso si dice che Dio ama una persona in senso assoluto: poiché con questo amore Dio vuole senz'altro alla creatura quel bene eterno, che è lui medesimo” (S. Th. Iª-IIae q. 110 a. 1 co.)
    Quando la Sacrosanctum Concilum descrive l’azione liturgica come sacra per eccellenza (§ 7), vuole indicare che la liturgia è il luogo dove per eccellenza e al massimo grado si sperimenta quell’amore speciale per cui Dio vuole alla creatura ragionevole quel bene eterno che è lui medesimo.
    Quando Dio ci sostiene mentre mangiamo, lavoriamo, agiamo, senz’altro Dio ci ama: ma quando Dio ci dona se stesso, ci ama al massimo grado.
    Purtroppo la banalizzazione delle istanze della nouvelle théologie ha prodotto un disastro. De Lubac, ritenendo inutile il concetto di natura pura, ha fornito una base per ogni desacralizzazione futura (di certo non voluta o pensata dallo stesso De Lubac); infatti, se non si salva la natura, realmente e concretamente, non ha più senso parlare di soprannaturale, come non ha senso parlare di un secondo piano se non c’è il primo. Tutto è soprannaturale coincide con tutto è naturale, con esiti, a cui certo De Lubac non pensava e non voleva, logicamente panteistici.
    Diceva il grande Garrigou-Lagrange, nel tentativo - storicamente vano, ma dottrinalmente perennemente efficacissimo - di fermare gli equivoci della Nouvelle Théologie: Si non est natura proprie dicta, nec est supernaturale proprie dictum («De evolutionismo et de distinctione inter ordine naturale et ordine supernaturale», in AA.VV., El evolucionismo en filosofia y en teologia, Barcelona: Juan Flors, 1955, p. 277).
     
    Perché dunque lingua sacra, canto sacro, paramenti sacra, sacra suppellettile, balaustra o iconostasi delimitante spazio sacro… non  per tener fuori i laici o per non far loro capire la Messa, ma perché, se la liturgia è la massima espressione dell’amore speciale con cui Dio dona direttamente se stesso, a misteri, frutto di un amore speciale, deve corrispondere, per la verità della cose, una lingua speciale, delle vesti speciali, uno spazio speciale, un canto speciale, dei gesti speciali…
     
    7. In conclusione…
     
    Partecipare a una conversazione oppure entrare nel mistero? Se partecipiamo ad una conversazione, l’unica cosa importante è capire la lingua dell’interlocutore. Ma mentre il trinariciuto vaticansecondista orripilisce davanti al minimo Dominus vobiscum, il buon cattolico non è così manicheo. Ben venga una parte più ampia (SC § 36) al vernacolo; ma, se la Messa non è una conversazione, se ciò a cui partecipiamo è un mistero; se, chiedendo in prestito alla Vergine Santissima qualche pensiero del Suo cuore, proviamo a contemplare i misteri della vita di Gesù Cristo… allora una lingua che ci ricorda che ciò che ci avvolge è unamore speciale e che ciò che cogitiamo assentendo è un dabar, una parola-fatto oggettivamente incomprensibile, ovvero comprensibile quando saremo beati - comprensori appunto - la lingua sacra è indispensabile e necessaria; con il Vaticano II diciamo che il suo uso  sia conservato (SC § 36).

    E se il vaticansecondista trinariciuto mi dice:  finalmente capisco la Messa, gli rispondo: “Capiresti qualcosa della Messa se tu mi dicessi: - Ho capito che la Messa è incomprensibile - ”.


     





    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
  • OFFLINE
    Caterina63
    Post: 39.988
    Sesso: Femminile
    00 12/12/2013 13:23

    “tenendosi per mano al mondo, senza assegnarsi più il compito di insegnare ma solo quello di accompagnare, la Chiesa prosegue senza freni nel processo di liquefazione”

    di  Alessandro Gnocchi – Mario Palmaro

    fonte: Il Foglio

    prttlrSe l’urticante “Questo Papa non ci piace” fosse stato l’incipit di un feuilleton per amanti di talari e vecchi merletti con un tocco mondano che piace anche al cattolico che piace, ora potrebbe trovare epilogo in un gagliardissimo “vissero a lungo felici e contenti”. Dopo tanto vociare, giungerebbe puntuale un travolgente happy end per protagonisti, antagonisti, comprimari e comparse, perché il mondo cattolico d’oggi è fatto così: non ama nulla tanto follemente quanto l’unità. Erede, e se non fosse per la fede incrollabile nel divino “non praevalebunt” verrebbe da dire capolinea, di una storia cresciuta rigogliosa nel sangue dei martiri, non vuole percepire neanche l’eco del conflitto. Brama l’unità, non importa in che cosa e per far cosa, purché nessuno turbi l’acqua cheta in riva alla quale stanno tutti a godersi il pallido sole della pentecoste secolare.

    Anche i villani malcreati si vorrebbe tenerli nel recinto, persino quelli che, invece di sdraiarsi sul salvettione in riva allo stagno, non riescono a trattenersi dal tirarci il sasso. Così, nel bel mezzo della polemica, quelle canaglie a prescindere che criticavano Papa Francesco, si son sentite suggerire di accomodare la questione con uno scritto su tutto il bello del pontificato in corso. Per non cadere in tentazioni scismatiche, sarebbe bastato incontrarsi a metà strada come al mercato del bestiame, dove ogni sensale stringe sorridendo la mano all’altro, convinto di averlo fregato. Oppure, a dar retta ad altri, sarebbe stata una gran cosa seguire la massima eterna e perbenino del si fa ma non si dice, opportunamente declinata nel clerical-intellettuale si pensa ma non si scrive. E per altri ancora, secondo cui fino a ieri bisognava adottare lo stile razionale e accademico di Ratzinger, oggi sarebbe meglio essere un po’ gesuiti e un po’ tangueri e domani chissà. Tutto, naturaliter, a maggior gloria di quella benedetta unità.

    Come se si trattasse di una questione politica: e invece si tratta di una questione di fede. Come se si trattasse di ritirare una mozione al congresso del partito: e invece si tratta di chiarirsi in famiglia. Qui non si fa la conta delle tessere, si mettono a nudo le anime per amore di Nostro Signore, della sua croce, della Chiesa che è il suo Corpo mistico e del suo Vicario che ora si chiama Francesco. Mettere pubblicamente in questione parole e gesti dell’autorità, specie se è tuo padre, è un atto che scuote fin nelle radici dell’anima, anche quando lo si fa in nome di una verità e di una casa di cui lui è il servus servorum.

     A un padre si può dire sì per amore, per obbedienza, per riverenza, per convinzione, per convenienza e anche per debolezza o per codardia. Ma gli si dice un no cristiano e virile solo per amore. Dire sì, a volte, può essere doloroso, dire no lo è sempre. Dire sì può costare l’incomprensione si chi sta fuori dalla casa, dire di no costa sempre l’incomprensione anche di chi sta dentro. Dire di no al padre in nome del tesoro di cui è custode non è un atto di ribellione orgogliosa, ma premessa a momenti di solitudine e di dubbio in cui consola soltanto il sentirsi comunque dentro casa.

    Onorare l’impegno di viri christiani assunto con il battesimo non è privo di spine. E se le spine sono sempre le stesse, invece che creare abitudine e assuefazione, producono un dolore sempre più penetrante e acuto perché sempre più consapevole e gradito. Può darsi che sia questa la prova affidata oggigiorno ai piccoli di casa che si baloccano con le storie di famiglia fatte di insegnamenti tramandati nei secoli, di riti, di preghiere e di ammonimenti. A questi bambini fa male ma non fa scandalo che il padre non si curi delle loro piccole pene e li chiami, ancora una volta, “profeti di sventura”. Continuano a mostrare le loro spine, anche se sanno di infastidire i grandi, perché questo è tutto ciò che sono capaci di fare.

    I bambini sono fatti così, non fa niente se si torna ogni volta da capo e ricomincia la solita storia: “Il Concilio Vaticano II” dice Papa Francesco nella sua Esortazione apostolica “ha affermato che, in modo analogo alle antiche Chiese patriarcali, le conferenze episcopali possono ‘portare un molteplice e fecondo contributo, acciocché il senso di collegialità si realizzi concretamente’. Ma questo auspicio non si è pienamente realizzato, perché ancora non si è esplicitato sufficientemente uno statuto delle conferenze episcopali che le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale. Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria”.

    Qui giunti, riesce difficile non correre con la mente a certi passi della “Sacrosanctum Concilium”, la Costituzione del Vaticano II in cui l’autorità liturgica di Roma è stata minata con maliziose infiltrazioni di desistenza a beneficio delle esigenze locali. Si ribadiva l’uso del latino, per esempio, e subito dopo si concedeva mano libera all’introduzione del vernacolo e degli usi regionali. Ma, in tal modo, si ponevano le basi teoriche di una creatività che risponde alle esigenze della latitudine e dell’estro personale invece che alle leggi di Dio. La conseguente deriva subita in questi ultimi cinquant’anni dalla lex orandi non sembra un buon viatico per la lex credendi data in pasto alle Conferenze episcopali.

    Le assemblee nazionali e regionali dei vescovi si sono trasformate in veri e propri centri di potere ecclesiale che sottraggono autorità e peso a Roma dopo aver annichilito il ruolo del singolo pastore. Aumentarne il peso in campo dottrinale implicherebbe un vulnus irreparabile per la tradizionale trasmissione della fede dal Papa al vescovo nella sua diocesi fino ai parroci e ai fedeli. Interrotta questa catena, che è a servizio della verità e quindi di ogni uomo, si sta assistendo a una sorta di nazionalizzazione del cattolicesimo: un vero e proprio ossimoro religioso, se si pensa che nazionale significa particolare e cattolico significa universale. Ogni Paese, sui temi più disparati, esprime una sua dottrina: talvolta opposta a quella di altri Paesi, non di rado diversa.

    Dietro il paravento dell’inculturazione e della legittima attenzione a stili e culture, prende corpo una sorta di federalismo dottrinale. E’ difficile pensare a un progetto diverso quando si legge: “Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un contenuto transculturale”. Ma sul legame inscindibile tra cultura biblica e pensiero greco non la pensavano allo stesso modo Giovanni Paolo II nella “Fides et ratio” e Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona.

    Il virtuoso adagio che vuole la lex credendi accompagnarsi alla lex orandi, di questi tempi ne fa due spine che non possono stare separate. Se nella dottrina sono stati oscurati il rigore della ragione e l’asprezza del dogma, nella liturgia sono stati censurati l’esigenza del sacrificio e lo scandalo brutale della croce. Nel pregare, come nel credere, il protagonista è diventato l’uomo, che è andato a sostituire la centralità di Dio.

    Così, mentre nella Messa preconciliare centrata sulla rinnovazione incruenta del Sacrificio del Calvario, l’uomo è chiamato a partecipare alla passione di Cristo per meritare, anche se indegno, di essere glorificato con Lui, in quella postconciliare diviene commensale di Dio al banchetto in cui celebra la propria gloria fondata sulla libertà. Nel primo caso il cristiano è chiamato a compatire con Gesù, nel secondo è invitato a collaborare con Dio. Se prima adorava, chiedeva perdono e offriva il proprio nulla davanti al Figlio di Dio sacrificato, ora si limita a rendere grazie della libertà che lo rende somigliante a Dio.

    Non è un caso se, tra le molte parti della Messa antica eliminate nel nuovo messale, c’è quella in cui prima di salire all’altare il sacerdote si inchina a chiedere perdono come il pubblicano della parabola del Vangelo di San Luca. Lui, che presta il suo corpo a Cristo, confessa a Dio Onnipotente, alla Beata Maria sempre Vergine, al beato Miche Arcangelo, al beato Giovanni Battista, ai Santi apostoli Pietro e Paolo, a tutti i Santi, al chierichetto inginocchiato al suo fianco, al sacrestano che ha preparato l’altare e a tutti i fedeli compresi i più barabba che ha molto peccato in pensieri, parole e opere “mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa”. E ha l’umiltà di farsi confortare anche  dall’ultimo dei barabba che gli risponde: “Il Signore abbia misericordia di te e, rimessi i tuoi peccati, ti conduca alla vita eterna”. Se questi, secondo i nuovi canoni, sono farisei che “dicono preghiere”, viene da chiedersi cosa sia il cristiano d’oggi, privo del senso del peccato e indotto dal nuovo rito a considerare compiaciuto: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano”.

