00 05/11/2017 10:15



Risposte ad alcune domande sulla situazione della Chiesa








 


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Sulle pagine di Radio Spada  si possono incontrare diverse interviste a esponenti del mondo cattolico sulla “crisi nella Chiesa”: non solo sul web ma anche dal vivo, nelle varie edizioni del 25 aprile radiospadista, hanno avuto luogo confronti su questo argomento. Oggi, collocandoci in questa “tradizione” consolidata, riportiamo l’ampia intervista con don Mauro Tranquillo pubblicata nell’ultimo numero de La Tradizione Cattolica: alla stesura originale delle domande hanno partecipato alcuni giovani di Radio Spada [RS]


RISPOSTE AD ALCUNE DOMANDE SULLA SITUAZIONE DELLA CHIESA


di don Mauro Tranquillo (La Tradizione Cattolica, Anno XXVIII, n. 3 [104] – 2017)



  • 1) «Prima Sedes a nemine iudicatur». Alcuni ambienti modernisti ricordano sempre questo principio per escludere ogni tipo di giudizio sul Papa e sul suo operato, onde «resistere in nome della Tradizione» sarebbe giudicare il Pontefice.


Tale fondamentale principio giuridico, basato sul dato rivelato, impone di credere che nessuno può portare un giudizio sulla Sede Apostolica, come ovviamente su colui che vi siede hic et nunc. Occorre però fare alcune distinzioni: l’enunciato in effetti è compendioso, e serve a memorizzare un grande principio che necessita esplicitazione.


Se con tale sentenza si intende (come vuole il senso ovvio) il portare sulla persona del Pontefice un giudizio di valore canonico e con effetti legali, come su un suddito, è palese che ciò è impossibile in ogni senso, non avendo il Papa un superiore competente a giudicarlo in terra, in nessuna materia. Se si intende del giudicare gli atti della persona rivestita hic et nunc del Pontificato, distinguiamo nuovamente: gli atti (sentenze giudiziali o dogmatiche) rivestiti di autorità papale in qualche grado non possono essere discussi, essendo formalmente atti papali. Gli atti non rivestiti di autorità, che il Papa compie in quanto uomo e non in quanto Vicario di Dio, se non possono essere sottoposti a giudizio in senso giuridico, possono però essere valutati secondo quanto già definito dal Magistero, cioè secondo quanto già definito come rivelato da Dio, con un giudizio prudente e personale, come gli atti di qualsiasi altra persona.


Ovviamente si suppone che non tutte le azioni del Papa siano atti che procedono dalla sua formalità di Papa; e che il Papa in quanto uomo possa peccare, e anche peccare contro la fede (il che non ha nulla a che vedere con l’infallibilità che è prerogativa di un certo tipo di atti della persona del Papa). Questo si può provare con molti argomenti. San Paolo per primo dice che “omnis Pontifex ex hominibus assumptus… et ipse circumdatus est infirmitate” (Heb. V). Sant’Urbano Papa, riportato nel Corpus Iuris Canonici 25, q. 1, c. Sunt quidem, dice: “Laddove il Signore o i suoi apostoli o i santi padri apertamente definirono qualcosa con sentenza, il Pontefice romano non può dare una nuova legge, ma piuttosto deve confermare fino alla vita e al sangue ciò che è stato predicato. Se infatti tentasse di distruggere ciò che hanno insegnato gli apostoli e i profeti non attenterebbe di dare una sentenza, ma sarebbe convinto di errore”. Errare contro le verità definite è appunto l’eresia. E la Glossa ordinaria 24a, q.1, c. 1 commenta: “Questo è il caso in cui un Papa può legarne un altro […] Né osta la regola per cui un uguale non può legare l’uguale, perché se il Papa è eretico, in quanto è eretico è inferiore a qualsiasi cattolico”. Interessante è notare come già questi antichi canonisti erano in grado di capire la differenza tra le varie formalità presenti nella persona rivestita dell’ufficio papale: quella umana, circondata d’infermità, che può errare anche contro la fede; e quella papale, che gli permette di sciogliere e legare, e che non è sottoposta a nessuno, se non al fatto della rivelazione, alla verità oggettiva di Dio che tutto sovrasta. Una volta definito un dogma, significa che tale cosa è stata rivelata da Dio, e nessuno può fare che diventi “non-rivelata” o “diversamente rivelata”. In questo senso un Papa può “legare”, e quindi “giudicare” il suo successore: quando una verità è definita il Papa non ha più autorità sulla materia, sulla quale si è esaurito il potere magisteriale, ed è quindi possibile giudicarlo sulla materia ormai determinata.


Il dogma dell’infallibilità definito al Vaticano I, come è logico, non contraddice né supera queste antiche determinazioni canoniche, né rende il Papa impeccabile, fosse anche in un solo campo (la fede). Semplicemente garantisce che quando conferma la Chiesa nella fede con l’intenzione di insegnare il Papa non può errare, cioè che alcuni suoi atti specifici e volontari sono rivestiti di infallibilità. Dico “alcuni” non perché siano pochi o molti: sono esattamente quelli che il Papa vuole come tali, cioè come insegnamento formale all’intera Chiesa.


