DIFENDERE LA VERA FEDE

Il Vescovo mons. Oscar Romero ucciso in odio alla fede viene beatificato

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    Caterina63
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    00 12/03/2015 22:06

      Beatificazione di mons. Romero il 23 maggio a San Salvador




    Mons. Oscar Romero - RV





    12/03/2015



    La data della Beatificazione di Oscar Romero è stata fissata: la cerimonia si svolgerà a San Salvador il prossimo 23 maggio. Ieri, a dare l’annuncio nel corso della sua visita in Salvador, è stato mons. Vincenzo Paglia, postulatore della Causa dell’arcivescovo martire, assassinato in odio della fede il 24 marzo 1980. Quali le novità annunciate in conferenza stampa? Paolo Ondarza lo ha chiesto alla collega di Avvenire, Lucia Capuzzi, raggiunta telefonicamente a San Salvador:


    R. – Mons. Vincenzo Paglia ha confermato la data, 23 maggio, che sarà la memoria liturgica di Arnulfo Romero e ha annunciato che la Messa di beatificazione si svolgerà a San Salvador e sarà presieduta dal cardinale Amato. Ha voluto ringraziare Papa Francesco per aver firmato il decreto, il 3 febbraio, e ha voluto inoltre ringraziare Papa Benedetto, Papa Giovanni Paolo II e Paolo VI che hanno sempre sottoineato il valore di Romero.


    D. – Come è stata accolta la notizia tra i salvadoregni?


    R. – L’annuncio della data è stato accolto da un fragoroso applauso durante la conferenza stampa, segno di quanto la gente, quanto gli stessi salvadoregni attendessero questa giornata per poter celebrare il loro arcivescovo. Dopo la tappa della Beatificazione, ci sarà la tappa della Canonizzazione, ha anticipato mons. Vincenzo Paglia, sottolineando però come queste non servano tanto a Romero, che è già santo, ma a tutti noi. La sua testimonianza continua a generare vita e speranza nel popolo salvadoregno e soprattutto in quelle parti del popolo salvadoregno più povere, più emarginate, che hanno sempre trovato una forma di consolazione in mons. Romero.


    D.  – ...che lo vedono ancora come un punto di riferimento importante, si rivolgono già a lui come a un santo...


    R.  – E’ fondamentale. Già stamattina (ieri - ndr) la gente era in fermento per aspettare questo annuncio. Le persone più umili, i più poveri, aspettavano con ansia che si sapesse la data del loro “monseñor”, non c’è neanche bisogno di aggiungere Romero. E ancora la gente va al feretro di mons. Romero, nella cripta e lì parla con mons. Romero come se fosse vivo e gli racconta le sue pene. E tuttora mons. Romero è un punto di riferimento imprescindibile per i salvadoregni che sono afflitti oggi da nuovi problemi: non più la guerra civile ma la violenza dovuta al narcotraffico e ai “pandillas”.







    « Un vescovo potrà morire,
    ma la Chiesa di Dio,
    che è il popolo,
    non perirà mai. »
    (mons. Oscar Romero)


    Il 24 marzo 1980, mentre stava celebrando la messa nella cappella dell'ospedale della Divina Provvidenza, fu ucciso da un sicario su mandato di Roberto D'Aubuisson, leader del partito nazionalista conservatore ARENA (Alianza Republicana Nacionalista). Nell'omelia aveva ribadito la sua denuncia contro il governo di El Salvador, che aggiornava quotidianamente le mappe dei campi minati mandando avanti bambini che restavano squarciati dalle esplosioni. L'assassino sparò un solo colpo, che recise la vena giugulare mentre Romero elevava l'ostia nella consacrazione.

                 

                                         

                                     


    Giovanni Paolo II non presenziò al funerale, ma delegò a presiedere la celebrazione Ernesto Corripio y Ahumada, arcivescovo di Città del Messico. Durante le esequie l'esercito aprì il fuoco sui fedeli, compiendo un nuovo massacro. Il 6 marzo 1983 Giovanni Paolo II rese omaggio a Romero inginocchiandosi sulla sua tomba, venerato già come un santo dal suo popolo,  nonostante le pressioni del governo salvadoregno.


         


    Oscar Arnulfo Romero
     nasce il 15 agosto 1917 a Ciudad Barrios, un piccolo comune nel dipartimento di San Miguel, in El Salvador, da una famiglia modesta e numerosa (è il secondo di otto fratelli). A dodici anni lascia la scuola e lavora come apprendista presso un falegname. L’anno successivo (1930) entra nel seminario minore di San Miguel, retto dai padri claretiani. Tuttavia dopo sei anni, viste le difficoltà economiche in cui versa la famiglia, lascia gli studi e lavora qualche mese nelle miniere d’oro di Potosì, per cinquanta centesimi al giorno. 