    Poi, una volta uscito di chiesa, il fariseo felice di non essere come gli altri peccatori si avvia a patteggiare con lo spirito  mondano: sufficiente e orgoglioso al punto giusto. Questa spina, che i cattolici infanti hanno colto sulla pianta del Vaticano II, ha ridefinito l’antico rapporto Chiesa-mondo. Fino al Concilio, la Chiesa sapeva di dover insegnare una dottrina ostica al vasto campo dell’umanità, che una scrittrice cattolica come Flannery O’Connor chiamava significativamente il territorio del diavolo. Era il mondo come spazio da evangelizzare, ma anche come nemico dichiarato della Chiesa, pericoloso perché impegnato da sempre a combatterla. Lo schema evocava naturalmente la militanza come categoria feriale e ineluttabile del cattolico fervente. Era un modello semplice e lineare, durato quasi duemila anni: la Chiesa insegna, il mondo in parte accoglie, in parte respinge, e così fino alla fine dei tempi. Oggi le posizioni si sono capovolte. La Chiesa si dichiara “in ascolto” del mondo, benigna al cospetto delle sue istanze, bisognosa di imparare, di capire, di comprendere, di cambiare pelle pur di seguire la mondanità in tutte le sue evoluzioni. Scopre di possedere lo stesso sguardo, di avere lo stesso sangue e, fatalmente, si accontenta di fare un po’ di strada insieme.

    Così, tenendosi per mano al mondo, senza assegnarsi più il compito di insegnare ma solo quello di accompagnare, la Chiesa prosegue senza freni nel processo di liquefazione. Intimidita da ciò che sta fuori le mura, risulta completamente inerme anche al cospetto dei tradimenti interni. Una vittima perfetta per la collaudata strategia modernista descritta da San Pio X, che non aggredisce frontalmente la dottrina, ma la erode attraverso la tecnica della diluizione. Le verità morali o dogmatiche vengono lasciate decadere e sottaciute, svuotate di significato oggettivo, svaniscono sullo sfondo in dissolvenza, mentre pastori e teologi parlano, parlano, parlano: parlano d’altro e parlano in altro modo. Diffondono il niente sostenuto da un linguaggio approssimativo, evocativo, emozionale che ha esautorato il tradizionale e faticoso linguaggio definitorio, didattico, assertivo. Nulla è dimenticato, ma in realtà tutto è tradito in un limbo un po’ pelagiano e un po’ luterano senza essere mai veramente cattolico.

    Spine come questa non sono spuntate improvvisamente con il pontificato di Papa Francesco, ma sarebbe ingenuo tacere che troppi oggi le colgono come fossero i primi fiori di un’altra primavera promessa. In un libro di quarant’anni fa, Jean Madiran definiva fin dal titolo questo fenomeno come “L’eresia del XX secolo”. Una debacle teologica che “si basa sull’immaginario. E’ una mitologia. Non parte da una concezione falsa di natura e grazia ma da un disconoscimento radicale dell’ordine naturale, il quale porta con sé anche un disconoscimento dell’ordine sovrannaturale. Non si fonda su un aspetto della realtà svalorizzandone o sfigurandone altri aspetti: essa si trova tutta intera fuori da ogni realtà, sta in un limbo ideologico verbale. Non disconosce la realtà naturale e non si inganna: la respinge, distoglie da essa le anime per indirizzarle altrove, verso il nulla”.

    Il modernismo e i suoi derivati, pur dichiarando l’obiettivo prossimo di una nuova teologia, in realtà, come ha mostrato Karl Rahner, mirano all’impossibilità della teologia. Se attaccano il termine “consustanziale” del simbolo di Nicea non lo fanno per affermare un’altra teologia della Trinità, ma per negarla e sprofondare di conseguenza in un vortice nichilista negando l’intelligibilità del reale. Se i concetti di natura, sostanza e persona cambiano a seconda delle mode filosofiche, la legge naturale finirà per non avere alcuna consistenza immutabile, diventerà espressione della coscienza collettiva. E il cerchio anticristico si sarà chiuso: niente più discorso su Dio e, di conseguenza, niente più discorso sull’uomo e niente più ordine nel mondo. Il programma della rivoluzione.

    “La filosofia moderna” dice Madiran “non è in essenza una filosofia, è un atteggiamento religioso al livello della religione naturale, una contro-religione naturale, l’opposto dei primi quattro comandamenti del Decalogo. Essa contesta ogni dipendenza del soggetto pensante e lo stabilisce in una aseità e in una autarchia. E se la filosofia moderna si è sempre più sviluppata nel senso di una prassi, è che non si trattava soltanto di credere o di pretendere, ma, mostruosamente, di ‘far sì’ che il soggetto pensante si facesse autonomo e indipendente. (…) la praxis moderna equivale a dire che le cose dovrebbero essere solo ciò che il soggetto pensante vuole che siano”.

    Prima ancora dei fedeli, le vittime di una tale deriva della coscienza nelle lande dell’autonomia sono stati i sacerdoti. Gettati in pasto al mondo senza poterlo abbracciare del tutto per quel “Tu es sacerdos in aeternum”, quel carattere sacramentale impresso una volta per sempre, si sono trovati improvvisamente fuori posto. Fuori sincrono finanche nell’abbigliamento che è andato scimmiottando quello secolare mantenendo un che di clericale che si percepisce anche a occhio laico. Da qui discende la crisi drammatica, fatta di copiosi abbandoni, di gravi e diffusi problemi morali, di crollo verticale delle vocazioni, di smarrimento di identità e di passione.

    Non sarà certo impregnandosi dello stesso odore delle pecore che i pastori riprenderanno a guidare il gregge e a difenderlo dai lupi. Il pastore che sa di pecora, al più, può essere un onest’uomo. Ma i fedeli non possono accontentarsi di parroci che siano solo onest’uomini. L’abate Giovanni Battista Chautard in aureo libretto intitolato “L’anima di ogni apostolato” diceva impietosamente: “A sacerdote santo, si dice, corrisponde un popolo fervente; a sacerdote fervente un popolo pio; a sacerdote pio un popolo onesto; a sacerdote onesto un popolo empio”.

    Anche per oggi, niente happy end. Ma non fa niente, i bambini ci riprovano, sono fatti così.



     


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
  • OFFLINE
    Caterina63
    Post: 39.988
    Sesso: Femminile
    00 26/12/2013 14:32


    Il nostro lettore Viandante ci invia, lo ringrazio e volentieri pubblico, il seguente testo tratto da: “Breve Apologia della Chiesa di sempre” di R.T. Calmel O.P. (Editrice Ichthys 2007).


    Pubblicato da Maria Guarini (26/12/2013)


    image


    EPILOGO


    La menzogna modernista


    È utile smascherare gli stratagemmi dei modernisti, far vedere che questi eretici mentono quando pretendono di non toccare la Chiesa, ma di aiutarla soltanto a rinnovarsi e ad espandersi. In realtà la tradiscono, vogliono farla morire, perché le strappano ipocritamente ciò che è necessario alla sua vita, per sostituirvi ciò che dovrebbe farla morire se non avesse la promessa divina di superare qualsiasi disastro. In effetti alla Chiesa, che è maestra di verità, i modernisti pretendono di imporre un modo di dire e un tipo di magistero che la muterebbero in una pseudo-profetessa diabolica, che impartisce al mondo una dottrina infinitamente fluida in una fraseologia vagamente cristiana. Alla Chiesa, che dispensa la grazia di Dio tramite i sette Sacramenti e che offre al Signore l’unico vero Sacrificio, pretendono di imporre un altro Messale ed un altro rituale che generalizzerebbero la liturgia in una misera impresa di rappresentazioni sedicenti religiose. La tara essenziale dei modernisti è la menzogna: mentono e vorrebbero trasformare la Chiesa nella perfetta istituzione della menzogna universale. A questo scopo si applicano a spogliarla di tutto ciò che la fa vera. Vogliono toglierle tutti i mezzi indispensabili e tradizionali che la fanno essere vera: il potere di giurisdizione e anche il potere d’ordine sono minacciati nella loro efficienza dalla collegialità, la Messa è esposta all’invalidità per l’alterazione dei riti; il dogma scompare per l’abbandono sistematico delle formule irreformabili; la santità infine si dissolve in fantasticherie umanitarie in forza dello pseudo messianismo.


    L’agonia della Chiesa


    Avendo dunque il modernismo fatto entrare la Chiesa in agonia, ne consegue che non è sufficiente una meditazione, anche se pia ed apologetica, sulla natura della Chiesa per tenersi all’altezza della prova che l’opprime. Bisogna anche, e ciò è molto urgente, vegliare presso il Signore Gesù che è in agonia nella sua Chiesa. “Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo; non bisogna dormire durante questo tempo” (Pascal). Egli sarà in agonia nella sua Chiesa fino alla fine del mondo, innanzi tutto nel senso che continuerà a soffrire nei suoi membri già provati e che, per il Suo amore, si offrono volentieri o almeno non si rifiutano ai tormenti della malattia, alle persecuzioni dei nemici esterni, alle rinunce anche crudelissime, che esige la fedeltà assoluta alla legge della grazia. Tuttavia, in alcuni periodi particolarmente terribili – e noi siamo in uno di questi periodi – Gesù è in agonia nella sua Chiesa in un altro modo, che non fa che aggiungersi al precedente; è in agonia perché la sua Chiesa è ostacolata, beffeggiata, contrariata, combattuta dall’interno nel suo compito essenziale di dispensatrice della Redenzione. Non che essa stia per sparire, perché le porte degli inferi non prevarranno, ma i suoi propri figli, e, tra i suoi figli, alcuni capi della gerarchia, la maltrattano con tanta villania e cattiveria che avanza soltanto ricadendo a ogni passo, sfinita e languente. E similmente, benché la santità permanga zampillante e pura, non è raro che venga travestita e caricaturizzata da contraffazioni vilissime.


    Il nostro dovere


    Questa è una delle forme che prende l’agonia del Signore nella Sua Chiesa ai giorni nostri. Non bisogna dormire durante questo tempo. Ma come vegliare e tenerGli compagnia? Innanzitutto raddoppiare la preghiera in pace e amore. Poi, costatando che è oramai impossibile partecipare alla vita della Chiesa senza esporsi ad ogni genere di noie, non retrocedere davanti a questa sofferenza, ma sopportarla in unione con la Chiesa, anch’essa sofferente e oppressa. Vogliamo qualche esempio? Dobbiamo a qualsiasi costo perseverare nello studio delle Sacre Scritture, mentre si moltiplicano gli ostacoli per impedire di approfondirle e nutrircene. Non dobbiamo esitare ad affrontare dei disagi per andare saggiamente in aiuto di quei sacerdoti che celebrano la Messa di sempre. Ugualmente non dobbiamo esitare, malgrado l’umiliazione che forse ci attende, ad elevare verso un’autorità ecclesiastica, che spesso ci deride, la nostra rispettosa ma instancabile richiesta per farci restituire la Scrittura, il catechismo e la Messa. Dobbiamo ancora e soprattutto far la fatica di cercare, in questa Santa Chiesa che i modernisti vogliono de-spiritualizzare, i mezzi che non le mancheranno mai per conservare il primato della preghiera e della contemplazione. Attraverso questi esempi possiamo intravedere ciò che significa vegliare con Gesù che è in agonia nella Chiesa. Non riusciremo del resto a vegliare così se Egli non ce ne renderà capaci per mezzo della sua Chiesa stessa. Ben lungi dal dire che noi soffriamo a causa della Chiesa, diremo piuttosto che soffriamo con la Chiesa, in unione con lei e questo grazie agli aiuti divini che la Chiesa, dal fondo della sua difficoltà, continua a prodigarci.


    Come sbarrare la strada al modernismo


    Restando più che mai uniti alla Chiesa in questa situazione eccezionalmente crudele, noi confessiamo così la nostra fede nella Chiesa. In questi tempi di persecuzione incruenta, questa veglia durante l’agonia è la forma che riveste la nostra confessione di Fede. Consideriamo da più vicino i caratteri particolari che essa presenta. Il modernismo non attacca apertamente, ma subdolamente e dissimulatamente, introducendo ovunque l’equivoco. Perciò confessare la fede di fronte ad autorità moderniste significa rifiutare ogni equivoco sia nei riti che nella dottrina. Significa attenersi alla Tradizione perché essa, sia nelle definizioni dogmatiche che nell’ordinamento rituale è precisa, leale e irreprensibile. Principalmente per i riti della Messa, possiamo ben vedere che non confesseremo pienamente la Fede della Chiesa nella Messa, che non rifiuteremo categoricamente la mortale ambiguità modernista se non conserveremo nella celebrazione stessa il rito tradizionale più che millenario e che non offre nessuna presa all’eresia. Accettare i nuovi riti, pur mettendo nella loro celebrazione una reale pietà, pur predicando rettamente sulla Messa, non è certo una confessione di Fede che non lascia aditi all’eresia modernista né un rifiuto sufficiente dell’eresia nella sua forma attuale. Infatti, se noi accettiamo la nuova celebrazione polivalente, eccoci impegnati, in forza di questo cedimento, sul cammino del rinnegamento in atto. Che cosa possono fare allora le attestazioni verbali o i gesti pii? Non saranno altro che una contraddizione aggiunta all’equivoco. Di fronte a delle autorità che vogliono imporre la menzogna sotto la sua forma peggiore – la forma modernista – e in mezzo ad un popolo cristiano sconcertato da questa impostura senza precedenti, ci rendiamo subito conto che confessare pienamente la fede nella Chiesa custode della vera Messa significa innanzi tutto continuare a celebrare la Messa di sempre. Se è vero che ciò non avviene senza sofferenza, non è meno vero che la Chiesa della quale celebriamo la vera Messa, ci dà, proprio attraverso questo, la forza per sopportare questa pena con coraggio e agevolmente.