Non dovrebbe porre alcuna difficoltà l’esistenza di atti compiuti dal Pontefice al di fuori della sua autorità e come tali soggetti a giudizio umano, ed eventualmente accettabili o denunciabili come scandalo. Non sono mancati né gli insegnamenti dei Dottori né gli esempi dei Santi in tal senso, e spesso sono stati citati. Il problema reale, lo vedremo, andrà a porsi al momento di determinare quali atti (in astratto e in concreto), specialmente nella situazione attuale, possano dirsi autorevoli o no (e quindi passibili di giudizio secondo quanto già definito o no). Solo una concezione dell’infallibilità come Provvidenza o impeccabilità può opporsi a tali semplici princìpi, o una teologia hegeliana della storia, per cui ogni atto del Pontefice sarebbe una manifestazione del divino. Ciò ridurrebbe la struttura giuridica della Chiesa a un malcelato profetismo del tutto estraneo al concetto delle Sacre Chiavi.


Ripetiamo: che ci siano atti della persona del Papa che ognuno può valutare (non in senso giuridico ma morale) come buoni o cattivi, perché non rivestiti di infallibilità, è palese e indiscusso (o dovrebbe esserlo); la discussione porterà su come determinare l’uso dell’autorità.



  • 2) «Qui non est membrum, non potest esse caput». Chi si esclude dalla Chiesa non professandone la Dottrina, come può essere a Capo della Chiesa stessa? Sembra essere questa la principale obiezione sedevacantista. Che dire?


L’obiezione si basa anzitutto su un fatto, su cui possiamo tutti concordare: alcuni recenti Pontefici non hanno professato la dottrina della Chiesa ma veri e propri errori ed eresie, a prescindere dalla questione dell’uso dell’autorità di cui sopra (cioè poco importa che lo abbiano fatto in documenti autorevoli o privati, il fatto che siano eresie pubbliche già li escluderebbe dalla Chiesa). Sarebbe quindi assolutamente necessario dichiararli decaduti, in quanto hanno dimostrato di non essere membri della Chiesa e quindi di non poterne essere a capo. L’obiezione trova poi due fondamenti teoretici: uno nella legislazione canonica che priva di giurisdizione l’eretico, l’altro nelle tesi di numerosi teologi e dottori del passato che hanno ipotizzato il caso del Papa caduto in eresia, e molti di loro hanno dato come soluzione la sua decadenza (discordando poi su come questa potesse effettivamente essere constatata, o eludendo il problema nel quadro di una trattazione che restava accademica).


La questione non può essere posta su un piano puramente canonico, perché parlando del Papa si parla di persona non soggetta alle leggi puramente ecclesiastiche. Occorre dunque capire che cosa il diritto divino dica dell’eretico, e se sia certo che nella sua essenza il possesso della suprema giurisdizione sia incompatibile con l’eresia o la non appartenenza alla Chiesa. In realtà sappiamo che il Battesimo, anche in chi non ha la fede o è nello scisma, permette di mantenere un certo legame con la Chiesa come struttura sociale: infatti ogni battezzato, anche nato nell’eresia, è considerato non membro ma suddito della Chiesa e delle sue leggi (a maggior ragione questo vale per l’apostata dalla fede cattolica, sul quale continuano ad urgere i precetti ecclesiastici). Quindi è possibile che una qualche relazione, seppur esteriore, rimanga tra il battezzato e la società ecclesiastica. Inoltre è notorio che esistono casi in cui chierici eretici o scismatici (apostati o no) possono ricevere giurisdizione ecclesiastica, per esempio il caso del pericolo di morte: questo dimostra che l’incompatibilità tra professione dell’eresia e possesso della giurisdizione è di diritto ecclesiastico, non è un’impossibilità metafisica. Più nello specifico, esistono anche teologi che hanno supposto lo scenario di un Papa scismatico (cioè che rifiuta di far parte della Chiesa) che però continua ad esserne il Capo. L’esempio è portato dal Caietano, uno dei principali commentatori di san Tommaso (Commento a IIaIIae, q.39, art. 3): si chiede se la persona di un vero, certo ed indubbio Papa possa essere scismatica (quindi non essere membro della Chiesa). Egli risponde che la persona del Papa può rifiutare di sottomettersi all’ufficio del Papa, quod per accidens est pro tunc in ipso, introducendo una distinzione capitale (che ci riporta a quanto già accennato sopra). Rifiuterebbe così di essere in comunione con la Chiesa nelle cose spirituali (la fede ad esempio), ma rimarrebbe al governo di essa, come una specie di governatore esterno (habere se tantum ut dominus temporalis).


