00 06/02/2015 11:21

  Giovanni XXIII e i prodromi delle deviazioni operate dal Vaticano II.


 




Il documento che segue conferma l'affermazione vaga di un lettore. Lo dobbiamo al diligente oltre che sapiente impegno di Paolo Pasqualucci; il che segna uno degli esempi più significativi della continuità e contiguità del nostro percorso di condivisione e di approfondimento sulla realtà ecclesiale che siamo chiamati a vivere. Dopo la lettera di Roncalli, preceduta dalla comunicazione che l'accompagna, pubblico quanto evidenziato dallo stesso Pasqualucci nella sua Sinossi degli errori imputati al Concilio Vaticano II, Editrice Ichthys, 2012 (pagg. 7-12) sulla Gaudet Mater Ecclesia, la famosa Allocuzione di apertura del concilio, che contiene i prodromi di quanto era già penetrato nella Chiesa attraverso il modernismo che diversi elementi confermano appartenere alle corde di colui che, forse non a caso, scelse il nome dell'ultimo papa conciliarista1... 


Cara Maria,

 Nell'intervento successivo al mio [il quart'ultimo nella discussione in questo articolo] sulla questione dell'attesa per il 2017, di questa mattina, "Cattolico" menziona in modo vago il rifiuto di Roncalli nei confronti di un bulgaro che voleva convertirsi. La lettera che documenta l'episodio fu pubblicata anni fa da Repubblica, cui l'aveva data mons. Loris Capovilla. Essa dimostra che il rifiuto di convertire viene da lontano e che c'è continuità fra gli errori del recente passato e del presente. Siccome me l'ero a suo tempo ricopiata, ho pensato questo. Invece di inserirla io in una risposta integrativa a "Cattolico", perché non la pubblichi con il dovuto rilievo nel blog, richiamandoti alla sua attualità? Purtroppo, è attualissima. Fanno spavento soprattutto le parole finali, da me messe in corsivo, il cui concetto ritroviamo in tutta l'azione di Roncalli e nella celebre Allocuzione di apertura del Concilio. Te la invio qui in allegato.


Lettera di A. Roncalli, 1926

Mio caro amico,
La sua lettera del 24 corrente mi rivela i suoi buoni sentimenti ed i desideri di mettere la sua vita a servizio del Signore.  Di ciò mi compiaccio.  Ella però è male informato circa gli scopi della mia visita in Bulgaria.  Il Santo Padre mi ha mandato qui per cooperare alla ristorazione della povera Chiesa cattolica di rito orientale in questo paese, costituita per lo più da poveri rifugiati della Tracia e della Macedonia, e per aiutare in generale i cattolici di rito orientale e di rito latino in Bulgaria.
Una volta mi accadde di raccomandare per un istituto di carità di Torino un giovane orfano alunno del Seminario di Sofia.  Ma non mi sono mai interessato di altro.  Sono in verità molti i giovani, specialmente allievi dei Seminari ortodossi in Bulgaria, in Romania, in Jugoslavia, in Russi, che domandano di essere accolti dal Santo Padre nei Seminari di Roma.  Ma finora non fu presa alcuna decisione:  e credo che nessuna decisione si prenderà se non previe intelligenze col Santo Sinodo delle Chiese ortodosse nei vari paesi e coi Governi rispettivi. 
Io non mi trovo quindi in condizione di corrispondere ai suoi desideri, mio caro amico. Poiché però ella me ne dà l’occasione lasci che io la inviti, come ho sempre fatto con tutti i giovani ortodossi che ebbi il bene di incontrare in Bulgaria, ad approfittare degli studi e della educazione che ella riceve nel Seminario di Sofia.  I cattolici e gli ortodossi non sono dei nemici, ma dei fratelli.  Abbiamo la stessa fede, partecipiamo agli stessi sacramenti, soprattutto alla medesima Eucaristia.  Ci separano alcuni malintesi intorno alla costituzione divina della Chiesa di Gesù Cristo.  Coloro che furono causa di questi malintesi sono morti da secoli.  Lasciamo le antiche contese, e, ciascuno nel suo campo, lavoriamo a rendere buoni i nostri fratelli, offrendo loro i nostri buoni esempi.  Ella apprenderà al Seminario molte cose, soprattutto l’amor di Gesù, lo spirito di apostolato e di sacrificio.  Più tardi, benché partiti da vie diverse ci si incontrerà nella unione delle Chiese per formare tutte insieme la vera ed unica chiesa di N.S. Gesù Cristo.
Questo è ciò che posso dirle:  che ho detto a parecchi altri bravi giovani bulgari.  Mi dispiace di non poterle aggiungere altro, in conformità ai suoi desideri.  Teniamoci uniti colla preghiera, nel Signore.  Io le auguro di cuore ogni bene ed ogni letizia.
Devotissimo suo
Angelo Gius. Roncalli
[La lettera fu passata da mons. Loris Capovilla al giornale quoditiano di sinistra “La Repubblica”, che la pubblicò in esclusiva il giorno  27 ottobre 1996.  Corsivi del relatore non dell’autore.]
* * * *