    Vivere della Tradizione con intelligenza e fervore


    Mantenere integri l’insegnamento e i riti non significa immobilità pietrificata o smorta pratica, ma permanenza ordinata e viva. In periodo di rivoluzione, mantenere integro significa non lanciarsi negli adattamenti dell’insieme, per la semplice ragione che l’autorità che presiede l’insieme è inesistente, se non si è resa essa stessa complice del disordine. Bisogna limitarsi agli adattamenti circoscritti alla piccola sfera della nostra autorità reale; in questi limiti, però, in virtù dell’amore fervente e saggio per la Tradizione, non bisogna essere timorosi degli adattamenti che sono richiesti per la vita stessa della Tradizione. Anche in periodo di rivoluzione liturgica, per esempio, la conservazione fedele non solo del latino, ma anche dei formulari anteriori a Paolo VI, non deve impedire l’attenzione che bisogna avere per la diversità delle assemblee cristiane che domandano di partecipare al culto liturgico. In periodo di rivoluzione, mantenere integra la Tradizione non significa non vivere, ma vivere nell’ordine (nell’ordine limitato al nostro piccolo fortino, che si tiene in contatto con altri fortini intorno), perché l’insieme del territorio è sistematicamente abbandonato all’anarchia. Vivere nell’ordine, anche se all’interno di stretti limiti, è l’opposto di sonnecchiare, mugugnare senza far niente, consumarsi di rabbia impotente e di disgusto. Significa fare, nei limiti che ci impone la rivoluzione, il massimo di ciò che possiamo fare per vivere della Tradizione con intelligenza e fervore. Vigilate et orate.


    © CHIESA E POST-CONCILIO BLOG


    (Fonte: chiesaepostconcilio.blogspot.it)







    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
  • OFFLINE
    Caterina63
    Post: 39.988
    Sesso: Femminile
    00 03/01/2014 22:32

    Editoriale "Radicati nella fede" - Gennaio 2014

     
     
     
     

    Tutto, praticamente tutto viene permesso, tutto eccetto la Tradizione.

     Dopo il coraggioso e, nello stesso tempo, timido gesto di Benedetto XVI, costituito dal motu proprio del 2007, si è assistito ad una costante opera di “confino” della Tradizione della Chiesa.

     Il Santo Padre disse che la Messa antica non fu mai abolita. In qualche modo confermò che non si può abolire, perché l'Autorità nella Chiesa serve a custodire la Tradizione come fonte della Rivelazione, così come serve a custodire la Sacra Scrittura, e non può mai far da padrona su di esse; se facesse da padrona, l'Autorità non sarebbe quella voluta da Nostro Signore e si configurerebbe come autoritarismo. 
     Ebbene, dopo il motu proprio Summorum Pontificum, le varie curie diocesane si impegnarono in una instancabile opera per fermare, arginare, confinare qualsiasi tentativo di ritorno alla gloriosa Tradizione della Chiesa, in campo sia liturgico che dottrinale.
     È stato il boicottaggio totale della volontà del Papa, volontà che poi era un semplice atto di giustizia: non si può abolire la Messa che la Chiesa ha celebrato per quindici secoli e che ha fatto i Santi.

     Nemmeno la terribile mancanza di preti, cui assisteremo in questi anni, nemmeno questa potrà liberare la Tradizione dal suo confino. Piuttosto staranno senza preti, piuttosto chiuderanno le chiese, ma non permetteranno a un sacerdote tradizionale di celebrare la messa di sempre.

     Quanti preti erano pronti a passare alla Tradizione, quanti erano seriamente interessati a riappropriarsi di ciò che è il più profondo patrimonio della Chiesa, quanti chiesero di imparare la Messa antica. Poi, come mannaia implacabile, la scure scese su coloro che con gioiosa semplicità iniziarono a celebrarla: processi canonici, rimozione dalle parrocchie, sottili accuse di scisma!... ecc... la storia la conoscete. Così il gelo cadde sui sacerdoti, molti dei quali giovani, che sognavano già di poter dire salendo all'altare “Introibo ad altare Dei...”. E che dire dei chierici? "Se ami la Tradizione sei pericoloso e non puoi essere ordinato per questa Chiesa”, questo è il refrain dei superiori dei seminari obbedienti ai loro vescovi.

     Un gelo tremendo è così calato su una primavera possibile per le anime, dei sacerdoti prima e dei fedeli poi. Il Papa aveva sperato in un cambio di clima nella Chiesa, ma la vecchia guardia, fatta di ex- sessantottini oggi nelle curie diocesane, non ha permesso alcunché.


     I preti amanti della Tradizione si sono rinchiusi in un mutismo prudenziale, i seminaristi in una “apnea” di coscienza per poter giungere alla sospirata ordinazione, illusoriamente convinti che le cose cambieranno quando saranno preti.


     Ma è normale tutto questo? No di certo, non è normale nella Chiesa!


     Tutti questi signori che osteggiano la Tradizione e la impediscono con strani bizantinismi, sono ancora preoccupati per la salvezza delle anime? Vogliono ancora fare il Cristianesimo? O aspirano a qualcosa di diverso? E se è così perché occupano la Chiesa di Dio?


     Hanno promosso una nuova religione con dei timidi riferimenti al Cristianesimo di un tempo. Hanno lavorato, spendendo notevoli soldi!, per una trasformazione del Cattolicesimo in una religione presentabile nei salotti della cultura; si perdono dietro un dipinto da restaurare o dietro un testo da commentare, ma sono assenti sul campo... non vanno in confessionale e non salgono tutti i giorni all'altare, perché impegnati in qualche progetto culturale.


     Sono ancora preoccupati che le anime si accostino ai sacramenti? Reputano ancora i sacramenti necessari alla salvezza, o sono solo preoccupati di fare “comunità”, sostituendo la struttura all'essenziale, cioè a Dio?


     Ci auguriamo di tutto cuore che il nuovo anno porti due cose:


    1. Un sussulto di coraggio in tutti quei preti e seminaristi che stanno soffrendo per una chiesa sempre più nemica del suo passato. Vorremmo dire loro “Cosa aspettate a ribellarvi? Sì, a ribellarvi per obbedire a Dio! Considerate l'esito di questa Chiesa malamente ammodernata, considerate la grande tristezza che ha prodotto e obbedite gioiosamente a Dio. Solo così servirete  con amore la Chiesa, perché la Chiesa è Tradizione.


    2. Un ravvedimento in coloro che hanno così osteggiato la Messa tradizionale e l'hanno confinata. Sappiamo che non tutti sono in cattiva coscienza. A loro vorremmo dire “lasciateci fare l'esperienza della Tradizione”, dateci le Chiese, permetteteci la cura delle anime e poi venite con tutta semplicità a considerare i frutti. Avete dato le chiese anche agli ortodossi scismatici, pubblicate anche gli orari di culto degli eretici protestanti, quando farete uscire dal limbo la Messa di sempre? Cosa direbbero i vostri vecchi parroci, i vostri nonni e i santi di duemila anni di cristianesimo? 


     Perdonateci se vi abbiamo parlato in tutta schiettezza, non vogliamo offendere nessuno ma suscitare un sussulto di coscienza: nelle situazioni drammatiche non c'è tempo per i convenevoli.


     Che l'anno 2014 possa smuovere, per grazia di Dio e per la preghiera di molti, dal torpore tante anime sincere.

     


    Venezia : alcune foto della Messa di Mezzanotte a San Simeon Piccolo

     
    Agli Amici lettori di Messa in latino con gli Auguri più fraterni e cari. 
    Invio in anteprima le foto della Messa di Mezzanotte 2013, Natale, a San Simeon celebrata da Padre Konrad . 
    Anche per quest'anno, la Santa Messa di Mezzanotte nell'antico rito romano  è stata magistralmente accompagna dal Coro e dall'Organista. ( Vorremmo sapere i nomi per favore N.d.R.) 
    La Chiesa si è andata man mano riempiendo con una silenziosa e calorosa partecipazione ai Divini Misteri in questa Notte Santa, come dimostrano le foto, dopo che Padre Konrad aveva trascorso anche un'ora, prima della Messa, al Confessionale. 
    Le luci delle candele, l'incenso e i canti, hanno davvero aiutato noi fedeli ad una viva partecipazione per predisporci ad accogliere l'Emmanuele, il Dio con noi, fatto Bambino per salvarci. 
    Con l'Adeste Fideles si è conclusa la celebrazione mentre il sacerdote deponeva il Bambinello nel Presepio.... 
    Al termine della Sacra Funzione, Padre Konrad si è trattenuto con i Fedeli per un breve, vista l'ora, fraterno saluto e augurio di Buon Natale. 
     
    (Una fedele di San Simeon Piccolo
     














     

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
  • OFFLINE
    Caterina63
    Post: 39.988
    Sesso: Femminile
    00 06/01/2014 12:50

      Il Vaticano II non è il super-dogma. La Chiesa di oggi dev’essere la stessa di ieri. Il card. Ratzinger docet.

    «La verità è che questo particolare Concilio [Vaticano II] non ha definito alcun dogma, e ha deliberatamente scelto di rimanere a un livello modesto, come un concilio meramente pastorale; eppure molti lo considerano quasi come fosse un super-dogma, che priva di significato tutti gli altri concili»

    «La verità è che questo particolare Concilio [Vaticano II] non ha definito alcun dogma, e ha deliberatamente scelto di rimanere a un livello modesto, come un concilio meramente pastorale; eppure molti lo considerano quasi come fosse un super-dogma, che priva di significato tutti gli altri concili»

    Riportiamo integralmente l’Indirizzo dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, alla Conferenza Episcopale Cilena (13 luglio 1988). Come potete notare, considerare il Vaticano II per quello che è, cioè un “concilio meramente pastorale”, il quale per sua espressa volontà ha “scelto di rimanere a un livello modesto”, non è una “deriva cripto-lefebvriana”, perché il cardinal Ratzinger, il futuro Benedetto XVI, afferma chiaramente che la FSSPX non ha ragione e ha scelto la strada sbagliata e spiega anche il perché.

    Negli ultimi mesi abbiamo lavorato molto intorno al caso Lefebvre, con l’intenzione sincera di creare per il suo movimento un spazio all’interno della Chiesa, spazio che sarebbe stato sufficiente perché esso potesse vivere. La Santa Sede è stata criticata per questo. Si dice che non ha difeso il Concilio Vaticano II con energia sufficiente; che, mentre ha trattato i movimenti progressisti con severità grande, ha mostrato una simpatia esagerata con la rivolta tradizionalista. Lo sviluppo degli eventi è sufficiente per confutare queste asserzioni. L’[accusa di] rigorismo del Vaticano di fronte alle deviazioni dei progressisti, presentato in modo mitico, è apparsa essere soltanto un discorso vuoto. Finora, infatti, sono stati pubblicati soltanto dei moniti; in nessun caso ci sono state pene canoniche rigorose in senso stretto. Ed il fatto che, quando le cose si sono messe male, Lefebvre ha ritrattato un accordo che già era stato firmato, indica che la Santa Sede, se ha fatto concessioni davvero generose, non gli ha garantito quella licenza completa che egli desiderava. Lefebvre ha visto che, nella parte fondamentale dell’accordo, era obbligato ad accettare il Vaticano II e le affermazioni del Magistero post conciliare, secondo l’autorità propria di ogni documento.

    C’è una contraddizione evidentissima nel fatto che è proprio chi non ha perso occasione per far conoscere al mondo la propria disobbedienza al Papa ed alle dichiarazioni magisteriali degli ultimi 20 anni, che pensa di avere il diritto di giudicare che questo atteggiamento è troppo blando e che desidera che si fosse insistito su un’obbedienza assoluta al Vaticano II. Così pure costoro sostengono che il Vaticano ha concesso il diritto di dissentire a Lefebvre, diritto che è stato rifiutato ostinatamente ai fautori di una tendenza progressista. In realtà, l’unico punto che è affermato nell’accordo, secondo Lumen Gentium 25, è il fatto limpido che non tutti i documenti del Concilio hanno la stessa autorità. Per il resto, è stato indicato esplicitamente, nel testo che è stato firmato, che le polemiche pubbliche devono essere evitate e che è richiesto un atteggiamento di rispetto positivo per le decisioni ufficiali e le dichiarazioni.