Perché dovremmo preferire l’idea che il Papa non perda il pontificato una volta caduto in eresia, nonostante l’opinione contraria di molti dottori? Fondamentalmente perché gli antichi dottori che immaginavano il caso del Papa caduto in eresia consideravano uno scenario ben diverso dall’attuale: nelle loro ipotesi era il Papa solo a cadere nell’eresia, mentre il corpo episcopale, restando più o meno sano, garantiva il perpetuarsi dell’esistenza della Chiesa, esattamente come avviene alla morte del Papa; secondo i sedevacantismi attuali, non è solo la Sede di Pietro a essere vacante, ma tutte le sedi episcopali contemporaneamente. Chi vuole applicare queste tesi alla situazione attuale dovrebbe quindi sempre ricordare che non sta presentando una Chiesa “senza Papa” (cosa che avviene regolarmente nel periodo di conclave), ma una Chiesa senza alcuna gerarchia sulla terra, senza episcopato residenziale, quindi senza presenza di giurisdizione ordinaria. In questo senso non è indifferente quanto a lungo la Sede Apostolica rimanga vacante: c’è un tempo limite, ed è la permanenza di altri individui aventi giurisdizione ordinaria, ricevuta dal Papa precedente, e che mantengono dopo la di lui morte[1]. Se la giurisdizione ordinaria scomparisse del tutto da individui viventi sulla terra, come sarebbe oggi secondo certe tesi, non esisterebbe –come è logico- nemmeno quella straordinariamente delegata: perché essa è delegata da qualcuno, a norma del diritto, non dalla “Chiesa” astrattamente intesa. Il diritto canonico certo usa l’espressione supplet Ecclesia, ma teologicamente e metafisicamente la giurisdizione sta negli uomini che l’hanno ricevuta dal Papa (o, solo per il Papa, dal Cristo), non vaga nell’aria in attesa che qualcuno la colga[2].


Facciamo un esempio (che è solo l’esempio estremo): il sacerdote che non ha ordinariamente potere di giurisdizione, o anche un sacerdote scomunicato o eretico, o uno che non ha cura d’anime, si trova di fronte a un moribondo (oppure si trova in una situazione di grave necessità generale, come è l’attuale, e una persona gli chiede di confessarsi[3]). Quegli potrà assolverlo ricevendo per quell’atto giurisdizione, a norma del diritto canonico e divino; egli attingerà, teologicamente parlando, questo potere da qualcuno che lo possiede abitualmente, che sia il Vescovo residenziale o il Papa. Il legislatore ecclesiastico, basandosi sulla suprema legge divina della salus animarum, ha previsto questo caso e ha disposto di concedere tale delega “automatica”, che nessun prelato può negare, essendo il potere dato per il bene (e negarlo in tali casi sarebbe del tutto irrazionale e contrario al diritto divino).


Ora, venendo a mancare non solo il Papa ma anche qualsiasi Vescovo residenziale, ci si dovrebbe chiedere da chi un sacerdote possa ricevere giurisdizione anche solo per ascoltare la confessione di un moribondo. Il problema non è dunque se in certe situazioni il potere possa essere delegato in forme straordinarie (il che è del tutto pacifico), ma da chi. Se si risponde che lo si può ricevere direttamente da Gesù Cristo, si deve tener conto che si sta introducendo un’eccezione al principio per cui ogni giurisdizione sulla terra deriva dal Papa, il quale è il solo a ricevere il potere dal Cristo stesso: si sta cioè minando il principio della Monarchia papale, che a parole si vorrebbe tanto difendere; si sta commettendo un errore analogo a quello di Lumen Gentium, e si sta in fin dei conti annullando la necessità del Papato stesso (e infatti si arriva a dire che la Chiesa possa esistere per decenni, anzi indefinitamente, senza Papa). Quindi dalla lodevole intenzione di difendere il Papato si arriva a considerarlo, di fatto, del tutto superfluo per la vita e l’esistenza quotidiana della Chiesa. L’esempio estremo della confessione del moribondo fa capire come nella Chiesa non si può far nulla senza Papato, a maggior ragione se si annulla anche ogni potere causato da quello del Papa e che potrebbe perdurare alla di lui morte (pur avendo sempre il Pontefice stesso come origine), cioè sostanzialmente quello dei Vescovi residenziali.


Evidentemente dunque la soluzione di alcuni degli antichi teologi sul Papa eretico non si attaglia alla nostra situazione, o dovremmo ammettere non solo l’impossibilità di confessarci, ma addirittura la cessazione della Chiesa cattolica, almeno come società nella forma (nel senso filosofico del termine) che i dogmi hanno definito: ridurre il problema al già gravissimo e insolutoesempio delle confessioni è misconoscerne la portata.



  • 3) Un «non Papa», occupante il Trono di Pietro, potrebbe tuttavia salvare l’indefettibilità della Chiesa dando continuità – con le sue nomine cardinalizie e nelle sedi episcopali – alla gerarchia materiale? Sarebbe così agevole dimostrare che l’infallibilità dottrinale è salvata dall’assenza di un Papa vero e proprio, mentre il semplice «Papato materiale» salverebbe la continuità della Chiesa. Verrebbe in supporto di questo schema anche il tema del «titolo colorato». Cosa ne pensa?


