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II. La «verità» della Scrittura


Il secondo punto che suscitò fra i Padri riserve maggiori fu quello in cui si toccava la delicata questione dell’inerranza biblica o, come si dice oggi abbastanza comunemente, della «verità» della Bibbia. Ecco a raffronto, il testo di partenza e quello di arrivo:

Testo emendato

«Cum ergo omne id, quod auctor inspiratus seu hagiographus asserit,
retineri debeat assertum a Spiritu Sancto, inde Scripturae libri integri cum omnibus suis partibus veritatem salutarem inconcusse et fideliter, integre et sine errore docere profitendi sunt» (n. 11):

Testo definitivo

«Cum ergo omne id, quod auctores inspirati seu hagiographi asserunt,
retineri debeat assertum a Spiritu Sancto, inde Scripturae libri veritatem, quam Deus nostrae salutis causa Litteris Sacris consignari voluit, firmiter, fideliter et sine errore docere profitendi sunt ».

Risultati delle votazioni

Alla prima votazione sul n. 11 del testo emendato, il 21 settembre 1965, i non placet furono 56, classificando così al secondo posto nell’ordine dei suffragi negativi il paragrafo ch’era stato oggetto della votazione. Dei 324 placet iuxta modum collezionati dall’intero capitolo, circa 200 e forse più si appuntavano sulla espressione «veritatem salutarem»: 184 Padri proponevano di eliminare l’aggettivo «salutare»; 76 lo volevano sostituito dall’una o l’altra espressione giacché, così come stava, sembrava restringere l’inerranza della Scrittura alle sole cose di fede e di morale. Altri, infine, approvavano l’espressione, ma chiedevano che ne fosse ben determinato il senso, apponendovi, in nota, il riferimento a quei documenti pontifici in cui si ritrovano le stesse parole e nel giusto senso, aggiungendovi pure le seguenti parole di sant’Agostino, secondo cui «Spiritum Dei qui per illos loquebatur, noluisse ista (scilicet intimam adspectabilium rerum constitutionem) docere homines, nulli saluti profutura» (De Gen. ad litt. 2, 9; PL 34, 270).

Tutti questi Padri, in fondo, non trovavano l’espressione sufficientemente precisa, nonostante che la Commissione, prevenendo la difficoltà, si fosse premurata di spiegarla ampiamente: «È sembrato alla Commissione di dover aggiungere l’aggettivo salutarem alla parola veritatem, perché con esso s’intendono pure i fatti che nella Scrittura sono connessi con la storia della salvezza». Con tutto ciò più d’uno, nel criticare questo punto, vi scorgeva senz’altro un’eco di quelle veritates salutares (al plurale), di cui in realtà il testo non parlava, essendo l’espressione ben diversa da quella di fatto usata, al singolare.

Atteggiamento della Commissione

Discusse le proposte di emendamenti, queste non vennero accettate né dall’apposita sottocommissione né dalla Commissione, dandosene questa motivazione inserita nella expensio modorum (bozze) e, sostanzialmente, anche nella Relazione che doveva accompagnarla in aula: «Voce “salutaris” nullo modo suggeritur S. Scripturam non esse integraliter inspiratam et verbum Dei... Haec expressio nullam inducit materialem limitationem veritatis Scripturae, sed indicat eius specificationem formalem, cuius ratio habeatur in diiudicando quo sensu non tantum res fidei et morum atque facta cum historia salutis coniuncta… sed omnia quae in Scriptura asseruntur sunt vera. Unde statuit Commissio expressionem esse servandam». Nello stesso tempo, in nota, si aggiungevano citazioni di sant’Agostino, di san Tommaso e del Tridentino alle due già esistenti di Leone XIII (enc. Providentissimus) e di Pio XII (enc. Divino afflante)[9].

Al Santo Padre vennero trasmessi, il 12 ottobre, un appunto in proposito, ed il giorno 14 tutto il fascicolo, in bozze, della expensio modorum. Ma la decisione della sottocommissione e della Commissione doveva essere già largamente trapelata, perché fin dall’8 ottobre, per tramite di un eminentissimo cardinale, un gruppo di Padri, probabilmente quegli stessi che avevano proposto di espungere l’espressione discussa, faceva giungere al Pontefice un memoriale. Il documento affermava che la formula «veritas salutaris» era stata volutamente introdotta per restringere l’inerranza alle sole cose soprannaturali, riguardanti la fede e i costumi; che essa contrastava apertamente con l’insegnamento costante della Chiesa; che avrebbe aperto il campo all’audacia degli esegeti; che, se ammessa, avrebbe inferto un colpo gravissimo alla vita della Chiesa, ecc. Anche la condotta e l’operato della sottocommissione vi veniva duramente giudicato: essa non avrebbe tenuto in debito conto le osservazioni dei Padri; non avrebbe detto chiaramente il numero degli oppositori; avrebbe risposto in maniera confusa alle argomentazioni contrarie; non aveva introdotto, nella nota, i testi più importanti del Magistero pontificio, che pure erano stati inseriti nel modo presentato dai 184 Padri, ecc.