    È stato concesso, in più, che la Fraternità San Pio X possa presentare alla Santa Sede – la quale si riserva l’esclusivo diritto di decisione – le sue difficoltà particolari rispetto alle interpretazioni delle riforme giuridiche e liturgiche. Tutto ciò mostra che in questo dialogo difficile Roma ha unito chiaramente la generosità, in tutto quello che è negoziabile, alla fermezza nel necessario. La spiegazione che Mons. Lefebvre ha dato, per la ritrattazione del suo accordo, è indicativa. Ha dichiarato che infine ha capito che l’accordo che ha firmato mira soltanto ad integrare la sua fondazione “nella Chiesa Conciliare”. La Chiesa Cattolica in unione con il Papa è, secondo lui, “la Chiesa Conciliare”, che ha rotto con il suo passato. Sembra effettivamente che non riesca più a vedere che qui si tratta della Chiesa Cattolica nella totalità della sua  Tradizione e che il Vaticano II appartiene ad essa.

    Senza alcun dubbio, il problema che Lefebvre ha posto non è finito con la rottura del 30 giugno. Sarebbe troppo semplice rifugiarsi in una specie del trionfalismo e pensare che questa difficoltà abbia cessato di esistere dal momento in cui il movimento condotto da Lefebvre si è separato con una rottura formale con la chiesa. Un cristiano non può mai, o non dovrebbe, compiacersi di una rottura. Anche se è assolutamente certo che la colpa non può essere attribuita alla Santa Sede, è un dovere per noi esaminarci, tanto circa quali errori abbiamo fatto, quanto quali, persino ora, stiamo facendo. I criteri con cui giudichiamo il passato nel decreto del Vaticano II sull’ecumenismo devono essere usati – come è logico – per giudicare pure il presente.

    Una delle scoperte fondamentali della teologia dell’ecumenismo è che gli scismi possono avvenire soltanto quando determinate verità e determinati valori della fede cristiana non sono più vissuti ed amati all’interno della chiesa. La verità che è marginalizzata diventa autonoma, rimane staccata dal tutto della struttura ecclesiastica ed è allora che un nuovo movimento si forma intorno ad essa. Dobbiamo riflettere su questo fatto: che tantissimi cattolici, lontani dalla cerchia stretta della fraternità di Lefebvre, vedono questo uomo come guida, in un certo senso, o almeno come alleato utile. Non bisognerà attribuire tutto a motivi politici, a nostalgia, o a fattori culturali di importanza secondaria. Queste cause non sono capaci di spiegare l’attrattiva che è sentita anche dai giovani, e particolarmente dai giovani, che vengono da molte nazioni davvero differenti e che sono immersi in realtà politiche e culturali completamente diverse. Certamente mostrano ciò che è, da ogni punto di vista, una prospettiva limitata e parziale; ma non c’è alcun dubbio che un fenomeno di questa portata sarebbe inconcepibile se non ci fossero qui all’opera dei valori, che generalmente non trovano sufficienti possibilità di realizzarsi all’interno della Chiesa di oggi.

    Per tutti questi motivi, dobbiamo considerare tutta la questione soprattutto come l’occasione per un esame di coscienza. Dovremmo non avere paura di farci noi stessi domande fondamentali, circa i difetti della vita pastorale della Chiesa, che emergono da questi fatti. Così dovremmo poter offrire un posto all’interno della chiesa a coloro che lo stanno cercando e domandando e riuscire a eliminare ogni ragione per uno scisma. Possiamo rendere tale scisma privo di motivazioni rinnovando le realtà interne della chiesa. Ci sono tre punti, io penso, che è importante considerare.

    Se ci sono molti motivi che potrebbero condurre tantissima gente cercare un rifugio nella liturgia tradizionale, quello principale è che trovano che essa ha conservato la dignità del sacro. Dopo il Concilio, ci sono stati molti preti che hanno elevato deliberatamente la “desacralizzazione” a livello di un programma, sulla pretesa che il nuovo testamento ha abolito il culto del tempio: il velo del tempio che è stato strappato dall’alto al basso al momento della morte di Cristo sulla croce è, secondo certuni, il segno della fine del sacro. La morte di Gesù, fuori delle mura della città, cioè, dal mondo pubblico, è ora la vera religione. La religione, se vuol avere il suo essere in senso pieno, deve averlo nella non sacralità della vita quotidiana, nell’amore che è vissuto. Ispirati da tali ragionamenti, hanno messo da parte i paramenti sacri; hanno spogliato le chiese più che hanno potuto di quello splendore che porta a elevare la mente al sacro; ed hanno ridotto la liturgia alla lingua e ai gesti di una vita ordinaria, per mezzo di saluti, i segni comuni di amicizia e cose simili.

    Non c’è dubbio che, con queste teorie e pratiche, hanno del tutto misconosciuto l’autentica connessione tra il vecchio ed il nuovo testamento: s’è dimenticato che questo mondo non è il regno di Dio e che “il Santo di Dio” (Gv 6,69) continua ad esistere in contraddizione a questo mondo; che abbiamo bisogno di purificazione prima di accostarci a lui; che il profano, anche dopo la morte e la resurrezione di Gesù, non è riuscito a trasformarsi nel “santo”. Il Risorto è apparso, ma a quelli il cui il cuore era ben disposto verso di Lui, al Santo; non si è manifestato a tutti. È in questo modo che un nuovo spazio è stato aperto per la religione a cui tutti noi ora dobbiamo sottometterci; questa religione che consiste nell’accostarci alla famiglia del Risorto, ai cui piedi le donne si prostravano e lo adoravano. Non intendo ora sviluppare ulteriormente questo aspetto; mi limito sinteticamente a questa conclusione: dobbiamo riacquistare la dimensione del sacro nella liturgia. La liturgia non è una festa; non è una riunione con scopo di passare dei momenti sereni. Non importa assolutamente che il parroco si scervelli per farsi venire in mente chissà quali idee o novità ricche di immaginazione. La liturgia è ciò che fa sì che il Dio Tre volte Santo sia presente fra noi; è il roveto ardente; è l’alleanza di Dio con l’uomo in Gesù Cristo, che è morto e di nuovo è tornato alla vita. La grandezza della liturgia non sta nel fatto che essa offre un intrattenimento interessante, ma nel rendere tangibile il Totalmente Altro, che noi [da soli] non siamo capaci di evocare. Viene perché vuole. In altre parole, l’essenziale nella liturgia è il mistero, che è realizzato nel ritualità comune della Chiesa; tutto il resto lo sminuisce. Alcuni cercano di sperimentarlo secondo una moda vivace, e si trovano ingannati: quando il mistero è trasformato nella distrazione, quando l’attore principale nella liturgia non è il Dio vivente ma il prete o l’animatore liturgico.

    Oltre alle questioni liturgiche, i punti centrali del conflitto attualmente sono la presa di posizione di Lefebvre contro il decreto che tratta della libertà religiosa ed al cosiddetto spirito di Assisi. È qui che Lefebvre stabilisce le linee di demarcazione fra la sua posizione e quella della chiesa cattolica.

    C’è poco da dire: ciò che sta dicendo su questi punti è inaccettabile. Qui non vogliamo considerare i suoi errori, piuttosto desideriamo chiederci dove vi è mancanza di chiarezza in noi stessi. Per Lefebvre la posta in gioco è la battaglia contro il liberalismo ideologico, contro la relativizzazione della verità. Non siamo ovviamente in accordo con lui sul fatto che – capito secondo le intenzioni del papa – il testo del Concilio o la preghiera di Assisi inducano al relativismo.

    È un’operazione necessaria difendere il Concilio Vaticano II nei confronti di Mons. Lefebvre, come valido e come vincolante per Chiesa. Certamente c’è una mentalità dalla visuale ristretta che tiene conto solo del Vaticano II e che ha provocato questa opposizione. Ci sono molte presentazioni di esso che danno l’impressione che, dal Vaticano II in avanti, tutto sia stato cambiato e che ciò che lo ha preceduto non abbia valore o, nel migliore dei casi, abbia valore soltanto alla luce del Vaticano II.

    Il Concilio Vaticano II non è stato trattato come una parte dell’intera tradizione vivente della Chiesa, ma come una fine della Tradizione, un nuovo inizio da zero. La verità è che questo particolare concilio non ha affatto definito alcun dogma e deliberatamente ha scelto di rimanere su un livello modesto, come concilio soltanto pastorale; ma molti lo trattano come se si fosse trasformato in una specie di super-dogma che toglie l’importanza di tutto il resto.

    Questa idea è resa più forte dalle cose che ora stanno accadendo. Quello che precedentemente è stato considerato la più santa – la forma in cui la liturgia è stata trasmessa – appare improvvisamente come la più proibita di tutte le cose, l’unica cosa che può essere impunemente proibita. Non si sopporta che si critichino le decisioni che sono state prese dal Concilio; d’altra parte, se certuni mettono in dubbio le regole antiche, o persino le verità principali della fede – per esempio, la verginità corporale di Maria, la Resurrezione corporea di Gesù, l’immortalità dell’anima, ecc. – nessuno protesta, o soltanto lo fa con la più grande moderazione. Io stesso, quando ero professore, ho visto come lo stesso Vescovo che, prima del Concilio, aveva licenziato un insegnante che era realmente irreprensibile, per una certa crudezza nel discorso, non è stato in grado, dopo il Concilio, di allontanare un professore che ha negato apertamente verità della fede certe e fondamentali.

    Tutto questo conduce tantissima gente chiedersi se la Chiesa di oggi è realmente la stessa di ieri, o se l’hanno cambiata con qualcos’altro senza dirlo alla gente. La sola via nella quale il Vaticano II può essere reso plausibile è di presentarlo così come è: una parte dell’ininterrotta, dell’unica tradizione della Chiesa e della sua fede.

    Non c’è il minimo dubbio che, nei movimenti spirituali dell’era post-conciliare, vi è stato frequentemente un oblio, o persino una soppressione, della questione della verità: qui forse ci confrontiamo con il problema oggi cruciale per la teologia e per il lavoro pastorale.

    La verità è ritenuta essere una pretesa che è troppo elevata, un trionfalismo che non può essere assolutamente ancora consentito. Vedete chiaramente questo atteggiamento nella crisi che colpisce la pratica e l’ideale missionario. Se non facciamo della verità un punto importante nell’annuncio della nostra fede e se questa verità non è più essenziale per la salvezza dell’uomo, allora le missioni perdono il loro significato. In effetti la conclusione è stata tirata, ed è stato tirata oggi, che in futuro dobbiamo soltanto cercare che i cristiani siano buoni cristiani, i buoni musulmani dei musulmani, i buoni Indù dei buoni Indù, e così via. E se arriviamo a queste conclusioni, come facciamo a sapere quando uno è “un buon” cristiano, o “un buon” musulmano?

    L’idea che tutte le religioni sono – a prenderle sul serio – soltanto i simboli di ciò che finalmente è incomprensibile, sta guadagnando terreno velocemente in teologia e già ha penetrato la pratica liturgica. Quando le cose giungono a questo punto, la fede è lasciata alle spalle, perché la fede realmente consiste nell’affidarsi alla verità per quanto è conosciuta. Dunque, in questa materia, ci sono tutte le ragioni per ritornar sulla retta via.

    Se ancora una volta riusciremo a evidenziare e vivere la pienezza della religione cattolica circa questi punti, possiamo sperare che lo scisma di Lefebvre non sia di lunga durata.

    FONTE: internetica.it

    ***

    fondatori_FII frati francescani dell’Immacolata, oggi vittime della persecuzione modernista, con metodi da “giacobinismo clericale”, sono stati accusati di “deriva cripto-lefbvriana” perché sono stati i primi a vivere pienamente l’ermeneutica della riforma nella continuità, eppure, a differenza dei lefebvriani, hanno chinato il capo – in particolare il fondatore dell’Ordine, P. Stefano M. Manelli, e i fraticelli gli sono rimasti fedeli, perché vi era un’infiltrata corrente modernista – e hanno obbedito alla Chiesa senza se e senza ma. Non c’è nessuna “deriva cripto-lefebvriana” dei FFI. Al massimo, padre Stefano e i suoi figli, possono essere accusati di “deriva cattolica”.