La risposta è semplicissima. Il “Papa materiale” della famosa tesi è a tutti gli effetti un non-Papa, una persona non avente alcuna giurisdizione. Per la tesi è solo uno che potrebbe avere giurisdizione se si convertisse. Quindi il discorso è esattamente lo stesso che per ogni altro sedevacantismo, in nessun modo è garantita la continuità dell’istituzione. Per la tesi come per ogni altro sedevacantismo attualmente la società ecclesiastica è scomparsa, al massimo ci viene spiegato come e in quali persone potrebbe (o potrà) riapparire. Questo espediente, che non risolve nulla sul presente, è anche problematico nel suo meccanismo: come un non-Papa possa nominare dei non-Cardinali e dei non-Vescovi residenziali è già inspiegabile. Dire poi che se uno di questi si convertisse riceverebbe la giurisdizione è ancora più problematico, perché non si saprebbe da chi (in quanto mancherebbe il Papa da cui riceverla). Dire che in virtù del titolo (“colorato”) ricevuto da un non-Papa l’ecclesiastico convertito possa procedere a un conclave o alla convocazione di un concilio imperfetto, è cosa che mostra solo come il grande edificio della tesi tenti di reggersi in piedi sulla punta di uno spillo.



  • 4) A questo punto però, avendo escluso l’ipotesi sedevacantista, si dovrebbe spiegare come mai in documenti che sembrano assolutamente magisteriali o in leggi universali possano trovarsi errori ed eresie che la stessa Fraternità apertamente rifiuta e denuncia, benché vengano da autorità riconosciute come tali. Quale spiegazione alternativa al sedevacantismo si può dare a questa situazione?


Chiaramente questo punto è la chiave di tutto il problema. Il problema non viene tanto dall’eresia del Papa (come abbiamo visto sopra) quanto dal fatto che l’eresia sembra contenuta in documenti magisteriali o in leggi universali (anche liturgiche), che dovrebbero godere dell’infallibilità definita dal Vaticano I, o almeno avere un valore tale da non poter essere discussi. A nostro giudizio per una soluzione non può bastare la distinzione tra Magistero infallibile e non infallibile, a cui alcuni in certi momenti hanno fatto riferimento per uscire dall’impasse. Partiremo dall’assunto che tutto il Magistero vero e proprio è, in buona sostanza e secondo tutte le tesi teologiche, indiscutibile. L’opinione più probabile e che, andando per esclusione, può conciliare tutti gli aspetti del problema, è quella di un rifiuto generale, da parte dei Pontefici moderni, dell’uso del potere magisteriale. Le tesi sedevacantiste insistono sull’assenza di tale potere, che spiegherebbe la presenza di errore. Poiché tale potere (che è parte del potere di governo) deve essere presente nella società ecclesiastica, come abbiamo visto, pena la scomparsa della medesima, la questione deve essere spostata dal livello del possesso del potere a quello del suo uso. Possiamo constatare il rifiuto dell’uso dell’infallibilità in modo assolutamente chiaro in numerosi documenti ufficiali già esaminati. Quanto al rifiuto dell’uso del potere magisteriale in senso più largo, al punto da ridurre i testi anche pubblici e apparentemente “magisteriali” a semplici scritti privati, buoni o cattivi che siano, questo va fondato in un discorso più generale. Da un lato il principio posto con il Concilio della libertà religiosa sembra incompatibile con un esercizio del potere magisteriale che si imponga alle coscienze; così pure il liberalismo e il comportamento dei Papi moderni sembra lontano dalla volontà di usare di un potere vincolante e definitorio della verità. Si parla qui strettamente del potere di definire una verità come rivelata da Dio, non di una volontà coattiva in materia pratica che non ha mancato di manifestarsi più volte anche in questi ultimi Pontefici. Occorre fare attenzione a non restare vittima di nomi privati di sostanza: quando un Papa come Paolo VI, che professa la libertà religiosa (per esempio) parla di “supremo Magistero ordinario” non vuole necessariamente dire la stessa cosa che intendeva Pio XII quando usava tale espressione. Quando Papa Francesco, che ha pubblicamente dichiarato a Scalfari il primato assoluto della coscienza, dice di usare il Magistero, probabilmente non intende la stessa cosa che intendeva san Pio X. Occorre andare alle cose singole e non fermarsi ai nomi di generi e specie, che possono essere usati per designare individui ben distanti tra loro. Il Magistero è un potere che si esercita in atti volontari singoli, ad alcuni dei quali è volontariamente legata l’infallibilità o un altro grado di autorità dottrinale, secondo quanto il Pontefice in quell’atto o in quel contesto manifesta.