    Nel 1937, ventenne, entra nel seminario maggiore di San José de la Montana a San Salvador, retto dai gesuiti. Nello stesso anno si trasferisce a Roma e frequenta la Pontificia Università Gregoriana: si licenzia in teologia un anno dopo avere ricevuto l’ordinazione sacerdotale (4 aprile 1942). 
    Rientrato in El Salvador, si dedica all’attività pastorale, e l’11 gennaio 1944 celebra la prima messa solenne a Ciudad Barrios. Nel giro di pochi anni diventa segretario della Conferenza Episcopale Salvadoregna e segretario esecutivo del Consiglio Episcopale dell’America Centrale.
     

    Nel 1970 è nominato vescovo ausiliare di monsignor Luis Chavez y Gonzales, a San Salvador, e nel 1974 prende possesso della diocesi di Santiago de Maria, una terra povera, sfruttata e vessata da un potere che in questi anni ha il volto violento e repressivo delle giunte militari

    Il 12 marzo 1977 viene assassinato padre Rutilio Grande, gesuita, uomo del popolo, da sempre vicino alle rivendicazioni contadine. Il martirio dell'amico colpisce Romero, che ne frattempo è diventato arcivescovo di San Salvador (22 febbraio 1977), e influisce in modo profondo sul suo ministero. 

    Romero chiede in modo esplicito che le autorità facciano chiarezza sul delitto e, di fronte al muro di gomma contro cui sbatte, minaccia la chiusura delle scuole e l'assenza della Chiesa Cattolica negli atti ufficiali. L’1 luglio non partecipa alle celebrazione di insediamento del neo-eletto presidente, il generale Carlos H. Romero, espressione perfetta di un regime violento, che uccide gli oppositori, sfama i poveri e non stenta ad allearsi con squadroni della morte e organizzazioni  paramilitari.

     

    Romero insiste. Critica il potere e i suoi interpreti in modo esplicito. Diventa la voce degli ultimi; le sue messe sono affollate, le omelie trasmesse dalle radio e pubblicate sui giornali. È una figura scomoda, che spiazza gli ambienti più conservatori della Curia: “Non vogliamo essere giocattoli dei potenti della terra", dice, "ma vogliamo essere la Chiesa che porta il Vangelo autentico, coraggioso, di nostro Signore Gesù Cristo, anche quando fosse necessario morire come Lui sulla croce”. 

    Durante l’omelia del 17 febbraio 1980 legge la lettera scritta al presidente Carter, per chiedergli di non offrire aiuti militari ed economici al governo salvadoregno, di non essere complici. Per tutta risposta, il presidente americano scrive in Vaticano chiedendo che Romero sia allontanato dal Salvador. 
    Le pressioni su di lui sono sempre più pressanti, le minacce di morte più frequenti. 
    Romero non si arrende, non abbassa la testa. 

    Il 23 marzo 1980 pronuncia la celebre omelia: “Vorrei rivolgere un invito particolare agli uomini dell’esercito... Fratelli, appartenete al nostro stesso popolo, uccidete i vostri fratelli contadini; ma davanti all’ordine di uccidere che viene da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice: non uccidere […]. La Chiesa, che difende i diritti di Dio, della legge di Dio, della dignità umana, della persona, non può rimanere in silenzio di fronte a così grande abominazione [...]. In nome di Dio, dunque, e in nome di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono al cielo sempre più tumultuosi, vi chiedo, vi supplico, vi ordino, in nome di Dio: cessi la repressione”. 

    Il 24 marzo celebra messa nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza, dove risiede.L’assassino spara proprio mentre Romero sta elevando l’ostia. Lo colpisce alla giugulare. Lo uccide sul colpo.  
    Nel 1997 la Chiesa cattolica istituisce la causa di beatificazione.


    Diffidate, ve ne supplichiamo, di coloro che ne fecero un mito, una bandiera della Teologia della Liberazione, il vescovo Romero era ben lontano da quella teologia e la sua difesa del popolo non aveva nulla da spartire con la dottrina della liberazione comunista.

    Questa beatificazione è un atto di giustizia nei confronti di un ottimo Vescovo ucciso in odio alla fede ed alla Dottrina Sociale della Chiesa che Romero intendeva applicare nella sua diocesi.




     





    [Modificato da Caterina63 12/03/2015 22:19]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 26/03/2015 23:27
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      ROMERO E IL “TERRORISMO DELLE CHIACCHERE”. Conversando con il vescovo ai piedi dell’obelisco di San Pietro, un anno prima di essere ucciso sull’altare (1)


    Romero dipinto su un pilone di un ponte ferroviario. Foto archivio El Faro
    Romero dipinto su un pilone di un ponte ferroviario. Foto archivio El Faro

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    Ho incontrato e conosciuto mons. Oscar Romero, arcivescovo di San Salvador, il giovedì 10 maggio 1979, tre giorni dopo che l’arcivescovo era stato ricevuto per la prima volta in Udienza da Giovanni Paolo II [ii].