    Consigli al Papa dal card. Meisner per non farsi confondere con Scalfari

     

     

    cristianesimocattolico:

    Il porporato di Colonia svela alla radio il contenuto di una conversazione privata con Bergoglio: spiegati meglio, piano con la “misericordia”.

    di Matteo Matzuzzi (01/01/2014)

    image

    Il giorno di Natale ha compiuto ottant’anni – festeggiati con l’irruzione di un’attivista di Femen in topless nel duomo di Colonia mentre si stava celebrando la messa – e “al più tardi entro la fine di febbraio” lascerà, dopo venticinque anni, la guida della grande diocesi della Renania settentrionale. Prima dei saluti, però, il cardinale Joachim Meisner ha voluto mettere in guardia il suo diretto superiore, il Papa, dal farsi coinvolgere troppo nelle dispute con il mondo. Non lo ha fatto a mezzo stampa o tramite lettera recapitata a Santa Marta, bensì di persona. Un incontro a quattr’occhi in cui “ho potuto parlare liberamente con il Santo Padre di molte cose”, ha detto Meisner alla radio pubblica tedesca. “Gli ho detto che il suo pronunciarsi nella forma delle interviste e di brevi dichiarazioni lascia molte domande senza risposta, che invece dovrebbero essere spiegate in modo più ampio”. Francesco, ha aggiunto il porporato, “è rimasto sorpreso e mi ha chiesto di fargli qualche esempio. E io gli ho parlato di quanto da lui detto durante il viaggio di ritorno in aereo da Rio a Roma”. Punto dolente, le frasi sulla riammissione dei divorziati-risposati ai sacramenti, comunione in testa. Parlare troppo di misericordia, inoltre, è pericoloso: “Si rischia di coprire con quella parola tutti i fallimenti umani”. A quel punto – racconta sempre l’arcivescovo di Colonia – il Papa ha “risposto in maniera molto energica che lui è figlio della chiesa e non ha detto nulla se non ribadito gli insegnamenti della Chiesa”. La misericordia, ha chiarito Francesco nel vis-à-vis con Meisner, “deve corrispondere alla verità o non può essere definita misericordia”. Inoltre, se c’è qualche questione teologica in sospeso, “c’è la congregazione per la Dottrina della fede”, ha aggiunto Bergoglio. Insomma, per dubbi o domande specifiche, c’è monsignor Gerhard Müller, il custode dell’ortodossia messo lì da Joseph Ratzinger e tra i primi monsignori di curia a essere confermati dal successore.

    “Guai ad allinearsi allo spirito del tempo”

    Meisner, nella disputa tra il prefetto dell’ex Sant’Uffizio e i suoi fratelli nell’episcopato tedeschi come Robert Zollitsch o Reinhard Marx, sta con il primo. Conservatore, fedelissimo di Benedetto XVI, il porporato ottantenne non teme di rimanere isolato: “Anche quando andavo a scuola in Turingia, Germania dell’est, ero l’unico bambino cattolico”, ha detto nella conversazione radiofonica. E a chi vorrebbe rivedere le posizioni tradizionali della chiesa su pastorale sacramentale e sulla delicata questione della sessualità consiglia di aprire bene gli occhi: “La chiesa evangelica si è completamente allineata al cosiddetto spirito del tempo in materia di morale sessuale. E come vi sembra lo stato della chiesa evangelica? Mi pare che il numero delle persone che la lasciano sia anche superiore a quello dei cattolici che abbandonano la nostra chiesa. E questo non accade di certo per la posizione di Roma sulla sessualità”. La bussola deve essere sempre l’insegnamento della chiesa: “La chiesa deve conformarsi alla parola di Dio, non all’opinione della gente”, altrimenti si rischia di creare pericolosi fraintendimenti, fino al dubbio che il Papa abbia abolito il peccato. Sul tema è intervenuto ieri, a Radio Vaticana, il direttore della Sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi: “Chi segue veramente il Papa giorno per giorno sa quante volte egli parli del peccato, quanto parli della nostra condizione di peccatori. Papa Francesco è un gesuita e gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio cominciano proprio con la prima settimana dedicata alla meditazione dei peccati”.




     

    [Modificato da Caterina63 07/01/2014 18:37]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
  • OFFLINE
    Caterina63
    Post: 39.988
    Sesso: Femminile
    00 07/01/2014 15:58

      A ciascuno il suo problema

     

     

    Le accorate meditazioni sulla Chiesa di oggi che lo scrittore francese Louis Salleron (1905-1989) formula a mezza voce in questo articolo, quasi un amaro soliloquio, riteniamo possano far riflettere molti, specie uomini di Chiesa, sul dramma, e sul peccato, dell’indifferenza: questa abulia dello spirito che sembra impedire di reagire al veleno di certe concezioni ecclesiologiche oggi accreditate, e agli atteggiamenti che ne conseguono. Questo articolo apparve sulla rivista francese “Itinéraires” nell’aprile 1976 (n. 202) e venne successivamente tradotto e pubblicato in Italia sul “Notiziario di Una Voce” (nn. 42-43, gennaio-aprile 1978).

    e sembra oggi di una attualità interessante

    di Louis Salleron

    Per un cattolico il Papa è il ricorso supremo. Ma nella crisi attuale, questo ricorso è di poco peso. Se si trattasse soltanto di seguire Paolo VI nel suo insegnamento sulle grandi questioni relative alla fede tutto sarebbe semplice. Ma sarebbe difficile ritrovare la dottrina da egli professata nella prassi del suo governo. Sotto la bandiera dell’ecumenismo la Chiesa ha fatto una svolta verso il protestantesimo. La fedeltà alla tradizione diventa peccato contro lo Spirito. Si preferisce Lutero a Pio V. Ovunque sorgono Chiese nazionali. Il Papa sembra presiedere soltanto all’«autodemolizione» della Chiesa, che egli deplora senza che si veda quello che fa per tentare di fermarla.

    Per molti Paolo VI è il loro problema. Non è il mio. Pur vedendo il carattere catastrofico dell’era post-conciliare, non me ne spaventerei se vi vedessi il fatto di un uomo. Ciò che mi spaventa, ciò che è il mio problema è che tutta la Chiesa occidentale sembra essere perfettamente d’accordo con la situazione attuale. Se vi è disaccordo, è soltanto in quanto gli orientamenti romani sono giudicati troppo timidi. L’episcopato francese, tra l’altro saldamente arroccato a Roma dove i suoi rappresentanti occupano alcuni posti chiave, iniziando dalla Segreteria di Stato, ritiene che Paolo VI sia l’ostacolo maggiore alla rivoluzione che sogna. Ecco dove siamo arrivati.

    Non è però questo scivolamento della Chiesa che mi colpisce, è il fatto che nessun vescovo lo denunci. Diranno che c’è Mgr. Lefebvre. Ma non è vescovo diocesano. In Francia e praticamente in tutto l’Occidente, nessun vescovo si dissocia dalla «collegialità» per affermare, nella sua diocesi, la sua volontà di difendere la Fede, il testo esatto della Sacra Scrittura, il carattere sacrificale della Messa, il ministero sacerdotale, la catechesi cattolica. Lo potrebbe fare tanto più facilmente in quanto disporrebbe di un’ampia scelta di testi di Paolo VI e del Vaticano II per sostenere la sua presa di posizione. Ma no, la praxis collegiale fa legge; tutti i vescovi vi si sottopongono.

    È questo il mio problema, essendo questa situazione senza precedente nella Chiesa. Non ha precedenti in nessuna società. Nessun cambiamento profondo, nessuna mutazione, nessuna rivoluzione avviene senza che si manifestino opposizioni: questa volta invece non vi è opposizione alcuna nella Chiesa (ufficiale).

    Se si tenta di capire questa unanimità, soltanto due sono le spiegazioni. O i vescovi, che in cuor loro si preoccupano di quanto succede, pensano che occorre anzitutto assicurare l’unità della Chiesa mentre i raddrizzamenti avverranno in tempo utile; oppure essi pensano che sia lo Spirito Santo ad agire, il quale darà poi al Cristianesimo quelle forme nuove che intende dargli. In entrambi i casi, questa mancanza di reazione mi sembra tragica: infatti, Iddio non salva i cristiani senza di essi, né salva la Chiesa senza di essa.

    L’abbandono all’evoluzione è una dimissione; una Chiesa in preda a lotte interne sarebbe uno spettacolo triste, ma il segno di una Chiesa viva. La decomposizione della Chiesa sotto le apparenze dell’unità fa temere una Chiesa moribonda.

    So che vi sono santi. Vi sono gli innumerevoli martiri dei Paesi dove il cristianesimo è più crudelmente perseguitato che durante i primi secoli; vi sono martiri sconosciuti nei nostri Paesi, sacerdoti, religiosi, religiose, laici che soffrono e muoiono in silenzio non sentendo di avere sufficiente autorità per testimoniare con la parola o non avendone la possibilità. C’è la carità attiva di innumerevoli dedizioni che sono il cristianesimo in atto. So tutto questo; non dubito della chiesa dei Santi; ma dubito della Chiesa istituzionale.

    Che essa ritenga di doversi difendere contro i temuti effetti della proclamazione delle Verità mi fa tremare per il suo avvenire.

    In un recente articolo apparso su «Le Monde», Andre Fontaine evocava per inciso un pensiero di Tocqueville, secondo il quale le religioni sono sempre minacciate da due pericoli: gli scismi e l’indifferenza. Avrebbe potuto aggiungere il sincretismo che ne è per così dire la sintesi. Gli scismi sono la minaccia dei periodi di fede, l’indifferenza è la minaccia dei periodi di indebolimento della fede.

    Siamo in un’epoca d’indifferenza. I dogmi non hanno più importanza. Etienne Gilson lo aveva notato quando, nella traduzione del Credo, il «consustanziale» fu cambiato in «della stessa natura». Il Cardinale Lefebvre rispose con un rifiuto categorico ad una petizione, firmata dai più grandi nomi cattolici, che chiedeva il ripristino di «consustanziale». Al suo rifiuto dava due ragioni. La prima era, per l’appunto, che la questione «all’ora presente ha perso molto della sua importanza» (ha effettivamente perso molto della sua importanza perché ormai risolta da sedici secoli, ne riprende ora in quanto oggi viene rimessa in questione). La seconda ragione era che la petizione costituiva ai suoi occhi una mossa insolente da parte dei laici nei riguardi dell’episcopato: «Agli occhi di molti un tale modo di agire sembra ingiungere all’episcopato di pronunciarsi in merito ad un grave punto di dottrina, cioè a quanto pare, nel dubbio che l’Episcopato stesso non abbia il suo pieno accordo». Così per il Cardinale  Lefebvre (cugino di mons. Lefebvre il vescovo) il «consustanziale» è un grave punto di dottrina mentre nello stesso tempo ha perso molto della sua importanza. D’altra parte, questo punto di dottrina è, per ipotesi, molto meno importante dell’atteggiamento di sottomissione silenziosa che deve essere propria dei laici nei riguardi dell’episcopato. Sembra impossibile manifestare una maggiore indifferenza verso il Credo cattolico.

    Questa indifferenza è oggi palese in ogni settore. Ma a proposito della Messa ha raggiunto un grado impensabile nei secoli precedenti.

    Come sappiamo, Paolo VI ha approvato un nuovo rito della Messa. In un’epoca di fede questa nuova Messa avrebbe suscitato innumerevoli proteste e contestazioni. Orbene, è andata liscia come l’olio. Perche? Per indifferenza.

    Il Papa, si dice, ha il diritto di fare un nuovo rito e si aggiunge che quello che è stato promulgato è assai superiore al precedente. È possibile, ma è qui che si manifesta palesemente l’indifferenza. Il rito di Pio V era così antico che il semplice attaccamento alla tradizione – con tutto ciò che rappresenta la tradizione nella Chiesa – avrebbe dovuto creare uno choc in buona parte dell’episcopato. Non vi fu choc alcuno, vi fu soltanto indifferenza. Una Messa caccia l’altra e se la nuova è più bella della vecchia, perché lamentarsi?

    Lo scandalo è tanto più grande (se si considera) che la nuova Messa è stata fatta con la collaborazione di teologi protestanti, che è stata messa a punto con lo scopo di renderla accettabile ai protestanti e che la sua prima «Presentazione» (l’Istitutio generalis) era fatta in termini così lontani dalla dottrina cattolica che fu necessario rifarla perché fosse compatibile con l’insegnamento dogmatico del Concilio di Trento (confermato del resto da Vaticano II). La Presentazione è stata cambiata, ma il rito è rimasto immutato. Di modo che abbiamo una Messa equivoca.

    Meglio ancora, il rito tradizionale è perseguitato. Non dico che sia vietato perché non vi è testo legale che lo vieti. Ma testi illegali lo vietano e i vescovi sostengono che è vietato e perseguitano i sacerdoti che vi rimangono fedeli: tutta la propaganda ufficiale vuol far credere ai sacerdoti e ai fedeli che è vietato. Si è visto un monaco di Solesmes coprirsi di vergogna scrivendo un libro per affermare che la nuova Messa è obbligatoria e la Messa tradizionale vietata: o spirito di Dom Guéranger!