Altre voci giunte al Papa per vie diverse, spontaneamente o sollecitate, presentavano tutta la gamma degli apprezzamenti: alcuni avanzavano numerose riserve sull’uso della formula, sulla sua fondatezza, sulla sua concordanza col Magistero ecclesiastico, sulla leggerezza con cui avrebbero potuto servirsene gli esegeti di fronte alle difficoltà, sulla validità dei motivi addotti per il mantenimento di quelle parole nel testo. Qualcuno diceva di guardare con apprensione alla formula, soprattutto per l’interpretazione che poteva esserne data, anche se a torto; al contrario, altri la ritenevano accettabile, specialmente alla luce dei riferimenti all’insegnamento di Leone XIII contenuti in nota. C’era chi, rifacendosi pure ad un parere dell’Istituto Biblico ed all’avviso di quasi tutti gli esegeti della Commissione dottrinale, trovava che la formula era opportuna, in accordo con le precedenti decisioni del Magistero, tale da segnare un progresso nell’esposizione teologica del problema e da rasserenare la coscienza degli esegeti. Altri, infine, ritenevano che la formula non fosse da respingere, ma da spiegare, tanto più che essa, introdotta nel testo dopo la discussione pubblica dell’anno precedente (1964), non era stata adeguatamente proposta ed esaminata dai Padri.

La decisione del Papa

Dopo avere ancora riflettuto per qualche giorno, il 17 ottobre 1965 Paolo VI faceva scrivere dal Segretario di Stato al Presidente della Commissione dottrinale la lettera sopra ricordata, che reca la data del giorno seguente. A proposito della «veritas salutaris», la Commissione era invitata a voler «considerare con nuova e grave riflessione la convenienza di omettere nel testo l’espressione veritas salutaris, espressione relativa all’inerranza della Sacra Scrittura. La perplessità del Santo Padre, a questo riguardo, è maggiore che per l’osservazione precedente [rapporti tra Scrittura e Tradizione], sia perché si tratta di dottrina ancora non comune nell’insegnamento biblico teologico della Chiesa, sia perché non pare che la formula sia stata abbastanza discussa nell’aula conciliare, e sia perché, a giudizio di autorevolissime persone competenti, tale formula non è scevra dal pericolo di cattiva interpretazione. Sembra prematuro che il Concilio si pronunci sopra questo problema tanto delicato. I Padri ora non sarebbero forse in grado di giudicarne la portata e la possibile abusiva interpretazione. Non si preclude, con l’omissione, lo studio successivo della questione».

Una soluzione media

La Commissione a cui era lasciato di formulare un testo più appropriato, si riunì, come s’è detto, il 19 ottobre. Anche su questo punto il card. Ottaviani diede la parola al card. Bea.

Questi espose la propria opinione sulla inopportunità della formula «veritas salutaris», adducendo molti argomenti specialmente dal Magistero ecclesiastico, e mostrando come alcuni avrebbero potuto abusare dell’espressione per restringere l’inerranza alle sole cose di fede e di morale, in contrasto con la verità e nonostante le esplicite spiegazioni fornite dalla Commissione. Il card. Bea fece proprie anche le ragioni addotte nella lettera pontificia, notando, inoltre, che la formula in questione non era stata neanche decisa nella riunione della speciale Commissione mista per lo schema De divina revelatione, ma era stata aggiunta dopo.

Terminata l’esposizione del card. Bea, si passò subito alle operazioni di voto, sul duplice quesito: «an formula omittatur, an maneat textus». I presenti erano 28, e perciò la maggioranza richiesta dei due terzi era 19. Per tre votazioni successive, a motivo di alcune astensioni o schede bianche, nessuno dei due quesiti raggiunse la maggioranza richiesta:

1ª vot. omittatur 17 maneat 7 astenuti 4
2ª vot. omittatur 18 maneat 7 astenuti 3
3ª vot. omittatur 17 maneat 8 astenuti 3

Dopo la prima votazione fu sollevato un dubbio sul modo di computare la maggioranza: ci si doveva basare sul numero dei voti validamente espressi (secondo quanto stabilisce il diritto canonico, can. 101, § 1) o sul numero dei presenti, come stabilisce il Regolamento[10]? Con il presupposto, rivelatosi poi esatto, che bisognava stare al Regolamento, si ritenne di dover procedere alle altre votazioni, nelle quali la proposta favorevole al mantenimento del testo guadagnò, anzi, leggermente terreno. Stabilizzatesi, però, le rispettive posizioni in seno alla Commissione, si tentò di uscire dalla strettoia proponendo una formula conciliativa: sostituire, cioè, la parola «salutarem» con un’espressione equivalente, ma che asserisse senza possibilità di equivoco essere infallibilmente vero tutto ciò che, mediante la Scrittura, Iddio ha voluto insegnarci per la nostra salvezza[11]: «veritatem, quam Deus nostrae salutis causa litteris sacris consignari voluit».

Esaminata e ritenuta accettabile, la formula venne votata, riscotendo il favore di 19 placet contro 9 non placet, cioè la richiesta maggioranza di due terzi. A questo punto, però, fu di nuovo sollevata la questione sul modo, secondo cui si sarebbe dovuto computare la maggioranza: se si fosse seguita la norma del diritto canonico, doveva ritenersi valida la prima votazione, quella cioè in cui la maggioranza dei votanti aveva respinto la parola «salutarem» senza optare per qualcosa di equivalente: di conseguenza, in questa ipotesi, tutte le altre votazioni, compresa l’ultima, erano da considerarsi nulle. Secondo altri, invece, le prime tre votazioni non avevano raggiunto la maggioranza dei due terzi dei presenti, secondo quanto prescrive il Regolamento; tale maggioranza, invece, s’era avuta nella quarta votazione, che perciò doveva considerarsi l’unica valida. Non essendo la cosa del tutto chiara, si decise, lì per lì, di deferirla al Tribunale Amministrativo, ma poi non si diede seguito al ricorso.
In tal modo anche quest’emendamento entrò senza altre contestazioni, nel testo definitivo, approvato poi dal Concilio.




Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)