    L’appuntamento era ai piedi dell’obelisco di Piazza San Pietro e abbiamo passeggiato insieme quasi 50 minuti toccando nella nostra conversazione diversi argomenti, in particolare le tristi e ancora confuse notizie che arrivavano da El Salvador. Nel corso di una sfilata di oppositori alla dittatura pseudo legale del generale Carlos Humberto Romero, che era arrivata all’ingresso della Cattedrale per esprimere solidarietà con altri manifestanti che occupavano il tempio per chiedere la liberazione di alcuni dirigenti arrestati, la polizia del regime, l’8 maggio 1979, alle ore 12.45 portò a compimento un’orrenda strage sparando su qualsiasi cosa che si muoveva. Alla fine della giornata sul selciato e sulle scalinate della Cattedrale c’erano 25 morti.

    Anche se nulla era ancora chiaro poiché i dispacci di agenzie erano piuttosto scarni a causa della censura imposta dal governo, mons. Romero, grande conoscitore della situazione, commentò con grande tristezza: “Mi auguro che non sia accaduto niente di irreparabile, ma temo però il peggio”. Dopo pochi giorni, purtroppo, le parole dell’arcivescovo si sono rivelate veritiere. Infatti, era accaduto il peggio: ciò che la storia oggi ricorda come “La Masacre de la Catedral”.

    Il nostro incontro era stato possibile grazie alla mia amicizia con mons. Arturo Rivera y Damas (successore di mons. Romero dopo la sua uccisione il 24 marzo 1980), amico e collaboratore dell’arcivescovo. Mons. Rivera y Damas anni addietro era stato vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di San Salvador e in questo periodo aveva stretto rapporti di amicizia con diversi vescovi e sacerdoti cileni che io conoscevo molto bene. In questo intreccio di rapporti e amicizia, 36 anni fa, è nata l’idea del nostro incontro a Roma soprattutto per parlare sul mio Paese avvilito da oltre cinque anni da un’altra orrenda dittatura. In realtà, nel nostro incontro si parlò poco o per nulla a riguardo della situazione cilena. Mons. Romero aveva un grande bisogno di essere aggiornato su quanto stava succedendo nel suo Paese e nella sua diocesi e ciò fece scivolare la conversazione sulla tragedia salvadoregna, facendo scomparire l’altra, quella cilena.

    Quel pomeriggio inoltrato mons. Romero, amabile e mite, si mostrava piuttosto nervoso e nell’intenso gesticolare delle sue mani, così come nelle contrazioni del suo volto, si potevano “leggere” segni di angoscia e ansietà, quasi – direi – di dolore fisico. Parlava in fretta, cosa non abituale secondo quanto ho potuto verificare in seguito, ascoltando svariate registrazioni delle sue omelie. Era anche preoccupato per il suo viaggio del giorno dopo, 11 marzo: si sarebbe dovuto recare in Spagna da dove poi sarebbe partito alla volta del suo Paese, dove certamente avrebbe trovato una situazione peggiore a quella esistente prima di viaggiare a Roma, e più critica anche di quella che aveva illustrato ampiamente a Papa Giovanni Paolo II 24 ore prima della strage della Cattedrale.

    In qualche modo era anche sfinito per la sua lunga attesa a Roma, protrattasi perché aspettava un incontro con il Papa, giorni “per me molto costosi … La mia, sa, è una diocesi povera e dobbiamo usare il denaro con grande responsabilità”, fu il suo commento. Mons. Romero aveva l’impressione di non essere ben compreso in alcuni uffici della Curia e pensava che spesso si dava più ascolto, credibilità e credito, a voci nemiche della chiesa salvadoregna o a ciò che con parole di Papa Francesco oggi possiamo chiamare “chiacchiere”.

    Infatti, per molti anni, anche dopo il suo martirio mons. Romero è stato una vittima del “terrorismo delle chiacchiere” che in alcuni momenti hanno avuto l’effetto conosciuto: ostacolare o ritardare il processo di beatificazione. Ricordo che mons. Romero riteneva che queste “chiacchiere” fossero “comprensibili in una certa misura” poiché, spiegò, la “situazione interna del Paese è molto confusa e avvelenata e tra le tecniche che si utilizzano per disinformare ci sono le falsità, le calunnie, i rumori infondati [...] Sono piccole valanghe lanciate sulla stampa governativa, apparentemente in modo inoffensivo, che altri poi ingigantiscono come verità indiscusse”, aggiunse amareggiato. Spesso era lui la vittima principale e privilegiata del regime e dei partiti che lo sostenevano, e che fecero sempre di tutto per screditare l’arcivescovo.

    Sapevo che in Vaticano gli era stato suggerito di tentare di migliorare i rapporti con il governo e perciò in quell’incontro ho chiesto a mons. Romero: se sarebbe stato possibile migliorare questi rapporti. La sua risposta – ricordo con chiarezza – è stata disarmante: “Tutto è possibile e si deve provare sempre, ma ritengo che la nostra sincerità e i buoni propositi non abbiano il riscontro desiderato. Da parte delle autorità riceviamo come risposta alle nostre richieste solo silenzio, accuse e a volte offese. Nel governo, e nella politica salvadoregna, la maggioranza considera la chiesa un’istituzione nemica e infiltrata da persone nemiche del Paese, della democrazia e della convivenza pacifica”.