    Si dirà che vi è stata la protesta solenne dei cardinali Ottaviani e Bacci. È vero. Ha salvato l’onore della Chiesa e rimane l’ancora di salvezza per le restaurazioni future. Vi è anche l’attaccamento irremovibile di Mgr. Marcel Lefebvre (da non confondere con il defunto cugino cardinale) alla dottrina cattolica della messa e del sacerdozio. Ma egli è solo per questo messo al bando dell’episcopato francese e perseguitato dalla burocrazia vaticana.

    Naturalmente all’indifferenza nei riguardi della Messa fa seguito una uguale indifferenza per tutto il resto. Ma ancora una volta, non è il fatto che nella Chiesa di Francia – essendo francese penso ad essa in primo luogo – esista una corrente generale di abbandono della tradizione cattolica, è il fatto che questa corrente sia unanime – voglio dire: nell’episcopato – che mi spaventa. Mi sento raggelare il sangue vedendo che non un solo vescovo difende la verità cattolica nella sua diocesi. A che cosa credono? Quale grado d’indifferenza hanno raggiunto?
    Il mio problema è questo: è questa unanimità.

    Parlando il 12 febbraio 1976 al centro culturale San Luigi di Roma, Mgr. Etchegaray dichiarava: «Quando si tratta di propagare la fede, l’unità passa prima di tutto il resto». Parole estremamente ambigue. L’unità ha senso soltanto se è al servizio della verità e oggi tutto tende a far passare l’unità prima della verità. Non è più la fede che viene propagata, bensì l’ubbidienza incondizionata all’episcopato. Un episcopato che ammette ogni libertà per quelli il cui progressismo serve di cauzione allo spirito conciliare e che condanna con estremo rigore quelli che la loro fedeltà alla tradizione mette ai suoi occhi fuori della «Chiesa del Concilio».

    In Francia spunta all’orizzonte di un prossimo avvenire una Chiesa nazionale che, afferrando la prima occasione, sfornerà sacerdoti ordinando uomini sposati la cui missione sarà di costituire, sulle rovine delle parrocchie, delle adunate di cristiani aggregati secondo le loro affinità politiche e sociali. Che diventerà il cattolicesimo in mezzo a tutto questo?

    All’apice romano si profila, parallelamente, il bozzetto di una Chiesa ecumenica, realizzazione di un sincretismo, frutto della proliferazione degli scismi su uno sfondo d’indifferenza. Il papa diventerebbe presidente di una confederazione di Chiese confessanti fedi diverse intorno ad un Credo comune ridotto al minimo. In breve, la Chiesa cattolica sposerebbe le strutture e lo spirito del protestantesimo, pur conservando il suo nucleo storico proprio mediante qualche sottile combinazione giuridica e teologica.


    È forse impossibile? È impossibile per il momento. Ma domani?

    Il fabbisogno di religione della maggioranza degli uomini si riduce praticamente al sentimento ed a una liturgia qualsiasi. L’esaltazione del sentimento dell’amore del prossimo e della lotta contro le ingiustizie, combinati con svariate liturgie corrisponderebbe perfettamente ad una religione ecumenica diversificata, abbastanza analoga all’anglicanesimo che ammette confessioni cristiane che vanno dal Credo quasi cattolico al più vago degli umanesimi. Molti cattolici, del resto, credono di vedere nell’atteggiamento del papa un incoraggiamento a questa evoluzione. Poiché, anche se è vero che Paolo VI ricorda sempre le esigenze della fede cattolica, i gesti che prodiga nei riguardi degli ortodossi, dei protestanti e più generalmente dei credenti di ogni confessione e perfino dei membri della «grande famiglia umana» sono interpretati da molti quale annuncio di una «unità ecumenica» che non può tardare (la più breve, la più semplice e finora l’ultima in data delle allocuzioni di Paolo VI su questo argomento è quella che ha pronunciato all’Angelus della domenica 5 gennaio 1976 – D.C., n. 1692 del 15 febbraio 1976).

    È allora che mi preoccupo. L’unità attuale della Gerarchia cattolica già porta in sé le rotture che il suo carattere equivoco farà esplodere un giorno o l’altro. In effetti, un giorno o l’altro la Chiesa dovrà necessariamente prendere posizione sia da una parte, sia dall’altra. Tenterà un raddrizzamento della Fede e della Legge e si scontrerà con il clan progressista che ha praticamente in mano tutto «l’apparato», oppure continuerà a varare l’ecumenismo, e a quel punto è impossibile che non reagisca un numero notevole di vescovi e di sacerdoti, che nell’attesa avevano scelto l’ubbidienza. In ambedue i casi, lo scisma, la frattura, si rivelerà in tutta la sua estensione. So che la realtà futura è sempre diversa da come la si può pensare, ma lo schema che indico si verificherà necessariamente sotto una forma o l’altra. Il dramma sarà tanto più grande in quanto l’episcopato nella sua superficiale unità collegiale si comporta come se tutto fosse per il meglio, come se le piccole sbavature che si possono lamentare fossero destinate a scomparire da sé.

    Ecco il mio problema: questo silenzio di tutti i vescovi, questa dimissione di tutti i vescovi. La Chiesa non è più concepita da loro che quale adunanza della quale essi sono capi, le cui parole d’ordine successive vanno accettate, quali esse siano, se uno vuole rimanere cattolico. Si pensa al comunismo i cui militanti devono sempre considerare verità assoluta la verità del momento che li mantiene nella linea generale del Partito. Lo Est, est, Non, non cede il posto ad un evangelismo politico, evolutivo e polimorfo che diventa il Credo comune. Queste grandi ondate del sentimento, carismatiche o rivoluzionarie, sono spesso apparse nella Storia, ma non senza opposizioni e resistenze: oggi, al livello della Gerarchia, cerco invano l’opposizione, la resistenza. Il mio problema è questa novità radicale.

    ©conciliovaticanosecondo.it (03/01/2013)





     


    e... un'articolo di oggi.....


    Se la chiarezza non ci viene anzitutto dal Papa, da chi mai dovrebbe arrivarci?

     

     

    Dopo la pubblicazione su Civiltà Cattolica dell’incontro con i Superiori Generali degli Ordini religiosi. Per il Vicario di Cristo ho tutto il rispetto e l’amore filiale. Ma mi sento di pretendere da Lui (si, ho detto proprio “pretendere”) parole chiare, inequivoche, che possa anch’io capire al volo. Con le parole equivoche si è arrivati ad avere un Papa – e questo addolora tutti i cattolici – che è stato nominato “Uomo dell’anno” da una rivista americana che si fa portavoce degli invertiti

    di Michele Majno (04/01/2014)

    Queste non sono che due righe scritte con vero sconforto da un povero cattolico qualsiasi come il sottoscritto, che, anche per ragioni di età, era abituato al fatto che c’era una figura in cui riporre la propria fiducia, il prete, e che comunque, se questo prete era magari incapace, confuso, da Roma arrivava sempre il giudizio sicuro, la parola definitiva, che tranquillizzava il fedele e soprattutto lo confermava nel Magistero che da sempre la Chiesa aveva espresso. Tutto ciò rispondeva a un’esigenza non solo della vita spirituale, ma anche del banalissimo – ma tanto sano! – buon senso, perché la se la Chiesa è depositaria della Verità, da essa non possono che arrivare parole chiare, nette, a tutti comprensibili.

    Ora, qualcuno mi sa dire, per favore, cosa significhi un’affermazione di questo tipo: “Le Coppie gay pongono sfide nuove, non diamo ai loro figli vaccini anti-fede”? Io, povero cattolico qualsiasi, stento a capirne il significato.

    Naturalmente su affermazioni di questo genere la stampa si getta gioiosamente. Tanto per citare qualche testata, Il MessaggeroIl Sole 24oreLa StampaTgcom24, e così via.

    All’origine di questo tripudio, c’è la notizia sull’Avvenire, che rimanda a quanto pubblicato ieri da Civiltà Cattolica sull’incontro che il Papa ha tenuto nello scorso mese di novembre con 120 Superiori Generali dei vari ordini religiosi. Vado a vedere anche il testo di Civiltà Cattolica e non trovo conforto al mio smarrimento, tanto più quando mi capita di leggere che il concetto di “fraternità” viene associato a una strana comunità come quella di Taizè, dove “ci sono monaci cattolici, calvinisti, luterani… tutti vivono veramente una vita di fraternità”.

    Ma allora fraternità vuol dire sincretismo? Con tutta la mia ignoranza in materia teologica, so per certo che Lutero era un eretico e che portò immensi danni, non solo alla Chiesa cattolica, ma allo stesso sviluppo della civiltà, proprio perché chi insegna il falso può portare solo danni.

    Poi mi capita di leggere che i pilastri dell’educazione sono “trasmettere conoscenza, trasmettere modi di fare, trasmettere valori. Attraverso questi si trasmette la fede”. Qui mi domando: quale fede? La Fede cattolica, unica vera Fede? Ma allora, anzitutto il pilastro dell’educazione non dovrebbe consistere nel trasmettere la Parola di Verità, dalla quale discendono tutte le altre? O vogliamo solo fare un galateo?

    E, perdonatemi, cosa vuol dire “Bisogna formare il cuore”, altrimenti si formano “piccoli mostri”?

    Una cosa so per certo, come cattolico e come genitore: se da una parte si prende atto (e come si potrebbe non farlo?) del fatto che ormai esiste un grandissimo pasticcio, per cui le famiglie sane, normali, sono sempre di meno, e sempre più abbiamo giovani smarriti perché hanno perso proprio quella sicurezza che ha sempre dato la famiglia, d’altra parte non ho letto una parola contro gli aberranti progetti politici di disgregazione della famiglia.

    Ho letto solo che dobbiamo trovare nuovi modi di approccio ai giovani che si trovano nel gorgo di pseudo-famiglie irregolari, per non dire di mostruosità come le unioni tra pervertiti o pervertite. “Dobbiamo trovare”, ma peraltro non si dice come. Di certo, altrettanto non si dice una parola di ammonimento a quei politici che si apprestano a dare alla già vacillante famiglia gli ultimi colpi di piccone, alla tremenda responsabilità che si assumono davanti a Dio e davanti agli uomini. Nulla, zero.

    Di sicuro so che, cattolico e padre di famiglia, dovrò muovermi a tutela dei miei figli, avendo a mente la Tradizione e il Magistero della Chiesa, che in materia di morale familiare sono sempre stati chiarissimi.

    Di sicuro ci sarà chi esprimerà il suo disappunto perché noi “non faremmo altro che criticare il Papa”. Nossignori. Questa non è una critica. È, ribadisco, lo sconforto di un cattolico che sempre meno trova nei Pastori una guida sicura e chiara. Mi interessa ben poco che domani qualche voce, ben più dotta della mia, mi spieghi che non ho capito niente e che in verità dove si diceva “A, B e C” si voleva dire in verità “X, Y e Z”.

    Per il Vicario di Cristo ho tutto il rispetto e l’amore filiale. Ma mi sento di pretendere da Lui (si, ho detto proprio “pretendere”) parole chiare, inequivoche, che possa anch’io capire al volo. Con le parole equivoche si è arrivati ad avere un Papa – e questo addolora tutti i cattolici – che è stato nominato “Uomo dell’anno” da una rivista americana che si fa portavoce degli invertiti. Vi pare un bel risultato? Vi pare un bel risultato che un povero pervertito, quel tale Fabrizio Marrazzo, portavoce del “Gay Center” dica “Da Bergoglio viene ancora una volta una riflessione che contrasta la cultura figlia dell’omofobia. La sua è un’attenzione inedita per un pontefice a cui bisogna guardare con fiducia”?

    Preghiamo per la Chiesa, preghiamo per il Santo Padre. Preghiamo per la nostra povera Italia, già centro della Cristianità, che si appresta a lanciarsi nel vuoto di leggi perverse senza che la voce dei Pastori si alzi, forte e chiara, a fermare questa rovina.

    © RISCOSSA CRISTIANA



     

    [Modificato da Caterina63 07/01/2014 16:38]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
  • OFFLINE
    Caterina63
    Post: 39.988
    Sesso: Femminile
    00 26/03/2015 10:41
    <header class="entry-header">

    Sui cosiddetti “cattolici tradizionali” e sulla “messa tradizionale”



    </header>

    SUI COSIDDETTI CATTOLICI TRADIZIONALI  E SULLA MESSA TRADIZIONALE 




       

    Volersi fermare al 1962 e voler bloccare tutto a prima del Concilio, come se esso non fosse avvenuto o avesse portato la Chiesa fuori strada, non è un vero essere tradizionali, non è fedeltà coerente e saldezza nella verità, ma un congelare un organismo vivente, è impedire il cammino della Chiesa, è ostinata arretratezza e presuntuosa disobbedienza alla Chiesa che avanza nella storia, è un inganno del demonio che conduce alla perdizione.