Forse la chiave di tutto sta proprio nel fatto che la professione degli errori e delle eresie costituisce di per se stessa un obex, un ostacolo, all’esercizio (e NON al possesso) del potere magisteriale. L’esercizio del Magistero e il grado del medesimo sono frutto di un atto volontario del Pontefice quando vuole insegnare alla Chiesa: la professione dell’errore renderebbe sistematicamente impossibile il volere un tale tipo di atto. In pratica basterebbe spostare il discorso dal possesso all’uso del potere, dal livello materia/forma a quello atto primo/atto secondo per trovare una possibile via d’uscita al dilemma. Il Papa è tale (quindi la Chiesa continua ad esistere) ma non vuole agire da Papa (o non può per un ostacolo, un impedimento, messo da lui stesso: la sede è piena ma in qualche modo impedita): la negligenza nel porre azioni dovute da parte del Pontefice, unita allo scandalo del “dire pubblicamente” l’eresia mette in crisi generale la società ecclesiastica, senza però che venga a mancare ciò che permetterebbe di porre questi atti.


In questo senso anche l’infallibilità legata alle leggi universali (o alle canonizzazioni), che garantisce che non possano contenere nulla contro la fede, non sarebbe più esercitata: verrebbe infatti meno la volontà di unire questi atti, ormai snaturati ed equivoci, alla conformità e all’esplicitazione di una dottrina che è scomparsa dall’orizzonte dei Pontefici attuali. Guardiamoci dall’applicare categorie teologiche sul Magistero (che erano già alquanto confuse nel pre-concilio) alla situazione attuale, al di là dei nomi stessi.



  • 5) Giunti a questo punto molti porrebbero una semplice obiezione: l’idea di un Papato caratterizzato da errori abituali nei campi della Fede e della morale e da «comandi» relativi al governo della Chiesa cui è necessario disobbedire per restare fedeli alla Tradizione Cattolica, non risulta forse troppo distante dalle sontuose parole di Pastor Aeternus (Pio IX)? In questo modo non si configura quasi un «Papato leggero» che – de facto – è un «non Papato»?


Il Papato non è cambiato di una virgola nella sua essenza, è esattamente quello di Pastor Aeternus, sia quanto al possesso del potere magisteriale con la sua nota di infallibilità sia quanto alla sua indispensabile presenza per l’esistenza stessa della Chiesa romana. Non è diventato più leggero. Siamo però costretti a vedere che è “usato” in modo leggero da chi lo detiene attualmente. Piuttosto sarebbe contrario a Pastor Aeternus (che definisce anche il supremo primato di giurisdizione) sostenere l’assenza indefinitamente protratta del Papato come possibile e normale. Il potere di insegnare è presente ma deve essere esercitato in atti volontari, non è una specie di fantasma che aleggia garantendo una sorta di provvidenziale direzione degli atti più quotidiani del Pontefice. Il Magistero non è la vita quotidiana del Papa, né ogni sua parola o addirittura gesto, in un senso quasi profetico (a queste tesi è arrivato, sostanzialmente, un personaggio come don Cantoni). Nessun Papa della storia ha esercitato il Magistero in ogni istante, ma in atti più o meno frequenti e necessari a seconda delle vicende. Alcuni sono stati negligenti nell’intervenire quando lo dovevano. I Papi attuali hanno trascinato la Chiesa in questa crisi per il rigetto del concetto stesso di dottrina rivelata, e quindi della possibilità di porre veri atti magisteriali. Ma tale potere resta, è lì, Dio non l’ha tolto, non ne priva la Chiesa. Basta che il Papa voglia togliere quello che abbiamo chiamato obex. Il Papa rimane la chiave di tutto. Il termine “abituale” è una pericolosa reificazione di una serie di atti che vanno considerati ognuno in modo singolo, per quanto frequenti essi siano.


Del resto, contra factum non fit argumentum: la situazione della Chiesa è questa, la crisi non può consistere nella dissoluzione della società ecclesiastica (il che sarebbe contrario alle promesse divine) ma nell’arrivare alle estreme possibilità di male senza che collassi la struttura della Chiesa Romana. Riusciamo per un pelo a mantenere tutti gli elementi essenziali; la soluzione non può certo essere il sacrificarne uno per mantenere l’altro in un ipotetico pieno funzionamento. Non possiamo pensare che il “magistero” dei Papi attuali sia uguale a quello dei predecessori, come fanno alcuni modernisti, pena il trovarci costretti a cambiare dottrina; non possiamo, per salvare ipoteticamente l’infallibilità, sacrificare l’esistenza della struttura ecclesiastica. Dobbiamo tenere insieme tutti gli elementi, e lo possiamo fare, ma sappiamo di essere arrivati all’estremo limite che le definizioni dogmatiche (e non la retorica) ci consentono.


Per regolarci nella situazione abbiamo tutta la luce che ci viene dal vero Magistero della Chiesa, che non è “vivente” nel senso inteso dai modernisti ma che ha definito ciò che il Cristo ha rivelato: in pratica è tutto “passato”, perché serve a delimitare quello che molti secoli fa il Cristo e gli Apostoli hanno insegnato oppure no.