    Per l’arcivescovo una “terribile evidenza” di tale astio, al limite dell’odio, era l’uccisione di diversi sacerdoti e laici impegnati nella pastorale, l’ultimo dei quali era padre Octavio Ortiz, ucciso il 20 gennaio 1979 insieme ad altri quattro giovani.

    Nel suo cuore erano sempre vivi i nomi di altri confratelli uccisi cominciando da padre Rutilio Grande, trucidato il 12 marzo 1977, insieme ad altre due persone (Manuel Solorzano, 72 anni e Nelson Rutilio Lemus, 16 anni). Negli anni successivi mons. Romero si trovò a piangere l’uccisione di altri sacerdoti (maggio 1977, p. Alfonso Navarro Oviedo; gennaio 1978, padre Neto Barrera). Dopo il suo incontro con il Santo Padre, al suo rientro, dovette piangere altri due fratelli: padre Rafael Palacios (giugno 1979) e padre Napoleon Alirio Macias (agosto 1979).

    Ricordo di aver posto a mons. Romero questa questione: “Di lei, al momento della sua nomina (1970, vescovo ausiliare di San Salvador)[iii] si disse che era piuttosto conservatore, di “destra”. Ora invece alcuni l’accusano addirittura di essere comunista. Perché monsignore?”.

    A questo punto l’arcivescovo si fermò e guardandomi con determinazione disse: “No! Non mi sono mai interessato di politica. Non sono mai stato di destra o di sinistra. Sono concetti di una categoria che non conosco e non capisco, la politica. Dal 1930, dai tempi del Seminario di San Miguel (Romero aveva 13 anni), ho sempre pensato a Cristo e alla sua Chiesa come i miei unici punti di riferimento. Essere stato considerato una volta di destra e poi di sinistra dimostra che sono gli altri che mi vogliono utilizzare e non cosa penso e sono realmente io”.

    Poi per alcuni minuti mi fece una riflessioni molto lucida. “Il problema che affronta la Chiesa latinoamericana, e forse ciò accade in altre regioni, è la lettura politico-ideologica che del suo essere e della sua missione si fa dall’esterno. Sovente settori della società guardano la missione della Chiesa con paraocchi ideologici nel tentativo di usarla e quindi, a seconda i loro bisogni, affibbiano a essa etichette di convenienza. Se non riescono ad addomesticarla provano a distruggerla”. E questo suo pensiero lo abbiamo trovato in forma ricorrente nelle registrazioni che due anni prima della sua morte fece l’arcivescovo ogni sera e che furono pubblicate integralmente nel 1990[iv].

    Ricordo che nella cornice di queste sue riflessioni mons. Romero fece numerose osservazioni sui diritti umani e sulla dignità della persona. In particolare ricordò alcuni racconti di salvadoregni torturati così come di famiglie distrutte, e tra queste vi erano persone a lui molto vicine da anni. Ricordò anche, con voce tradita dall’emozione, alcuni casi di bambini torturati per obbligarli a dare notizie sui membri della famiglia ricercati dalla polizia politica. In alcuni momenti mons. Romero sottolineò anche il dramma della povertà, anzi, della miseria di tanti suoi concittadini e quindi fece riferimento ad alcuni Episcopati europei e nordamericani che fornivano un aiuto solidale alle opere di promozione umana della sua arcidiocesi. In questo contesto pronunciò una frase il cui significato profondo l’ho compreso alcuni anni più tardi: “Sa, caro amico, la povertà in un certo senso è il male minore poiché si può essere povero nella dignità. Con la tortura e la repressione, invece, questa dignità scompare e la persona viene avvilita al punto di farla diventare un oggetto. E’ una cosa che poi non è facile superare. Queste ferite sono peggiori di quelle della fame o della sofferenza fisica”.

    Dopo esserci comunicati i rispettivi indirizzi postali e i nostri numeri di telefoni ci separammo con una affettuosa stretta di mano e un timido abbraccio. In silenzio, per sempre. Si allontanò a testa china verso via della Conciliazione, piccolo, quasi minuscolo, sempre più sfumato … Il nostro è stato un incontro doloroso, oggi direi premonitore. Ricordo di aver guardato a lungo il crocifisso che sormonta l’obelisco, certo di aver parlato con un sacerdote esemplare e un grande pastore … ma senza capire che era un uomo santo.

    __________

    La narrazione di questi ricordi risalenti a molti anni di distanza degli eventi raccontati è stata possibile grazie ad un caro amico salvadoregno al quale dieci giorni dopo il mio incontro con mons. Romero scrissi una lettera raccontandogli una parte importante della conversazione. Ora questo amico, ormai residente da anni negli USA, a mia richiesta mi ha rimandato indietro una copia della mia lettera del 1979, che io non conservavo. A lui la mia sincera gratitudine e affetto, così come alla sua famiglia.