     

     

     

    Giovanni Cavalcoli OP
    Giovanni Cavalcoli OP

     

     

     

    cattolici tradizionali
    un gruppo di “cattolici tradizionali”

    Sta entrando nell’uso un’espressione che a ben guardare crea difficoltà ed appare equivoca, per non dire che è sbagliata e pericolosa: cattolici “tradizionali”, espressione apparentemente innocua, anzi forse anche bella. Essa può anche sembrare giusta, azzeccata, opportuna ed appropriata, evidentemente dotata, per coloro che la usano per se stessi e la diffondono, di un senso positivo, quasi a dire: i cattolici fedeli alla Sacra Tradizione.

     

    Un’espressione apparentemente chiarificatrice ma che in realtà, come cercherò di dimostrare, crea confusione e può, al di là delle buone intenzioni, aprire uno spiraglio al lefevrismo. Per questo, in fin dei conti, credo che sia meglio non usarla o quanto meno non usarla nel senso che spiegherò.

    Al riguardo propongo le seguenti osservazioni.

    Pio X
    il Santo Pontefice Pio X

    Prima. L’essere tradizionale, come già insegnava San Pio X, è una caratteristica del cattolico come tale, in quanto la dottrina della fede sorge dalla confluenza della Sacra Scrittura con la Sacra Tradizione. Entra nella definizione dell’essere cattolico. Per questo, il parlare di cattolico tradizionale non è che una tautologia, dire lo stesso dello stesso, è come dire che il cavallo è il cavallo. O tutt’al più è un’enunciazione del principio di identità, noto anche ai bambini. Bella scoperta!

     

    L’essere tradizionale entra nell’essenza stessa dell’essere cattolico, così come l’appartenere alla razza equina appartiene all’essenza del cavallo. In tal senso un cattolico che non sia tradizionale, non è un cattolico. Così come un cavallo che non sia equino non è un cavallo. Pertanto, chi si qualifica come cattolico tradizionale, sembra dire: “Noi sì, che siamo i veri cattolici! Noi soli lo siamo!”. Il cattolico non tradizionale, quindi, non può essere un buon cattolico.

    Non ha senso, quindi — commento io — aggiungere al termine “cattolico” l’aggettivo “tradizionale”, perchè questo attributo è già implicito nel concetto di cattolico, così come non avrebbe senso o sarebbe un’aggiunta inutile parlare di un cavallo equino.

    Paolo VI 2
    il Beato Pontefice Paolo VI

    Così pure: perché chiamare Messa “tradizionale” solo la Messavetus ordo? [QUIQUIQUI, ecc..] Anche quella novus ordo è la Messa tradizionale, è la “Messa di sempre”. Il Concilio non ha affatto cambiato la sostanza della Messa; ma ha solo apportato delle modifiche accidentali e contingenti, e come ha sostituto le modalità di prima, così un domani le presenti potranno essere sostitute da altre, senza che per questo la Messa venga mutata nella sua essenza.

    Non sa distinguere questa gente miope la sostanza dagli accidenti[cf. nostri precedenti articoli QUIQUI]? La riforma liturgica ha semplicemente introdotto un nuovo rito, un nuovo modo contingente di celebrare la stessa ed identica Messa istituita da Nostro Signore Gesù Cristo. Forse che Gesù Cristo ha celebrato l’Eucaristia secondo il … vetus ordo?

    Seconda. Il parlare di cattolici tradizionali sembra alludere al fatto che esistano cattolici non tradizionali, il che poi sarebbe cattolicesimo nuovo o moderno. Ma, stando al loro ragionamento, nel tal caso questo cattolico sarebbe un falso cattolico, perchè non è “tradizionale”.

    In realtà bisogna precisare che non ci è proibito l’aggettivo “tradizionale” applicato alla vita dello spirito, andando per analogia a come ci esprimiamo nel campo materiale, come per esempio in quello dell’arte o dell’alimentazione. Così, per esempio, sono apprezzati certi canti tradizionali o certi cibi tradizionali, senza che ciò implichi disprezzo per i canti e i cibi moderni. Ognuno è libero di scegliere.

    cibi romagnoli
    cibi tradizionali romagnoli

    Nessun ristoratore che propaganda cibi tradizionali invita a non comprare cibi moderni. Eppure questi cattolici “tradizionali”, per una specie di disprezzo indiscriminato nei confronti della modernità, sembrano avere questo disprezzo nei confronti dei cattolici che vogliono essere moderni [vedere QUIQUIQUI, ecc..]; ed esser moderni — sia chiaro — non vuol dire affatto esser “modernisti”, anzi tutt’altro.

     

    Nella Chiesa non c’è nulla di male che alcuni abbiano più simpatia per la tradizione ed altri invece per il rinnovamento e per il progresso, a patto che tutti stiano nell’ambito dell’ortodossia. Ma allora non conviene usare per chi ama in special modo la tradizione, il termine “tradizionale”, che fa apparire i progressisti, ossia chi ama il progresso, come falsi cattolici, contrari alla Tradizione e modernisti. Progredire è un dovere; essere modernisti è un’eresia.

    Tomas Tyn 2
    Il Servo di Dio Tomas Tyn, 

    Meglio sarebbe mantenere il termine “tradizionalista” da tempo largamente usato, dandogli in senso positivo e legittimo come sopra. Io stesso ho scritto un libro sul Servo di Dio Tomas Tyn col sottotitolo di “Tradizionalista postconciliare” [1], alludendo al fatto che esiste un sano tradizionalismo il quale contrariamente al tradizionalismo lefevriano, accoglie lo sviluppo della Tradizione operato dal Concilio e dai Papi del post-concilio, rifiutando nettamente di vedere una contraddizione del magistero conciliare rispetto a quello del pre-concilio.

     

    ariel vetus ordo
    Uno dei Padri dell’Isola di Patmos, autore di articoli critici verso il lefebvrismo e le correnti anti-conciliariste, una volta a settimana celebra col vetus ordo missae, contribuendo come molti altri sacerdoti alla conservazione del Messale di San Pio V secondo le direttive del motu proprio di Benedetto XVI

    Terza. Ma quello che desta preoccupazione è che coloro che hanno messo in giro questa espressione e si considerano con vanto cattolici tradizionali, esprimono delle idee che si avvicinano pericolosamente al lefevrismo, in quanto respingono come anti-tradizionali le dottrine del Concilio Vaticano II e quelle dei Papi seguenti, ritenendo che il vero cattolicesimo, fedele alla Tradizione, sia solo quel tipo di cattolicesimo, in quelle forme particolari – per esempio il rito tridentino della Messa -, che esisteva prima del Concilio.

    Quarta. Il vero cattolico tradizionale è quello del post-concilio. Ogni vero cattolico, come ho detto, è certamente per essenza tradizionale, ma lo è — e ciò non sembri contraddizione — anche il progressista, come lo fu per esempio il Maritain (non il modernista che è un eretico), ma nel senso dello sviluppo operato dal Concilio e dal postconcilio. Infatti un sano progresso, quale quello promosso dal Concilio, non è altro che uno sviluppo e una migliore conoscenza del dato immutabile della Tradizione.

     

    Giovanni Cavalcoli breviario
    un altro dei Padri dell’Isola di Patmos, anch’esso critico verso certe pericolose derive “tradizionaliste“, che per la liturgia delle ore usa il breviario latino

    Questo è il vero rispetto della Tradizione. Volersi fermare al 1962 e voler bloccare tutto a prima del Concilio, come se esso non fosse avvenuto o avesse portato la Chiesa fuori strada, non è un vero essere tradizionali, non è fedeltà coerente e saldezza nella verità, ma un congelare un organismo vivente, è impedire il cammino della Chiesa, è ostinata arretratezza e presuntuosa disobbedienza alla Chiesa che avanza nella storia, è un inganno del demonio che conduce alla perdizione.

    Varazze, 24 marzo 2015

     

    [1] Tomas Tyn, un tradizionalista postconciliare, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2007.


    PAOLO IL CALDO
    Vescovi
     

    Si fa sempre più strada una visione "sociologica" della Chiesa che spinge una parte della gerarchia e teologi a proclami in aperta contraddizione con ciò che la Chiesa ha sempre insegnato. Ma il nostro maggior conforto sta nella certezza che il Signore non abbandonerà né la Sua Chiesa né  i suoi fedeli.

    di Paolo Togni




    [Modificato da Caterina63 30/03/2015 17:53]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
  • OFFLINE
    Caterina63
    Post: 39.988
    Sesso: Femminile
    00 30/08/2015 12:22

      Tradizione, tradizionalismo ed ermeneutica della fede





     


    Per i cattolici sono due le fonti della Rivelazione: le sacre scritture e la tradizione. Ma bisogna precisare che, dopo il Concilio Vaticano II, la tradizione non è stata più intesa, come era avvenuto precedentemente per molti secoli, come statico “deposito da conservare”. Infatti, recita la Dei Verbum del 18 novembre 1965, «questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio» (secondo capitolo, par. 8), laddove in un successivo documento viene precisato che tale «interpretazione viva, che avviene sotto la guida dello Spirito Santo, non ha nulla da spartire con un facile adattamento allo spirito del tempo; al contrario, spesso essa può far valere l'attualità della Tradizione solo attraverso una profetica testimonianza contro lo spirito del tempo» (W. Kasper, Il carattere teologicamente vincolante del Decreto sull’ecumenismo del Concilio Vaticano II “Unitatis redintegratio”, in L’Osservatore Romano di domenica 9 novembre 2003, p. 6).


    La tradizione cresce o progredisce, nel senso che ne vengono alla luce tesori nascosti di significato e di vitalità spirituale anche per il presente, sulla base della compresenza di tre condizioni: che i fedeli meditino nel proprio cuore le parole della scrittura; che si acquisiscano esperienze personali e comunitarie sempre più profonde delle cose spirituali; che le nuove ipotetiche conquiste dello spirito siano legittimate dalla predicazione apostolica. Ha scritto Piero Stefani: «È fondamentale che si diano contemporaneamente tutti e tre gli elementi. La crescita non può avvenire prescindendo dal sostegno reciproco. Nessun fattore può, da solo, surrogare gli altri due. Lo studio è monco senza l’esperienza spirituale, ma tale è anche il magistero se non è alimentato dalla ricerca e dalla vita di fede dei credenti. In caso contrario la Parola viene sequestrata. Se il magistero pretende di sostituire la ricerca di fede a cui è chiamato ogni credente, se non si pone in ascolto dell’intelligenza di fede che germina all’interno della comunità, se i membri dell’episcopato non si impegnano in proprio come semplici fedeli ad acquisire un’autentica intelligenza della Parola, la tradizione perde consistenza e dinamismo. Lo stesso può dirsi nel caso in cui i fedeli, presi da scoramento, agiscano separandosi dal magistero. Sono condizioni esigenti che bastano a giustificare perché l’esperienza della crescita risulti tutt’altro che garantita all’interno della Chiesa» (P. Stefani, Tradizione e conoscenza della Bibbia. La testimonianza viva della parola nell’esperienza ebraico-cristiana, pro manuscripto, poi in gran parte confluito in “Il pensiero della settimana” n. 246. Riflessioni bibliche di P. Stefani, Intervista sul futuro della Chiesa, 22 aprile 2009).     


    Quindi, assicurare che la tradizione venga conservata e trasmessa nella sua genuinità e nella ricchezza dei suoi aspetti, non è un’opera semplice, ma un’opera molto complessa e delicata che richiede grande pazienza e capacità di ascolto reciproco, e soprattutto una smisurata capacità di discernimento che non può essere acquisita senza l’aiuto dello Spirito Santo (la cui funzione peraltro non può essere banalizzata con l’attribuirgli ogni volta tutto e il contrario di tutto e persino le cose più banali). Il che non toglie tuttavia che, ove vi siano manifeste e reiterate violazioni della lettera e dello spirito biblici, il magistero della Chiesa abbia tutto il diritto e il dovere di intervenire e di esercitare la sua autorità. Comunque, e anche in virtù di quanto sinora detto, il concetto di tradizione ha un significato meno scontato e meno lineare di quel che generalmente si crede. Già nell’originario termine latino trado è contenuta non solo l’accezione positiva di trasmettere o tramandare ma anche quella negativa di tradire, cioè alterare o manomettere ciò che si è ricevuto oppure trasmetterlo o tramandarlo, sia pure in buona fede, in una forma diversa da quella originale. E anche questo spiega perché la tradizione della Chiesa sia in realtà un patrimonio di idee certo omogenee quanto alla comune fede ma molto diverse quanto al modo di intendere e di interiorizzare le più intime articolazioni di questa fede, per cui in tale tradizione agisce perennemente il principio dinamico dell’acquisire ripensando o rivedendo, del trasmettere correggendo o approfondendo in rapporto a quanto originariamente insegnato, trasmesso e consegnato da Cristo stesso. Donde pure la conseguenza che altro è la tradizione, altro il tradizionalismo, il pretendere cioè di piegare la fede a idee, a norme e a prassi religiose e liturgiche non riconducibili in modo certo all’insegnamento e allo spirito di Cristo. Si commette quindi un grave errore quando si pretende di esaurire la tradizione nel tradizionalismo. E, anzi, talvolta il problema è proprio quello di difendere, con tatto ma anche con intelligenza ed energia, la tradizione dal tradizionalismo (Ivi). 