Errori nell'Allocuzione di apertura e nel Messaggio al mondo
Paolo Pasqualucci, Sinossi degli errori imputati al Concilio Vaticano II, Editrice Ichthys, 2012 (pagg. 7-12) 

Non pretendiamo che la nostra sinossi degli errori imputati al Vaticano II sia completa, tuttavia ci sembra di aver individuato un numero sufficiente di errori im­portanti, cominciando in via preliminare da quelli con­tenuti nell'allocuzione di apertura e nel messaggio del concilio al mondo del 20 ottobre 1962, testi che, pur non appartenendo formalmente al Concilio, l'hanno tuttavia indirizzato nel senso voluto dall'ala progressi­sta, cioè dai Novatori neo-modernisti.

Allocuzione di apertura
Il celebre discorso di apertura di Giovanni XXIII, ol­tre a diverse profezie clamorosamente smentite dai fatti ("la Provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani che... si svolgono verso il compimen­to di disegni superiori e inattesi"), contiene tre veri e propri errori di dottrina.
 
1° errore: una concezione mutila del Magistero.
È contenuta nell'incredibile affermazione, riecheggia­ta da Paolo VI nel discorso di apertura della 2asessione del Concilio il 29 settembre 1963, secondo la quale la Santa Chiesa rinuncia a condannare gli errori: "Sempre la Chiesa si è opposta a questi errori [le false opinioni degli uomini - ndr]: spesso li ha anche condannati con la massima severità. Ora, tuttavia, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità. Essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina, piuttosto che rinnovando condanne".
Con questa rinuncia ad usare la propria autorità (che viene da Dio) per difendere il deposito della fede ed aiutare le anime con la condanna dell'errore che ne insidia l'eterna salute, Papa Roncalli veniva meno ai suoi doveri di Vicario di Cristo. La condanna dell'erro­re, infatti, è essenziale al mantenimento del deposito della fede (che è il primo dovere del Pontefice), dal mo­mento che essa conferma a fortiori la sana dottrina, di­mostrandone l'efficacia con una puntuale applicazione. Inoltre, la condanna dell'errore è necessaria dal punto di vista pastorale perché sorregge i fedeli, sia i colti che i meno colti, con l'autorità ineguagliabile del Magistero, della quale essi possono rivestirsi per difendersi dal­l'errore, la cui "logica" è sempre più astuta e più sottile della loro. Non solo: la condanna dell'errore può indur­re l'errante al ripensamento, mettendolo di fronte alla vera sostanza del suo pensiero: come è stato detto, la condanna dell'errore è ex sese opera di misericordia.
Sostenere che questa condanna non debba più aver luogo, significa propugnare da un lato una concezione mutila del Magistero della Chiesa; dall'altro, sostituire al dialogo con l'errante, sempre perseguito dalla Santa Chiesa, il dialogo con l'errore. Tutto ciò configura un errore dottrinale, che nel testo di Giovanni XXIII sopra citato si manifesta nell'improprio accostamento fina­le, ove sembra alitare il pensiero che la dimostrazione della "validità della dottrina" sia incompatibile con la "rinnovazione delle condanne", come se quella validi­tà dovesse imporsi unicamente grazie alla forza della propria intrinseca logica. Ma in tal modo la fede non sarebbe più un dono di Dio, non avrebbe più bisogno né della Grazia per venire in essere e fortificarsi, né del­l'esercizio del principio di autorità, impersonato dalla Chiesa cattolica, per essere sostenuta. E questo è l'er­rore in senso proprio, nascosto nella frase di Giovanni XXIII: una forma di pelagianesimo, tipico di ogni con­cezione razionalistica della fede, pluricondannata dal Magistero.
La dimostrazione della validità della dottrina e la condanna degli errori si sono sempre e necessariamen­te implicate a vicenda nella storia della Chiesa. E le condanne hanno riguardato non solo le eresie e gli er­rori teologici in senso stretto, ma implacabilmente ogni concezione del mondo che non fosse cristiana; non solo quelle avverse alla fede, ma anche quelle solo diverse, religiose e non, poiché "chi non raccoglie con Me, di­sperde", ha detto Nostro Signore (Mt. 12, 30).
L'eterodossa presa di posizione di Giovanni XXIII, mantenuta dal Concilio e dal post-concilio sino ad oggi, ha fatto crollare - lo si nota già nei testi del Concilio - la tipica, ferrea armatura concettuale della Chiesa, ben presente un tempo anche ai suoi nemici e da alcuni di loro persino apprezzata: "L'impronta intellettuale della Chiesa è essenzialmente l'inflessibile rigore con cui i concetti e i giudizi di valore vengono trattati come sta­biliti, come aeterni" (Nietzsche).