    [ii] Mons. Romero incontrò Papa Wojtyla una seconda e ultima volta, il 30 gennaio 1980, tre mesi prima del suo assassinio.

    [iii] Mons. Romero il 25 aprile 1970 venne nominato vescovo ausiliare di San Salvador da Papa Paolo VI che poi lo nominò il 15 ottobre 1974 vescovo di Santiago de Maria. Infine, il 3 febbraio 1977, sempre Papa Montini II lo nominò arcivescovo di San Salvador.
    Mons. Romero incontrò Paolo VI per l’ultima volta il 21 giugno del 1978, un mese e mezzo prima della morte del Pontefice. Monsignor Romero, sul suo diario, ricordò quell’incontro con particolare affetto. Il Papa con lui fu “cordiale, generoso, l’emozione di quel momento non mi permette di ricordare parola per parola”. Papa Montini gli disse: “Comprendo il suo difficile lavoro. È un lavoro che può non essere compreso, necessita di molta forza e pazienza. Anche se so che non tutti la pensano come lei nel suo Paese, proceda con coraggio, con pazienza, con forza, con speranza”. “Mi ha promesso che pregherà per me e per la mia diocesi. E mi ha chiesto che faccia ogni sforzo per l’unità”. L’anno seguente mons. Romero tornò a Roma e visitò la Basilica Vaticana e pregò davanti alla tomba di Montini. “Mi ha impressionato, più di tutte le altre, per la sua semplicità”, scrisse sempre sul suo diario. “Ho sentito un’emozione speciale nel pregare sulla tomba di Paolo VI, di cui sono andato ricordando tante cose dei suoi dialoghi con me, durante le visite che ho compiuto ed avendo la fortuna di essere ammesso in sua presenza privata”.

    [iv] A dieci anni della morte di O. Romero, l’arcidiocesi di San Salvador pubblicò senza commenti la trascrizioni di questi nastri.

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    [Modificato da Caterina63 26/03/2015 23:28]
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    00 22/05/2015 19:30

    Beatificazione Romero. Amato: opzione per i poveri evangelica non ideologica




    Mons. Romero - ASSOCIATED PRESS





    22/05/2015



    Domani a San Salvador, alle 18 ora italiana, nella Plaza del Divino Salvador del Mundo, sarà beatificato l’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero Galdámez, assassinato in odio alla fede il 24 marzo 1980 da un killer degli squadrone della morte mentre celebrava la Santa Messa. A rappresentare Papa Francesco, il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Ascoltiamo il porporato al microfono di Roberto Piermarini:


    Il martirio di Romero ebbe una lunga preparazione
    R. - Papa Francesco riassume bene l'identità sacerdotale e pastorale di Romero, quando lo chiama «vescovo e martire, pastore secondo il cuore di Cristo, evangelizzatore e padre dei poveri, testimone eroico del Regno di Dio, Regno di giustizia, di fraternità e di pace». Romero era, infatti, un sacerdote buono e un vescovo saggio. Ma soprattutto era un uomo virtuoso. Amava Gesù, lo adorava nell'Eucaristia, amava la Chiesa, venerava la Beata Vergine Maria, amava il suo popolo. Il suo martirio non fu una improvvisazione, ma ebbe una lunga preparazione. Giovane seminarista a Roma, poco prima dell'ordinazione sacerdotale, scriveva nei suoi appunti: «Quest'anno farò la mia grande consegna a Dio! Dio mio, aiutami, preparami. Tu sei tutto, io sono nulla e, tuttavia, il tuo amore vuole che io sia molto. Coraggio! Con il tuo tutto e con il mio nulla faremo questo molto».

    La svolta dopo l'uccisione di padre Rutilio Grande
    D. - Spesso si parla di una conversione di Romero più aperto all'aspetto sociale del suo ministero…

    R. - In realtà, una svolta nella sua vita di pastore mite e quasi timido fu l'uccisione, il 12 marzo 1977, di padre Rutilio Grande, sacerdote gesuita salvadoregno, che aveva lasciato l'insegnamento universitario per farsi parroco dei campesinos, oppressi ed emarginati. Fu questo l'evento che toccò il cuore dell'arcivescovo Romero, che pianse il suo sacerdote come poteva fare una madre con il proprio figlio. Si recò subito ad Aguilares per la Messa di suffragio, passando la notte piangendo, vegliando e pregando per le tre vittime innocenti, per padre Rutilio e i due contadini che lo accompagnavano. I campesinos erano rimasti orfani del loro padre buono. Romero ne volle prendere il posto. Nella sua omelia l'arcivescovo disse: «La liberazione che il padre Rutilio Grande predicava è ispirata dalla fede, una fede che ci parla della vita eterna, una fede che ora egli col suo volto rivolto al cielo, accompagnato dai due campesinos, mostra nella sua totalità, nella sua perfezione: la liberazione che termina nella felicità in Dio, la liberazione che sorge dal pentimento del peccato, la liberazione che si fonda su Cristo, l'unica forza salvatrice».