  • 6) Cambiando tema, una domanda sulla liturgia: chi ritiene valido il novus ordo missae fa spesso leva su tale argomento per suggerire che tale rito sia anche «buono», capace di dispensare grazie per sua propria virtù. In tal modo il fedele viene incoraggiato ad assistere alla «messa nuova», perlomeno quando non possa assistere alla Messa tridentina senza grave incomodo. Può essere un approccio corretto, o va considerato anche il profilo della “liceità” del nuovo rito, come aspetto non meno importante della sua validità, determinante per stabilire che condotta devono seguire i fedeli cattolici?


In nessun tempo è stato permesso ai fedeli cattolici di partecipare a una qualsiasi Messa o sacramento unicamente perché “validi”. L’indiscussa validità sacramentale dei riti degli scismatici orientali non è mai stata considerata una buona ragione per parteciparvi, anzi la Chiesa non solo proibisce formalmente tale partecipazione ma la punisce con il rigore dei canoni. Questo perché la validità dei sacramenti non porta alcun frutto nell’anima quando coesiste con la professione anche solo esteriore (e cosciente) di errori contro la fede. Se quando il sacramento viene amministrato si professano eresie o si compiono sacrilegi, prendere parte a un tale rito (e massimamente ricevendo il sacramento in questione) è un peccato contro la professione di fede, compiuto contestualmente al sacramento, e quindi rende impossibile ricevere la grazia del sacramento medesimo. Parliamo qui ovviamente di partecipazione cosciente a un rito che si sa non esprimere la fede cattolica, al di là della nostra interiore ortodossia: la fede non va solo posseduta interiormente, ma non deve essere mai negata da gesti esterni ad essa contrari o anche solo ambigui. Dal momento in cui percepiamo quanto la nuova messa si distacchi dalla professione di fede cattolica su sacrificio, sacerdozio e presenza reale (cf. Breve esame critico), non possiamo mai prendervi parte, nemmeno sotto il pretesto di partecipare ai sacramenti. Infatti non possiamo contraddire, con la partecipazione a un rito non cattolico, la fede che il sacramento valido in se stesso significa: sarebbe commettere un peccato che ostacolerebbe gli stessi frutti del sacramento, anche ricevuto validamente. Potremmo noi assistere passivamente, e magari avvicinarci solo alla comunione? Evidentemente no, perché partecipare alla comunione durante quel rito sarebbe la massima adesione possibile al contenuto di quel rito. Perfino in punto di morte non si devono accettare i sacramenti in un rito o da ministri non cattolici, qualora questo diventi o anche solo possa sembrare un’adesione ai loro errori.



  • 7) Per quanto concerne il novus ordo – in ogni caso – va detto che pare essere stato promulgato come legge universale. Inoltre è celebrato da tutti i vescovi del mondo. Questa pratica unanime non corrisponde al criterio infallibile del magistero ordinario universale? Come è possibile spiegare questo fatto?


Sul problema della promulgazione del novus ordo come legge universale, che quindi non potrebbe contenere errori contro la fede, al di là dei tentativi di risposta puramente canonici, valga anzitutto quanto detto sopra. Le nuove leggi universali sembrano ormai slegate dalla valenza magisteriale che ebbero un tempo, per volontà di chi le ha promulgate e del concetto della dottrina che i Papi moderni hanno manifestato, oltre che per l’obex che hanno posto all’esercizio del potere magisteriale.


Ugualmente si può capire la risposta all’obiezione sulla nuova messa come “magistero ordinario universale”: un atto magisteriale non è solo un atto materiale di enunciazione della dottrina, ma è formalmente un atto che il Papa vuole come autorevole in senso dottrinale (non solo in senso coattivo) e definitorio. Ciò vale anche per il magistero del corpo episcopale disperso, il cui potere su tutta la Chiesa non è altro che un diverso modo di esercizio dell’autorità del Papa stesso.


 


Risposta a un’obiezione particolare


Riferendosi a quanto detto nel punto 2 sull’esempio delle confessioni, un obiettante dice che in realtà la giurisdizione per confessare viene da Dio con l’ordinazione sacerdotale, e che quello che il Papa concede è la determinazione dei sudditi su cui esercitarla. Quindi in caso di necessità o di vacanza di tutte le sedi (papale ed episcopali, vedi sopra) basterebbe il radicale potere di confessare senza bisogno dell’intervento pontificio.


Intanto facciamo notare che l’obiezione porterebbe soluzione unicamente sul problema delle confessioni, quindi non su quello radicale della sussistenza della società ecclesiastica, ma “solo” su una delle più gravi ed evidenti conseguenze della scomparsa di questa.