2° errore: la contaminazione della dottrina cat­tolica con il "pensiero moderno", intrinsecamente anticattolico.
Alla proclamata rinuncia a trafiggere l'errore, a que­sta inaudita abdicazione, è connessa l'altra notissima e gravissima affermazione di Giovanni XXIII, da lui riba­dita nell'allocuzione natalizia ai Cardinali del 13 gen­naio 1963, secondo la quale la "penetrazione dottrinale" doveva aver luogo "in corrispondenza più perfetta di fedeltà all'autentica dottrina", la quale, tuttavia, doveva esser "studiata ed esposta attraverso le forme dell'inda­gine e della formulazione letteraria del pensiero mo­derno"2, poiché "altra è la sostanza dell'antica dottrina del depositum fidei ed altra è la formulazione del suo rivestimento: ed è di questo che devesi - con pazienza se occorre - tener gran conto, tutto misurando nelle forme e proposizioni di un magistero a carattere preva­lentemente pastorale".
Questi concetti furono ripetuti espressamente dal concilio nel decreto Unitatis redintegratiosull'ecumeni­smo, art. 6 (v. infra).
Il principio, già dei liberali e dei modernisti, che l'an­tica dottrina dovesse esser rivestita di una forma nuova, desunta dal "pensiero moderno", era già stato espres­samente condannato da S. Pio X (Pascendi 1907, § II, c; decr. Lamentabili, nn. 63 e 64 - Denz. 2064-5/3464­5) e da Pio XII (Humani Generis AAS 1950, 565-566). Papa Roncalli proponeva, perciò, una dottrina già for­malmente condannata come eretica (in quanto tipica dell'eresia modernista) dai suoi predecessori.
Non è possibile, infatti, applicare alla dottrina cat­tolica le categorie del "pensiero moderno" il quale, in tutte le sue forme, nega a priori l'esistenza di una verità assoluta e per il quale tutto è relativo all'Uomo, unico suo valore assoluto, divinizzato in tutte le sue mani­festazioni (dall'istinto alla "coscienza di sé"). Un pen­siero, quindi, intrinsecamente avverso a tutte le verità fondamentali del Cristianesimo, a cominciare dall'idea di un Dio creatore, di un Dio vivente, che si è rivela­to ed incarnato, per finire al modo di intendere l'etica e la politica. Nel proporre una simile contaminazione, Giovanni XXIII si mostrava discepolo del "metodo" della neo-modernisticaNouvelle Théologie già condannato dal Magistero. Per esser veramente aderente ai biso­gni dei tempi, rapportati alla missione di salvezza della Chiesa cattolica, il Concilio avrebbe dovuto approfondi­re ulteriormente le condanne rivolte in passato dai Papi al pensiero moderno (da Pio IX a Pio XII) invece di dare in pasto a quest'ultimo "lo studio e l'espressione" della "autentica" e "antica" dottrina.