    A difesa della Chiesa, al fianco del popolo oppresso
    D. - Sembra quindi che da quel giorno il suo linguaggio sia diventato più esplicito nel difendere il popolo oppresso e i sacerdoti perseguitati, incurante delle minacce che quotidianamente riceveva…

    R. - Sì. «Ritenni un dovere — egli scrive — collocarmi decisamente alla difesa della mia Chiesa e al fianco del mio popolo tanto oppresso e vessato». Le sue parole, però, non erano un incitamento all'odio e alla vendetta, ma un'accorata esortazione di un padre ai suoi figli divisi, che venivano invitati all'amore, al perdono e alla concordia. Contemplando la bellezza della natura e lo splendore del paesaggio salvadoregno, l'arcivescovo soleva dire che il cielo deve iniziare qui sulla terra. Guardava alla sua cara patria così tormentata con la speranza nel cuore. Sognava che un giorno sulle rovine del male avrebbe brillato la gloria di Dio e il suo amore.

    La sua opzione per i poveri non era ideologica ma evangelica
    D. - Cosa dire della sua vicinanza ai contadini e ai poveri del suo paese?

    R. - La sua opzione per i poveri non era ideologica ma evangelica. La sua carità si estendeva anche ai persecutori ai quali predicava la conversione al bene e ai quali assicurava il perdono, nonostante tutto. Era abituato a essere misericordioso. La generosità nel donare a chi chiedeva era - a detta dei testimoni - munifica, totale, sovrabbondante. A chi domandava, dava. Qualche volta diceva che se gli restituissero i soldi che aveva distribuito, si sarebbe ritrovato milionario.

    Romero appartiene al vento di santità che soffia sul continente americano
    D. – Un altro esempio di santità per l’America Latina!

    R. – Sì, Romero è un'altra stella luminosissima che si accende nel firmamento spirituale americano. Egli appartiene alla santità della Chiesa americana. Grazie a Dio sono molti i santi di questo meraviglioso continente. Papa Francesco, recentemente, ne ricordava alcuni. Oltre a Fra Junipero Serra, che sarà canonizzato il 23 settembre prossimo a Washington D.C., il Santo Padre elencava tanti altri santi e sante che si sono distinti con diversi carismi: Rosa da Lima, Mariana di Quito, Teresita de los Andes; Toribio di Mogrovejo, Fran9ois de Laval, Rafael Guizar Valencia; Juan Diego e Kateri Tekakwhita; Pedro Claver, Martín de Porres, Alberto Hurtado; Francesca Cabrini, Elisabeth Ann Seaton e Catalina Drexel; Francisco Solano, José de Anchieta, Alonso de Barzana, María Antonia de Paz y Figueroa, José Gabriel del Rosario Brochero e martiri come Roque González, Miguel Pro e Oscar Arnulfo Romero. Ma sono tanti i santi e i martiri americani che pregano davanti al Signore per i loro fratelli e sorelle ancora pellegrini in quelle terre. Il Beato Oscar Romero appartiene a questo impetuoso vento di santità che soffia sul continente americano, terra di amore e di fedeltà alla buona notizia del Vangelo.





    Fraternamente CaterinaLD

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    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 09/08/2015 12:35
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      OSCAR ROMERO come DON CAMILLO



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    Leggendo la biografia di Oscar Arnulfo Romero y Galdamez scritta dallo storico, e postulatore della causa di beatificazione, Roberto Morozzo della Rocca (edizioni San Paolo) molti luoghi comuni vengono sfatati. L’arcivescovo salvadoregno fu accusato da destra di essere comunista e da sinistra di essere reazionario. Invece era un vescovo saldamente tradizionalista formatosi sotto il pontificato di Pio XI (che egli riteneva il miglior papa del XX secolo). Avendo studiato negli anni ’30 a Roma, prima come sacerdote e poi come vescovo rivendicò sempre, fino alla morte, la sua romanocentricità. Per tutta la vita dichiarò, anzi urlò, la assoluta fedeltà a Pietro, al Vicario di Cristo.


    I suoi scritti sono tutti veri e propri compendi della dottrina cattolica esposta secondo gli schemi tipici del tradizionalismo cattolico, preconciliare, con tanto di ammonizioni contro la sovversione liberale, massonica e comunista. Il cliché, da lui usato nella sua attività teologica e pastorale, era quello dell’apologetica antimodernista preconciliare. Dai suoi scritti si scopre un vescovo del tutto diverso dal presunto teologo della liberazione della vulgata mediatica. Dopo il Concilio Vaticano II, senza rotture con le posizioni teologiche di sempre, adattò il suo al nuovo linguaggio pastorale. Ma non la sostanza della fede e del suo magistero episcopale, che rimase inalterata.