L’obiettante in realtà formula in modo alquanto contraddittorio la sua obiezione, che messa così sarebbe semplicemente la negazione della verità cattolica per cui il potere di giurisdizione è necessario a una valida confessione insieme all’Ordine sacerdotale, seppure a diverso titolo. In realtà l’obiettante ammette preliminarmente in chiari termini, con il Magistero e qualsiasi teologo cattolico, che la giurisdizione sia per diritto divino necessaria alla valida assoluzione; ma poi crea una distinzione su una “giurisdizione in foro interno” che verrebbe da Dio tramite l’ordinazione sacerdotale, confondendola con la potestà delle chiavi di cui parla San Tommaso, tramite un paio di citazioni tronche del teologo domenicano Merkelbach. Andiamo dunque a vedere, al di là della formulazione incerta dell’obiettante, cosa dice Merkelbach nel passo che lui stesso cita, riportandolo pressoché per esteso: «La giurisdizione è l’una del foro ecclesiastico o esterno, quando riguarda direttamente e in primo luogo il governo pubblico e l’utilità della Chiesa; l’altra del foro di Dio o interno, quando riguarda direttamente e in primo luogo l’utilità privata di ciascun fedele. La prima è una potestà ecclesiastica e sociale che è concessa dal Pontefice di propria autorità, e perciò da questa è derivata da lui come da causa principale e in suo nome si esercita; l’altra è una potestà non ecclesiastica ma divina, che è concessa per l’autorità propria di Dio [N.B.: qui l’obiettante tronca la sua citazione del testo] (che solo può toccare direttamente la coscienza e il vincolo del peccato), tuttavia mediante il Pontefice come ministro e strumento della divinità, e quindi da esercitarsi non per l’autorità propria della Chiesa, ma per l’autorità di Dio stesso. […] Dunque nel confessore il potere d’ordine e quello di giurisdizione si differenziano in molti modi: 1. Per l’origine (la collazione): Il primo è conferito con la consacrazione, cioè con la sacra ordinazione, e si imprime indelebilmente nel soggetto; l’altro è conferito dal superiore con l’atto esterno della missione (cfr. II-II. q.39, art.1), missione che può essere revocata, diminuita o aumentata, sospesa o limitata […] 2. Per l’essenza. Il poter d’ordine dà l’attitudine prossima e la disposizione al fatto che uno riceva giurisdizione sui sudditi per assolvere i peccati; è una deputazione a esercitare un giudizio sacramentale sui sudditi, se ne ha […] 3. Per l’effetto. Grazie al potere di giurisdizione il giudizio è valido, grazie al potere d’ordine è efficace. Quindi la potestà di giurisdizione si può definire: il potere conferito dal superiore con atto esterno, con la quale il sacerdote può esercitare la giurisdizione sui sudditi nel foro interno e della penitenza, ovvero la legittima deputazione ad esercitare l’ufficio di assolvere determinati penitenti come sudditi»[4].


Quanto a quello che san Tommaso chiama “il potere delle chiavi”, così spiega Merkelbach: «E infatti, dice san Tommaso, quel potere delle chiavi è realmente la stessa cosa del carattere o potestà spirituale del sacramento dell’ordine, così che per essenza è un potere sul Corpo reale di Cristo e sul suo Corpo mistico, ovvero il potere con cui il sacerdote può consacrare l’Eucaristia e il potere con cui può sciogliere e legare, se c’è la giurisdizione (q.17, a.2, ad 1); ma si distinguono secondo la ragione perché si riferiscono a diversi aspetti […] Per cui le chiavi vengono date con l’ordine in una consacrazione, ma l’esecuzione delle chiavi si ottiene tramite la giurisdizione; e così prima della giurisdizione il ministro ha le chiavi, ma non ha l’atto delle chiavi» E per chi ancora non avesse capito in nota Merkelbach aggiunge: «Da ciò appare chiaro che anche secondo san Tommaso la potestà di giurisdizione si distingue dall’ordine e non è data con esso»[5]. Notiamo, se necessario, che parla della giurisdizione non solo in generale ma di quella necessaria al confessore.


Da questi testi appaiono chiari diversi punti di dottrina: che se è vero che il potere di assolvere è essenzialmente potere d’ordine, la giurisdizione è tuttavia condizione necessaria alla validità dell’assoluzione; che certamente la giurisdizione al foro interno fa sì che il confessore agisca in nome di Dio e non in nome del Papa, come accade per una delegazione del potere di governo esterno (questo è, molto semplicemente, il significato di ciò che l’obiettante ha travisato), ma tale giurisdizione è data mediante il Pontefice o un atto del superiore ecclesiastico che da questi l’ha ricevuta e non deriva dall’ordinazione; che la giurisdizione necessaria alla valida confessione è altro, per essenza e per origine, dal potere d’ordine; che l’espressione “potere delle chiavi” usata da san Tommaso quanto alla confessione non indica altro che il potere d’ordine sotto l’aspetto del potere di assolvere, e che questo è insufficiente –senza giurisdizione- alla validità del sacramento. Il caso di necessità non fa cessare ciò che è di diritto divino, cioè la necessità della giurisdizione, ma allarga solo ciò che è di diritto ecclesiastico (cioè i modi di trasmissione della medesima, ma non la loro fonte ultima che non è l’ordinazione o un potere da essa derivante). L’obiezione è quindi inefficace, nel voler provare che esista una sorta di giurisdizione sufficiente a confessare che avrebbe altra fonte che l’autorità che garantisce anche la giurisdizione al foro esterno; inoltre l’obiezione travisa più o meno volutamente il testo che cita e che noi abbiamo ampiamente citato a comodità del lettore.