3° errore: il fine della Chiesa è "l'unità del genere umano".
Il terzo errore è nell'enunciazione dell'unità del ge­nere umano quale fine proprio della Chiesa: "Questo si propone il Concilio Ecumenico Vaticano II, il quale... quasi prepara e consolida la via verso quell'unità del genere umano, che si richiede quale necessario fonda­mento, perché la Città terrestre si componga a somi­glianza di quella celeste «in cui regna la verità, è legge la carità, l'estensione è l'eternità»" (cfr. S. Augustinus, Epist. 138, 3)».
Qui "l'unità del genere umano" è considerata il fon­damento necessario (si noti il necessario) affinché la "città terrestre" assomigli sempre più a quella "celeste". Ma che l'espansione della Chiesa in questo mondo ne­cessitasse di quel fondamento non era mai stato in­segnato in passato, tanto più che il fine dell'unità del genere umano - unità affermata dal Papa simpliciter - è un'idea-guida della filosofia della storia elaborata, a partire del secolo XVIII, dal pensiero laico, una compo­nente essenziale della religione dell'Umanità, non della religione cattolica.
L'errore consiste qui nel mescolare alla visione cat­tolica un'idea ad essa estranea, desunta dal pensiero laico, che ex sese la nega e la contraddice, poiché quel pensiero non mira certo ad estendere il Regno di Dio, per la parte che si attua in terra nella Chiesa visibile, ma a sostituire la Chiesa stessa con l'Umanità, convinto come è della dignità dell'uomo in quanto uomo (perché non crede al dogma del peccato originale) e dei suoi pretesi "diritti".
Gli effetti negativi della mancata condanna degli er­rori del Secolo si fanno, dunque, sentire, quasi per una sorta di nemesi, anche nell'allocuzione che la propone, dal momento che essa degli errori del Secolo ne contie­ne almeno uno con certezza, accanto ai due più pro­priamente teologici.
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Note di Chiesa e post concilio.
1. Fu Baldassarre Cossa, papa negli anni (1410-1415) con una legittimità sospetta, che lo fece inserire tra gli antipapi (Giovanni XXIII), noto come esponente del cosiddetto movimento conciliare, una corrente che considerava il papa inferiore alla Chiesa universale ed anche all'autorità di un concilio.
2. Sulla Gaudet Mater Ecclesia, vedi anche Il conflitto irrisolto di un altro valente studioso, il prof. Bernard Dumont, Direttore di Catholica. Stralcio il brano riguardante l'allocuzione di apertura del Concilio, con una mia notazione:
[...] La missione attribuita al concilio era offrire risposte adeguate alle angosce nate da questa situazione, ma anche discernere le aspirazioni positive e dar loro una risposta in una formulazione appropriata. Tale era la ragion d'essere del carattere essenzialmente pratico di questo concilio, indicato con l'aggettivo « pastorale » ufficialmente attribuitogli. Giovanni XXIII era stato chiarissimo a questo riguardo : non si trattava di «discutere di alcuni capitoli fondamentali della dottrina della Chiesa, e dunque di ripetere con maggiore ampiezza ciò che Padri e teologi antichi e moderni hanno già detto», bensì di operare un aggiornamento (è uno dei significati della parola aggiornamento ripetuta così di frequente), un adattamento pedagogico : « È necessario che questa dottrina certa e immutabile, che dev'esser fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo da rispondere alle esigenze del nostro tempo. (Discorso d'apertura). La traduzione letterale della versione italiana comporta una variante : « [...] sia studiata ed esposta seguendo la ricerca e la presentazione usate dal pensiero moderno », formulazione ambigua, che può intendersi nel senso di una attenzione rivolta alla capacità di comprensione degli uditori oppure di un allineamento alla forme culturali dominanti dell'Occidente.*
Ma un'ambiguità simile circonda la parola « exigence » nella versione francese. L’operazione era tanto più importante in quanto ci si trovava in presenza di un generale sconvolgimento del mondo di fronte al quale conveniva riflettere con tanta più forza quanto gli atteggiamenti adottati dopo il XIX secolo nei confronti della modernità si erano conclusi con successivi fallimenti sempre più evidenti, anche perché il discorso della Chiesa non era mai giunto ad esser formulato in termini immediatamente accessibili ai suoi destinatari.
Perché questa intenzione pastorale non ha mai dato frutti? Perché tanti sforzi dispiegati non hanno permesso di trovare i mezzi per elaborare un modello rinnovato di comprensione della modernità, e dare un impulso decisivo ad una rinascita della cultura cristiana tale da imporre rispetto ? Ci si contenterà qui di considerare due punti : l’opzione iniziale che ha dato la sua tonalità ai lavori conciliari, e la difficoltà di comprendere l'ostinazione con cui la linea posta all'inizio non è stata modificata a dispetto della sua inefficacia.[...]
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*[N.d.T.: Questa citazione si riferisce ad un'altra versione del testo, rispetto a quella pubblicata sul sito Vatican.va, sul quale appare la versione corrispondente a quella francese, vedi link sopra, peraltro confermata dal testo latino presente sul sito Vaticano. Non volendo, ci troviamo di fronte ad un dilemma: dello stesso discorso circolano due versioni diverse: questa* riporta la versione citata dal Prof Dumont. Non faccio commenti, ma se si confrontano le due versioni, la cosa è piuttosto intrigante]. 
Il documento in pdf di cui al link sopra (testo originale dell'Allocuzione di Giovanni XXIII ripreso dal sito papagiovanni.com), consente di confermare la discrepanza; cito: «... studiata ed esposta attraverso le forme dell'indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno »]. E la cosa non finisce qui, perché il testo spagnolo presente sul sito Vatican.va conserva la formulazione riscontrata dall'originale italiano: «...estudiando ésta y exponiéndola través de las formas de investigación y de las fórmulas literarias del pensamiento moderno».
 

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)