    Sicché le sue condanne delle condizioni di miseria e sfruttamento che le classi ricche del Salvador imponeva alla maggioranza della popolazione e la sua lotta per la giustizia sociale – per la quale fu assassinato, in odium fidei,nella capitale salvadoregna il 24 marzo 1980, da un cecchino degli “squadroni della morte” ossia dai gorillas al soldo dei latifondisti e della Cia, mentre diceva Messa, anzi mentre elevava al Cielo il Sacramento dell’Altare – non erano affatto cosa diversa dalla lotta contro il liberalismo e il pericolo massonico ingaggiata sin dai tempi della sua formazione sacerdotale, precedenti il Concilio Vaticano II: ne erano, semplicemente, lo sviluppo coerente.


    Anche nei confronti della teologia della liberazione (alla quale egli opponeva una teologia della salvazione integrale) era critico perché vedeva in essa una politicizzazione della fede che eliminava la soprannaturalità del Cristianesimo. Una critica del tutto in linea, dunque, con le ragioni teologiche che portarono alla condanna di quella teologia ma anche al recupero delle ragioni caritative, concettualmente distorte, dalle quali essa pretendeva di dipendere laddove invece nascondeva l’ideologia marxista sotto forme apparentemente cristiane.


    Per questo Oscar Romero non smise mai di essere anticomunista ed anzi, come già ai tempi precedenti il Vaticano Secondo, ripeteva continuamente che il comunismo è figlio del liberalismo ed in quanto tale ne perpetua tutti gli errori. Ma non per questo era cieco e silente – come i catto-cons, adoratori di Mammona, vorrebbero che, di fronte all’ingiustizia sociale, fosse la Chiesa – sullo scempio perpetrato da latifondisti, multinazionali e servizi segreti americani ai danni della sua povera gente salvadoregna. Oscar Romero difendeva, da cattolico fedelissimo alla Tradizione, quei poveri campesinos che anche Papa Bergoglio ha difeso nel suo recente viaggio in America Latina (“Questa economia uccide, è il nuovo Vitello d’Oro, a volte sono corporations, altre volte alcuni trattati di libero commercio o l’imposizione di mezzi d’austerità che aggiustano sempre la cinta dei lavoratori e dei poveri”).


    E lo faceva senza ammiccare affatto alla Rivoluzione: l’auspicio di Oscar Romero, nel contesto nel quale si trovò ad operare, era quello di un grande accordo nazionale nella giustizia sociale. Tuttavia Romero non taceva ma gridava ed ammoniva, come da Vangelo, i ricchi che è più facile per una gomena passare per la cruna di un ago che per uno di essi accedere al Regno dei Cieli, se non chiedono la Grazia per trasformare il loro indurito cuore nell’amore ai poveri. Non contento però solo di ammonire, egli operava affinché si aprissero spiragli per le necessarie e giuste riforme sociali (non certo del tipo di quelle che oggi l’Eurogermania impone a tutti in Europa!) e per salvaguardare la pace civile (non a caso nel suo Paese la guerra civile deflagrò solo dopo il suo assassinio).


    I militari e le forze conservatrici salvadoregne usavano riempirsi retoricamente la bocca con il termine “Patria”, utilizzato in chiave anticomunista ma filo-capitalista. Tuttavia questa idea di “Patria” non è né veramente cristiana né autenticamente nazionale. C’è uno scritto di Romero nel quale la “Patria” è considerata tale solo se è la patria di tutti, la Patria del popolo, di tutto il popolo nelle sue diversificazioni e non quella che appartiene solo a pochi affaristi e latifondisti. Una idea di patria, questa di Oscar Arnulfo Romero, molto simile, per restare in ambito linguistico ispanico, a quella descritta negli scritti di José Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Fe de la jons (poi strumentalizzato e tradito da Francisco Franco, un nazional-conservatore più vicino ai militari salvadoregni che al “nacional-sindicalismo” del primo ed autentico falangismo joseantoniano).


    Lo stesso Giovanni Paolo II, che intento da Roma a reprimere la teologia della liberazione non ne aveva capito subito la grandezza e santità, quando visitò El Salvador, infrangendo tutti i protocolli che imponevano, per ragioni prudenziali, di evitare qualsiasi ricordo pubblico di Romero, ordinò che l’auto papale cambiasse strada e si fermasse nel luogo di sepoltura dell’arcivescovo martire. Qui pregò sulla sua tomba e pubblicamente disse – affinché i guerriglieri marxisti ed i militari al soldo statunitense udissero bene – “OSCAR ROMERO E’ NOSTRO, APPARTIENE ALLA CHIESA CATTOLICA ROMANA!”.


    «Il servizio sacerdotale della Chiesa di Oscar Romero ha avuto il sigillo immolando la sua vita, mentre offriva la vittima eucaristica»: con queste parole Papa Wojtila ricordò Romero, durante il Giubileo del 2000, in occasione della “celebrazione dei nuovi martiri della Chiesa cattolica”.