    Al tempo stesso, bisognerebbe liberarsi da un altro luogo comune: che la tradizione debba essere invocata per resistere alle novità di qualunque genere nel nome di un modo consolidato di intendere fede e vita ecclesiale. Ma come: non è il Vangelo perenne novità dello Spirito? E non è forse attraverso la trasmissione quanto più fedele possibile di questa novità che sarà sempre possibile e anzi doveroso aprirsi alle sollecitazioni sempre nuove ed urgenti dello Spirito Santo? E’ sempre stato cosí dall’origine e il vero compito della Chiesa è quello di mantenere intatto il patrimonio ereditato. Cosí si dice. Ma è proprio vero che in origine proprio tutto era esattamente uguale a quello di cui è oggi depositaria la Chiesa? Può darsi che qualcosa, strada facendo, sia andato perduto, sia stato attenuato o sia stato accentuato? Può darsi che alcuni aspetti della fede, magari in perfetta buona fede, e in modi che non è più possibile ricostruire perfettamente sotto il profilo storico, siano stati parzialmente travisati, depotenziati o trascurati? E poi, non è forse vero che in un patrimonio cosí vasto e ricco qual è la nostra tradizione sono sempre esistite ed esisteranno sempre molte possibilità non realizzate e molte virtualità spirituali che tutti dovrebbero cercare di attuare? Quello che nella tradizione prevale storicamente è certo frutto di un lavoro apostolico, ecclesiale e comunitario esercitato in spirito di verità. Non c’è motivo di dubitarne, in linea di massima. Ma questo non significa che non ci sia dell’altro da recuperare rispetto alle origini, al Logos, a Cristo; che non ci sia dell’altro da riportare alla luce perché la Verità risplenda una volta di più nelle menti e nelle coscienze dei contemporanei.


    Bisogna fare molta attenzione a questo discorso sulla tradizione anche perché talvolta la tradizione smarrisce ogni significato positivo per caricarsi di un significato esclusivamente negativo. Si ricordi l’ammonizione di nostro Signore, che non può valere naturalmente solo per i sacerdoti e per il popolo della sua epoca. A quei farisei e a quegli scribi che gli chiedevano perché i suoi discepoli non rispettassero la tradizione degli antichi, ovvero un certo tradizionalismo, Gesù rispondeva: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”: Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7, 6-8).  Usare la tradizione per cristallizzare la parola di nostro Signore in questa o quella tradizione interpretativa o anche in un certo numero di convergenti interpretazioni interpretative, in questa o quella prassi liturgica, in questa o quella esperienza ecclesiale e comunitaria della storia umana, non è certo il modo più saggio per onorare e preservare nella sua purezza l’originario deposito della fede. Nella tradizione ci sono molte cose buone e sante che servono ad illuminare il cammino dei credenti di ogni generazione, ma non è detto che in essa tutto di quel che ne è stato già accolto sia perfetto, ineccepibile, insuperabile, perché lo Spirito Santo conduce gli uomini, secondo i suoi desideri e i suoi piani, a comprendere e ad assimilare sempre meglio, o se si vuole in forme sempre più ampie ed originali, l’infinita Verità di Cristo e la sua sempre chiara e sempre misteriosa volontà.


    Volendo mutuare un’espressione dalla terminologia filosofica, si può dire che nessuna delle forme fenomenologiche della tradizione può essere identificata con l’idea, ovvero (nel senso etimologico della parola) con l’essenza, della tradizione stessa. Anche in questo caso, secondo quanto più volte affermato da Benedetto XVI, dobbiamo cercare di fare uso di una ragione più larga delle forme cui essa è stata consegnata in passato e in cui ancora oggi si è talvolta tentati di fissare il suo definitivo sigillo di legittimità. La fede, come la razionalità, è un processo ad infinitum sempre suscettibile di revisioni ed approfondimenti opportunamente controllati e verificati, che, lungi dal perdere di vista la Verità, contribuiscono a renderla sempre più luminosa e pregnante.    


    Stando cosí le cose non può non apparire chiaramente arbitrario l’asserire che la migliore difesa della tradizione sarebbe il tradizionalismo. Sí, arbitrario: come mai i tradizionalisti si sono arrogati il diritto, moderno, di scegliere una loro via all’interno della Chiesa postconciliare introducendo nel cuore stesso della Chiesa cattolica una forma di chiesa controriformistica? Come mai proprio i tradizionalisti hanno violato il principio fondamentale dell’intero ordinamento cattolico, ovvero l’obbedienza incondizionata al papa e quindi al supremo magistero della Chiesa? Certo, poi Benedetto XVI ha cercato di sanare, per cosí dire, la ferita da essi inferta all’unità della Chiesa: ma in che modo? Anche lui, come loro, cerca una riconciliazione appellandosi ad istanze tipicamente moderne, che di tradizionalistico e anche di tradizionale non hanno praticamente niente: l’opzione per questo o per quel rito ugualmente presenti nella storia liturgica, l’elogio del pluralismo sia pur sempre nei limiti delle pratiche religiose riconosciute dall’assemblea ecclesiale universale, e persino una certa comprensione per la disubbidienza (P. Stefani, Il tradizionalismo non è la tradizione, in “Esodo” n. 1 del gennaio/marzo 2008 e poi Il tradizionalismo modernista di Benedetto XVI, in  “Koinonia” dell’agosto 2007). 


     E si potrebbe continuare a lungo (si pensi a certe preghiere mutate nel corso di secoli o di decenni oppure ai requisiti, anch’essi storicamente mutati e mutevoli, necessari all’ordinazione sacerdotale, e via dicendo) per dimostrare non solo come il tradizionalismo in realtà non possa affatto rappresentare la più santa ed alta tradizione della Chiesa, appunto perché tale tradizione non è mai completamente ferma ma perennemente seppur lentamente in cammino verso una comprensione sempre più avanzata e perfetta di quelli che furono, che sono e saranno il vero volto ed il vero cuore di Cristo, ma anche come sia problematico il concetto stesso di tradizione nella e per la Chiesa.


    La sacra tradizione, che al pari della Scrittura ha un’origine divina, dice il papa correttamente citato in un recente articolo, «trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli, ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano. In questo modo la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Sacra Scrittura. Perciò l'una e l'altra devono esser accettate e venerate con pari sentimento di pietà e di riverenza"» (Zenon Grocholewski,L'autentico realismo si trova nella fede, L'Osservatore Romano - 22-23 maggio 2009). Il che è naturalmente vero, anche se, credo, occorrerebbe un riconoscimento magisteriale esplicito circa il fatto che, proprio perché lo Spirito Santo non agisce al posto dell’uomo ma attraverso l’uomo, non possa escludersi né in linea di principio né in linea di fatto, l’errore umano sia nella conservazione, sia nella esposizione e nella diffusione di temi o articoli non centrali e tuttavia importanti della dottrina rivelata; errore umano che fa sí che la fede certa in Cristo possa poi coincidere, nella storia della Chiesa, con una ricerca inesauribile e pur sempre ispirata ed alimentata dallo Spirito di Dio dell’identità umana e divina di Cristo stesso. In questa prospettiva non c’è motivo di pensare che un riconosciuto padre della Chiesa del quarto secolo debba aver conosciuto ed amato necessariamente il Signore molto meglio di un nostro ipotetico e sconosciuto mistico contemporaneo del XXI secolo. Anche da questo punto di vista il Signore ha voluto essere equanime con tutti i suoi figli e con tutte le generazioni della sua famiglia umana, facendosi e restando, tramite la Chiesa ma anche tramite l’azione policentrica dello Spirito Santo, contemporaneo di tutti e di tutte le generazioni, perché a nessuno di noi e a nessuna generazione storica fosse mai preclusa la possibilità di conoscere e amare la sua più intima e profonda volontà.


     I padri, pertanto, dovranno essere venerati per la profondità della loro esperienza spirituale e per averci trasmesso un patrimonio di conoscenze e di idealità religiose di inestimabile valore, e con essi dovranno essere altresí venerati la sacra tradizione, l’intera esegetica biblica maturata in seno a quest’ultima e almeno i momenti più importanti della complessiva opera storica di legittimazione esegetico-interpretativa prodotta dall’alto magistero della Chiesa. Ma tutto questo non potrà mai impedire che il soffio rigeneratore e vivificante dello Spirito di Dio provenga ogni volta da direzioni anche diverse da queste ovvero da quelle ormai canoniche attraverso cui si è manifestata e si manifesta perennemente e ordinariamente la Parola e la Volontà di Dio stesso. 


    D’altra parte, è perfettamente comprensibile che il papa batta continuamente sui tasti dell’autorità della tradizione, del magistero e della stessa scrittura da interpretare sempre alla luce della tradizione e del magistero ecclesiale: egli teme uno scollamento tra questi tre fronti e fonti della parola di Dio, teme l’insorgere nella comunità ecclesiale di forme individualistiche che hanno sempre rischiato di minare e oggi più che mai minerebbero l’unità della Chiesa: «fra Cristo e la Chiesa non c'è alcuna contrapposizione:  sono inseparabili, nonostante i peccati degli uomini che compongono la Chiesa. È pertanto del tutto inconciliabile con l'intenzione di Cristo uno slogan di moda alcuni anni fa:  "Gesù sì, Chiesa no". Questo Gesù individualistico scelto è un Gesù di fantasia. Non possiamo avere Gesù senza la realtà che Egli ha creato e nella quale si comunica. Tra il Figlio di Dio fatto carne e la sua Chiesa v'è una profonda, inscindibile e misteriosa continuità, in forza della quale Cristo è presente oggi nel suo popolo. È sempre contemporaneo a noi, è sempre contemporaneo nella Chiesa costruita sul fondamento degli Apostoli, è vivo nella successione degli Apostoli. E questa sua presenza nella comunità, nella quale Egli stesso si dà sempre a noi, è motivo della nostra gioia. Sì, Cristo è con noi, il Regno di Dio viene» (Papa Benedetto XVI, La Chiesa costruita sul fondamento degli apostoli, I dodici “pescatori” che ci insegnano a non essere individualisti, in L'Osservatore Romano, 19 aprile 2009).


    Dove non c’è nulla che non debba essere sottoscritto e dove tuttavia non è né irriverente né inopportuna la precisazione per cui Cristo, il suo insegnamento, la sua vita, come la sua carne e il suo sangue, restano sempre più grandi e preziosi della Chiesa e del suo pur immane lavoro di testimonianza nella verità e nell’amore. Ciò comporta anche che la Chiesa può sbagliare (forse che i padri non hanno mai sbagliato persino su questioni non marginali e non si sono dovuti correggere ed integrare gli uni con gli altri?), sul piano della scienza teologica e della carità, mentre solo Cristo è infallibile e che essa può talvolta evitare (soprattutto a livello di magistero pontificio) e talvolta superare i suoi errori solo in virtù dello Spirito Santo che non l’abbandona mai anche se per esserle utile sceglie vie o percorsi sempre inediti ed originali e comunque inattesi. Il che non può non suonare, di conseguenza, per la comunità ecclesiale complessivamente considerata, come monito necessario ad esercitare il suo esercizio e la sua testimonianza standosene ben al riparo da tentazioni trionfalistiche e da indesiderabili dimostrazioni di sicumera dottrinaria.


    E cosí, anche quando il papa dice che «la Bibbia va letta e interpretata alla luce della Tradizione della Chiesa», dice certamente una cosa giusta e saggia, ma spero che non avrebbe da eccepire alcunché a chi aggiungesse che, tuttavia, anche la Tradizione della Chiesa va riletta e reinterpretata frequentemente alla luce della Bibbia e soprattutto del Vangelo, in una circolarità ermeneutica senza fine che abbia come obiettivo sia una graduale depurazione sia un allargamento o una dilatazione quanto più ampia e profonda possibile del senso della Parola salvifica del Redentore.








    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)