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[1] Se e come la giurisdizione delegata dal Papa (per diritto ecclesiastico) ad altri prelati che i Vescovi residenziali permanga e in quale misura, è problema canonico-teologico che non cambia in nulla la sostanza del nostro discorso; quindi non menzioniamo la problematica qui.


[2] Attenzione: non stiamo affermando che la giurisdizione dei vescovi residenziali sommati tra loro, vacante la Sede apostolica, sia equivalente alla giurisdizione universale del Pontefice. Quando il Papa muore, indubbiamente viene a mancare la giurisdizione universale e suprema, ma ne permangono gli effetti nella potestà ordinaria che i vescovi residenziali dal Papa avevano ricevuto. Quindi permane l’effetto del potere supremo che garantisce quei legami che costituiscono la società ecclesiastica e le permettono di rimanere se stessa e di permanere in attesa di un nuovo Vicario di Cristo.


[3] Diamo per noto il dogma che richiede al sacerdote che deve confessare non solo il potere d’Ordine, ma anche la giurisdizione su colui che confessa. La confessione è in effetti un vero giudizio, che richiede un’autorità di governo sul penitente. Se il potere dell’Ordine sacerdotale conferisce radicalmente il potere di confessare, la giurisdizione sul penitente è necessaria come condizione alla validità del sacramento. I parroci o altri sacerdoti in cura d’anime ricevono stabilmente questo potere; tutti i sacerdoti, anche eretici o scomunicati, lo ricevono ad casum per confessare i moribondi o nella grave necessità generale.


[4] » «Iurisdictio est alia fori Ecclesiae seu externi, quando directe et primario spectat publicum Ecclesiae regimen et utilitatem; alia fori Dei seu interni, quando directe et primario spectat privatam cuiuslibet fidelis utilitatem. Prior est potestas ecclesiastica et socialis quae conceditur a Pontifice ex propria auctoritate, et ideo ex hac derivatur ab eo ut a causa principali et auctoritate eius exercetur; altera est potestas non ecclesiastica sed divina, quae conceditur auctoritate propria Dei (qui solus valet directe attingere consicientiam et vinculum peccati), mediante tamen Pontifice ut ministro et instrumento divinitatis, et ideo non auctoritate Ecclesiae propria sed auctoritate ipsius Dei exercenda. […] Itaque in confessario potestas ordinis et potestas iurisdictionis differunt multipliciter: 1. CollationePrior consecratione scil. sacra ordinatione confertur et indebiliter subiecto inhaeret; altera actu esterno missionis ad subditos a superiore confertur (cfr. II-II, q.39, art.1), quae missio revocari potest, minui aut augeri, suspendi aut limitari […] 2. Essentia. Potestas ordinis dat proximam aptitudinem et dispositionem ad hoc quod quis recipiat iurisdictionem in subditos ad absolvendum a peccatis; est deputatio ad exercendum iudicium sacramentale in subditos, si quos habet […] 3. Effectu. Ex potestate iurisdicitonis iudicium est validum, ex potestate ordinis est efficax. Hinc potestas iurisdictionis definiri potest: Potestas externo superioris actu collata, qua sacerdos iurisdictionem exercere potest erga subditos in foro interno et poenitentiali, seu deputatio legitima ad exercendum munus absolvendi a peccatis modo iudiciali poenitentes determinatos tamquam subditos». Merkelbach o.p., Summa Theologiae moralis III, tract. De Poenitentia IV pars, q. I (n. 569)


[5] «Etenim, ait Sanctus Thomas, potestas illa clavium realiter idem est ac character seu potestas spiritualis instrumentalis ordinis, ita ut eadem per essentiam sit potestas in corpus Christi reale et in corpus Christi mysticum, seu potestas qua sacerdos conficere potest Eucharistiam et potestas qua potest solvere et ligare, si iurisdictio adsit (q. 17, art. 2, ad 1); sed differunt ratione secundum quod ad diversus effectus comparantur […] Unde claves dantur cum ordine in aliqua consercratione, sed exsecutio clavis indiget materia debita circa quam exercetur, scil. subditis, et ideo actus clavium habetur per iurisdictionem; et ita ante iurisdictionem minister habet claves, sed non habet actum clavium». E in nota Merkelbach aggiunge: «Ex quo patet, etiam secundum Sanctum Thomam, potestatem iurisdictionis distingui ab ordine nec cum eo dari» (ibidemn.570)




[Modificato da Caterina63 05/11/2017 10:16]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)