    Cristianamente non c’è Tradizione senza Giustizia, non c’è Verità senza Carità (e viceversa). Le cose che, in tema di Dottrina Sociale, dice oggi Papa Bergoglio sono le stesse di sempre. Si rinvengono in tutti i pronunciamenti sociali dei Papi precedenti, negli scritti di molti santi di tutti i tempi, negli scritti dei Padri della Chiesa, ed innanzitutto nella Scrittura, sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento. Se un Papa latinoamericano viene a ricordarcelo non ci dovrebbe scandalizzare affatto.


    Giovannino Guareschi era un grande scrittore cattolico, non certo catto-comunista. Patì il lager nazista come anche le patrie galere per una equivoca faccenda di memoriali, dalla più che dubbia autenticità, che accusavano Alcide De Gasperi di aver sollecitato bombardamenti alleati. Guareschi, sia con i suoi scritti giornalistici sia con le sue illustrazioni cartellonistiche, contribuì alla sconfitta dell’alleanza socialista-comunista nelle elezioni del 1948. Uno vignetta da lui pubblicata su una rivista, della quale era direttore, subito dopo quelle elezioni, raffigura un operaio che, infreddolito e mal messo nel suo cappotto sdrucito, si reca in fabbrica mentre il suo padrone, ben vestito ed al caldo della sua auto super lusso, gli passa accanto fumando un vistoso sigaro: la didascalia, sotto il disegno, recitava rivolta al padrone “Ed adesso devi pensare anche a lui!”.


    Il più noto personaggio guareschiano è don Camillo, cinematograficamente impersonato dall’indimenticabile Fernandel. In uno dei racconti più belli di Guareschi, che lo hanno per protagonista, don Camillo mentre contende con l’amico/nemico e sindaco comunista Peppone (filmicamente animato da Gino Cervi), che lo onora dell’epiteto di “prete della reazione”, caccia dal tempio, come Cristo i mercanti, i possidenti, suoi parrocchiani, chiusi alle rivendicazioni dei contadini per un più giusto salario. Don Camillo diventa per questi proprietari terrieri, gelosi dei loro latifondi, che ipocritamente ogni domenica presenziano a Messa, certi di avere nella Chiesa un baluardo per i loro interessi materiali, il “prete bolscevico”.


    Nel racconto, in questione, il conflitto degenera perché lo sciopero mette a rischio di morte le mucche non munte. Saranno poi i due amici/nemici, don Camillo e Peppone, nottetempo ed insieme, a mungere l’intera stalla salvando un inestimabile patrimonio zootecnico. Perché don Camillo e Peppone, nel racconto dello scrittore emiliano, rappresentano quel genere di uomini saggi che comprendono l’economia reale, produttiva, e le sue necessità ed operano affinché i produttori, imprenditori e lavoratori, uniscano le forze in un comune sforzo ma all’insegna della Giustizia sociale e quindi dell’equa ripartizione degli utili tra datori di lavoro e lavoratori. Certo, il conflitto sociale ci sarà sempre ed è, stante l’imperfezione umana, quasi connaturato ai rapporti di produzione. Ma è possibile anche comporlo, benché sempre dinamicamente e mai staticamente. Comporlo però significa anche e prima di tutto farsi carico del problema, etico prima che politico, della Giustizia e dell’equità distributiva.


    Nel racconto guareschiano i proprietari guardano a don Camillo come al rappresentante di una Chiesa ritenuta baluardo dell’ordine sociale di Mammona e come tale la frequentano. Esattamente come facevano i ricchi sinedriti del Tempio a Gerusalemme. Gli insorgenti antigiacobini non erano però della stessa idea dei ricchi proprietari del loro tempo quando imbracciavano le armi per difendere i diritti di Dio e della Chiesa, i loro monarchi settecenteschi che li proteggevano dagli arroganti abusi dei feudatari e della nobiltà, e per la tutela di quegli istituti redistributivi, come gli usi civici e le terre comuni di villaggio, che nei secoli cristiani avevano consentito anche ai poveri di sfamarsi. Orbene, alla fin fine don Camillo ha più simpatia per il suo Peppone, il quale pur nominalmente comunista e “trinariciuto” è, in fondo, un buon cristiano, che per i latifondisti.


    Nessun cristiano, che sia degno del nome che porta, può davvero, alla fin dei conti, in certe circostanze comportarsi diversamente da Oscar Romero o da don Camillo.


    Esiste tra Cristianesimo e comunismo, come pure tra Cristianesimo e liberalismo, un abisso invalicabile ma al tempo stesso è innegabile che le ragioni di giustizia, strumentalizzate dal marxismo, come quelle di libertà, strumentalizzate dal liberalismo, sono originariamente ragioni squisitamente e purissimamente cristiane, anche se Gesù Cristo non ha promesso alcuna palingenesi terrena. Il che però non significa che Lui non abbia additato ai suoi la via della trasformazione anche della “città degli uomini”: ma ci ha rivelato che quella trasformazione per essere vera, autentica, e non una fallace – appunto, per dirla con Papa Bergoglio – accecante ideologia, deve passare per la metanoia del cuore.


    Luigi Copertino






    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)